Scienza greco-romana. Geografia

Storia della Scienza (2001)

Scienza greco-romana. Geografia

Germaine Aujac

Geografia

Probabilmente fu Eratostene di Cirene (276/272-196/192), terzo direttore della Biblioteca di Alessandria, a coniare il termine 'geografia' per indicare, al tempo stesso, la carta della Terra (ossia del mondo conosciuto) e la sua descrizione letteraria. Il verbo greco gráphein significa sia scrivere sia dipingere o disegnare e, nell'antica Grecia, il geografo era colui che tracciava una carta o che la commentava. Queste due operazioni sono inscindibili: l'una presuppone l'altra. Nel III sec. a.C., un'epoca particolarmente favorevole per lo sviluppo delle scienze, Eratostene tracciò per la prima volta su basi scientifiche la carta del mondo conosciuto. Due secoli dopo, Strabone, contemporaneo dell'imperatore Augusto, raccolse in una vasta sintesi tutto ciò che si sapeva sulle regioni del mondo abitato e sulle diverse condizioni di vita. Eratostene, astronomo e geometra, sviluppò l'aspetto matematico e fisico della geografia; Strabone, che era innanzi tutto uno storico, pose l'accento sulla geografia economica e umana, sottolineando l'influenza del potere politico sulla felicità dei popoli e i benefici di una buona amministrazione. Furono loro due a creare la 'scienza geografica', cioè la scienza che fa vedere, leggere e tracciare i contorni, relativamente stabili, delle terre e dei mari, ma che si preoccupa anche dei popoli in continuo movimento, dei loro modi di vita, delle loro risorse, di tutto ciò che può essere modificato dall'azione umana. Cinque secoli dopo Eratostene, nel II sec. d.C., Claudio Tolomeo, favorito dalle nuove scoperte che avevano esteso i confini del mondo conosciuto, elabora i principî-guida del cartografo che voglia dare un'immagine facilmente leggibile e sufficientemente esatta dell'insieme del mondo abitato e delle sue diverse regioni. Tra l'uno e l'altro di questi tre pionieri, che contribuirono ciascuno a suo modo al grande sviluppo della geografia, abbiamo tutta una rete di testimonianze dell'influenza crescente di questa scienza e delle aspre controversie che alcuni dei suoi insegnamenti suscitarono.

Per valutare i diversi contributi però non possediamo gli stessi strumenti; infatti, se le opere geografiche di Tolomeo e di Strabone ci sono pervenute quasi per intero, l'opera di Eratostene ci è nota soltanto attraverso riferimenti, citazioni e critiche disseminate in gran numero nelle opere di autori che se ne sono serviti senza sempre comprenderla appieno. Tra questi, Strabone è uno dei più significativi; nella sua Geographia, e in particolare nei due primi libri di introduzione, si avverte l'eco delle opere, anch'esse perdute, di coloro che hanno imitato o contestato Eratostene: l'astronomo Ipparco o il filosofo Posidonio. In ogni caso, la visione d'insieme che abbiamo delle diverse posizioni assunte dai geografi greci si può considerare sufficientemente conosciuta, almeno per quanto riguarda il periodo ellenistico e romano.

Scienza e osservazione nella Ionia e ad Atene

In Grecia, come altrove, l'aspirazione a rappresentare il mondo conosciuto per mezzo di uno schema e a descriverne le diverse regioni si manifestò molto presto. Nel VI sec. a.C. nella ricca città mercantile di Mileto, che aveva fondato numerose colonie sul Mar Nero e sulle coste e rive egizie, e che, grazie alla sua posizione, aveva continui scambi con la Lidia, la Persia e i popoli asiatici, Anassimandro (610-547) aveva raffigurato il mondo conosciuto come un cerchio con al centro il Mar Egeo. Ecateo di Mileto (560 ca.-490) aveva scritto una Descrizione della Terra in due libri, uno dedicato all'Europa e l'altro all'Asia (continente che comprendeva anche l'Egitto e la Libia). Da allora i Greci cominciarono a raffigurare, anche se in modo sommario, i confini dei lidi interni ed esterni del mondo conosciuto e delle sue regioni; il mondo abitato era rappresentato come una grande isola circondata dall'oceano, come sullo scudo di Achille forgiato da Efesto descritto nell'Iliade (XVIII, 478-610) di Omero.

Erodoto (490/480-424 ca.), nel suo racconto delle guerre persiane che opposero per venti anni (499-479) i Greci ai Persiani, ironizza sui "numerosi" Greci che disegnano "i contorni della Terra; rappresentano l'Oceano che avvolge con il suo corso una Terra perfettamente rotonda, come se fosse stata fatta al tornio" (Historiae, IV, 36). Aristagora di Mileto usava una carta incisa su rame come argomento diplomatico per convincere i Greci d'Europa a venire in aiuto alla sua patria per scuotere il giogo persiano; questa carta, che rappresentava "i contorni della terra intera, del mare intero e di tutti i fiumi", secondo Erodoto era così precisa da indicare tutti i paesi che bisognava attraversare per andare da Mileto a Susa.

Anche Aristofane, nella commedia le Nuvole, del 423, parla di una carta del "circuito di tutta la Terra", citandola tra gli oggetti usati per l'insegnamento nella scuola di Socrate, che egli metteva alla berlina sulla scena; in questa carta si scorgevano la città di Atene, le rive dell'Attica, l'Eubea, e così via. A buon diritto Plutarco immagina gli Ateniesi, alla vigilia della spedizione in Sicilia del 415, "seduti nelle palestre e negli emicicli a disegnare sul suolo i contorni dell'isola e la posizione della Libia e di Cartagine rispetto a essa" (Alcibiades, 17, 4). Alcibiade, pupillo di Pericle e convinto promotore dell'avventura siciliana, era stato allievo e amico di Socrate; ai discepoli riuniti attorno a lui la vigilia della sua morte, Socrate aveva dichiarato: "Sono convinto che la Terra è molto grande e che noi, che la abitiamo da Fasi alle Colonne d'Ercole [ossia dal fiume Rion in Georgia a Gibilterra], ne occupiamo soltanto una piccola parte, sparsi attorno al mare come formiche o rane attorno a una palude; altrove esistono molti altri uomini che abitano regioni simili alle nostre" (Platone, Phaedo, 109 a-b).

Questa riflessione, già piuttosto elaborata, circa il piccolo spazio occupato sulla superficie della Terra dal mondo conosciuto era il corollario della credenza "che la Terra è al centro del mondo e ha una forma sferica" (ibidem, 108 e). Secondo una tarda tradizione trasmessa da Diogene Laerzio nella Vita dei filosofi, Pitagora credeva che l'Universo fosse "animato, intelligente, sferico" e che "contenesse nel centro la Terra, anch'essa sferica e abitata tutt'intorno" (VIII, 24-27). Comunque, già dal V sec. era largamente diffusa, almeno negli ambienti intellettuali, l'idea che la Terra fosse una specie di globo immobile al centro di una sfera celeste che ruotava attorno al proprio asse.

Per di più, il brillante matematico Eudosso di Cnido (attivo nella prima metà del IV sec.), che era stato discepolo di Platone, aveva supposto l'esistenza di una serie di sfere concentriche tra la Terra e la sfera celeste per poter rendere conto del movimento, in apparenza irregolare, dei pianeti. L'ipotesi delle sfere concentriche, perfezionata da Callippo e poi da Aristotele, diffondeva l'immagine di un Universo geocentrico. Come sostiene Marco Tullio Cicerone nel De re publica (I, 14, 22), Eudosso fu, inoltre, il primo a portare le costellazioni su una sfera; egli descrisse il cielo stellato in un trattato (andato perduto) reso poi celebre dalla trasposizione in versi fattane da Arato di Soli nel secolo seguente. Compose anche un Periplo della Terra, non pervenutoci, la cui influenza si fece sentire a lungo sulle generazioni posteriori. Per i Greci, infatti, astronomia e geografia erano inscindibili in quanto si considerava il globo terrestre come una copia della sfera celeste e, di conseguenza, lo studio del cielo era un mezzo per conoscere meglio la Terra. L'ipotesi geocentrica, che nella sua espressione più semplice vedeva la sfera delle stelle fisse ruotare attorno al proprio asse con al centro il globo terrestre ridotto a un punto, permetteva di trattare diversi problemi relativi alla Terra e alle sue regioni mediante la geometria o il ricorso a un modello ridotto. Derivava da ciò l'eccezionale sviluppo della geografia matematica: in questa disciplina i Greci erano presto diventati maestri, come dimostra il fiorire dei capitoli sulle oikḗseis (luoghi geografici) nei manuali elementari, per esempio nell'Introduzione ai fenomeni di Gemino (I sec. a.C.), ma anche nei trattati specialistici, come quello, intitolato per l'appunto Perì oikḗseōn, compilato da Teodosio di Bitinia, contemporaneo di Gemino.

Aristotele, precettore del futuro Alessandro Magno (356-323), dal 343 al 340 non mancò di insegnargli i rudimenti della propria visione del Cosmo, quella stessa che si ritrova nei suoi scritti. Nel De caelo egli afferma che il cielo è necessariamente sferico e che la Terra, anch'essa sferica, resta immobile al centro; per dimostrare la sfericità della Terra invoca le leggi della gravità, cioè il fatto che la caduta dei gravi non avviene lungo linee parallele, oppure l'immagine della Terra proiettata sulla Luna durante le eclissi o, infine, la variazione del cerchio delle stelle sempre visibili quando sulla Terra ci si sposta verso nord o verso sud.

La Terra sferica, poi, sarebbe stata divisa in cinque zone già da Parmenide (VI-V sec.), ma anche Aristotele nei Meteorologica ammette una suddivisione in cinque zone, delle quali "soltanto due sono abitabili, l'una verso il polo nord, quella che noi abitiamo; l'altra verso l'altro polo, nell'emisfero Sud" (II, 5, 362 b). Tra i tropici vi sarebbe quindi una zona inospitale a causa del caldo, mentre attorno ai poli sarebbe il freddo a impedire ogni forma di vita umana. Per questo motivo, sottolinea Aristotele, "è ridicolo disegnare figure circolari della Terra come si fa oggi; si disegna un mondo abitato circolare, incompatibile con l'osservazione e il ragionamento; il ragionamento mostra che il mondo abitato è limitato in larghezza, ma che per quanto riguarda la temperatura potrebbe estendersi circolarmente tutt'intorno; […] i viaggi per terra e per mare danno all'osservatore la conferma che la lunghezza del mondo abitato è superiore alla larghezza" (II, 5, 362 b).

Aristotele aggiunge che se abbiamo sufficienti informazioni relativamente alla larghezza, limitata dalle due regioni inospitali, vi sono invece meno certezze riguardo alla lunghezza, dato che "al di là delle Indie e delle Colonne d'Ercole, l'Oceano impedisce al mondo abitato di essere un tutt'uno, senza interruzioni" (II, 5, 362 b). Sfericità della Terra, divisione in zone per mezzo di cerchi sulla Terra, proiezione dei cerchi del cielo (l'equatore e i tropici sono anzitutto dei cerchi celesti), mondo abitato che si estende nella zona temperata, limitato dall'Oceano: sono questi gli insegnamenti della geografia matematica.

Per quanto riguarda la geografia fisica, Aristotele formula l'ipotesi che la posizione occupata da terre e mari sulla superficie del globo può essere soggetta a profonde modificazioni. Egli immagina che "una stessa regione della Terra non è sempre umida o sempre secca; […] vi sono scambi che hanno luogo tra il continente e il mare; si trova il mare là dove c'era la terraferma, e là dove ora c'è il mare ci sarà di nuovo la terra" (Meteorologica, I, 14, 351 a-b).

A dimostrare questa ipotesi sarebbero i cambiamenti che, proprio in Grecia, hanno avuto luogo in tempi relativamente brevi: il territorio di Argo, paludoso e povero al tempo della guerra di Troia, è ora divenuto fertile e prospero, mentre a Micene si è verificato il caso opposto. Aristotele, generalizzando, suppone che questo tipo di cambiamenti potrebbe verificarsi su più larga scala e nel corso dei secoli, secondo un dato ordine e con una periodicità analoga a quella delle stagioni dell'anno.

È anche con l'intenzione di andare il più lontano possibile verso est, fino alle rive ancora inesplorate dell'oceano orientale, che Alessandro Magno, allievo di Aristotele, intraprese la fantastica spedizione che in poco più di dieci anni doveva non soltanto gettare le basi di un impero rapidamente smembrato dopo la sua morte, ma anche allargare notevolmente e durevolmente il campo delle conoscenze geografiche. Nel desiderio di redigere un inventario il più possibile preciso dei paesi che attraversava, delle loro dimensioni e risorse, Alessandro si era circondato di tecnici, uomini di scienza e storici, e ciò non soltanto per svolgere ricerche sulla fauna, la flora, il clima, i rilievi, l'idrografia, gli usi e i costumi dei popoli incontrati, ma anche per farne relazioni dettagliate destinate non soltanto a perpetuare il ricordo delle sue gesta ma, soprattutto, ad arricchire il patrimonio comune della scienza. Nonostante tutto ciò egli dovette fermarsi sulle rive dell'Indo, dopo aver seguito la rotta verso nord, attraverso l'Ircania e la Battriana, perchè le sue truppe si rifiutarono di seguirlo oltre verso est. Alessandro volle tuttavia completare la sua ricerca esplorando, sulla strada del ritorno, i territori aridi e incolti situati a sud della Gedrosia e della Carmania (gli attuali Pakistan e Iran). Nel frattempo, il fedele ammiraglio Nearco ritornava in nave dalla foce dell'Indo all'Eufrate attraverso le mille difficoltà che racconta nel diario di bordo. Di ritorno a Susa, Alessandro progettava già altre esplorazioni: il Mar Caspio, la costa meridionale del Golfo Persico, le coste africane, quando, all'età di 33 anni, la morte lo colse mettendo fine ai suoi sogni.

Di certo, Alessandro non fu il solo né il primo ad addentrarsi fino in India. Erodoto, nella descrizione dell'impero di Dario, re dei persiani, faceva notare che gli indiani "sono i più numerosi tra tutti i popoli che conosciamo; da soli essi pagano al grande re quasi quanto tutti gli altri paesi messi insieme, 360 talenti di polvere d'oro" (Historiae, III, 94); aggiungeva però molte altre informazioni fantasiose sui loro costumi e le loro caratteristiche. Ctesia di Cnido, medico presso la corte di Persia (tra il 415 e il 399), aveva approfittato del soggiorno in questa terra lontana per scrivere, oltre al testo Sulla Persia anche un'opera Sull'India "senza esserci mai stato né aver interrogato testimoni veritieri", come ironizza Luciano di Samosata nella Vera historia. Alessandro, invece, era andato sul posto, spendendo molte energie per conoscere e far conoscere la topografia e le caratteristiche fisiche e umane di questi paesi, rimasti a lungo misteriosi e diventati perciò un terreno fertile per fantasticherie di ogni genere. S'interessò alla divisione in caste dei popoli dell'India e al modo di vivere dei 'gimnosofisti' ‒ denominazione greca degli asceti indiani conosciuti nella sua spedizione bellica ‒, raccolse, o fece raccogliere, informazioni di prima mano su molti argomenti rilevanti per la geografia. È grazie a Tolomeo, il luogotenente di Alessandro diventato re d'Egitto nel 304, e ai suoi successori diretti, che i resoconti delle spedizioni, i risultati delle ricerche svolte durante i viaggi e le numerose osservazioni fatte da questo o quel partecipante furono raccolte in luogo sicuro e messe presto a disposizione dei ricercatori.

Mentre Alessandro avanzava via terra verso le rive dell'Indo, un erudito navigatore di Marsiglia, Pitea (attivo intorno al 330), partiva per esplorare le rive nordoccidentali dell'Europa spingendosi fino nei dintorni del circolo polare. Era astronomo e geografo e Ipparco (II sec.) gli attribuisce il merito di aver scoperto che "al Polo non vi sono stelle, ma uno spazio vuoto vicino al quale si trovano tre stelle che formano quasi un quadrilatero con un punto pensato nel polo" (Commento ai fenomeni di Eudosso e di Arato, I, 4, 1). Nel viaggio lungo le coste nordoccidentali d'Europa, Pitea osservò, senza mostrare sorpresa, che procedendo verso nord al solstizio d'estate i giorni diventavano via via più lunghi, mentre al solstizio d'inverno il Sole era sempre meno alto sull'orizzonte. Apprese inoltre l'esistenza di una misteriosa Isola di Tule (probabilmente l'Islanda), dove il Sole non tramonta il giorno del solstizio d'estate, e la situò al limite settentrionale del mondo abitato "nel posto dove il tropico d'estate si confonde con il Circolo Artico" (Strabone, Geographica, II, 5, 8) cioè sul parallelo 66° N, il nostro circolo polare (quello che i Greci chiamavano 'Circolo Artico' era, per un dato luogo, il cerchio che limita la calotta delle stelle sempre visibili, o delle stelle sempre invisibili; variabile con il luogo, esso era un riferimento per la latitudine).

Pitea raccolse le osservazioni sulle latitudini settentrionali in un trattato intitolato L'Oceano (andato perduto), il quale ai suoi tempi ebbe una grandissima notorietà: fu letto, citato e sfruttato da molti. Alle annotazioni di carattere astronomico si aggiunge il ricordo, nei pressi della leggendaria Isola di Tule, di "quelle regioni dove non c'è più né terra propriamente detta, né mare né aria, ma una materia composta da tutti questi elementi […], una specie di agglomerato che tiene tutto insieme e sul quale non si può né camminare né navigare" (Strabone, Geographica, II, 4, 1). Avanzando nel Mar Baltico, giunto in prossimità della zona glaciale, ciò che più lo colpì furono la scarsità delle messi, la necessità di battere il grano in grandi capannoni per via della mancanza di sole e della frequenza delle piogge, e l'uso di bere un miscuglio di grano e di miele.

Questo viaggio avventuroso e così ricco di insegnamenti ‒ del quale Polibio e Strabone contestarono la realtà ‒ permise a Pitea di verificare la validità di quanto insegnavano la geometria della sfera e l'uso dei modelli ridotti, discipline nelle quali i Greci erano diventati maestri. Il trattato di Autolico di Pitane, Sulla sfera mobile, scritto nel 330 ca., al tempo delle spedizioni di Pitea e di Alessandro Magno, mostra l'alto livello tecnico cui era giunta la geometria della sfera; grazie a questa, mediante una semplice manipolazione del piano dell'orizzonte (o della retta che lo rappresentava) si potevano conoscere lo stato del cielo in qualunque punto della Terra, la durata del giorno più lungo, l'altezza del polo, la posizione del cerchio delle stelle sempre visibili, e così via. Ciò che non era possibile osservare direttamente, visto che il mondo era conosciuto soltanto in piccola parte, era dedotto da costruzioni geometriche o dall'osservazione di modelli ridotti. Le sfere celesti stellate, le sfere armillari (dove il cielo era ridotto ai suoi cerchi fondamentali con la Terra al centro), i globi terrestri, erano tutti strumenti d'uso corrente nelle scuole, come è testimoniato non soltanto dall'Atlante Farnese, che illustra la sfera stellata di Eudosso, ma anche dai numerosi riferimenti a questi oggetti che si trovano nei manuali elementari come quello di Gemino (V, 65 e XVI) e nei testi letterari come il De republica (I, 14) di Cicerone. È grazie a questa eredità ricca e varia, raccolta e organizzata nella Biblioteca di Alessandria, che Eratostene poté non soltanto creare la scienza a cui diede il nome di geografia, ma anche darle uno straordinario impulso.

Eratostene ad Alessandria: il pioniere della geografia

Alessandria, fondata nel 331 a.C. da Alessandro Magno, conobbe presto grande prosperità; era situata in una posizione eccezionale, al crocevia delle rotte commerciali che la collegavano direttamente via mare con Rodi, la Grecia, l'Italia, l'Europa meridionale e l'Africa settentrionale. Il Nilo e i canali le aprivano l'accesso al Mar Rosso, all'Arabia Felix, ricca di piante aromatiche, e al subcontinente asiatico. Grazie ai Tolomei, Alessandria era inoltre diventata un impareggiabile centro culturale; in essa una grande biblioteca, la prima del suo genere, accoglieva un'immensa raccolta di testi antichi e moderni, scientifici e letterari, acquisiti in ogni parte del mondo greco con la persuasione, ma anche con la forza e il dolo, e debitamente catalogati, corretti e ricopiati da esperti filologi. Eratostene fu invitato dal terzo dei Tolomei, l'Evergete, a recarsi ad Alessandria per dirigere la Biblioteca e succedere ad Apollonio di Rodi, autore di un poema che conteneva spunti di carattere geografico e che narrava le avventure degli Argonauti.

Eratostene era nato a Cirene (attivo centro di cultura greca in terra africana) e, come molti cirenaici agiati, era andato a completare gli studi ad Atene, dove soggiornò probabilmente una decina d'anni (255-245 ca.). Allora l'Accademia era diretta da un allievo del geometra-astronomo Autolico, Arcesilao di Pitane (315-240 ca.), noto per la prontezza d'ingegno e l'abilità nelle dispute. La scuola stoica invece era diretta dall'austero Cleante, ma vi prosperava anche una frangia dissidente guidata da Aristone di Chio, che Eratostene annovera tra "il fior fiore dei filosofi". Il Liceo, sotto la direzione poco stimolante di Licone, conservava vivo il ricordo dei prestigiosi maestri del passato, come Teofrasto di Ereso (371 ca.-287 ca.), successore di Aristotele, o Stratone di Lampsaco detto 'il fisico' (328-270 o 268), che ad Alessandria era stato il precettore di Tolomeo II Filadelfo. Stratone era noto soprattutto per aver formulato un'ardita ipotesi sulla formazione del bacino del Mediterraneo, secondo la quale il Mar Nero e il Mediterraneo erano originariamente dei mari chiusi che, riempitisi nel corso dei secoli per l'apporto dei fiumi, sia di acqua che di limo, avevano inondato le terre vicine. A causa della pressione dell'acqua o a seguito di scosse sismiche, si erano poi formate alcune falle attraverso le quali le acque si erano riversate da un mare all'altro: dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso lo stretto di Bisanzio e dal Mediterraneo all'Oceano Atlantico attraverso le Colonne d'Ercole.

Eratostene godeva già di una grande reputazione come uomo di scienza e come filologo quando Tolomeo III Evergete lo chiamò ad Alessandria (245 ca.); per una cinquantina d'anni, fino alla sua morte nel 195, fu perciò al centro di tutte le attività intellettuali dell'epoca. Alessandria era diventata infatti la città-faro che tutti gli studiosi erano tenuti a visitare, dove l'attività scientifica era intensa e adatta a stimolare lo spirito creativo. Distintosi in numerosi campi quali la geometria, l'astronomia, la matematica, ma anche la filologia e la poesia, Eratostene, inoltre, ebbe probabilmente un ruolo dominante nella conservazione dei testi scientifici. Possiamo però ricostruire il suo pensiero e la sua attività soltanto attraverso la critica e le citazioni dei suoi successori poiché nulla si è conservato della sua opera. Per la geografia, la disciplina che egli nobilitò, la nostra fonte principale è Strabone, storico di formazione e non troppo esperto in matematiche; è grazie a lui, però, che ci si può fare un'idea abbastanza precisa del modo di procedere e delle finalità di Eratostene.

Tav. I

A seguito del notevole allargamento dei confini del mondo conosciuto, dovuto alle esplorazioni di Alessandro e di Pitea del secolo precedente e alla ricognizione nell'Alto Egitto effettuata dal suo contemporaneo Filone (290-200 ca.), Eratostene decise di riportare tutte le nuove conoscenze su una carta, aggiornata e in scala. Per riuscire a soddisfare quest'ultimo punto, vista l'insufficienza delle carte ioniche, l'approssimazione dei portolani e il carattere empirico dei viaggi d'esplorazione, egli doveva stabilire quanta parte della superficie del globo era abitata e, di conseguenza, calcolare la lunghezza del raggio della Terra e, partendo da questo, la lunghezza della circonferenza terrestre. Il procedimento utilizzato da Eratostene, che probabilmente era contenuto nel perduto trattato Sulla misura della Terra, fu descritto più di quattro secoli dopo da Cleomede (150-200 ca.) ed è ricordato nella Tav. I.

Conoscere la lunghezza della circonferenza terrestre, comunque, presentava l'enorme vantaggio di permettere l'espressione in stadi di qualunque differenza di latitudine, anche tra luoghi mai raggiunti dall'uomo. Si poteva così stabilire in 16.800 stadi la distanza equatore-tropico, stimata a 4/60 di cerchio (cioè 24°, valore approssimato per l'obliquità dell'eclittica ammesso già da Enopide di Chio, nel 450 ca.), anche se nessuno si era mai spinto fino all'equatore. Analogamente, se in accordo con Pitea si considerava il parallelo dell'Isola di Tule (66° N) come il limite settentrionale del mondo conosciuto, questo si poteva situare a 46.200 stadi dall'equatore, benché lo stesso Pitea non si fosse mai avventurato fino ai luoghi dove al solstizio d'estate il Sole non tramonta e ne parlasse soltanto per sentito dire.

In questo modo diventava facile anche stimare quanta parte del globo occupasse il mondo conosciuto, la cosiddetta ecumene. Se si poneva ‒ con Eratostene ‒ il limite meridionale del mondo abitato a metà strada tra l'equatore e il tropico (e dunque a 8400 stadi dall'equatore), all'incirca al parallelo di Meroe in Etiopia, e il limite settentrionale al parallelo di Tule, la distanza sud-nord risultava di 37.800 stadi (o 38.000 in cifra tonda). Nel senso est-ovest, in mancanza di osservazioni concomitanti di una medesima eclisse di Luna bisognava attenersi a misurazioni fatte sul terreno, ovvero ad approssimazioni quali giornate di marcia o di navigazione, con risultati necessariamente imprecisi. A ogni modo, utilizzando le varie misurazioni effettuate dagli agrimensori di Alessandro in Asia o dai marinai nel Mediterraneo, Eratostene fissò a circa 74.000 (o, tenendosi largo, a 78.000) stadi la distanza che separa le estremità dell'India e dell'Iberia, misurata sul parallelo di Rodi (36° N) che valeva 4/5 dell'equatore, cioè circa 200.000 stadi. Di qui la facile conclusione di Eratostene, che "se l'immensità dell'Oceano Atlantico non ce lo impedisse, potremmo andare per mare dall'Iberia fino in India: basterebbe percorrere in nave, lungo uno stesso parallelo, la distanza che resta una volta sottratta la lunghezza del mondo abitato, che rappresenta un po' più di un terzo della circonferenza totale" (Strabone, I, 4, 6). Era la previsione, più di 17 secoli prima, del viaggio di Cristoforo Colombo. La lunghezza che Eratostene attribuiva al mondo abitato equivale a circa 12.300 chilometri (un po' più di 120° di longitudine) dei 31.500 (360°) del parallelo 36° N; ora, da Pechino al Capo San Vincenzo ‒ estrema punta sudoccidentale della penisola iberica ‒ vi sono un po' più di 120°, per cui la stima di Eratostene, secondo il quale però il mondo conosciuto finiva a est all'estremità dell'India, era più vicina al vero di quanto non fosse quella di Tolomeo su cui si basò poi lo scopritore dell'America. Inoltre, se, come egli sosteneva, il mondo conosciuto situato interamente nell'emisfero Nord non occupava nemmeno un quarto del globo, si potevano immaginare altri mondi abitati simili al nostro nei rimanenti tre quarti. Un sogno che si materializzò grazie allo stoico Cratete di Mallo (attivo intorno al 165 a.C.), che, per commentare l'Odissea di Omero, costruì un globo terrestre di 3 m di diametro sul quale dispose simmetricamente quattro mondi abitati, separati da cinture oceaniche.

Lo scopo di Eratostene restava comunque quello di dare un'immagine affidabile del mondo conosciuto: il procedimento più semplice e più fedele alla realtà sarebbe stato di disegnarlo su una sfera, al modo di Cratete, ma l'uso prevalente era di rappresentarlo su una superficie piana, ed era quindi necessario scegliere un metodo di proiezione. Dato il piccolo spazio che doveva rappresentare, centrato nel bacino del Mediterraneo, Eratostene scelse una proiezione ortogonale nella quale i meridiani, che nella realtà convergono tutti nei poli, risultavano paralleli tra loro, mentre tutti i paralleli geografici sarebbero state rette allineate al parallelo centrale della carta, cioè quello di Rodi (36° N); un grado di parallelo, dunque, valeva 4/5 di un grado di meridiano. Per maggiore chiarezza, Eratostene fissò anche due assi di riferimento, scegliendo a questo scopo il parallelo e il meridiano di Rodi. Benché le linee periferiche delle varie parti dell'isola che costituiva il mondo abitato fossero largamente ipotetiche, tutto ciò che poteva essere rappresentato lo era con grande cura. Eratostene, infatti, cercò di suddividere le terre emerse conosciute per mezzo di 'sfragidi', figure geometriche facili da tracciare: cominciando dal continente asiatico, presentò l'India come un rombo, l'Ariana (la Persia) per almeno tre lati come un parallelogramma, e così via. Si conosce questa suddivisione in sfragidi soltanto dai passi, molto critici, che dedica loro Strabone, e perciò è difficile farsi un'idea precisa di questo interessante tentativo di schematizzazione.

Per motivare e commentare questa carta, che probabilmente ornava uno dei muri della biblioteca o del palazzo reale di Alessandria, Eratostene scrisse un trattato in tre libri (andato perduto), intitolato Geografia, il primo del genere con questo titolo e interamente dedicato alla nuova scienza. Dalla descrizione critica che ne fa Strabone sappiamo che nel Libro I Eratostene passava in rassegna gli autori che si erano interessati più o meno da vicino alla geografia, a partire da Omero, a cui negava autorità in questa materia, fino a Pitea che, invece, gli sembrava pienamente degno di fede, passando per Esiodo o Eudosso. Il Libro II trattava del globo terrestre, della sua forma, delle dimensioni e della suddivisione in zone; quindi del mondo abitato, delle sue dimensioni, della suddivisione in continenti, dei venti e così via. Il Libro III sembra fosse interamente consacrato ai problemi relativi alla realizzazione di una carta: sistema di proiezione, scelta degli assi fondamentali che s'intersecavano a Rodi, tracciato degli sfragidi.

Nel corso dell'opera Eratostene rifletteva sul passato di questa Terra di cui la carta dava soltanto un'immagine istantanea. La presenza di resti marini attorno all'Oasi di Ammone (ora Oasi di Sīwa) accreditava ai suoi occhi l'ipotesi di Stratone di Lampsaco per spiegare le grandi variazioni del livello del mare nel corso dei secoli; la preferiva a quella di Xanto di Sardi che, come Aristotele, supponeva lunghe alternanze climatiche. Eratostene utilizzava queste considerazioni per spiegare l'inversione delle correnti che si osservava negli stretti, in particolare nello stretto di Messina che egli descriveva

animato da un regime simile a quello del flusso e riflusso dell'Oceano: la corrente cambia direzione due volte nello spazio di un giorno e una notte, proprio come l'Oceano avanza e si ritira due volte. Bisogna assimilare al flusso la corrente che va dal Mar Tirreno al Mare di Sicilia e trascina l'acqua come all'uscita di una superfice più alta. È la corrente detta discendente che si assimila al flusso perchè comincia e finisce nello stesso tempo: comincia intorno al sorgere e al tramontare della Luna, si ferma al passaggio di questa al meridiano dai due lati, sopra o sotto la Terra. Al riflusso corrisponde la corrente opposta, detta corrente d'uscita: comincia al momento del passaggio della Luna all'uno o all'altro meridiano come il riflusso, e cessa quando l'astro giunge al punto in cui sorge o tramonta. (Strabone, Geographica, I, 3, 11)

Eratostene, che forse, grazie a Pitea, conosceva il meccanismo delle maree oceaniche, in questo caso dava una giusta interpretazione delle correnti di marea, contestata poi da alcuni suoi successori, tra cui Strabone, e ignorata da altri.

Nei secoli successivi la Geografia di Eratostene assicurò al suo autore una reputazione meritata. La misura della circonferenza della Terra da lui stabilita rimase autorevole per molto tempo, malgrado la concorrenza di quella di Posidonio, molto meno precisa, a torto preferita da Tolomeo.

A Rodi: Ipparco e Posidonio

Alla morte di Tolomeo III Evergete nel 221, salì al trono il figlio Tolomeo IV Filopatore (244-205 ca.), allievo di Eratostene: fu per Alessandria l'inizio del declino. I re che si succedettero dovettero affrontare gravi disordini e la considerazione per la cultura diminuì. Verso il 145 alla morte di Tolomeo VI Filometore, le agitazioni diventarono così violente che i sapienti del Museo furono costretti a lasciare la città. In conseguenza di ciò Alessandria perse molto della vivacità intellettuale e del prestigio di cui godeva. Ne approfittarono Pergamo, aperta rivale di Alessandria, e Rodi, dotata di una prosperità più antica e di una brillante vita intellettuale. È a un rodese, Panezio (185-110 ca.), stabilitosi in seguito ad Atene, che lo stoicismo deve un autentico rinnovamento. Verso il 144 Panezio era andato a Roma: le guerre puniche, che erano appena terminate nel 146 con la vittoria degli eserciti romani, avevano reso familiare il bacino occidentale del Mediterraneo; il mondo conosciuto si allargava così a ovest e a sud. Accolto con benevolenza nella cerchia degli Scipioni, Panezio accompagnò Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto l'Africano, nella missione in Oriente del 141. Un numero sempre più grande di persone si interessavano alla geografia.

Contemporaneo di Panezio, Ipparco, originario di Nicea in Bitinia, andò a lavorare a Rodi, cioè nella città della quale Eratostene aveva fatto il centro geografico della carta, sul parallelo di riferimento 36° N. Tra il 161 e il 126 egli vi fece numerose osservazioni astronomiche, alcune delle quali lo condussero alla scoperta del fenomeno della precessione degli equinozi. Di Ipparco si conserva soltanto il già citato Commento ai Fenomeni di Eudosso e di Arato, opera nella quale egli sottolinea gli errori a suo parere contenuti nella descrizione del cielo fatta dal poeta Arato (270 ca.) seguendo Eudosso. Allo stesso modo, nell'opera Contro la Geografia di Eratostene (tre libri oggi perduti), si dedicava alla critica degli errori contenuti nell'opera di Eratostene. Anche in questo caso la nostra fonte principale è Strabone, che nella propria critica a Eratostene utilizza gli argomenti di Ipparco, a volte anche confutandoli. Se si dà ascolto a Strabone, che esaminava insieme i due autori, fin dal Libro I Ipparco rendeva omaggio a Omero, facendone, al contrario di Eratostene, un pioniere della 'scienza geografica' e contestava, altresì, l'ipotesi ‒ generalmente accettata ‒ della continuità delle acque sulla superficie del globo. Secondo Strabone, infatti, sembra che egli sostenesse che "il regime dell'Oceano non è ovunque lo stesso, e che anche ammettendo che sia così non ne seguirebbe che l'Oceano Atlantico è in tutta la sua estensione senza interruzioni" (Strabone, Geographica, I, 1, 9). Ipparco nel Libro II sosteneva la necessità di determinare le coordinate geografiche, indispensabili per realizzare una carta, sulla base dei 'climi' (nel significato letterale di 'inclinazioni' dei raggi solari, per le latitudini) e dell'osservazione delle eclissi (per le longitudini); concludeva che, in assenza di misure esatte d'ordine astronomico, era meglio attenersi alle vecchie carte, giudicando rischiose le correzioni proposte da Eratostene. Criticava aspramente la divisione in sfragidi, contestando per ragioni geometriche ‒ in mala fede secondo Strabone ‒ le approssimazioni, inevitabili, di Eratostene. Il Libro III si chiudeva con un quadro completo dei climi; adottando il valore della circonferenza terrestre trovato da Eratostene, che secondo lui "si allontanava poco dalla realtà" (ibidem, 4, 1), Ipparco se ne serviva per suddividere l'emisfero Nord in 'climi', che sono per lui paralleli di latitudine, distanti tra loro un grado di meridiano: "Se si suddivide in 360 parti il cerchio massimo della Terra, ogni parte misurerà 700 stadi; è questa l'unità di cui Ipparco si serve per calcolare le distanze prese sul meridiano di Meroe. Comincia dalle regioni situate all'equatore e quindi, percorrendo uno dopo l'altro, di 700 stadi in 700 stadi, i diversi luoghi geografici sul detto meridiano cerca di precisare in ciascun punto i fenomeni celesti" (ibidem, II, 5, 34).

Tra questi fenomeni figurano la durata del giorno più lungo, l'altezza del polo sull'orizzonte, i rapporti fra la lunghezza dello gnomone (lo stilo dell'orologio solare 'a ombra') e quella della sua ombra a mezzogiorno ai solstizi e all'equinozio, le stelle che passano allo zenit e quelle situate sul cerchio sempre visibile a quella latitudine, con l'indicazione a volte delle città che si trovano su quel parallelo. Di queste informazioni, le prime si potevano ottenere senza difficoltà una volta tracciati in modo corretto i cerchi fondamentali e disegnate le costellazioni sulla superficie della sfera celeste; bastava inclinare l'asse del mondo sul piano dell'orizzonte portandolo alla latitudine voluta per leggere poi facilmente sul modello ridotto i fenomeni corrispondenti. Era più difficile, però, indicare per ciascun parallelo i luoghi che esso attraversava ed è probabile che, nella tavola dei climi puramente teorica compilata da Ipparco, vi fossero ben poche localizzazioni concrete. Questa tavola testimonia però la relazione che lega il valore dello stadio alla lunghezza della circonferenza terrestre: al pari del nostro metro fino a un passato non molto lontano, lo stadio era una frazione definita del meridiano.

Nel secolo successivo si stabilì a Rodi anche Posidonio (135 ca.-metà I sec.), un celebre filosofo originario di Apamea in Siria. Ad Atene egli era stato allievo di Panezio e aveva completato la sua educazione viaggiando da una costa all'altra del Mediterraneo, da Gades (Cadice) alla Piana della Crau e a Marsiglia, dalle coste dell'Africa settentrionale (a quelle si era avvicinato a causa di una tempesta) a Roma, dove si era fermato abbastanza a lungo; di ritorno a Rodi, partecipò alla vita politica della città, esercitando le funzioni di pritano, e aprì una scuola che attirò studenti famosi, tra cui Cicerone e Gneo Pompeo.

Durante il viaggio in Spagna restò affascinato dalla straordinaria ricchezza mineraria di quel paese: "Ogni montagna ‒ affermava nelle Storie (perdute) ‒ ogni collina dell'Iberia è in realtà, grazie a un destino incomparabilmente prodigo, un ammasso di sostanze da cui si traggono monete" (ibidem, III, 2, 9). A Posidonio si deve una descrizione precisa del funzionamento di queste miniere, dalle lunghe e sinuose gallerie, a volte invase da torrenti la cui acqua era aspirata per mezzo di pompe note col nome di 'viti di Archimede', o coclee. La produttività di queste miniere era notevole: "Nelle miniere di rame la terra ha una percentuale di rame pari a un quarto; nelle miniere d'argento si estrae in tre giorni un talento eubeo a persona" (ibidem, 2, 9). Queste osservazioni dello storico furono tutte raccolte con cura dagli autori di geografia, tra cui Strabone.

Posidonio osservò a Gades, seguendo Pitea, il fenomeno delle maree oceaniche. In un trattato che intitolò, come quello del suo predecessore, L'Oceano (trattato purtroppo perduto, come tutta l'opera di Posidonio, ma che ha lasciato numerose tracce nella letteratura posteriore) ne dava una descrizione completa, distinguendo i movimenti in diurni, mensili, annuali e mettendoli, correttamente, in relazione con le fasi della Luna e con la posizione di questa rispetto al Sole.

fig. 8

Sempre durante il soggiorno a Gades, Posidonio scorse "un astro che congetturò essere Canopo, basandosi sulla convinzione diffusa che per vederlo bastava allontanarsi anche di poco verso sud al largo dell'Iberia, e sulla relazione dell'osservazione fatta a Cnido da Eudosso, il quale, dal suo osservatorio che era non più alto di una casa, aveva visto Canopo. Ora, Cnido è situata alla latitudine di Rodi, e su questa si trovano anche Gades e il litorale attiguo" (ibidem, II, 5, 14). La posizione di Canopo, sul timone di Argo, la stella più brillante del cielo dopo Sirio, era stata fissata da Ipparco a 38,5° dal Polo Sud, ponendola così (secondo la geometria sferica, che non teneva conto della rifrazione) leggermente a nord del cerchio delle stelle sempre invisibili per l'orizzonte di Rodi, Gades e Cnido. In realtà, verso il 100 a.C., la distanza di Canopo dal Polo Sud era di circa 37,5° e la stella era più vicina di quanto non pensasse Ipparco al cerchio sempre invisibile all'orizzonte di Rodi (36° N); la sua comparsa sopra l'orizzonte rappresentava comunque un riferimento per la latitudine. Posidonio, inoltre, si basò sulla stella Canopo nel suo procedimento astronomico (mentre quello di Eratostene era soprattutto geometrico), per calcolare la lunghezza della circonferenza della Terra (fig. 8). Sapendo che questa stella, invisibile in Grecia, "comincia a essere visibile a Rodi, ma appena la si scorge all'orizzonte scompare, in conformità col moto di rivoluzione della sfera celeste […] mentre ad Alessandria culmina a un quarto di segno dello Zodiaco sopra l'orizzonte" (Cleomede, De motu circulari corporum caelestium, I, 10), Posidonio ne conclude che questo quarto di segno dello Zodiaco, che valeva 1/48 di cerchio massimo (un segno dello Zodiaco, dodicesima parte di un cerchio massimo terrestre, vale 30° in ampiezza), misurava la distanza angolare tra Alessandria e Rodi, che si supponeva si trovassero sotto uno stesso meridiano. Se la distanza (per mare) tra le due città è di 5000 stadi, la circonferenza terrestre misurerà 5000×48=240.000 stadi, "altrimenti sarà proporzionale alla distanza" (ibidem). La distanza di 240.000 stadi non è molto lontana da quella trovata da Eratostene, che era di 252.000 stadi, ma si basa su premesse errate: la differenza di latitudine tra le due città infatti non è di 7,5° (1/4 di 30°) come pensava Posidonio, ma soltanto di 5,25°, cioè 3750 stadi, come l'aveva calcolata esattamente Eratostene con i suoi orologi a ombra (Strabone, Geographica, II, 5, 24). Se ora si prende quest'ultima cifra invece dei 5000 stadi precedenti, che era una semplice stima di marinai, la circonferenza terrestre misura soltanto 180.000 stadi: "Tra le stime più recenti, quella di Posidonio riduce la Terra al minimo" (ibidem, 2, 2). Facendo affidamento su questa cifra, Posidonio poté formulare "l'ipotesi che i 70.000 stadi circa che rappresentano la lunghezza del mondo abitato costituiscono la metà del cerchio su cui si prende questa lunghezza, per cui, dice, se partendo da occidente si naviga spinti dal vento dell'est, dopo aver compiuto un numero uguale di stadi si approderebbe nelle Indie" (ibidem, 3, 6). In effetti, per una circonferenza terrestre di 180.000 stadi il parallelo di Rodi misura 140.000 stadi. Posidonio, che sembrava più interessato al metodo di calcolo che ai risultati, sarebbe stato molto sorpreso nell'apprendere che questo valore, che attribuiva 500 stadi al grado di meridiano, sarebbe stato accettato da Marino di Tiro (attivo nella prima metà del II sec. d.C.) e da Tolomeo i quali, senza preoccuparsi di verificarlo, lo considerarono a torto come il "valore ottenuto con le misurazioni più precise" (Tolomeo, Geographia, VII, 5, 12). Di qui lo spazio notevolmente più grande attribuito da loro al mondo conosciuto sulla superficie del globo terrestre. Del resto, Posidonio non era mai a corto di proposte originali. Nel trattato L'Oceano, a proposito della suddivisione del globo in zone, criticava la ripartizione tradizionale in 'zona torrida' (non abitabile a causa del caldo), 'zone temperate' (le uniche abitabili), 'zone glaciali' (non abitabili a causa del freddo). Giudicandola troppo ambigua perché fondata su nozioni imprecise come la temperatura e la densità di popolazione, proponeva di sostituirla con una suddivisione di tipo astronomico fondata sulla direzione dell'ombra (skiá in greco) proiettata dallo gnomone dell'orologio solare o da un qualunque oggetto verticale. Distingueva così una zona a ombra doppia (amphi-skiane) tra i due tropici, nella quale le ombre si proiettano verso nord o verso sud a seconda della stagione; due zone a ombra semplice (etero-skiane) tra i tropici e quelli che noi chiamiamo 'circoli polari', nelle quali l'ombra è diretta sempre nella stessa direzione (a nord nell'emisfero Nord, a sud nell'emisfero Sud); infine, due zone a ombra circolare (peri-skiane) oltre i circoli polari fino ai poli, nelle quali l'ombra gira attorno allo gnomone. Molti studiosi e divulgatori, nell'Antichità e anche nei tempi moderni, hanno adottato questa chiara definizione di zone; il grande pubblico ha invece sempre privilegiato le vaghe denominazioni tradizionali.

Andando avanti nella speculazione, Posidonio distinse, questa volta dal punto di vista dei fenomeni umani,

due zone sottili, sotto i tropici; il Sole vi resta allo zenit per circa la metà di un mese, e sono divise in due dai tropici. Queste zone hanno la particolarità di essere completamente secche e coperte di sabbia e di non produrre altro che silfio [la pianta, oggi scomparsa, che ha fatto la fortuna di Cirene] e qualche frutto aspro e secco, perché non ci sono né montagne vicine per far scoppiare in pioggia le nuvole, né fiumi per irrigare il paese. Queste regioni generano perciò creature che hanno capelli crespi, corna arrotolate, labbra sporgenti, naso camuso, e con le estremità ripiegate su sé stesse. Questi caratteri, aggiunge Posidonio, sono manifestamente peculiari di queste zone, perché più a sud le condizioni atmosferiche sono più temperate e la terra è più fertile e meglio irrigata. (Strabone, Geographica, II, 2, 3)

Nell'Antichità furono prese spesso in considerazione la possibilità e anche la probabilità che vi fosse un mondo abitato sotto l'equatore con un clima relativamente temperato. Polibio di Megalopoli (200 ca.-120 ca.), che aveva accompagnato Scipione Emiliano in Africa, aveva composto un'opera intitolata Regioni equatoriali, citata da Gemino: "Polibio assicura che queste regioni sono abitate. Forte delle informazioni di testimoni oculari che hanno visitato i luoghi e della propria esperienza dei fenomeni celesti, basa il ragionamento sul moto naturale del Sole" (Gemino, XVI, 33). In effetti il Sole, che descrive il cerchio obliquo (rispetto all'equatore) dell'eclittica a velocità costante, sembra muoversi più velocemente nelle vicinanze dell'equatore, cosicché resta meno tempo allo zenit per gli abitanti delle zone equatoriali, mentre pare fermarsi per circa quaranta giorni nelle vicinanze dei tropici (la parola solstizio viene dal latino Sol stat), facendo delle zone tropicali le vere zone torride. Altrove Posidonio criticava l'usuale divisione in continenti del mondo abitato; secondo lui, "sarebbe meglio utilizzare cerchi paralleli all'equatore che permettano di mettere maggiormente in evidenza le differenze tra gli esseri animati, le piante e le condizioni atmosferiche a seconda che ci si avvicini alla zona glaciale o a quella torrida" (Strabone, Geographica, II, 3, 7).

Senza essere uno specialista di geografia Posidonio lasciò un'impronta su questa scienza, avendo viaggiato molto e molto riflettuto su ciò che aveva visto. Senza dubbio i suoi interventi furono a volte infelici (per es., la misurazione della circonferenza terrestre) e a volte poco o male apprezzati, come la divisione del globo terrestre in zone definite nei termini di un vocabolario adeguato; ma il suo interesse per la descrizione geografica, per le trasformazioni fisiche e umane, per l'economia dei diversi paesi e per l'etnografia avrebbe reso la sua opera, oggi interamente perduta, una miniera inesauribile di informazioni per le generazioni successive.

Posidonio, legato da amicizia con i migliori spiriti dell'epoca, ha contribuito non poco alla diffusione della cultura greca negli ambienti romani. La dottrina dell'armonia universale, della sympátheia che lega tra loro tutti gli elementi del Cosmo, favoriva non soltanto la credenza già molto diffusa nell'astrologia, ma anche l'ambizione dei Romani di ampliare il loro impero fino ai limiti estremi del mondo abitato, raccogliendo tutti i popoli nella pace e nell'unità, creando tra loro dei legami mediante un'unica legislazione all'interno di un'unica organizzazione politica. Questa dottrina non fu estranea alla fortuna dell'ideale stoico di una città del genere umano di cui Cicerone, amico di Posidonio, celebrò le virtù (De finibus, III, 64).

La 'Geografia' di Strabone

Polibio si vantava di essere stato il primo ad avere composto una storia universale, perché, spinto dall'estensione recente dell'Impero romano, aveva riunito in un unico racconto storico fatti verificatisi su fronti molto distanti tra loro, da un capo all'altro del Mediterraneo. Ciò, comunque, rendeva necessario che la geografia, già fortemente strutturata grazie al ricorso alla geometria sferica e illustrata da carte in scala, prendesse corpo in una descrizione sistematica dei popoli, dei paesaggi, dei modi di vita, delle mutazioni fisiche e umane. Ormai lo studio teorico poteva lasciare il posto a riflessioni di altro genere: le risorse dei luoghi, il carattere degli abitanti, gli ostacoli naturali da superare, il grado di civiltà, il passato storico che spiegava in buona parte il presente. Posidonio aveva aperto la strada a una scienza più 'umana', dagli insegnamenti senza dubbio più incerti e non sempre attendibili, ma forse più utili nella vita di tutti i giorni e anche più espressivi di quanto non lo fosse un arido quadro dei 'climi' alla maniera di Ipparco.

Questo nuovo orientamento della geografia teneva conto anche dell'attualità. Le spedizioni di Alessandro e di Pitea erano state imprese isolate, ben condotte da un punto di vista scientifico, ma esse non furono più ripetute, e ciò spiega la stagnazione dei dati a partire dalla fine di queste spedizioni. Invece gli eserciti romani, durante i 120 anni delle guerre puniche (dal 264 al 146) avevano percorso in lungo e in largo il bacino occidentale del Mediterraneo conquistando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, sbarcando in Africa e intraprendendovi campagne militari, stabilendosi in Spagna dopo averne cacciato i Cartaginesi. Non soltanto i generali, ma anche la massa dei soldati semplici vedeva paesaggi nuovi e si avvicinava a modi di vita inusuali e a culti esotici, senza dimenticare l'Asia Minore e i paesi limitrofi, dove erano inviati in missione legati incaricati di ridurre alla ragione i sovrani che qua e là si opponevano alla dominazione romana. Il bacino del Mediterraneo, insomma, diventava un teatro di operazioni familiare, che risvegliava in tutti, molto più che nel passato, il desiderio di conoscere la Terra in tutta la sua estensione, sia con i viaggi, resi più facili dopo che la pirateria era stata domata, sia mediante la lettura di trattati di geografia, generale o locale.

La geografia universale, che la recente estensione dell'Impero romano richiedeva, fortunatamente non è andata perduta. La si deve a Strabone, nato ad Amasea nel Ponto (prima del 60 a.C.-20 d.C. ca., quindi contemporaneo di Augusto), che fu storico prima che geografo. Mentre le opere della maggior parte degli autori che hanno dato lustro alla geografia greca sono andate irrimediabilmente perdute, la Geografia di Strabone, in 17 libri, ci è pervenuta quasi per intero. È un monumento di erudizione e di scienza, ma anche un memoriale di tante ricerche del passato che senza questa preziosa testimonianza sarebbero sprofondate nell'oblio.

Strabone compose l'opera verso gli ultimi anni della sua vita (aveva già composto una Storia in 47 libri, andata perduta, che faceva seguito a quella di Polibio). L'imperatore Augusto, che allora aveva raggiunto il culmine della potenza e aveva assicurato la famosa pax romana nel bacino del Mediterraneo, stava organizzando l'amministrazione delle province; per istruire i Romani aveva comandato al fedele luogotenente Marco Vipsanio Agrippa (63 ca.-12 a.C.) la compilazione di una carta monumentale del mondo abitato (cioè più o meno dell'Impero romano). Questa carta, probabilmente ispirata a quella di Eratostene, e che Agrippa non ebbe il tempo di portare a termine, in seguito fu collocata nel portico di Vipsanio, completato nel 13 d.C.

Strabone si recò a Roma per la prima volta intorno al 44 a.C., l'anno dell'uccisione di Gaio Giulio Cesare e della comparsa di Ottaviano sulla scena politica. Il destino di quest'uomo giovane e fragile e l'ascesa stupefacente che lo avrebbe portato a capo di un grande impero dovettero affascinare lo storico, che non fu avaro di elogi per la saggezza della costituzione stabilita da Augusto, l'imperatore che nel 2 a.C. fu salutato dal Senato, dall'ordine equestre e dal popolo romano tutto come pater patriae. "Sarebbe difficile per un impero così vasto avere un governo diverso da quello di un uomo solo al quale ci si affida come a un padre", fa eco Strabone (Geographica, VI, 4, 2). Anzi proprio per contribuire egli stesso al progresso politico messo così bene in opera dall'imperatore, Strabone cominciò a scrivere una Geografia:

Mi sembra un ottimo incoraggiamento per il nostro attuale progetto dire a sé stessi che la geografia è orientata essenzialmente verso le necessità della vita politica. La scena delle nostre azioni, infatti, è costituita dalla terra e dal mare che abitiamo: a piccole azioni, piccole scene; a grandi azioni, grandi scene, la più grande delle quali è la scena totale propriamente detta mondo abitato, per cui è quella la scena delle più grandi azioni. I più grandi condottieri sono quelli in grado di esercitare il potere sulla terra e sul mare, riunendo popoli e città in un unico impero, dove le strutture politiche sono ovunque le stesse. In queste condizioni, è chiaro che la geografia è tutta orientata verso la pratica di governo […]. Infatti è più facile prendere in mano un paese se si conoscono le sue dimensioni, la situazione locale, le caratteristiche del clima e della Natura. (I, 1, 16)

Il geografo greco volle dunque mettere la propria scienza a disposizione dell'amministrazione romana, e in particolare dei governatori delle province, spesso nominati a capo di paesi di cui ignoravano tutto.

All'arida geografia matematica, che aveva però avuto il merito di dare a Eratostene la possibilità di determinare con buona accuratezza lo spazio occupato dal mondo abitato sulla superficie del globo, faceva seguito lo studio, più variato, delle condizioni di vita, che dipendevano dai rilievi, dal clima, dalle risorse agricole e minerarie e che una buona amministrazione avrebbe dovuto darsi il compito di migliorare. Il progetto di Strabone, orientato essenzialmente verso la politica pratica, lasciava deliberatamente da parte i "margini" del mondo abitato, quei paesi dove la vita era troppo precaria e lontana da ogni tipo di civiltà. Rifiutandosi di estendere il mondo abitato verso nord fino al parallelo di Tule (66° N), ne stabiliva infatti i confini al parallelo di Ierne-Irlanda (54° N), o al massimo a 60° N, giustificando la scelta con ragioni utilitaristiche:

Per le necessità del governo non c'è alcun vantaggio nel conoscere questi paesi e i loro abitanti, soprattutto quando vivono in isole che non ci possono procurare problemi né dare profitti data la mancanza di relazioni. Ecco perché i Romani, che avrebbero potuto essere i signori della Bretagna non si sono degnati di farlo: vedevano bene che non avevano nulla da temere dai Bretoni (non sono abbastanza potenti per tentare uno sbarco), e che sottomettendoli avrebbero tratto pochi benefici. Sicuramente gli attuali diritti di dogana forniscono loro più risorse di quanto procurerebbe il tributo dei vinti, se si sottraggono le spese necessarie al sostentamento delle truppe incaricate di mantenere l'ordine nell'isola e di riscuotere le imposte. Ancor meno guadagno ci sarebbe nel caso delle isole limitrofe. (II, 5, 8)

Non si poteva essere più lucidi, né più pratici! Agli occhi di Strabone il grande merito di Roma stava nell'aver messo in relazione tra loro i vari popoli, contribuendo in tal modo allo sviluppo della civiltà. La fiducia nel progresso economico e politico, ma anche culturale, sottintendeva la filosofia morale e politica che era a fondamento della sua opera di geografo come di storico. Strabone proclamava ad alta voce che la sua Geografia "deve essere di interesse generale e servire insieme il cittadino che ha diritto di voto e il popolo" (I, 1, 22). Per migliorare le condizioni di vita e per il progresso delle conoscenze, l'opera dell'uomo era spesso determinante:

Nelle zone dove è possibile abitare, i paesi a clima freddo o le regioni montagnose offrono per natura condizioni di vita precarie, ma con una buona amministrazione anche i paesi in miseria e i covi di malfattori diventano civili. I Greci, per esempio, in un paese di montagne e pietre hanno potuto avere una vita felice grazie alle loro capacità di organizzazione politica, alla competenza tecnica e più in generale all'abilità in tutto ciò che costituisce l'arte di vivere. A loro volta i Romani, prendendo sotto tutela molti popoli per natura poco civili a causa dei paesi in cui vivono, aspri o privi di porti, gelidi o faticosi da abitare per altre ragioni, hanno creato legami che prima non esistevano e insegnato a popolazioni selvagge la vita in società. (II, 5, 26)

Strabone sottolineava a questo proposito il carattere di complementarità dei popoli; mettendo insieme le proprie qualità essi potevano rendersi l'un l'altro molti servizi, ma anche nuocersi pericolosamente in caso di disaccordo.

Per portare a compimento il progetto di fornire una descrizione "utile" del mondo abitato, Strabone ricorda per sommi capi ‒ mentre critica i suoi predecessori Eratostene, Ipparco, Polibio e Posidonio ‒ gli insegnamenti elementari della geometria sferica; presenta poi un riassunto delle nozioni necessarie alla comprensione della geografia e passa brevemente in rassegna i mari e i continenti che fanno parte del mondo conosciuto. Dopo questi due libri di prolegomeni, che trattano di quella che noi chiameremmo 'geografia generale', i quindici libri che seguono descrivono uno a uno i vari paesi d'Europa, d'Asia e d'Africa, partendo dalle Colonne d'Ercole (l'odierno stretto di Gibilterra) e facendo il giro del Mediterraneo da nord. Ogni paese è localizzato sommariamente all'interno delle proprie frontiere naturali e quindi suddiviso in regioni trattate separatamente. Rilievi, idrografia, clima, risorse, caratteristiche di ogni genere, modo di vita degli abitanti, nulla è dimenticato affinché l'immagine che ne risulta sia il più possibile fedele.

Parlando dell'Iberia-Spagna (Libro III), per esempio, Strabone distingue il Nord, occupato da montagne inospitali e dove il suolo è povero, e il Sud, particolarmente fertile; paragona il paese a "una pelle di bue distesa da ovest a est nel senso della lunghezza (le parti anteriori a est) e da nord a sud nel senso della larghezza", ne definisce i limiti (Pirenei a est, Mediterraneo a sud, Oceano a ovest e a nord) e ne dà le dimensioni (III, 1, 3). Entrando poi nel vivo dell'argomento descrive una dopo l'altra, cominciando dalla costa e dalle città principali, la Turdetania (Valle inferiore del Guadalquivir), la Lusitania (Portogallo), la Celtiberia (Spagna del Nord e del Nord-Ovest), quindi le isole (in particolare le Baleari e Gades-Cadice), elencando le popolazioni che le abitano e descrivendone le condizioni di vita. In Turdetania, per esempio, Strabone nota la fertilità del suolo, la ricchezza mineraria e l'intensa attività commerciale; si esportano verso l'Italia e Roma grano e vino, olio di eccellente qualità, cera, miele, pece, oro, argento e rame. "Alle condizioni così favorevoli di questo paese, i Turdetani aggiungono il vantaggio di avere costumi civili e senso politico" (III, 2, 15). Ma se la Lusitania-Portogallo è anch'essa un paese avvantaggiato, irrigato da numerosi corsi d'acqua, più a nord, in compenso, i popoli montanari sono bellicosi, hanno costumi rudi e selvaggi che "non sono dovuti soltanto alla guerra, ma anche all'isolamento. Per terra o per mare il viaggio fino a queste contrade è lungo e la difficoltà delle comunicazioni fa sì che questi popoli rifiutino ogni relazione e ogni forma di umanità" (III, 3, 8). Ciò permette a Strabone di lodare l'intervento benefico di Roma: "Oggi, grazie alla pace e alle frequenti visite dei Romani, la situazione è migliorata, benché coloro che beneficiano meno di questi vantaggi siano proprio i meno socievoli e i più brutali" (ibidem). Lungo il litorale mediterraneo egli sottolinea poi la presenza di porti: "La nuova Cartagine, fondata da Asdrubale, la città più potente di questa regione, che gode di una posizione naturalmente fortificata, di bastioni costruiti in modo ammirevole, di numerosi porti, di un lago d'acqua dolce, di miniere d'argento e di industrie di salatura" (III, 4, 6). Situa vicino alla Spagna le famose Cassiteridi, o Isole dello Stagno, "abitate da una popolazione che con i suoi mantelli neri, la tunica che avvolge il corpo fino ai piedi, la cintura che serra il torso e il bastone per camminare, fa pensare alle dee della Vendetta del teatro tragico" (III, 5, 11).

Nel corso dell'opera Strabone accumula riferimenti di ogni tipo nel trattare gli argomenti che gli stanno a cuore. Cita i poeti, in particolare Omero, che considera il padre della geografia; vede nella poesia "una sorta di filosofia elementare, che ci prende nell'infanzia, ci introduce all'arte di vivere e ci istruisce sui caratteri, le emozioni e l'agire per il nostro più grande piacere" e ne deplora la decadenza (I, 2, 3). Apprezza la musica, ne descrive gli strumenti e le forme, ricorda i giochi pitici e la melodia composta per l'occasione da Timostene, l'ammiraglio della flotta di Tolomeo II Filadelfo, per rievocare la lotta tra Apollo e il Drago. Descrive città che contengono tesori: quadri, statue, colossi, templi, tombe dei re in Egitto o del re Mausolo ad Alicarnasso, "una delle sette meraviglie del mondo" (XIV, 2, 16). Se s'interessa al modo di costruire le case, che varia da un paese all'altro, è però soprattutto al sito di una città che Strabone rivolge la sua attenzione, perché si tratta di un fattore essenziale di bellezza: "Nel fondare le città i Greci sembrano avere raggiunto pienamente il loro scopo perché miravano alla bellezza, alla posizione favorevole, alla qualità dei porti e del terreno. I Romani si sono preoccupati soprattutto di ciò che i Greci trascuravano: la pavimentazione delle strade, la derivazione delle acque, la costruzione di fognature" (V, 3, 8).

Strabone ama le città ben disegnate, con una chiara planimetria e le strade larghe, e cita a titolo di esempio Nicea in Bitinia, la cui "cinta di mura di forma quadrata misura 16 stadi (più di 2 km); è costruita in piano e le strade si tagliano ad angolo retto, tanto che da uno zoccolo di pietra posto al centro del ginnasio si possono veder le quattro porte" (XII, 4, 7).

La Geografia di Strabone, ricca di indicazioni di ogni tipo tratte da fonti diverse o dall'esperienza personale (l'autore afferma di essere, tra gli scrittori di geografia, colui che ha viaggiato di più), è dunque una summa insostituibile, del genere di quelle statue colossali nelle quali non bisogna cercare la precisione dei dettagli purché l'impianto generale sia corretto, "perché questa è un'opera colossale, che descrive per grandi tratti grandi insiemi, ma che non esclude questo o quel dettaglio che può interessare l'uomo desideroso di sapere e rivolto all'azione" (I, 1, 23).

I geografi latini

All'incirca negli stessi anni, sotto i regni di Augusto e di Tiberio, lo scrittore latino Marco Manilio compose (10-20 d.C. ca.) un poema didattico sull'astrologia intitolato Astronomica in cui si trova la prima descrizione latina che si conservi del mondo abitato ossia, più o meno, dell'Impero romano. Lo scopo di Manilio è dimostrare l'influenza degli astri sulle diverse parti del mondo; la geografia non è la sua preoccupazione principale e, proprio per questo, il poeta ci rivela ciò che un non specialista sapeva del mondo in cui abitava. La descrizione occupa, nel Canto IV, un centinaio di versi (ma c'è una lacuna) e la terra abitata è presentata come un'isola circondata dall'Oceano, secondo l'immagine tradizionale. Le acque penetrano in profondità all'interno delle terre attraverso quattro grandi golfi: il Mar Mediterraneo a ovest, limitato da Africa, Asia ed Europa; il Mar Caspio a nord, considerato da molti in comunicazione con l'Oceano Esterno; il Golfo Persico e il Golfo Arabico a sud. I continenti sono descritti con tratti suggestivi: l'Africa, popolata da bestie feroci, elefanti enormi, leoni furiosi e scimmie orribili; l'Asia, ricca di beni di ogni tipo ("i fiumi trascinano oro, i mari brillano per lo splendore delle perle, le foreste profumano dell'odore soave delle piante medicinali che in esse nascono"); infine l'Europa, la più nobile e la più feconda di eroi e di sapienti. A titolo di conclusione, si ricorda che "l'Italia domina su tutto questo; Roma, capitale del mondo intero le ha trasmesso la sovranità su tutta la Terra" (Manilio, Astronomica, IV, p. 671 e segg.).

Probabilmente più giovane di Strabone, Manilio rende un vibrante omaggio all'imperatore, principale motore della sua ispirazione: "Siete voi, Cesare Augusto, voi principe e padre della patria, voi che con giuste leggi governate l'universo sottomesso […]; siete voi che m'ispirate, voi che mi date la forza necessaria per cantare cose tanto notevoli" (ibidem, I, 7-10). In queste dichiarazioni di fedeltà e obbedienza bisogna certo tenere conto dell'adulazione e delle convenzioni della propaganda imperiale; ma le testimonianze sono troppo concordi e l'accento è chiaramente troppo sincero per dubitare dell'ammirazione dei contemporanei, greci e romani, per l'opera di pacificazione e di organizzazione del mondo svolta e sapientemente orchestrata da Augusto durante il suo regno.

Il tono è molto diverso nel primo trattato latino dedicato esclusivamente alla geografia che Pomponio Mela (attivo intorno al I sec. d.C.) compose intorno al 43-44, quando alle folli speranze che avevano suscitato con Augusto gli inizi dell'impero era seguita un'enorme delusione dovuta agli abusi del potere personale. Probabilmente fu Claudio, l'imperatore letterato, a chiedere a Pomponio Mela (provinciale originario di Tangeri) di redigere De corographia, vale a dire la descrizione delle regioni (la geografia era invece la descrizione della Terra). Forse a imitazione di Augusto che aveva fatto disegnare una carta dell'impero da collocare nel Foro, Claudio voleva che fosse alla portata di tutti i popoli che parlavano latino una descrizione del mondo conosciuto, quasi a commento della carta di Agrippa.

Pomponio Mela sembra svolgere malvolentieri un compito pesante del quale riconosce però l'utilità: "Comincio una descrizione delle regioni della Terra, lavoro difficile e molto poco propizio all'eloquenza. Esso, infatti, consiste quasi esclusivamente in un elenco di nomi di popoli e di luoghi disposti in modo piuttosto confuso, che offre materia per un'esposizione più lunga che produttiva anche se ben degna di attenzione e di studio" (Mela, De corographia, I, 1). Il testo, in tre libri, si conclude in uno stile ancora più scarno, menzionando il Capo di Ampelusia che segna "la fine di quest'opera e delle rive dell'Atlantico" (ibidem, III, 108).

Dopo alcune generalità tradizionali riguardanti il globo terrestre, le zone, la suddivisione in continenti determinata dal Mediterraneo e dai fiumi Nilo e Tanai (il Don), Mela adotta la finzione del periplo e descrive dapprima le coste mediterranee dell'Africa, dell'Asia e dell'Europa, quindi le isole sparse nel Mediterraneo cominciando da quelle della Palude Meotide (il Mar d'Azov) per finire con le Baleari. Compie poi il giro del mondo dall'esterno, lungo le coste europee dell'Oceano, dalla Spagna fino al Mare Scita con le isole vicine; seguono le rive dell'Asia e dell'Africa che lo riconducono al punto di partenza. Il nostro navigatore fittizio percorre così, partendo da Gibilterra, un doppio circuito, prima quello del Mare Interno, poi in senso inverso quello dell'Oceano Esterno. Il principale inconveniente della finzione del periplo è quello di rendere frammentaria la descrizione dei paesi che si affacciano su due mari, come per esempio la Gallia. È un ritorno a quei "portolani e peripli" che Strabone denunciava perché erano privi delle basi scientifiche indispensabili allo studio della geografia.

De corographia contiene però molto di più dell'arido elenco di nomi promesso dall'autore. Mela ricorda i resti marini scoperti in Numidia nelle zone più interne, e non scarta la possibilità che i mari si possano ritirare. Descrive i costumi dei popoli africani, mostra come il corso del Po si prolunghi nell'Adriatico ben al di là della foce, ricorda l'ipotesi che fa della Sicilia primitiva una parte del vicino continente, separata più tardi dallo stretto di Messina, celebre per le correnti inverse. Parlando del fenomeno delle maree dell'Oceano e del maremoto, così potente da far rifluire anche le acque dei grandi fiumi, si domanda se è proprio la Luna "la causa di oscillazioni di così grande ampiezza" (ibidem, 2). Presenta i Galli come gente fiera, superstiziosa e crudele ma piena di talento nell'uso della parola. Sa che sotto il Polo Nord, dove si dice che vivano gli Iperborei, il giorno e la notte durano sei mesi e che nell'Isola di Tule al solstizio d'estate il Sole non scende sotto l'orizzonte. Offre, insomma, un riassunto fedele delle conoscenze del tempo. La sua descrizione è una semplice constatazione oggettiva: Mela non manifesta alcun entusiasmo per la situazione attuale. Una sola frase segnala che la Gran Bretagna, in gran parte separata dal resto del mondo, sta per aprirsi "al più grande dei prìncipi" (ibidem, 49), alludendo così brevemente a quella che fu la grande impresa del regno di Claudio, la conquista della Bretagna, che, cominciata nel 43, fu completata nel 46-47.

Se ignoriamo quasi tutto della vita di Pomponio Mela, sappiamo invece molto di un autore che, pur senza essere uno specialista, consacrò una parte notevole della sua opera alla geografia: Plinio il Vecchio (23-79). Di famiglia appartenente all'ordine equestre, fu dapprima ufficiale di cavalleria, in servizio per dieci anni in Germania (47-57); sotto Nerone preferì dedicarsi alla letteratura, ma riprese poi servizio sotto Vespasiano (69-79); fu così procuratore nella Gallia Narbonese, in Africa, nella provincia iberica di Tarragona e in Belgio. Morì di asfissia per aver voluto osservare troppo da vicino l'eruzione del Vesuvio del 79.

La grande enciclopedia di cui è autore, la Naturalis historia, che dedicò nel 77 al futuro imperatore Tito, già associato al trono dal padre Vespasiano, testimonia della sua curiosità per tutto ciò che riguarda "la Natura, cioè la vita" (I, praef., 12). Sei libri della sua Storia naturale, che ne conta 37, sono consacrati alla geografia. Dapprima s'introducono questioni di carattere generale allo scopo di mostrare il posto occupato nel Cosmo dal mondo abitato; infatti l'Universo è diviso in quattro parti (il cielo stellato, l'atmosfera o mondo sublunare, il globo terrestre e le acque diffuse alla superficie); lo studio della cosmografia e della meteorologia deve precedere quello della geografia e dell'idrologia.

Per la descrizione del mondo abitato Plinio, come Mela, compie un doppio percorso. Il primo, attorno all'Europa, "la terra più bella", comincia a Gibilterra, segue le coste mediterranee, poi quelle del Mar Nero fino al Mar d'Azov dove si getta il Tanai, che separa l'Europa dall'Asia, e infine quelle delle acque settentrionali, Mar Baltico e Oceano Atlantico, per tornare a Gibilterra. In questo modo, per via costiera, sono prese in considerazione tutte le regioni d'Europa con le loro risorse, gli aspetti caratteristici, i costumi delle popolazioni. Ripartendo poi da Gibilterra, Plinio costeggia l'Africa del Nord, dalla Mauritania fino all'Egitto (considerato parte dell'Asia perché è il Nilo in teoria che separa i due continenti) e l'Asia Minore fino al Mar d'Azov. Raggiunge quindi le acque esterne che bagnano l'Asia settentrionale e orientale, l'India, l'Arabia meridionale, poi l'Africa meridionale per tornare al punto di partenza, lo stretto di Gibilterra.

Lo schema seguito da Plinio presenta l'inconveniente, già segnalato a proposito di Mela, di spezzettare la descrizione di alcuni paesi; per esempio, nel Libro III si parla della provincia narbonese della Gallia, ma la Gallia è trattata nel suo insieme soltanto nel Libro IV, verso la fine del primo periplo. Il gran numero di informatori, che l'autore si compiace di citare senza forse averli mai veramente consultati, non favorisce né l'omogeneità né l'unità di questa descrizione del mondo abitato, che per Plinio era soltanto preliminare a ricerche più ampie, comprendenti tutti i campi della scienza, dalla zoologia alla botanica fino alla mineralogia e alla metallurgia. Questa compilazione frettolosa, dalle mire enciclopediche, ebbe tuttavia un vivissimo e duraturo successo: la qualità e la molteplicità delle fonti citate ispirava una fiducia che il contenuto della Storia naturale, spesso male assimilato, non sempre meritava.

Rinascimento alessandrino: Dionisio il Periegeta, Appiano e Tolomeo

Fu ad Alessandria, e non a Roma, che rifiorì la geografia sotto Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161), due imperatori più amministratori che guerrieri, i quali consolidarono i confini con la costruzione del limes. Il II sec. d.C. si distinse per un'intensa attività economica: tutte le risorse del mondo conosciuto erano assorbite dal grande mercato di Roma, dove si conduceva una politica di prestigio e di grandi lavori pubblici. Il commercio con le aree al di fuori dell'impero arricchiva le province orientali dove arrivavano le carovane provenienti dall'Estremo Oriente, attraverso la Partia o il deserto siriaco. In Egitto, Alessandria era il centro di smistamento dei prodotti della Nubia, dell'Arabia e dell'India; il traffico riguardava pietre preziose, spezie, piante aromatiche, profumi, avorio e animali selvatici per i giochi del circo. I mercanti avevano notevolmente allargato il mondo conosciuto: a est, le relazioni con la Cina, grande esportatrice di seta, diventarono più regolari dopo l'arrivo al potere degli Han, che avevano pacificato il paese, e grazie al ritorno a condizioni normali di circolazione nell'Asia centrale; a sud il Sahara era percorso dai trafficanti d'avorio; a nord le isole britanniche erano diventate in parte possedimenti romani, come pure la Germania e la Dacia. Era giunto il momento di rivedere la carta del mondo conosciuto: quella di Eratostene, pur sempre in uso, cominciava a essere datata.

È tuttavia di questa carta che si servì, sotto Adriano, nel 130 circa il poeta Dionigi di Alessandria, o Dionisio il Periegeta, per comporre la Periegesis, o Descrizione della Terra abitata; anche lo storico Appiano, nella Historia Romana (150 ca.) utilizzò la carta di Eratostene per descrivere le frontiere dell'impero e le differenze tra i popoli. Sarebbe toccato poi a Tolomeo, dopo Marino di Tiro, fare le revisioni necessarie e dare, nella Geografia pubblicata sotto Marco Aurelio (170 ca.), quell'immagine del mondo che rifiorirà, intatta, nel Rinascimento.

Il primo di questi autori, Dionisio, compose in quasi 2000 esametri un poema didattico sulla geografia, come aveva fatto Arato quattro secoli prima per l'astronomia ottenendo un successo che non venne mai meno nel corso dei secoli. Anche la Descrizione di Dionisio conobbe una straordinaria fortuna: tradotta in latino da Avenio nel IV sec., da Prisciano di Cesarea nel VI sec., commentata in greco nel XII sec. dall'arcivescovo Eustazio di Tessalonica, quest'opera ha insegnato la geografia a numerosi studenti di ogni età.

Il piano generale è molto semplice; dopo una lunga introduzione che presenta il mondo abitato come un'isola nell'Oceano, divisa in continenti, con i quattro grandi golfi che in essa si addentrano, Dionisio 'fa il giro' di questi continenti, prima la Libia-Africa, quindi l'Europa con le isole del Mediterraneo e dell'Oceano Esterno, infine l'Asia, che fa la parte del leone, con l'elenco dei diversi popoli che la abitano, la descrizione dei loro costumi e il racconto delle loro leggende, e conclude: "Sono questi gli uomini più importanti che popolano la Terra; altri, di cui nessun mortale saprebbe dire con precisione il nome, errano a migliaia qua e là nei continenti" (1166-1168), probabile allusione agli altri tre mondi abitati ma sconosciuti che Cratete di Mallo aveva rappresentato sui rimanenti tre quarti del globo.

Il poema di Dionisio non ha pretese di originalità: è soltanto un buon riassunto delle conoscenze tradizionali a cui la forma poetica conferisce un grande potere di divulgazione; presuppone la lettura di una carta geografica di cui appare un semplice commento. Nel Monastero del Vivario (nel Bruzio), fondato nel VI sec. da Cassiodoro, s'imparava la geografia grazie a Dionisio il Periegeta su carte del tipo di quella di Eratostene che corredavano le copie del poema.

L'intervento della geografia in ambito storico è particolarmente sensibile nell'opera di Appiano. Questo grande 'borghese' di Alessandria, che a Roma esercitò le funzioni di avvocato fiscale per poi tornare al suo paese con il titolo di procuratore, compose una Storia romana all'inizio della quale indica "i confini di tutte le nazioni sottomesse a Roma" (Praefatio, I), cioè di tutta la parte a suo parere "utile" del mondo abitato. Queste frontiere erano appena state rinforzate da linee di fortificazione che facevano di tutto l'Impero una sola vasta "piazzaforte". Grande ammiratore della potenza romana, organizza il racconto dell'ascesa di Roma per grandi regioni geografiche, "popolo per popolo", cercando di spiegare i successi e le sconfitte delle diverse etnie attraverso le peculiarità del loro carattere; indica nell'energia e nella tenacia, nelle impennate d'orgoglio dopo le sconfitte, nel coraggio a tutta prova, insomma in una superiorità di carattere morale le ragioni del trionfo dei Romani sugli avversari. La teoria etnico-politica, ispirata da Posidonio, secondo la quale il destino dei popoli è scritto nel loro carattere fisico e morale, che dipende a sua volta in larga misura dal clima e dall'ambiente, è alla base dell'opera di Appiano e sottolinea gli stretti rapporti che uniscono geografia e storia.

Del tutto diversa è l'intenzione della Geōgraphikḕ yphḗgēsis (Guida geografica, ma più nota come Geografia), composta verso il 170 da Tolomeo, che fu di volta in volta astronomo, astrologo, geografo o, per meglio dire, cartografo. Il suo scopo era quello di tracciare una carta il più possibile affidabile e completa del mondo conosciuto, che allora si era esteso a est fino alla Cina e a sud fino al Sahara, e anche di dare, a chiunque lo desiderasse, tutti gli elementi utili per tracciare da sé, ex novo, carte generali o locali, invece di accontentarsi di ricopiare indefinitamente schemi che si deformavano da una copia all'altra.

Tolomeo redasse la Geografia negli ultimi anni della sua vita, molto dopo la summa astronomica Syntaxis mathematica in otto libri, più nota con il titolo di Almagesto, ereditato dagli arabi, e dopo la summa astrologica in quattro libri, detta appunto Tetrabiblos. Queste due opere, però, parlavano già del globo terrestre e del mondo abitato. Il Libro I dell'Almagesto tenta di dimostrare le proposizioni che Strabone dava come evidenti perché insegnate dalla fisica: che il cielo, di forma sferica, ruota attorno a un asse centrale; che la Terra, immobile al centro del cielo, è un punto in rapporto agli spazi celesti; che i pianeti hanno un moto proprio in senso inverso a quello del cielo. Gli argomenti addotti, quasi gli stessi che si ritrovano in Cleomede e Teone di Smirne, due autori del II sec., fanno pensare che scettici di ogni tipo avessero demolito la fiducia nel ragionamento matematico; Sesto Empirico se ne fece eco alla fine del secolo nei suoi trattati Adversus mathematicos. Nel Libro II, Tolomeo indica come, a partire da un solo parametro di latitudine (durata del giorno più lungo, altezza del polo, rapporto tra lo gnomone e la sua ombra ai solstizi e agli equinozi, stelle situate sul circolo circumpolare), sia possibile mediante il calcolo determinare tutti gli altri, completando poi la dimostrazione con un'esposizione dei "caratteri propri a ciascun parallelo" (Syntaxis mathematica, II, 6) alla maniera di Ipparco. Mentre quest'ultimo nella tavola dei climi considerava, dall'equatore al polo, 90 paralleli separati da 1°, Tolomeo prende come criterio di progressione la durata del giorno più lungo ed esamina i paralleli successivi nei quali si constata per il giorno solstiziale un aumento di un quarto d'ora per i primi 25 a partire dall'equatore, di mezz'ora per i 4 successivi, di un'ora per gli altri 4, l'ultimo dei quali è il Circolo polare. Oltre questo circolo, "per semplice curiosità intellettuale", Tolomeo considera 6 paralleli per i quali la differenza tra i giorni più lunghi si misura in mesi, fino al polo, dove il giorno dura 6 mesi. Alla fine del Libro II, dedicato allo studio del globo terrestre, si annuncia il progetto di "determinare in longitudine e in latitudine le posizioni delle città più notevoli dei vari paesi, secondo calcoli basati sui fenomeni celesti in ciascuna di queste; questo genere di tavola, piuttosto particolare e di pertinenza della geografia, sarà oggetto di una presentazione indipendente" (ibidem,12). Il progetto sarà realizzato nella Geografia e consiste essenzialmente in una enumerazione di città, elencate per regioni, fornite delle loro coordinate.

Così come nell'Almagesto Tolomeo cominciava lo studio delle latitudini dall'equatore "che costituisce pressappoco il confine meridionale del quarto di sfera occupato dal nostro mondo abitato" (ibidem, 6, 1), nella Tetrabiblos, votandosi a una specie di etnografia astrologica, adotta la visione tradizionale di una carta del mondo divisa in una metà Nord e una metà Sud dal Mediterraneo e dalla catena montuosa del Tauro in Asia, e in una metà Est e una Ovest dal Golfo Arabico, dal Mar Egeo, dal Mar Nero e dal Mar d'Azov. Nella Geografia il mondo abitato risulta prolungato verso sud ben oltre l'equatore. Il fatto è che nel frattempo Tolomeo aveva preso conoscenza dei lavori di Marino di Tiro, che aveva qualche anno più di lui. Marino di Tiro pensava, sulla scorta di quanto riportato dai commercianti che avevano seguito la via della seta, che il mondo abitato, dall'Iberia alla Cina, si estendesse su circa 225° di longitudine (contro i 120° di Eratostene). Se prendeva come estremo nord il parallelo di Tule (che situava a 63° N e non a 66° come Eratostene), prolungava il mondo conosciuto a sud fino al tropico d'inverno, a 24° S. Tolomeo rivede al ribasso le cifre di Marino: con calcoli complicati e approssimazioni piuttosto discutibili fissa la lunghezza del mondo conosciuto in 180° (e ciò facilita molte cose) e la larghezza in circa 80°, dal parallelo di Tule (che situa a 63° N come Marino) a quello che nell'emisfero sud è il simmetrico rispetto all'equatore di quello di Meroe, e che dunque si trova a 16°30′ S. Svaniva così il sogno dei quattro mondi abitati posti simmetricamente sul globo terrestre che Cratete aveva così bene illustrato: il "nostro" ne occupava ormai da solo molto più di un quarto.

Restava da trovare il procedimento più 'comodo' per dare del mondo conosciuto un'immagine che fosse la più eloquente possibile. Anche se la rappresentazione su un globo restava teoricamente la migliore, la carta tracciata su un piano era da molto tempo preferita dai geografi. Eratostene, per il quale il mondo abitato, situato interamente nell'emisfero nord, occupava soltanto 120° in longitudine e 54° in latitudine, aveva scelto la rappresentazione ortogonale, nella quale i meridiani risultano rette parallele tra loro e perpendicolari ai paralleli, allineando questi ultimi sul parallelo di Rodi (36° N), che è lungo 4/5 dell'equatore. La rappresentazione ortogonale, utilizzata anche da Marino di Tiro, è criticata aspramente da Tolomeo che le contesta di non essere fedele alla realtà (o all'immagine che la rappresenta sulla sfera solida), e di esserlo tanto meno quanto più grande è la superficie da rappresentare. Raccomanda perciò di adottare la proiezione conica semplice, nella quale, a partire da un polo fittizio, i paralleli diventano archi di cerchio e i meridiani rette che s'incontrano in questo polo fittizio ‒ ma bisogna allora 'spezzarli' all'equatore per evitare una distorsione troppo grande nell'emisfero sud ‒ oppure la proiezione conica arrotondata, che, per evitare questa rottura all'equatore, incurva i meridiani attorno al meridiano centrale. Basta poi disporre sulla carta i luoghi elencati assieme alle loro coordinate nei Libri II, III, IV, V, VI e VII (è più facile farlo nel caso della proiezione conica semplice), e affidare a un disegnatore il compito di tracciare le coste, i fiumi, le catene montuose e le frontiere tra i diversi paesi. Per le carte regionali Tolomeo raccomanda ovviamente di ricorrere alla proiezione ortogonale, che ben si adatta a rappresentare piccoli spazi. Forte di questi insegnamenti chiunque, ormai, poteva disegnare la carta del mondo abitato e le carte locali, ed è ciò che faranno con grande entusiasmo i pittori e i cartografi del Rinascimento italiano quando scopriranno il testo di Tolomeo nella traduzione latina del fiorentino Iacopo Angeli da Scarperia (1408 ca.). Il geografo alessandrino aveva pienamente raggiunto il suo scopo.

Queste carte, che ebbero un successo così duraturo, si basano però su un'errata misura della circonferenza terrestre. Invece di adottare il valore di 252.000 stadi, trovato con grande accuratezza da Eratostene, approvato da Ipparco e ripreso in seguito da molti fino a Giovanni di Sacrobosco nel trattato De sphaera (XIII sec.), Tolomeo sceglie i 180.000 stadi suggeriti da Posidonio come una delle misure possibili, considerandola, a torto, come la più generalmente accettata. In verità questo valore ha il vantaggio di semplificare i calcoli: 1° di meridiano vale 500 stadi invece dei 700 di Eratostene e 1° di longitudine sul parallelo di Rodi 400 stadi. È da supporre che Tolomeo abbia fatto questa scelta per la sua "comodità", parola a cui è affezionato. Il risultato è un allungamento smisurato del mondo abitato e delle sue varie parti: per aver dato ascolto a Tolomeo, il Mediterraneo resterà sovradimensionato fino al XVIII secolo.

La Geografia di Tolomeo, riprodotta nel XV sec. in un gran numero di esemplari illustrati da magnifiche carte, diffuse l'idea (già avanzata da Posidonio) che salpando da Gades in direzione delle Indie e navigando sempre verso ovest la distanza da percorrere fosse molto inferiore alla lunghezza del mondo abitato, perché a est la Terra sembrava continuare oltre il meridiano 180° E (misurati a partire dal meridiano delle Isole Fortunate, oggi Isole Canarie, scelto come origine). Questa distanza era molto minore se si dava ascolto a Marino di Tiro, che attribuiva al continente eurasiatico una lunghezza di 225°. In realtà vi sono circa 135° di longitudine tra le Canarie e Pechino, circa 110° dalle Canarie alla foce del Gange. Eratostene, che attribuiva al mondo abitato circa 120° di lunghezza, era molto più vicino al vero di Tolomeo. Peraltro, l'opera di Eratostene, andata perduta, probabilmente fu dapprima soppiantata da quella di Strabone e poi da quella di Tolomeo, ed è quest'ultima che ha influenzato, fino ai tempi moderni, la rappresentazione dei tre continenti conosciuti dagli antichi.

Tolomeo ha comunque iniziato la tradizione degli "atlanti". Anche se questo nome per designare una raccolta di carte geografiche è stato utilizzato per la prima volta da Gerardo Mercatore (Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi, Amsterdam, 1607), l'idea stessa di raccolta sistematica composta da una carta generale seguita da carte regionali che coprono tutto il mondo conosciuto e concepita secondo un piano complessivo, si deve senza dubbio a Tolomeo.

Conclusioni

La geografia, studio e, insieme, rappresentazione della Terra, è quindi nata e cresciuta in Grecia ad Alessandria e nel mondo greco-romano, e si è sviluppata tra due poli. Un polo è costituito dalla carta geografica, che nella sua aridità geometrica offre una visione istantanea della terra abitata e ne diffonde con facilità la conoscenza per mezzo della visione diretta. L'altro polo è costituito dalla descrizione letteraria, con i contenuti più diversi, quali i rilievi, il clima, l'ambiente culturale e sociale, le risorse in prodotti del suolo o del sottosuolo, le vie di comunicazione, le forme di governo, l'eredità del passato, e così via, che nei vari luoghi di residenza condizionano la vita dell'uomo.

Il contributo innovatore dei Greci si è fatto sentire soprattutto nel campo della geografia matematica. Come sottolinea Strabone,

il geografo deve, per le nozioni che gli servono come punto di partenza, affidarsi ai geometri che hanno misurato tutta la Terra, questi agli astronomi, e questi ultimi ai fisici […] Ciò che la fisica insegna si può formulare così: l'Universo e il cielo sono sferici; esiste un'attrazione dei gravi verso il centro; situata attorno a questo centro la Terra, che forma una sfera con lo stesso centro di quella del cielo, resta immobile, come l'asse che attraversa la Terra e il cielo nel mezzo; il cielo ruota attorno a essa e all'asse, da est a ovest, trascinando le stelle fisse a velocità simili in rapporto ai poli. (Strabone, Geographica, II, 5, 2)

Da questo punto di partenza, la geometria della sfera ha permesso ai Greci, fin dal IV sec. a.C., di conoscere quasi tutto del globo terrestre: le zone climatiche, il Sole di mezzanotte, gli antipodi, l'equatore e i tropici (proiezioni dei cerchi celesti corrispondenti), e anche il circolo polare, considerato come la proiezione del "cerchio descritto dal polo dello Zodiaco durante la rivoluzione diurna dell'Universo" (ibidem, 5, 43). È la geometria della sfera che ha fornito a Eratostene i mezzi per misurare la circonferenza terrestre, e situare di conseguenza e correttamente il mondo abitato sulla superficie del globo. È grazie a essa che Ipparco e Tolomeo hanno potuto offrire un quadro completo dei fenomeni relativi alle varie latitudini.

Grazie a Eratostene, fin dal III sec. a.C. ca., si aveva a disposizione una carta generale del mondo conosciuto stabilita per la prima volta su basi scientifiche, con una rete ancora molto rada di paralleli e di meridiani in proiezione ortogonale attorno a due assi coordinati. Eratostene si era posto il problema della proiezione di una superficie sferica su un piano, e aveva scelto, malgrado i difetti che presentava, la soluzione che gli sembrava più pratica.

Ma è senza dubbio a Tolomeo che si deve la teoria più elaborata e più precisa sui tipi di proiezione atti a fornire l'immagine meno infedele del mondo abitato. Egli tentò anche di rappresentare il mondo abitato su un globo terrestre posto al centro della cosiddetta 'armilla' o 'sfera armillare', lo strumento astronomico costituito da una serie di cerchi metallici rappresentanti i principali circoli della sfera celeste (equatore, meridiano e parallelo locale, cerchio orario, ecc.) e usato per cercare di determinare le coordinate altazimutali di un astro.

Questi risultati esemplari non devono far dimenticare le ricerche di geografia fisica, molto meno note perché la maggior parte dei testi che ne parlavano sono andati perduti. Le descrizioni delle maree oceaniche, la spiegazione delle correnti inverse negli stretti e le ipotesi che miravano a ricostruire la storia geologica del bacino del Mediterraneo, mostrano tuttavia che anche su questo punto i geografi greci avevano compiuto un importante lavoro di osservazione e di riflessione e avanzato argomenti molto pertinenti.

La descrizione completa del mondo abitato che ha dato Strabone verso la fine del regno di Augusto e che, fortunatamente, si è conservata rappresenta, per la ricchezza della documentazione, la molteplicità delle informazioni raccolte, la chiarezza d'assieme dell'esposizione ‒ malgrado qualche imprecisione di dettaglio ‒ uno strumento insostituibile per valutare il livello scientifico dell'epoca e cogliere dal vivo la quantità e la varietà di conoscenze che erano allora a disposizione dell'uomo colto. Strabone fu uno dei primi a sottolineare il ruolo politico, inteso nel senso nobile della parola, della geografia "tutta orientata alla pratica di governo" (ibidem, I, 1, 16).

Nel corso di questi sette-otto secoli di ricerche i Greci fecero della geografia una vera e propria scienza, fondata essenzialmente sulla geometria e l'astronomia, ma non priva di attenzione per gli aspetti fisici e umani. I manuali di divulgazione favorirono la diffusione delle nozioni teoriche proprie della geometria della sfera; i poeti, gli storici e i filosofi diffusero ciascuno a suo modo le conoscenze sul mondo abitato, i continenti, i 'climi', le caratteristiche dei diversi paesi. Il potere centrale, sia ad Alessandria, dove aiutò con tutto il suo peso la ricerca intellettuale, sia a Roma, dove la preoccupazione principale era l'organizzazione dell'impero, contribuì non poco alla diffusione delle conoscenze geografiche, sia teoriche sia pratiche.

Si formò così una tradizione che, unendo la geometria della sfera, la cartografia, lo studio dei movimenti del suolo e delle acque e l'etnografia, ma anche la scienza politica, avrebbe dato un preciso orientamento alla geografia occidentale. La visione del mondo elaborata dai Greci, dimenticata per molti secoli, è passata nel Medio Oriente, dove la scienza araba ne ha saputo accogliere, conservare e trasmettere l'eredità. Imponendosi con forza al mondo occidentale nel Rinascimento essa ha reso possibile l'evoluzione che ha portato alle grandi scoperte geografiche.

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