Scienza indiana: periodo vedico. Discipline ausiliarie dei Veda

Storia della Scienza (2001)

Scienza indiana: periodo vedico. Discipline ausiliarie dei Veda

Christopher Minkowski
Takao Hayashi
David Pingree

Discipline ausiliarie dei Veda

Testi per i rituali solenni (Śrautasūtra)

di Christopher Minkowski

All'interno dello schema tradizionale di classificazione della letteratura vedica, gli Śrautasūtra, 'le raccolte di aforismi sui rituali solenni', formano parte del kalpa (lett. 'regola'), una delle sei discipline ausiliarie (lett. 'membra') del Veda (vedāṅga). Le altre cinque membra del Veda consistono, secondo l'enumerazione tradizionale, in grammatica (vyākaraṇa), analisi semantica (nirukta), fonetica (śikṣā), metrica (chandas) e astronomia calendaristica (jyotiṣa). Le membra del Veda sono così denominate poiché il loro scopo è sostenere i Veda dai diversi lati. La letteratura che rientra nella categoria di kalpa comprende gli Śrautasūtra, i Gṛhyasūtra ('le raccolte di aforismi sui rituali domestici') e i Dharmasūtra ('le raccolte di aforismi sulla legge religiosa e morale'). La letteratura del kalpa sostiene i Veda presentando una descrizione sistematica e completa delle pratiche rituali, le quali costituiscono il nucleo dei Veda.

Gli Śrautasūtra sono chiamati in questo modo poiché trattano i sacrifici solenni, o śrauta che significa letteralmente 'attinente alla rivelazione' (śruti). Dal momento che designa una classe di riti e testi, il termine deve essere compreso in contrapposizione a gṛhya, che indica invece i riti e testi 'domestici'. Pertanto, mentre gli Śrautasūtra descrivono riti quali i sacrifici di Luna nuova e di Luna piena e quelli del soma (vale a dire del succo della pianta omonima, la più importante materia sacrificale della religione vedica), i Gṛhyasūtra descrivono, per esempio, 'riti di passaggio' come la cerimonia di matrimonio oppure d'imposizione del nome a un bambino. Mentre i sacrifici solenni rappresentano il tema principale della rivelazione, cioè delle Saṃhitā ('le raccolte di inni vedici') e dei Brāhmaṇa, soltanto alcuni elementi dei riti familiari appaiono, in modo marginale, nei testi della rivelazione.

Gli Śrautasūtra rappresentano probabilmente il più antico esempio dello stile letterario dei sūtra, termine che significa letteralmente 'filo'; sebbene non esista una spiegazione universalmente accettata del termine, in generale si ritiene che esso faccia riferimento alla concisione della prosa. Quest'ultima si presenta infatti nei sūtra ‒ contrariamente a quanto avviene nei Brāhmaṇa ‒ sobria nella lingua e ponderata nella scelta delle parole, come se ciascuna singola espressione fosse una gemma, attentamente tagliata, da infilare su un filo, o forse come se ciascuna espressione fosse un filo sottile col quale è tessuta la grandiosa stoffa di un trattato. Sūtra è pertanto generalmente tradotto con 'aforisma' o, ancora, 'raccolta di aforismi'.

Esistono molte diverse tradizioni di sūtra relativi al kalpa (Kalpasūtra). Di essi, quelli meglio conservati sono stati tramandati in serie nelle quali uno Śrautasūtra, un Gṛhyasūtra, e un Dharmasūtra sono raccolti assieme e generalmente attribuiti allo stesso autore. Per esempio, il kalpa di Baudhāyana comprende tutti e tre i tipi di sūtra, ciascuno attribuito a Baudhāyana. Ciascun 'fascio' di Kalpasūtra appartiene a una particolare tradizione di recensione testuale (śākhā) di un certo Veda. Il Baudhāyana e l'Āpastamba, per esempio, sono ambedue sūtra affiliati alla śākhā Taittirīya del Kṛṣṇayajurveda (Veda nero delle formule sacrificali).

I Kalpasūtra sono divenuti i principali testi di riferimento per l'esecuzione e la trasmissione delle tradizioni rituali vediche, e la tarda letteratura rituale vedica si muove in buona parte sulla falsariga della pratica delineata da questi testi. Un Kalpasūtra si pone come l'autorità che governa ciascun caraṇa, o scuola vedica d'esecuzione. Un'importante caratteristica dell'identità rituale di un brahmano osservante (vaidika) è pertanto determinata dalla scuola d'esecuzione alla quale egli dichiara di appartenere e dalla recensione testuale (śākhā) alla quale egli fa riferimento. All'inizio del rito vedico, quindi, śākhā e caraṇa del brahmano devono essere dichiarate.

Sebbene gli Śrautasūtra siano strettamente collegati alle Saṃhitā e ai Brāhmaṇa, essi non sono considerati dalla tradizione come rivelazione (śruti), ma opera di uomini mortali, sia pure dalle capacità eccezionali. Questa consapevolezza tradizionale di uno spartiacque tra i sūtra e i testi della rivelazione riflette il fatto che, dal punto di vista storico, i sūtra rappresentano una letteratura più recente, prodotta nel periodo successivo al completamento del canone degli stili letterari della rivelazione. È infatti attorno all'VIII sec. a.C. che con buona probabilità fu iniziata la composizione degli Śrautasūtra, che fanno parte della prima letteratura postvedica. Vi è ragione di ritenere, inoltre, che taluni Śrautasūtra siano più recenti di altri, e che almeno alcuni siano opera di più mani. Non tutti gli Śrautasūtra sono composti in uno stile coerente con quanto generalmente richiesto dallo stile dei sūtra; è possibile dunque considerare l'emergere di uno stile dei sūtra intenzionale e 'scientifico' come il risultato di un'evoluzione storica.

La tradizionale distinzione tra śruti e non śruti, ossia tra letteratura rivelata e letteratura d'origine umana, comporta una difficoltà nella comprensione della storia degli Śrautasūtra. Tale distinzione implica infatti la predominanza della discontinuità tra generi letterari; da questo punto di vista, per gli autori degli Śrautasūtra una rivelazione non è più possibile in quanto nel redigere i loro testi essi non fanno altro che setacciare i Veda alla ricerca di indicazioni su che cosa costituisce la corretta pratica rituale. Gli autori degli Śrautasūtra sono quindi, secondo questa visione, i primi praticanti della tradizione esegetica della scuola della Mīmāṃsā, nella quale i Veda sono oggettivati come letteratura sacra e immutabile. Tale idea di una spaccatura tra letteratura śruti e non śruti è stata ereditata dalle categorie utilizzate dagli studiosi moderni per essere adottata come spartiacque tra vedico e non vedico. Tuttavia, un'analisi dei contenuti degli Śrautasūtra ‒ i modi in cui questi testi trattano i problemi teorici e pratici dell'esecuzione e l'incoerenza delle scelte operate ‒ mostra che la tradizione rituale era ancora viva e stava assumendo la sua forma, essendo sottoposta agli stessi tipi di processi di trasformazione e riconfigurazione già ravvisabili nelle Saṃhitā e nei Brāhmaṇa. Gli Śrautasūtra possono dunque essere visti come operanti entro una tradizione religiosa rituale viva e in evoluzione, e non c'è alcuno spartiacque sostanziale che separi i sūtra dagli stadi iniziali della tradizione vedica.

Vi sono notevoli differenze tra i vari sūtra, e anche tra sūtra appartenenti alla stessa recensione testuale di un Veda. La natura delle differenze tra i sūtra può essere spiegata dall'evoluzione di diverse soluzioni pratiche a problemi d'esecuzione, specialmente laddove la letteratura sacra lasci nell'indefinito quanto costituisce la pratica corretta. Le scuole d'esecuzione tendevano dunque a distribuirsi geograficamente in diverse parti dell'India. Alcuni Śrautasūtra, specialmente i più tardi, sono ben consapevoli delle pratiche rituali tipiche di altre scuole d'esecuzione, arrivando ad adottare pratiche appartenenti a una diversa recensione testuale; altre scuole, invece, sembrano essersi evolute in relativo isolamento. A ogni modo, talune scuole conobbero maggiore fortuna e divennero predominanti in diverse regioni dell'India; di conseguenza, determinati Śrautasūtra ci giungono in un miglior stato di conservazione.

L'eredità degli Śrautasūtra in relazione alla storia della scienza in India risiede tanto nello stile e nel formato della letteratura, quanto nel suo contenuto. Una volta sviluppatosi nelle tradizioni śrauta ('attinente alla rivelazione') e grammaticale, il potente stile organizzativo dei sūtra, con le sue tassonomie gerarchiche, le sue metaregole e i suoi termini tecnici attentamente definiti, la sua organizzazione razionalizzata e razionalizzante dell'argomento, ebbe un'influenza formativa sulla gran parte delle letterature scientifiche indiane. Tra esse, l'unica priva di una letteratura di sūtra, quella astronomica e astrologica, avrebbe comunque tratto vantaggio dall'uso dell'ordinata struttura dello stile dei sūtra.

Lo stile dei sūtra e la tassonomia dei sacrifici

Lo stile testuale dei sūtra fu probabilmente dapprima elaborato nell'ambito delle tradizioni attinenti alla rivelazione, ossia tradizioni śrauta. Qui tale stile emerge quale forma tipica di codifica delle pratiche rituali vediche. Nell'ambito della tradizione grammaticale, presumibilmente nello stesso periodo, ebbe luogo uno sviluppo simile, a questo collegato.

La principale differenza tra i sūtra e la prosa dei Brāhmaṇa più antica risiede nel valore attribuito alla concisione e all'organizzazione sistematica. Furono probabilmente i ritualisti a comprendere per primi il valore dell'elusione della ridondanza; essi dovevano infatti formulare descrizioni esaurienti di prolungati rituali, caratterizzati da un gran numero di azioni ripetute e da sequenze di queste in cui un solo elemento variava. La concisione nella descrizione fu accresciuta dalla creazione di termini tecnici, come anche dall'elaborazione di modi abbreviati di fare riferimento ai mantra vedici, i quali erano appunto conosciuti a memoria e richiamabili mediante una breve indicazione; inoltre, assieme con gli Śrautasūtra furono create regole d'interpretazione inequivocabili di questi termini tecnici e abbreviazioni e, ampliando il medesimo principio, furono elaborate regole (paribhāṣā) che governassero l'interpretazione delle altre regole esposte nei sūtra. Molti sūtra dedicano una particolare sezione all'esposizione di queste metaregole.

L'organizzazione sistematica degli Śrautasūtra non si limita a creare concisione nella descrizione al livello basilare, ma si estende alla struttura globale del testo. Questa organizzazione tecnica dei sūtra corrisponde a un'organizzazione dei riti, e i due processi sono parte della medesima elaborazione intellettuale. Come si è già notato, un'organizzazione formale dei riti vedici si riscontra già nel periodo 'classico' della letteratura vedica con la concettualizzazione dei riti in schemi di modello e loro varianti. Anche nella Saṃhitā dello Śuklayajurveda (Veda bianco delle formule sacrificali) l'ordine globale di esposizione appare razionalizzato. Nei sūtra questo approccio prescientifico appare sotto forma di classificazione gerarchica, una sorta di tassonomia della pratica rituale. I riti śrauta ('solenni') sono dunque suddivisi in categorie sulla base di diversi principî. Un criterio di classificazione è costituito dalle sostanze che sono offerte nel sacrificio e dalla complessità del sacrificio eseguito. Un altro principio è quello di raggruppare un sacrificio modello con quelli che saranno descritti come sue varianti. Un altro criterio ancora consiste nel distinguere riti obbligatori da riti eseguiti soltanto in particolari occasioni oppure anche solamente facoltativi.

Negli Śrautasūtra l'ordine di descrizione di un rituale segue generalmente le Saṃhitā e i Brāhmaṇa, allo stesso tempo abbreviandone e rimuovendone la ridondanza della descrizione laddove possibile. L'ordine di presentazione più generale, ossia l'ordine di presentazione dei sacrifici, procede usualmente dal più semplice al più complesso, quando non entrino in gioco altri principî tassonomici. In tal modo, se da una parte è assecondata la predilezione dei sūtra per l'economia della descrizione, dall'altra i riti sono disposti più o meno nell'ordine in cui essi saranno eseguiti nel corso della carriera religiosa del sacrificatore śrauta.

I sacrifici del havis

Se la distinzione fondamentale tra le categorie rituali è quella tra riti solenni (śrauta) e domestici (gṛhya), nell'ambito dei riti śrauta la differenziazione principale è costituita dalle sostanze offerte. In questo caso i riti del soma (il succo della pianta sacra) sono distinti dai sacrifici del havis, le oblazioni di prodotti agricoli.

I riti del havis sono più semplici dei riti del soma e un sacrificatore śrauta, nella sua carriera religiosa, eseguirà i riti del havis (con l'eccezione della sautrāmaṇī) prima d'intraprendere qualunque rito del soma. Pertanto tali riti sono definiti 'pre-soma' (prāksoma). Gli Śrautasūtra, in accordo con il normale avanzamento della carriera religiosa, descrivono i riti sacrificali del havis prima dei sacrifici del soma.

I riti del havis sono canonicamente elencati in numero di sette, sebbene l'ultimo della lista appaia come aggiunto in un secondo tempo soltanto al fine di arrivare a detto numero. Essi sono: (1) i darśapūrṇamāsau, 'sacrifici di Luna nuova e di Luna piena' eseguiti ogni mese lunare; (2) l'agnyādheya, 'instaurazione preliminare dei fuochi sacri' eseguita all'inizio della carriera śrauta di un sacrificatore; (3) l'agnihotra, 'adorazione quotidiana dei fuochi sacri' eseguita all'alba e al tramonto; (4) l'āgrāyaṇa, 'offerta annuale dei primi frutti del raccolto' eseguita ogni anno in autunno; (5) il paśubandha, 'sacrificio di animali' eseguito una o due volte ogni anno (generalmente con l'immolazione di una capra); (6) il cāturmāsya, 'sacrificio stagionale' eseguito in una sequenza annuale una volta ogni quattro mesi (in alternativa i sacrifici possono essere eseguiti tutti assieme una volta l'anno); (7) la sautrāmaṇī, 'offerta di vino di riso' eseguita in genere dopo determinati sacrifici del soma, sebbene almeno in linea di principio possa essere fatta indipendentemente.

I sacrifici di Luna nuova e di Luna piena sono descritti per primi in molti Śrautasūtra, poiché rappresentano il sacrificio modello, detto iṣṭi, di molti altri sacrifici del havis. Il sacrificio di animali, approssimativamente basato sul modello dell'iṣṭi, divenne esso stesso modello di un'intera classe di sacrifici facoltativi di animali.

Sacrifici del soma

Soma è sia il nome di una pianta mitica che cresce in regioni selvagge sia quello del succo prodotto dalla spremitura della pianta, che, secondo le credenze, conferisce l'immortalità. I sacrifici del soma, nei quali la pianta è spremuta e il succo è offerto agli dèi e bevuto dagli esecutori con l'accompagnamento dei versi vedici, sono i riti più importanti negli Śrautasūtra. Ci sono molti sacrifici del soma e sono classificati dagli Śrautasūtra in primo luogo a seconda della lunghezza; la divisione è tra quelli che richiedono un giorno di spremitura del soma (ekāha), quelli che richiedono da due a dodici giorni di spremitura del soma (ahīna) e quelli che durano più di dodici giorni (sattra).

I riti del soma di un giorno sono ulteriormente suddivisi: da una parte si hanno quelli appartenenti alla classe jyotiṣṭoma, dall'altra quelli, come il goṣṭoma, che appaiono in primo luogo come elementi di riti molto più lunghi. I riti jyotiṣṭoma sono elencati in numero di sette e distinti essenzialmente in base alla lunghezza. Il sacrificio modello tra quelli del soma jyotiṣṭoma è l'agniṣṭoma, descritto alquanto dettagliatamente in tutti gli Śrautasūtra. L'agniṣṭoma prevede tre spremiture del soma ‒ al mattino, a mezzogiorno e alla sera ‒ nelle quali si hanno rispettivamente cinque, cinque e due cicli; ciascun ciclo consiste in recitazioni ṛgvediche e sāmavediche, seguite dalle offerte del soma agli dèi e dalla consumazione degli avanzi del soma non offerto. Altri riti della classe jyotiṣṭoma sono prolungamenti dell'agniṣṭoma. Alcuni di essi sono descritti nei sūtra più attentamente e ciò suggerisce quindi, in accordo con le testimonianze storiche, che alcuni di questi riti erano eseguiti con maggiore regolarità. I più notevoli tra gli altri riti jyotiṣṭoma sono il sacrificio ukthya, che ha in tutto quindici cicli, il ṣoḍaśin che ne ha sedici, e l'atirātra, che si prolunga per un totale di ventinove cicli fino all'alba seguente.

I riti che durano da due a dodici giorni (ahīna), sono costituiti da una serie di riti di un giorno, variamente configurati, e hanno come requisito che il rito dell'ultimo giorno sia un atirātra. Il modello di questi sacrifici non è stato chiaramente individuato. Gli Śrautasūtra dedicano molto spazio a un rito della durata di sei giorni detto pṛṣṭhya ṣaḍaha. I meglio conosciuti tra gli ahīna, a ogni modo ‒ e ampiamente descritti negli Śrautasūtra ‒ sono i sacrifici reali, specialmente il rājasūya ('consacrazione reale') simile in qualche modo a una cerimonia d'incoronazione, e l'aśvamedha ('sacrificio del cavallo') mediante il quale un re si proclama imperatore dei re vicini.

La terza categoria di sacrifici del soma è costituita dai sattra, 'sessioni sacrificali', i quali durano un minimo di dodici giorni. Il modello del sattra è un sacrificio del soma di dodici giorni detto dvādaśāha. Ampiamente descritto in molti Śrautasūtra, comunque, è il gavāmayana, della durata di un anno di 360 giorni. In alcuni sūtra è inoltre descritto un sattra destinato a durare mille anni. Tale rito è per noi un indizio del fatto che gli Śrautasūtra non trattano solamente descrizioni pratiche di forme viventi di sacrifici, ma implicano anche un interesse puramente teorico.

Sebbene i sacrifici del soma siano generalmente descritti negli Śrautasūtra in ordine di lunghezza crescente, in modo da seguire l'ordine di esecuzione nella carriera di un sacrificatore, tale carriera non è mai compiutamente realizzabile da un essere umano. L'esecuzione anche di un singolo sacrificio del soma costituirebbe un'impresa dispendiosa e lunga, possibile soltanto a un ristretto numero di esecutori scrupolosi. Pure l'esecuzione del più semplice sacrificio del soma determina una trasformazione permanente dell'identità religiosa e dello status sociale. Chiunque esegua un agniṣṭoma è detto 'consacrato' (dīkṣita), titolo che talvolta i discendenti hanno conservato in epoca moderna come cognome. È assai improbabile, a ogni modo, che i più lunghi sacrifici del soma fossero eseguiti regolarmente. Per questa ragione si deve ritenere che il livello più alto degli Śrautasūtra, i quali descrivono varietà potenzialmente infinite di lunghi sacrifici del soma, costituisca una branca della scienza rituale teorica e non applicata. Nella formulazione della descrizione di queste molteplici sessioni sacrificali è possibile vedere all'opera i teorici del rituale; essi riflettono su relazioni astratte, elaborando tutte le diverse possibili permutazioni numeriche di azioni rituali e recitazioni vediche.

Sacrifici obbligatori, d'occasione, facoltativi

Un'altra caratteristica della tassonomia dei riti vedici risiede nella distinzione tra sacrifici fissi od obbligatori e gli altri generi di sacrifici. Quelli sopra descritti sono considerati nitya, 'obbligatori' nel senso che devono essere eseguiti in tempi prestabiliti ‒ ogni giorno, o quindicina, o stagione, oppure anno. Altri riti sono eseguiti in determinate occasioni o anche per esaudire particolari desideri del sacrificatore. I Gṛhyasūtra contemplano un tipo di sacrifici d'occasione, detti naimittika, come per esempio le cerimonie necessarie al trasferimento in una nuova casa oppure alla nascita di un bambino. Un ulteriore genere di sacrifici d'occasione comprende invece le espiazioni, dette prāyaścitta, le quali si rendono necessarie allorché si commette un errore in una pratica rituale ispirata dai Veda.

Esiste poi un genere di sacrifici che sono eseguiti perché il committente consegua una meta particolare. Mentre ci si attende che i riti obbligatori siano eseguiti semplicemente in virtù dell'obbligo sacro, questi sacrifici attinenti alla sfera del desiderio (kāmya) sono intrapresi in vista di un particolare fine. La tradizione tarda considera tali sacrifici come meno meritevoli d'esecuzione. Alcuni generi di sacrificio facoltativo sono già elencati nelle Saṃhitā. Taluni sono variazioni del formato dell'iṣṭi, per esempio il putrakāmeṣṭi, il rito per coloro che desiderano la nascita di un figlio. Allo stesso modo si hanno sacrifici facoltativi d'animali. Per esempio, la Taittirīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Taittirīya; 2.1.1.1) decreta che colui il quale desidera la prosperità deve offrire una vittima animale bianca alla divinità Vāyu.

Gli Śrautasūtra nel loro sviluppo storico

La storia degli Śrautasūtra non è stata ancora pienamente compresa; ciò è in gran parte dovuto al fatto che i sūtra rituali non hanno attratto l'attenzione degli studiosi tanto quanto altri testi sanscriti. Ciascun sūtra appartiene a una tradizione di recensione testuale (śākhā) vedica; tale appartenenza è assai remota e delinea la storia basilare degli Śrautasūtra, ciascun sūtra è infatti emerso dalla tradizione rituale che circondava una particolare recensione testuale vedica. A talune śākhā è affiliato un solo sūtra, mentre ad altre ne sono affiliati diversi. La śākhā Taittirīya del Kṛṣṇayajurveda (Veda nero delle formule sacrificali), in particolare, presenta sei sūtra giunti fino a noi.

La relazione tra un sūtra e la sua śākhā non è, a ogni modo, univoca. Sūtra appartenenti alla medesima śākhā possono divergere significativamente nel trattamento dei riti. In alcuni casi un sūtra adotterà una pratica riscontrabile unicamente nella letteratura di un'altra śākhā, laddove i testi della propria śākhā tacciono, o anche laddove quei testi ingiungono una pratica diversa. Le Saṃhitā e i Brāhmaṇa non descrivono la pratica rituale in maniera esauriente e sistematica, al livello di dettaglio richiesto dai sūtra, né si suppone che lo facciano. Data l'indeterminatezza circa la pratica di molti punti dei testi della rivelazione (śruti), si ha sempre l'ammissibilità di una varietà di pratiche; sia che essa derivi da una preesistente molteplicità d'opzioni d'esecuzione, sia che sia conseguenza della molteplicità di scelte interpretative propria degli Śrautasūtra, il risultato è lo stesso; gli Śrautasūtra presentano una varietà di pratiche rituali, che, sebbene simili per molti versi, variano significativamente nella scelta di mantra per azioni particolari, nella sequenza delle azioni e nell'inclusione o esclusione d'interi elementi procedurali.

Una datazione della letteratura degli Śrautasūtra è difficoltosa, né è stata stabilita una cronologia relativa interna, a causa della natura composita dei testi. Ciascun sūtra è attribuito a un autore, ma la relazione tra l'autore e il testo è talvolta di difficile comprensione. Per esempio, lo Śrautasūtra attribuito a Baudhāyana nomina molte autorità rituali, le quali nel testo prescrivono talune pratiche; talora queste pratiche sono preferite a quelle di Baudhāyana stesso e a quest'ultimo, inoltre, si fa a volte riferimento in terza persona, come se non fosse l'autore del sūtra. Richiami simili ad altri insegnanti, dei quali si menziona il nome, oppure ai quali si fa riferimento come ad 'alcuni' (eke), appaiono ugualmente in altri sūtra.

Le spiegazioni dell'esistenza di più autorità rituali sono varie. Quella storica vorrebbe che questi testi siano opera di più mani e che essi rappresentino l'accumulo di molti stadi della storia dell'esecuzione dei riti, ma altre spiegazioni sono possibili; il maggior numero di autorità potrebbe rappresentare il dinamismo di una tradizione rituale vivente (giacché essa è parte della tradizione rituale, come è attestato già per i suoi inizi), o ancora, i maestri dei riti potrebbero rappresentare varie tendenze in opera all'epoca, talora orientate verso un approccio più conservatore e basato sul testo, talora orientate verso un approccio più pragmatico ed essenziale, oppure è possibile che sia la distribuzione regionale delle scuole a rendere conto delle differenze tra le medesime e della varietà di pratiche nominate entro un sūtra. Da questo punto di vista il testo rappresenterebbe il luogo per stabilire il comun denominatore, per così dire, delle pratiche di una determinata scuola d'esecuzione (caraṇa); ogni scuola raggiungerebbe con il suo sūtra il proprio particolare equilibrio tra la tendenza a sistematizzare e a chiarire la descrizione dei riti da una parte, e la tendenza a incorporare pratiche locali e popolari dall'altra.

Commentari e manuali

I commentari e i manuali di pratica (prayoga) rappresentano la letteratura che media tra il sūtra autorevole e la continuazione della sua tradizione d'esecuzione. Si tratta di una letteratura vasta e poco conosciuta. I commentari più antichi risalgono grosso modo all'VIII sec. d.C. Il principale compito dei manuali di pratica consiste nel disfare la compressione 'scientifica' del sūtra in modo che azioni e mantra siano elencati con le ripetizioni e la ridondanza descrittiva originali. In genere tale letteratura non è innovativa, giacché si sforza di conservare il significato e la pratica del sūtra. Lo studio dei testi potrebbe a ogni modo rivelare come le tradizioni viventi abbiano continuato a evolversi, cambiando le loro pratiche e adattandosi a nuove situazioni e a cambiamenti nelle scuole imparentate.

Il grande numero di questi testi, concentrati in particolar modo nelle collezioni di famiglia dei praticanti śrauta, suggerisce che la conoscenza profonda dell'atto śrauta non risiedesse nel solo addestramento basilare del brahmano vaidika ('osservante'); la padronanza dell'atto rituale costituiva invece una particolare materia di studio avanzato. I manuali servivano specialmente come basi per la preparazione, ed erano probabilmente presenti nel recinto sacrificale per la consultazione rapida.

Geometria per la costruzione di altari (Śulbasūtra)

di Takao Hayashi

Gli Śulbasūtra, che costituiscono una parte o appendice degli Śrautasūtra, sono essenzialmente manuali pratici per la preparazione dei siti dove si celebravano i riti śrauta e, in particolare, per la costruzione degli altari del fuoco con mattoni cotti. Il sacrificante (yajamāna) doveva attenersi strettamente alle norme relative alle dimensioni e alle forme dei siti e degli altari; in caso contrario, si credeva che avrebbe perso il merito derivante dalla celebrazione di quel determinato rituale. Da ciò nasceva il nesso fra i riti e la geometria; sarebbe tuttavia errato pensare che gli Śulbasūtra trattino soltanto questioni di geometria applicata, quale la misurazione dei terreni. Infatti, come si vedrà oltre, la geometria concepita dai matematici dello Śulba presenta già alcuni aspetti di elaborazione teorica.

Si ha notizia di oltre dieci Śulbasūtra, che prendono il nome dai fondatori delle varie scuole dello Yajurveda, ma di questi soltanto quattro si sono conservati fino a oggi: Āpastamba-śulbasūtra, Baudhāyana-śulbasūtra, Kātyāyana-śulbasūtra e Mānava-śulbasūtra (il primo e l'ultimo in molteplici versioni). Secondo l'ordine cronologico solitamente accettato, il più antico dei manuali, che si situano in un arco di tempo compreso fra l'VIII e il V sec. a.C., sarebbe Baudhāyana (o Bodhāyana), seguito da Mānava, Āpastamba e Kātyāyana, ma gli Śulbasūtra omonimi nella loro forma attuale non risultano essere nello stesso ordine.

Gli Śulbasūtra di Āpastamba e di Baudhāyana, scritti in una prosa caratterizzata da enunciati estremamente concisi (detti sūtra), hanno un certo numero di regole in comune e, come è stato sottolineato, il secondo contiene citazioni dal primo. Lo Śulbasūtra di Kātyāyana, quasi identico ai due precedenti per quanto riguarda i contenuti matematici, si distingue per il trattamento sistematico degli argomenti, e la sua porzione principale, scritta in sūtra, è accompagnata da un supplemento in metro śloka. Queste caratteristiche fanno pensare a una sua compilazione relativamente tarda. Lo Śulbasūtra di Mānava, che si compone per due terzi di versi śloka, contiene elementi ancora più tardi sotto l'aspetto sia linguistico sia matematico (v. oltre). Di conseguenza, è presumibile che l'ordine cronologico dei compilatori dei quattro Śulbasūtra attualmente esistenti sia il seguente: Āpastamba, Baudhāyana, Kātyāyana e Mānava (d'ora in avanti, con tali nomi si intenderanno i compilatori finali di ciascuno Śulbasūtra, indipendentemente dalla loro identità effettiva).

È impossibile stabilire con esattezza la datazione assoluta degli Śulbasūtra. Gli strati più antichi, consistenti nella geometria applicata necessaria alla costruzione degli altari, risalgono certamente al tempo della Yajurvedasaṃhitā (Raccolta del Veda delle formule sacrificali), nella quale figura un elenco di altari del fuoco (agni) a forma di falco, airone, triangolo, ruota di carro, truogolo, cimitero, ecc., da scegliere a seconda degli obiettivi che si vogliono conseguire mediante il rito: il paradiso, una 'testa' (il termine indica un luogo misterioso dove è contenuta l'essenza della divinità) nell'aldilà, respingere i nemici, avere cibo o bestiame, e così via. Tutti questi altari sono descritti negli Śulbasūtra. Gli strati più recenti, quale il brano di Mānava sul teorema di Pitagora, sembrano invece addirittura posteriori ad Āryabhaṭa I (n. 476 d.C.).

Ciascuno dei due Śulbasūtra più antichi, quelli di Āpastamba e di Baudhāyana, può essere suddiviso in due parti. Nella prima è trattata la geometria in termini generali; gli argomenti affrontati sono certamente connessi alla costruzione di siti rituali, ma i riferimenti espliciti ai riti sono scarsi. La seconda parte, invece, verte sulla costruzione di siti rituali, compresi vari tipi di altari. Questa suddivisione in una sezione che potremmo definire teorica e in un'altra operativa richiama alla mente una delle due divisioni del pāṭī-gaṇita ('matematica degli algoritmi'), quella fra operazioni fondamentali (parikarman) e matematica per usi pratici (vyavahāra) (v. cap. X). La seconda parte degli śulbasūtra di āpastamba e Baudhāyana è dedicata soprattutto alla descrizione dei vari altari del fuoco (agni) da utilizzare nello agni-cayana ('rito di costruzione dell'altare del fuoco'). Nella costruzione di un altare del fuoco a regola d'arte dovevano essere soddisfatti i seguenti requisiti: un altare del fuoco consiste di cinque strati di 200 mattoni ciascuno, la cui altezza totale è uguale all'altezza del ginocchio del sacrificante; una sola e identica disposizione dei mattoni è adottata rispettivamente per ciascuno degli strati dispari e per ciascuno degli strati pari, e nessun mattone deve coincidere con quello immediatamente sovrastante o sottostante; l'altare deve occupare una superficie di sette puruṣa quadrati e mezzo, dove il puruṣa è una misura lineare definita come l'altezza dal suolo della punta del dito medio del sacrificante, quando questi è in piedi e ha le braccia tese verso l'alto (da stimare intorno a 1,8-2 m ca.). La superficie di un altare del fuoco doveva essere incrementata di un puruṣa quadrato (stimabile in 3,2-4 m2 ca.) ogni volta che lo stesso rito era ripetuto dal medesimo sacrificante.

Gli argomenti trattati nella parte dedicata alla geometria degli Śulbasūtra di Āpastamba (abbreviato con A) e di Baudhāyana (abbreviato con B) sono quelli elencati di seguito. Misure lineari (B 1.3-21; A le fornisce nei capitoli successivi); costruzione di figure geometriche: due metodi per un rettangolo (A 1.2-3; B 1.36-44), due metodi per un quadrato (A 1.7-2.1; B 1.22-35), quadrato con superficie uguale a un multiplo o a una frazione di un quadrato assunto come unità di misura (A 2.2-3; B 1.46-47); rapporto fra la diagonale e il lato di un parallelogramma (rettangolo e quadrato); teorema di Pitagora (A 1.4-5; B 1.45, 48-49); calcolo della diagonale di un quadrato (A 1.6; B 1.61-62); somma e differenza di due quadrati (A 2.4-6; B 1.50-51); trasformazione di figure geometriche in altre figure equivalenti (aventi la stessa area): un rettangolo in un quadrato (A 2.7; B 1.54), un quadrato in un rettangolo (A 3.1; B 1.52-53), un quadrato in un cerchio (A 3.2; B 1.58), un cerchio in un quadrato (A 3.3; B 1.59-60), un quadrato in un trapezio isoscele (B 1.55; A 15.9), un quadrato in un triangolo isoscele (B 1.56; A 12.5), un quadrato in un rombo (B 1.57; A 12.9); rapporto fra la superficie e il lato di un quadrato (A 3.4-10).

La costruzione di figure geometriche

Gli strumenti usati per disegnare figure di cui si parla negli Śulbasūtra sono una corda detta rajju o śulba e picchetti o paletti detti śaṅku; talvolta al posto della corda si adopera un'asta di bambù. Con l'ausilio di questi strumenti è possibile tracciare una linea retta, individuare un segmento di retta della lunghezza desiderata e disegnare un cerchio oppure un arco circolare del raggio desiderato.

Non sono enunciate regole specifiche per segnare sul terreno una retta, un cerchio e un arco circolare, che si possono facilmente ottenere servendosi di corda e di picchetti. Il problema principale dei geometri degli Śulbasūtra quando dovevano costruire figure geometriche come un quadrato, un rettangolo o un trapezio, equivaleva a tracciare una retta ortogonale o parallela a una retta data. Per risolverlo, si faceva ricorso a diverse proprietà geometriche: (a) i triangoli aventi lati interi (3, 4, 5), (5, 12, 13), (7, 24, 25), (8, 15, 17) e (12, 35, 37) hanno un angolo retto (l'inverso del teorema di Pitagora); (a.1) un triangolo isoscele la cui base è δ=a+(a/3)+(a/3)/4−[(a/3)/4]/34, dove a sta per i due lati uguali, ha un angolo pressappoco retto; (b) un punto equidistante dagli estremi di un segmento giace sulla perpendicolare che biseca quel segmento; (c) due triangoli aventi i tre lati uguali sono congruenti.

Si ricorre alla proprietà (a) per costruire un rettangolo, un quadrato e un trapezio. Per esempio, il triangolo rettangolo (5, 12, 13) è usato da Āpastamba (Śulbasūtra, 1.2) e da Baudhāyana (ibidem, 1.42-44) per costruire un rettangolo (per la formulazione di Baudhāyana). Baudhāyana (1.29-35) usa il triangolo rettangolo (3, 4, 5) per costruire un quadrato; Āpastamba (1.3) usa invece lo stesso triangolo per costruire un rettangolo e le proprietà (a.1), (b) e (c) per costruire un quadrato.

Il tema dominante negli Śulbasūtra è l'area. La matematica di questi testi ruota intorno all'esigenza rituale di costruire altari di forma varia e di area prestabilita; questa esigenza sembra avere avuto origine dall'agricoltura, in cui il raccolto dipende in larga misura dall'area della superficie del terreno (bhū o bhūmi).

Āpastamba enuncia esplicitamente il rapporto fra il lato e l'area di un quadrato. Nel caso di un quadrato il cui lato è misurato da un multiplo di un'unità, o in altri termini da un numero intero (poniamo n), egli afferma: "Quante (n) sono le unità di misura contenute in una corda, tante (n) sono le file (varga) [ciascuna di n quadrati] che essa produce. In tal modo si ha una percezione (upalabdhi) [della superficie]" (Śulbasūtra, 3.7). Nel caso, invece, di un quadrato il cui lato non sia espresso da un numero intero (poniamo n+r, dove 0⟨r⟨1), Āpastamba dice: "Adesso [segue] una regola generale. Si disegna [un rettangolo] con una data misura (n) e un dato incremento (r), e lo si pone su [ciascuno dei] due lati [adiacenti del quadrato di lato n], mentre il quadrato fatto con quello (r) [è posto] sull'angolo" (ibidem, 3.9). Si tratta di un'espressione geometrica del concetto che oggi si esprimerebbe con la relazione che riguarda il quadrato di un binomio: (n+r)2=n2+2nr+r2.

Il teorema di Pitagora

Gli Śulbasūtra contengono la più antica formulazione verbale del teorema di Pitagora che ci sia pervenuta, malgrado esso fosse già noto agli antichi Babilonesi. Sia Āpastamba (1.4) sia Baudhāyana (1.48) e Kātyāyana utilizzano esattamente gli stessi termini: "La corda diagonale (akṣṇayārajju) di un rettangolo produce entrambi gli elementi che la [corda] laterale (pārśvamānī) e quella orizzontale (tiryaṅmānī) producono separatamente" (2.7). Non si dice esplicitamente cosa 'producono' le corde, ma si tratta senza dubbio delle aree dei quadrati costruiti su di esse. Mānava, invece, prescrive: "[Si moltiplichi] la lunghezza (āyāma, a) per la lunghezza, e la larghezza (vistāra, b) per la larghezza. La radice quadrata della somma [dei due prodotti] è l'orecchio (karṇa, c). Chi sa questo, sa [quello]" (3.1.10). Questo è un algoritmo che serve a calcolare la diagonale di un rettangolo, c=(a2+b2)1/2, che si ricava dal teorema. Il modo in cui Mānava tratta il teorema e la terminologia che adopera sono identici a quelli utilizzati dai matematici indiani posteriori ad Āryabhaṭa I (n. 476 d.C.). Mānava è l'unico fra i quattro autori degli Śulbasūtra che utilizzi la parola karṇa ('orecchio') per la diagonale di un rettangolo (o l'ipotenusa) di un triangolo rettangolo.

Il lato di un quadrato di area n è detto n-karaṇī, ossia '[una corda] facente [un'area di] n [unità quadrate]'. Di conseguenza, il lato di un quadrato è talvolta definito karaṇī. La linea chiamata n-karaṇī, che equivale a n1/2, era ricavata con procedimento geometrico applicando ripetutamente il teorema del triangolo rettangolo, ossia costruendo una serie di triangoli rettangoli aventi i due lati ortogonali, di misure k1/2 e 1, per k=1, 2,…, n−1. Āpastamba (2.2), Baudhāyana (1.46) e Kātyāyana (2.10) ricorrono a questo metodo per n=3. Kātyāyana (6.7) consegue lo stesso risultato costruendo un triangolo isoscele con base (n−1) e lati (n+1)/2, per cui la perpendicolare misura n1/2.

Calcolo della diagonale di un quadrato

Come accennato sopra, Āpastamba (2.1) utilizza un'approssimazione del rapporto fra la diagonale (d) e il lato (a) di un quadrato, cioè 21/2:1, per costruire un quadrato con un determinato lato. A questo scopo, fornisce un algoritmo per calcolare preventivamente la diagonale: "Si aumenti l'unità di misura (a) di un terzo e quello (il risultato) di un quarto [del terzo] diminuito di un trentaquattresimo di se stesso. [Questa è la lunghezza chiamata] saviśeṣa (δ)" (1.6). Ciò significa che d=a+(a/3)+{(a/3)/4−[(a/3)/4]/34}, che è equivalente a (577/408)a (il rapporto indicato, pari a 1,4142156…, è un'ottima approssimazione di 21/2=1,4142135…). Anche Baudhāyana (1.61-62) e Kātyāyana (2.9) enunciano lo stesso algoritmo, ma non lo utilizzano per la costruzione di un quadrato.

Il termine saviśeṣa significa 'con differenza'. Un'unica volta, fornendo le istruzioni per la costruzione di un quadrato, Āpastamba adopera il termine viśeṣa ('differenza') nel senso di (δa), ma quando descrive i mattoni triangolari e trapezoidali, si serve indiscriminatamente di viśeṣa e saviśeṣa per designare δ, come fa anche Baudhāyana. Tale uso dei termini rende difficile capire il reale significato di 'differenza' in questo contesto, ma non si può escludere la possibilità che in origine significasse (δd) (v. oltre). è da osservare, comunque, che questo non prova che i matematici degli Śulbasūtra fossero consapevoli dell'irrazionalità della radice quadrata di 2.

Somma e differenza di due quadrati

La somma di due quadrati, ossia la costruzione di un quadrato la cui superficie è uguale alla somma dell'area di due quadrati dati, si ricava in maniera semplice applicando il teorema di Pitagora. Baudhāyana (1.50), Āpastamba (2.4) e Kātyāyana (2.13) formulano una regola apposita. Pure la sottrazione di un quadrato da un altro quadrato si basa sullo stesso teorema e anche in questo caso la regola formulata da Āpastamba (2.5) e Kātyāyana (3.1) è la stessa enunciata da Baudhāyana (1.51) che dice:

Colui che desideri sottrarre un quadrato (a2) da un [altro] quadrato (c2) deve cancellare un pezzo ritagliato (cioè, ritagliare un pezzo rettangolare, a×c) dal [quadrato] maggiore (c2) per mezzo del lato (a) di quel [quadrato] che si deve sottrarre. Si tiri [un'estremità del] lato [più lungo] (c) del pezzo ritagliato diagonalmente fino al lato opposto [tenendo fissa l'altra estremità]. Si ritagli [quest'ultimo lato] nel punto in cui cade [il lato precedente]. Mediante il ritaglio [b del lato], si sottrae [il quadrato minore] (c2a2=b2).

Trasformazione di figure geometriche

Fra i maggiori risultati conseguiti dalla matematica degli Śulbasūtra si annovera la trasformazione di una figura geometrica in un'altra mantenendo immutata l'area. Questa tematica era in origine connessa alla necessità pratica di disegnare altari di varie forme con una data area, ma gli autori degli Śulbasūtra sembrano essersi spinti oltre, cercando di trattare la questione da un punto di vista teorico.

Baudhāyana espone sette trasformazioni. Cinque di queste riguardano la trasformazione di un quadrato in un cerchio, un rettangolo, un trapezio isoscele, un triangolo isoscele e un rombo, mentre le altre due trattano il passaggio da un rettangolo e da un cerchio a un quadrato. Tutte, tranne l'ultima, rientrano nello schema rettangolo→quadrato→cerchio (o altra figura), che consiste in tre passaggi; precisamente, data un'area A: costruire un rettangolo di area A, trasformarlo in un quadrato di area A e, infine, trasformarlo nella figura desiderata (cerchio, ecc.) di area A.

Per esempio, per disegnare un cerchio di area A, si costruisce prima un rettangolo con i lati a e A/a, dove a è un qualunque numero razionale, poi si trasforma il rettangolo in un quadrato e infine il quadrato così ottenuto in un cerchio. In effetti, per i matematici degli Śulbasūtra questo era il sistema più naturale per costruire un cerchio avente una data superficie, dal momento che non conoscevano la formula Ar2, da cui si può calcolare r per disegnare un cerchio di raggio r.

Tav. III

Per la costruzione di un quadrato di area A, che corrisponde all'estrazione della radice quadrata di A, si sarebbe potuto utilizzare sia il metodo dell'addizione ripetuta di un quadrato preso come unità di misura, sia il metodo di Kātyāyana citato sopra, ma si preferì invece formulare una regola di trasformazione da un rettangolo a un quadrato (Tav. III), forse perché si voleva fornire una teoria della trasformazione. Inoltre, l'ultima delle sette regole di Baudhāyana, dedicata alla quadratura del cerchio, non trova posto nello schema suddetto, ma sembra sia stata enunciata soltanto per ottenere la simmetria delle regole. La stessa considerazione vale probabilmente per le regole di Kātyāyana (4.7-12) riguardanti la trasformazione di un triangolo e di un rombo in un quadrato. A quanto pare, dunque, i matematici degli Śulbasūtra non s'accontentarono della matematica per usi pratici, ma si spinsero oltre.

Mānava (3.2.10) fornisce una regola puramente geometrica per la quadratura del cerchio, partendo dall'ipotesi che il lato del quadrato sia uguale all'altezza di un triangolo equilatero in cui la somma dei lati sia uguale al diametro del cerchio dato.

Il rapporto π

Per il rapporto π (numero irrazionale pari a 3,14159…) fra la lunghezza della circonferenza di un cerchio e quella del diametro, Baudhāyana (1.112-113) usa il valore 3 e Mānava (3.2.13) "tre e un quinto", cioè 16/5 (pari a 3,2).

La regola di Āpastamba e altri per la trasformazione del quadrato in un cerchio implica un valore di 3,088 per il rapporto π fra l'area di un cerchio e un quarto del quadrato del suo diametro, mentre la regola per la quadratura del cerchio implica un valore di 3,004. La regola di Mānava per la quadratura del cerchio menzionata sopra presuppone un valore di 3, mentre la regola inversa (3.2.15) presuppone 25/8, pari a 3,125.

L'origine dell'approssimazione alla diagonale di un quadrato

Sono state formulate diverse congetture sull'origine dell'approssimazione alla diagonale di un quadrato (Kulkarni 1983; Neugebauer 1969). La seguente spiegazione si fonda sull'ipotesi di G.H. Thibaut, che sembra la più plausibile, sebbene la seconda parte sia stata qui lievemente modificata.

Sia d la diagonale di un quadrato di lato a. Come indica il termine dvi-karaṇī, 'che raddoppia [l'area]', adoperato per la diagonale, i matematici degli Śulbasūtra conoscevano la relazione 2a2=d2. Forse cercavano d'individuare una coppia di numeri naturali (a, d) che soddisfacesse questa equazione, ma invano (in questo senso, si può dire che si siano avvicinati all'irrazionalità di 21/2). Sembra dunque che abbiano cercato casi in cui sommando oppure sottraendo un numero intero da 2a2 si ottiene un quadrato perfetto. Non è difficile calcolare y e il valore più piccolo di t che soddisfino l'equazione 2x2+t=y2, per x=1, 2, 3… Si noti che y/x è prossimo a d/a (cioè a 21/2) quando x è grande e t è piccolo. Aumentando x, ci si accorge ben presto che t diventa 1 o −1 quando (x, y)=(2, 3), (5, 7), (12, 17), e così via. Supponiamo che abbiano scelto (x, y)=(12, 17), perché 3/2 e 7/5 sono troppo distanti da un'approssimazione soddisfacente. È stato segnalato che un analogo rapporto approssimato (17, 24) fra il lato e la diagonale è utilizzato per ottenere un angolo retto nei rituali śrauta contemporanei (Staal 1983).

Ora, si ha 2×122=288=172−12. Dunque, quando si costruisce un quadrato la cui superficie è uguale alla differenza 172−12, in base alla regola per la differenza fra quadrati il suo lato equivale alla diagonale del quadrato il cui lato è 12. Riferendoci alla fig. 1 della Tav. III, assumiamo che siano BG=GI=17 e EH=HI=1. Allora ON equivale alla diagonale d, e d=BGBL, dove BL è la larghezza dello gnomone JD´BGN. Dal momento che l'area dello gnomone JD´BGN è uguale a quella del piccolo quadrato da sottrarre, abbiamo la relazione 2BL×BGe= =EH2, dove e è l'area del quadrato MOBL; e è trascurabile, perciò si ottiene la relazione approssimata BLEH2/2BG. Se si esprime BG mediante il lato del quadrato, 12 (=a), insieme alle sue parti frazionarie, si avrà BG=17=12+ +(12/3)+(12/12)=a+(a/3)+[(a/3)/4]. Analogamente, BL≈ ≈12/(2×17)=[(a/3)/4]/34, sebbene l'ultima equazione sia valida soltanto se a=12. Di conseguenza, risulta dδ=a+(a/3)+ +[(a/3)/4]+ −{[(a/3)/4]/34}. L'inventore dell'approssimazione, che sembra aver seguito questa procedura o una simile, doveva sapere che il suo δ era differente dal valore reale d.

I rapporti fra gli Śulbasūtra e la matematica posteriore

L'apparente esistenza di uno iato fra la matematica degli Śulbasūtra e la matematica indiana posteriore è stata in passato motivo di perplessità per gli studiosi, inducendo alcuni a supporre un'influenza occidentale sugli sviluppi successivi all'epoca vedica. Oggi, però, si conoscono alcuni collegamenti fra le due tradizioni.

Per esempio, la parola karaṇī, impiegata nella matematica successiva per denotare un numero al quadrato e la radice quadrata di un numero, scaturisce, come si è detto, dall'uso che ne facevano gli Śulbasūtra.

Allo scopo di disegnare un segmento di lunghezza n1/2, Brahmagupta costruisce un triangolo isoscele, la cui base e i cui lati misurano rispettivamente (n/m)−m e [(n/m)+m]/2, dove m è un numero a piacere. L'altezza è la linea che si vuole ottenere (Brāhmasphuṭasiddhānta, ed. Dvivedī, 18.37). Si tratta di una generalizzazione della regola di Kātyāyana menzionata sopra (dove m=1).

L'equazione indeterminata di secondo grado del tipo Px2+t=y2, che Brahmagupta e altri avrebbero studiato in dettaglio, è assai probabile che abbia avuto origine dalle ricerche dei matematici degli Śulbasūtra sulla diagonale di un quadrato o sulla radice quadrata di 2 (v. il sottoparagrafo precedente); si evince ciò dal nome di 'natura del quadrato' dato da essi a quell'equazione.

Le due formule per l'approssimazione della radice quadrata di a2+r, vale a dire (a2+r)1/2a+[r/(2a)], usata nelle opere jaina, e (a2+r)1/2a+[r/(2a)]−[r/(2a)]2/{2[a+r/(2a)]}, che compare nel Manoscritto di Bakhshālī, sembra siano state ottenute interpretando algebricamente (o numericamente) la regola geometrica degli Śulbasūtra per la trasformazione di un rettangolo in un quadrato. Sia n l'area del rettangolo ABCD nella fig. 1 della Tav. III, e sia AB=a, dove a2 è il più grande numero quadrato minore di n; sia così n=a2+r, dove a2 e r rappresentano, rispettivamente, l'area del quadrato ABFE e quella del rettangolo EFCD. Abbiamo allora le relazioni n1/2=ON=BGBLBG=BF+FG. Orbene, FG può essere espresso come r/(2a) e da qui deriva la formula jaina. Inoltre, come per il calcolo della diagonale di un quadrato, BLEH2/2BG, che è all'origine della formula di Bakhshālī.

Il termine adoperato da Āryabhaṭa I per 'serie', citi, discende anch'esso, probabilmente, dagli Śulbasūtra, uno dei cui argomenti principali era costituito dall'accatastamento (citi) di mattoni usati per gli altari vedici.

Raccolte di aforismi sui rituali domestici (Gṛhyasūtra)

di Christopher Minkowski

I Gṛhyasūtra, 'raccolte di aforismi sui rituali domestici', formano il complemento degli Śrautasūtra, costituendo altresì il secondo grande ramo della letteratura rituale redatta nello stile dei Kalpasūtra. I Gṛhyasūtra descrivono rituali che sono classificati come domestici (gṛhya), sebbene il significato di 'domestico', nell'ottica della classificazione, sia piuttosto indefinito. Il termine è usato poiché in generale i Gṛhyasūtra descrivono riti implicanti l'uso di mantra vedici che servono da sacramenti per la vita domestica di un gruppo familiare; più in particolare, essi descrivono i saṃskāra, ossia i 'riti di passaggio' di un individuo. Almeno alcuni elementi tratti dai riti descritti nei Gṛhyasūtra appaiono molto antichi, mentre altri sembrano sviluppi più recenti, risalenti al momento storico della composizione di ciascun testo. I Gṛhyasūtra sono redatti nello stile e nel formato dei sūtra e sono in generale di produzione più recente rispetto agli Śrautasūtra. Se in generale il campo d'azione dei Gṛhyasūtra è ben definito, cionondimeno essi contengono anche molte varianti testuali. Ciascun Gṛhyasūtra è spesso, sebbene non sempre, ascritto al medesimo autore dello Śrautasūtra corrispondente, pur apparendo in effetti un'opera collettiva. L'attribuzione a un determinato autore serve in primo luogo a stabilirne l'affiliazione, non necessariamente ovvia, alla scuola d'esecuzione (caraṇa).

Stile, tassonomie e contenuto

I confini dello stile dei Gṛhyasūtra sono piuttosto difficili da tracciare. Sotto certi aspetti la categoria di gṛhya sembra essere stata adottata semplicemente per designare quei riti che non ricadono sotto la categoria di śrauta ('solenni, rivelati'). I Gṛhyasūtra si occupano di materie assai più varie, apparendo come principale luogo di adattamento della religione vedica alle mutevoli realtà di vita dei gruppi familiari ari. Il sistema di ordinamento dei Gṛhyasūtra, come nel caso degli Śrautasūtra, è il risultato di un processo di riconcettualizzazione, o 'classicizzazione' dei riti. Qui, tuttavia, questo processo è stato meno deciso; di conseguenza si ha un maggior grado di variabilità non soltanto nel contenuto, ma anche negli schemi organizzativi.

Anche se la tassonomia dei Gṛhyasūtra è disposta lungo i medesimi assi di quella degli Śrautasūtra, nei primi risalta più nettamente la contrapposizione tra rito obbligatorio e rito d'occasione. La natura delle sostanze offerte e quella degli atti d'offerta sono altresì peculiari di questi rituali domestici, e si ha, inoltre, una distinzione in base ai destinatari dell'offerta, siano questi divinità oppure umani, antenati o altre creature. Tali principî sono in parte incarnati in una lista di categorie che appare in alcuni dei Gṛhyasūtra più recenti: offerto nel fuoco (huta), non offerto nel fuoco (ahuta) ‒ ossia posto in terra ‒, offerto agli antenati (prahuta), e dato da mangiare ai brahmani (prāśita). Quanto all'ordine di presentazione utilizzato in questi testi, la gran parte dei Gṛhyasūtra non risulta disposta sistematicamente secondo detti criteri. Sarà più utile qui discutere tre tipi basilari di riti gṛhya: i riti volti al ciclo della vita, i riti volti ai cicli dell'anno, e i riti di venerazione degli antenati.

Riti di passaggio

I riti eseguiti in occasione dei momenti di transizione nella vita di un individuo (saṃskāra) sono di norma elencati nell'ambito di un ciclo che ha inizio con il matrimonio per culminare nell'educazione vedica del bambino nato alla coppia sposata, oppure che comincia con l'iniziazione all'educazione vedica e procede attraverso il matrimonio fino alla fase in cui il bambino è pronto a entrare nello stadio di vita dell'educazione.

I Gṛhyasūtra sono tutt'altro che esenti da contraddizioni quanto al numero di saṃskāra che elencano, a quali saṃskāra considerare riti separati e ai dettagli specifici d'esecuzione di questi riti. Cionondimeno, determinate forme dei seguenti saṃskāra sono contemplate da quasi tutti i Gṛhyasūtra: (1) cerimonie di matrimonio (vivāha); (2) riti che garantiscono il concepimento di un bambino (garbhādhāna); (3) riti che garantiscono che il bambino sia maschio (puṃsavana); (4) rito di divisione dei capelli della donna incinta (sīmāntonnayana); (5) riti da eseguire al momento della nascita del bambino (jātakarma); (6) riti d'imposizione del nome al bambino (nāmakaraṇa); (7) riti da utilizzare allorché si conduce il bambino all'aperto per la prima volta (niṣkramaṇa); (8) riti da utilizzare allorché si dà cibo solido al bambino per la prima volta (annaprāśana); (9) riti da utilizzare in occasione del primo taglio di capelli del bambino (caulakarman o cūḍākarman); (10) iniziazione del bambino allo studio dei Veda (upanayana); (11) osservanze che competono allo studente dei Veda (vedavrata); (12) riti per la conclusione del periodo di studio vedico e il ritorno a casa (samāvartana).

Offerte di cibo

L'esecuzione dei riti eseguiti in occasione dei momenti di transizione richiede offerte di cibo cotto in un fuoco consacrato in modo speciale. I procedimenti di preparazione e di offerta consistono tutti in variazioni di un rito di offerta tipico, che per molti versi ricorda l'iṣṭi dei sacrifici śrauta. In conseguenza, i Gṛhyasūtra, come gli Śrautasūtra, descrivono con una certa accuratezza una versione tipica di questa offerta di cibo cucinato (detta genericamente gṛhyasthālīpākayajña o, più semplicemente, pākayajña), di norma all'inizio del testo. Altri riti sono poi spiegati brevemente, secondo il principio di modello e di variante.

Oltre ai 'riti di passaggio', che sono riti d'occasione, eseguiti quando lo richiedono gli eventi della vita familiare, i Gṛhyasūtra presentano un'altra serie di sacrifici, i quali sono obbligatori su base periodica seguendo cicli giornalieri, mensili e annuali. I Gṛhyasūtra descrivono infatti i procedimenti per l'instaurazione del fuoco domestico, le offerte giornaliere nel fuoco al tramonto e all'alba e le versioni dell'offerta di cibo cotto da eseguire nei giorni di Luna nuova e di Luna piena. Nel corso dell'anno, inoltre, vi sono sacrifici obbligatori da eseguire in particolare nel giorno di Luna piena di Caitra, di Śravaṇa, di Āśvayuja (o Āśvina), di Āgrahāyaṇa (o Mārgaśīrṣa) e nell'ottavo giorno della quindicina lunare scura dei mesi invernali seguenti.

Quale parte del ciclo annuale di riti gṛhya obbligatori, esistono, inoltre, offerte di cibo (bali), che non utilizzano il fuoco, ma che sono invece presentate per la consumazione ai destinatari designati. Dunque, su base giornaliera, si ha l'offerta di cibo a tutti gli dèi (vaiśvadevabali); vi sono poi offerte del medesimo tipo rivolte agli antenati, a tutte le creature del mondo e offerte speciali rivolte ai serpenti, alle talpe e alle altre creature che vivono nei campi.

Riti funebri e riti rivolti agli antenati

I Gṛhyasūtra forniscono anche descrizioni, assai varie, degli śrāddha, i riti funebri e i riti volti a onorare gli antenati paterni. I sūtra che descrivono i riti funebri, detti Pitṛmedhasūtra, sono spesso riuniti in un testo separato, il quale in alcune scuole rituali forma parte degli Śrautasūtra, in altre è parte dei Gṛhyasūtra e in altre ancora un testo a sé stante. Passi che spiegano il culto periodico obbligatorio degli antenati sono pure generalmente relegati in sezioni separate dei testi ospitanti. La ragione di questo trattamento particolare risiede in parte nella natura dei riti, i quali erano intesi a placare gli spiriti dei morti. Alcuni principi d'esecuzione dei riti rivolti agli antenati variano dunque intenzionalmente rispetto a quelli dei riti śrauta e gṛhya, come è chiaro da certe differenze basilari nelle operazioni necessarie. Per esempio, nei riti śrauta (e gṛhya) la cordicella sacra del brahmano è indossata sopra la spalla sinistra e sotto la destra (yajñopavīta), mentre nei riti rivolti agli antenati la cordicella è indossata sopra la spalla destra e sotto la sinistra (prācīnavīta). Gli esecutori devono cambiare la posizione della propria cordicella quando si dedicano alle parti relative agli antenati (pitṛ) di un rito śrauta, poi cambiarla ancora e toccare l'acqua alla fine di tali parti. Così pure nei riti śrāddha il movimento generico del versare è invertito dal senso orario al senso antiorario e le offerte agli antenati hanno le proprie formule particolari. Norme di questo genere sottolineano la differenza concettuale dei riti rivolti agli antenati da quelli śrauta e gṛhya.

Ai fini della venerazione degli antenati esistevano tre riti di grande antichità, bene integrati da pratiche più recenti. Nel rituale śrauta compaiono due riti: la presentazione di palline di riso agli antenati (piṇḍapitṛyajña), la quale è parte del sacrificio della Luna nuova, e il grande sacrificio agli antenati (mahāpitṛyajña), il quale combina un'offerta da porre nel fuoco con la presentazione di palline di riso, costituendo parte del rito sākamedha del Cāturmāsya. Per i capifamiglia osservanti (vaidika) che non abbiano adottato i fuochi śrauta, esiste un equivalente domestico (gṛhya) di questi riti detto pārvaṇaśrāddha. Inoltre, i riti eseguiti l'ottavo giorno della quindicina scura dei tre (o quattro) mesi invernali ‒ Mārgaśīrṣa, Pauṣa, Māgha (e Phālguna), ‒ sono in primo luogo dedicati agli antenati. In pratica, ogni rito vedico contempla oggi al suo inizio un'offerta agli antenati 'dal volto felice' (nāndīmukhaśrāddha). Le trattazioni dei riti rivolti agli antenati proliferarono straordinariamente nella letteratura più recente che è divenuta una materia matura per il commento e la discussione da parte degli esperti di diritto.

La vita dello studente

La vita scolastica dello studente dei Veda può essere ricostruita, almeno in qualche misura, grazie ai Gṛhyasūtra e ai passi dei Dharmasūtra a quelli collegati.

Come già accennato, i riti descritti nei Gṛhyasūtra punteggiano la carriera dello studente, a partire dalla sua iniziazione allo studio vedico (upanayana), per finire con il compimento dello studio vedico e il ritorno a casa (samāvartana). I testi descrivono inoltre le osservanze che strutturano quello che si potrebbe definire 'anno accademico'. La giornata dello studente è regolata con una certa accuratezza; egli deve servire il suo insegnante (guru) raccogliendo legna per il fuoco, attendendo ai fuochi e rendendogli altri servizi; deve recitare quotidianamente una parte dei versi vedici che ha appreso e dedicarsi alle incombenze dei brahmani all'alba, a mezzogiorno e al tramonto. Oltre a ciò deve sedere ai piedi dell'insegnante, imparare da lui i versi vedici e di fronte a lui recitarli. I versi vedici non devono essere appresi e recitati nei giorni di proscrizione (anadhyāya): per esempio, nell'8° e 14° giorno di ciascuna quindicina o nei giorni infausti o in quelli in cui si verificano disgrazie, come una morte in famiglia.

Alcuni Gṛhyasūtra descrivono una serie di voti, generalmente quattro, che gli studenti dei Veda osservano, ciascuno per la durata di un anno, nel corso del quale sono richieste ulteriori restrizioni del comportamento, della dieta e del vestiario. Non vi è accordo nei sūtra a riguardo di questi voti, ma denominazioni quali māhānamnya e aupaniṣada suggeriscono che, in generale, essi fossero collegati a periodi d'insegnamento di componenti del corpus vedico più avanzate o meglio regolate, come gli Āraṇyaka e le Upaniṣad.

Sebbene i Gṛhyasūtra non si diffondano sulla struttura istituzionale del sistema scolastico, né sui dettagli del programma di studi, ci sono comunque noti vari particolari. L'insegnamento era orale e aveva luogo tra l'insegnante e il suo allievo nella casa dell'insegnante, la quale costituiva l''accademia', l'āśrama. Gli studenti erano ragazzi, dell'età di almeno otto anni, appartenenti alla classe brahmanica. Anche i ragazzi delle altre due classi più alte potevano, almeno in linea di principio, assistere alle lezioni, a partire dall'età di sette e dodici anni rispettivamente. L'istruzione doveva di norma proseguire per dodici anni. L'insegnante era scelto in quanto istruito nella medesima linea di recensione testuale (śākhā) e di scuola d'esecuzione (caraṇa) che la famiglia del ragazzo aveva tradizionalmente adottato. I dettagli del programma di studi non ci sono interamente noti. Esso in primo luogo consisteva nei testi della rivelazione (śruti) propri della linea di recensione testuale a cui lo studente apparteneva per tradizione familiare. I sūtra indicano però che era richiesta anche la conoscenza delle tradizioni ausiliarie. Infatti, lo Śāṅkhāyanagṛhyasūtra (Aforismi domestici di Śāṅkhāyana; 2, 7) mostra come l'allievo dovesse apprendere non soltanto le strofe vediche, ma anche il loro autore, le divinità e il metro. Si deve inoltre supporre che il programma di studi comprendesse sia elementi obbligatori sia elementi facoltativi. Per esempio, la specializzazione nell'atto sacerdotale solenne (śrauta), ossia attinente alla rivelazione (śruti), costituiva una materia avanzata, la quale non poteva essere oggetto di studio da parte di tutti.

Non è possibile stabilire con certezza come funzionasse la scuola d'esecuzione in quanto istituzione. Si presume che i futuri allievi reperissero gli insegnanti della propria scuola direttamente sul posto, attraverso una rete informale di contatti. Anche se da sempre erano esistiti insegnanti particolarmente prestigiosi, e pure se la testimonianza delle Upaniṣad suggerisce che un insegnamento imperfetto da parte di un brahmano era soggetto al pubblico biasimo e messo in ridicolo da altri brahmani, non sembra tuttavia che esistesse un'autorità centrale che avesse la funzione di governare le pratiche educative della scuola.

Quanto fin qui esposto non comprende quei riti che sono elencati unicamente in alcuni sūtra, o che soltanto difficilmente possono essere inclusi nelle categorie prima nominate. Nella letteratura dei Gṛhyasūtra sono descritti importanti riti volti a rendere omaggio agli ospiti brahmanici, alla costruzione di una casa e all'insediamento in essa, all'allevamento del bestiame, oltre a riti diretti alle varie fasi dei lavori agricoli, come, per esempio, l'inizio dell'aratura. Vi sono però anche descrizioni di prāyaścitta, espiazioni di errori rituali ed etici e alcune elencazioni di riti attinenti alla sfera del desiderio (kāmya).

Storia dei testi

In generale, la storia dei Gṛhyasūtra, in quanto testi prodotti a strati da una molteplicità di autori, ricorda quella degli Śrautasūtra. Taluni Gṛhyasūtra mostrano chiaramente origini assai più remote degli altri; la difficoltà principale, a ogni modo, risiede nella comprensione della relazione tra i Gṛhyasūtra da una parte, e i testi della rivelazione (śruti) e gli Śrautasūtra, dall'altra. Il formato e il linguaggio dei Gṛhyasūtra ricordano lo stile dei sūtra tipico degli Śrautasūtra; inoltre, la descrizione delle offerte di cibo cotto (pākayajña) nei Gṛhyasūtra è chiaramente basata sullo schema di modello e di variante degli Śrautasūtra e presuppone la forma vivente di riti śrauta quali l'agnihotra e i sacrifici di Luna nuova e di Luna piena. D'altro canto, alcuni elementi dei riti dei Gṛhyasūtra, come già notato, sono particolarmente antichi; tra questi i più importanti sono gli inni matrimoniali e gli inni funebri del decimo libro del Ṛgveda (Veda degli inni; X.14-18; X.85). Inoltre, la relazione che intercorre tra i Gṛhyasūtra e i testi vedici è sostanzialmente diversa da quella che intercorre tra gli Śrautasūtra e quei medesimi testi. Mentre gli Śrautasūtra seguono con grande fedeltà l'ordine dei riti descritto nelle raccolte di inni vedici e nei Brāhmaṇa, i riti gṛhya fanno uso di mantra tratti dai testi della rivelazione (śruti) in modi sostanzialmente divergenti e per scopi diversi. L'enunciazione stessa dei mantra può essere in disaccordo con quella dei testi śrauta e molti Gṛhyasūtra sembrano presupporre raccolte di mantra autonome, come il Mantrapāṭha (Recitazione dei mantra) della scuola Āpastamba oppure il Mantrabrāhmaṇa delle scuole del Sāmaveda.

Nello stimarne l'epoca di composizione, si devono dunque considerare i Gṛhyasūtra come basati sul modello degli Śrautasūtra, cioè come versioni semplificate e più praticabili dei più antichi e alti riti śrauta? Oppure dobbiamo considerarli in quanto testimonianze dell'esistenza di versioni molto antiche, e perfino precedenti ai riti śrauta, di riti che si svilupparono e circolarono in un ambiente autonomo? La ricostruzione più plausibile della storia di tali testi è che, pur riconoscendo l'esistenza in essi di strati preistorici, le versioni dei Gṛhyasūtra a noi giunte devono essere considerate il risultato dei medesimi processi di riformulazione attraversati dagli Śrautasūtra; nonostante le differenze negli esordi storici, i Gṛhyasūtra dei quali oggi disponiamo sono stati parte delle stesse scuole vediche d'esecuzione degli Śrautasūtra corrispondenti.

La cronologia di questi testi, che comporta gli stessi problemi di quella degli Śrautasūtra, sembrerebbe seguirne il medesimo modello. In molti casi i Gṛhyasūtra attualmente noti sembrano più recenti degli Śrautasūtra relativi, con l'eccezione del Kauśikasūtra (Aforismi di Kauśika), la cui antichità dev'essere pari a quella del più antico testo śrauta.

Quanto alla tradizione più recente dei rituali gṛhya, esiste una letteratura voluminosa, a partire dalle appendici ai testi fondamentali, dette śeṣasūtra e pariśiṣta. Tale letteratura include anche commentari e manuali di pratica (prayoga) dello stesso tipo di quelli che si hanno per gli Śrautasūtra. La tradizione dei testi di accompagnamento è assai più ricca di quella śrauta e sfuma quasi impercettibilmente nella letteratura di supporto ai Dharmasūtra e nella scienza della legge religiosa e morale (dharmaśāstra) in generale. La ricchezza e il carattere della letteratura di supporto sono la testimonianza della maggior vitalità dei rituali gṛhya rispetto ai rituali śrauta e della maggior diffusione della loro pratica.

La calendaristica vedica (Jyotia)

di David Pingree

Il Jyotiṣavedāṅga (Membro ausiliario del Veda sull'astronomia), ossia quel 'testo ausiliario al Veda (vedāṅga) che è dedicato all'astronomia calendaristica (jyotiṣa)', è rappresentato da due recensioni, e cioè due versioni tramandate da differenti tradizioni. La più breve, in 36 versi, è associata al Ṛgveda (Veda degli inni); fu composta da Śuci per esprimere l'opinione di Lagadha, il quale è menzionato dal testo come autorità. La recensione più lunga, in 43 versi, è invece associata allo Yajurveda (Veda delle formule sacrificali); la prima strofa, in cui si menziona Śuci, è virtualmente identica alla prima della recensione ṛgvedica. Peraltro Lagadha è qui nominato soltanto in una strofa spuria, equivalente alla 29 della recensione ṛgvedica. Lagadha probabilmente compose il suo trattato di astronomia intorno al 400 a.C., nel Gandhāra, durante l'occupazione achemenide dell'India nordoccidentale, sulla base di una fusione tra astronomia vedica ed elementi dell'astronomia babilonese.

Il ciclo lunisolare (yuga)

Molti versi della recensione ṛgvedica del Jyotiṣavedāṅga sono ripetuti alla lettera, o quasi, in quella yajurvedica. Quest'ultima presenta in aggiunta una strofa dopo la quarta, che fa riferimento a Giove e ai segni zodiacali a cominciare dai Pesci, e le strofe 11-12, 14, 16, 20, 24-26, 28-31 e 36-37; nessuna di queste è indispensabile per la comprensione del ciclo lunisolare (yuga) di Lagadha. Sarà qui pertanto trattata la recensione ṛgvedica, più breve e, verosimilmente, più antica.

Lo yuga consta di 5 anni. La regola per calcolare il numero delle lunazioni mancanti è basata sulla ricorrenza di due mesi intercalari ‒ ciascuno dopo ogni periodo di 30 mesi ‒ nell'arco di 5 anni; lo yuga conterrà dunque 62 lunazioni. Nel calendario babilonese le sole intercalazioni ammesse sono dopo il sesto e il dodicesimo mese.

Precursore di questo yuga è il sacrificio cāturmāsya quinquennale, descritto nella Maitrāyaṇīyasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Maitrāyaṇīya) e nella Kāṭhakasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Kāṭhaka). Il sacrificio cāturmāsya annuale comporta l'esecuzione: del vaiśvadevaparvan all'inizio dell'anno, quando la Luna piena è nelle costellazioni di Uttaraphalgunī o Citrā; del varuṇapraghāsaparvan, quando la Luna è piena in Aṣāḍhās o Śrāvaṇa; del sākamedhaparvan, quando la Luna è piena in Kṛttikā o Mṛgaśīrṣa; talvolta dello śunāśīrīyaparvan, quando la Luna è piena in Pūrvaphalgunī. Le due Saṃhitā prescrivono che dopo l'esecuzione di tre serie di sacrifici cāturmāsya (in 36 mesi) debba esserci una pausa di un mese; devono poi essere officiate altre due serie aventi termine con il sākamedhaparvan (in 24 mesi), quindi si ha una pausa di un mese; dopo questa, era presumibilmente eseguito lo śunāśīrīyaparvan, che concludeva il quinto anno. Vi sono perciò due intercalazioni in cinque anni, collocate però alla fine del terzo e del quinto anno, piuttosto che dopo il sesto mese del terzo anno e dopo il dodicesimo mese del quinto anno. La descrizione della distribuzione dei mesi intercalari è riportata, oltre che dalle due Saṃhitā, anche dal Mānavaśrautasūtra (Aforismi di Manu sui rituali solenni; I, 7, 12-18). L'inserimento di due mesi intercalari in un periodo di cinque anni rappresenta una discreta approssimazione alla realtà; tuttavia nel testo non si nega la ripetizione infinita dello yuga quinquennale, la quale determinerebbe invece un'amplissima discrepanza tra il calendario del Jyotiṣavedāṅga e le date effettive del Novilunio e del Plenilunio. L'errore è dell'ordine di un intero mese in cinque yuga, cioè in 25 anni.

Un ciclo d'intercalazione di 25 anni fu usato in Egitto a partire dal IV sec. a.C. Se qui un anno è pari a 365 giorni civili, così come verosimilmente nella recensione ṛgvedica, si ha: 25 anni=9125 giorni=309 lunazioni; una lunazione, dunque, contiene poco più di (in notazione sessagesimale) 29;31,50 giorni (cioè, nella nostra notazione decimale, 29,53055… giorni). Poiché, come vedremo, anche nel sistema di Lagadha l'anno è di 365 giorni, il suo yuga corrisponde a 25 anni=9125 giorni=310 lunazioni e quindi una lunazione in questo yuga contiene poco meno di 29;26,7 (=29,435277…) giorni soltanto. Tuttavia, se un anno è pari a 366 giorni civili, come vuole la recensione yajurvedica, la correzione della durata di una lunazione è insufficiente: 5anni=62 mesi=1830 giorni e 1 mese=29;30,58 (=29,516111…) giorni.

L'errore nella durata dell'anno siderale si accresce però da poco più di un quarto di giorno a poco meno di tre quarti di giorno. Che nella recensione ṛgvedica l'anno consta di 366 giorni si evince dalla strofa 18, ove si afferma che la Luna si unisce a un nakṣatra ('costellazione') per un giorno e sette kalā ('porzioni'), e il Sole per tredici giorni e cinque noni di un giorno. Poiché secondo il Jyotiṣavedāṅga vi sono 27 nakṣatra e 62 lunazioni in cinque anni siderali, la Luna si unisce a un nakṣatra 1809 volte nel corso di uno yuga. Siccome poi la strofa 16 afferma che vi sono 603 kalā in un giorno, il numero di giorni (G) in uno yuga di cinque anni si ricava dalla formula: G=1809×[1+(7/603)]=1830. Ciascun anno contiene quindi un quinto di 1830, cioè 366 giorni. Analogamente, il Sole si unisce con un nakṣatra per tredici giorni e cinque noni 135 volte in cinque anni, cosicché G=135×[13+(5/9)]=1830.

Resta tuttavia da chiarire a che tipo di giorno si fa riferimento. Vi sono due possibilità: giorni civili, che iniziano con il sorgere del Sole, o giorni siderali, che iniziano con il sorgere di una stella fissa. Il giorno del secondo tipo è preferibile astronomicamente e storicamente, giacché 366 giorni siderali in un anno indicano 365 giorni civili. Questa durata è più vicina alla realtà rispetto a quella di 366 giorni civili, e alla durata di un anno egiziano, quale era stata adottata nell'Iran achemenide. Il suo adattamento a opera di Lagadha è in perfetta armonia con il suo impiego di espedienti e di parametri matematici mesopotamici, anch'essi di certo noti all'Iran achemenide.

L'utilizzazione dei giorni siderali nell'India del 400 a.C. ca. non desta sorpresa. Già nel Taittirīyabrāhmaṇa (Brāhmaṇa della scuola Taittirīya; I, 5, 2, 1) si notava che, dopo il sorgere di un nakṣatra (qui nel senso di 'stella'), il Sole si leva e la stella non è più visibile; se si tiene conto del numero delle levate del Sole da una levata eliaca di un dato nakṣatra sino alla successiva, il numero di giorni civili è in genere di 365, tuttavia è facile dedurre che le levate del nakṣatra sono 366. Questo rapporto tra giorni civili e siderali era già chiaro all'autore della recensione yajurvedica, nella quale, alla strofa 29, si dice: "le levate di Vāsava [cioè Śraviṣṭhās] sono la somma dei giorni [civili] [in uno yuga di cinque anni] e cinque". E l'uso delle quattro misure di tempo ‒ civile, saura ('solare'), lunare e siderale ‒ nello Yavanajātaka (Oroscopia secondo gli Occidentali) di Sphujidhvaja (LXXIX, 6-8) prova che il giorno siderale faceva parte della tradizione indiana prima del III sec. d.C. Infatti, con una leggera emendazione del testo manoscritto, la prima metà della strofa 19 della recensione ṛgvedica potrebbe essere così tradotta: "si dovrebbero indicare le levate [lett. 'contatti con l'Oriente'] [delle stelle] moltiplicate per il loro numero [a cominciare] da Śraviṣṭhās [in cui ha inizio il corso settentrionale del Sole]".

L'uso della misurazione siderale del tempo negli ultimi secoli a.C. risulta inoltre evidente da un passo del Lāṭyāyanaśrautasūtra (Aforismi di Lāṭyāyana sui rituali solenni; IV, 8, 4-7) che computa con un mese siderale (nākṣatra) di 27 giorni un mese lunare (cāndramāsa) di 29 giorni e mezzo e un anno solare (tairyagayanika ādityasya) di 366 giorni. Una discussione più elaborata si trova nel Nidānasūtra (Aforismi sui metri e i canti vedici; V, 11-12), che potrebbe essere stato composto nel II sec. a.C.: vi si aggiunge il fatto, tra gli altri dati, che l'anno solare è siderale, che il Sole rimane in ciascun nakṣatra per 13 giorni e 1/3 (cosicché un anno siderale è pari a 360 giorni!), e che il Sole si muove verso nord per sei mesi (di 29 giorni ciascuno) e nove giorni e verso sud durante un identico periodo.

Ciò suggerisce il motivo per cui Lagadha scelse un anno di 366 giorni, giacché in questo modo i due ayana ('percorsi') del Sole si equilibrano in una durata di 183 giorni ciascuno, cosa che non sarebbe possibile con un anno di 365 giorni civili. Queste metà simmetriche dell'anno fungono da asse temporale di una funzione lineare a zig-zag atta a determinare la durata della luce in ciascun giorno di un ayana. La durata della luce al solstizio invernale è di 12 muhūrta (un muhūrta corrisponde al trentesimo di un giorno) e di 18 muhūrta al solstizio estivo; l'aumento o la riduzione giornalieri sono di 2/61 (=6/183) di muhūrta. La funzione lineare a zig-zag è un espediente caratteristico dell'astronomia matematica babilonese; anche il rapporto tra la durata massima della luce del giorno e quella minima (3:2) è un parametro babilonese.

La differenza tra la durata massima della luce e quella minima ‒ sei muhūrta ‒ è menzionata insieme a un'altra funzione lineare a zig-zag, nella quale la misura della luce del giorno aumenta o diminuisce di un prastha (una misura di capacità che non è noto a quanto corrisponda) d'acqua in una clessidra ad acqua defluente. Sembra di poter ravvisare riferimenti all'acqua nei termini āḍhaka (emendazione di āṣaka), kuṭapa (per kuḍava) e, soprattutto, nāḍikā ('il tubo di scarico dell'orologio ad acqua'; recensione ṛgvedica, 16-17). In questi versi la nāḍikā è usata come misura di tempo, pari a 1/60 di giorno. L'orologio ad acqua defluente, in cui il peso dell'acqua è determinato da una funzione lineare a zig-zag, era egualmente usato nell'astronomia babilonese. In alcuni testi babilonesi il giorno è anche suddiviso in 60 parti uguali.

Intorno al 600 a.C. anche i Babilonesi cominciarono a fare uso di una divisione artificiale della lunazione in trenta parti uguali. In India, tali unità di tempo, successivamente denominate tithi, sono menzionate nella recensione ṛgvedica del Jyotiṣavedāṅga, la quale presuppone che uno yuga sia composto da 1860 unità (al maschile o al neutro in questa strofa, invece che al femminile, come il termine tithi richiederebbe): 1860=62×30. Sono inoltre presenti sia aggettivi ordinali femminili implicanti il termine tithi sia, più volte, la parola tithi stessa.

Le costellazioni (nakṣatra)

Tav. IV

Come i Babilonesi, nel tardo V sec. a.C., dividevano il percorso della Luna, del Sole e dei pianeti in 12 parti uguali, denominate in base a dodici delle loro costellazioni, così Lagadha divideva il percorso del Sole e della Luna in 27 parti uguali, denominate in base ai nakṣatra. La recensione ṛgvedica le designa con una sillaba tratta dal nome di ciascun nakṣatra o della corrispondente divinità (devatā; strofa 14) ed elenca in seguito (vv. 25-27) i nomi delle loro devatā così come sono dati nei testi vedici. Nella Tav. IV il simbolo (liṅga) del nakṣatra è seguito dal numero del posto che esso occupa nella strofa 14.

Poiché Lagadha fece uso dell'elenco vedico dei nakṣatra, che ha inizio con le Kṛttikās (le Pleiadi ovvero MUL.MUL), raggiunte dalla Luna durante il mese babilonese di Nisannu, nel quale ha luogo anche l'equinozio di primavera, egli pose tale equinozio all'epoca in cui il Sole si trova nelle Kṛttikās. Infatti, se ciascun intervallo tra un equinozio e un solstizio è pari a un quarto di 27 nakṣatra, essi sono separati da 6 nakṣatra e 3/4; il solstizio d'inverno avrà quindi luogo mentre il Sole si trova in un quarto delle Śraviṣṭhā. Il Jyotiṣavedāṅga, peraltro, mentre pone il principio dell'ayana settentrionale (dal solstizio d'inverno al solstizio d'estate) del Sole "al principio delle Śraviṣṭhā", insiste sul coinvolgimento della Luna allo scopo di produrre una congiunzione all'inizio dello yuga; non s'indica però alcuna data concreta, cosicché lo yuga non può avere applicazione pratica. "Quando la Luna e il Sole attraversano il cielo insieme con Vāsava [Śraviṣṭhās], allora si ha l'inizio dello yuga [quinquennale], [il mese lunare] Māgha [chiamato anche] Tapas, lo splendente; invero, [il loro] corso [ayana] è verso il nord. All'inizio delle Śraviṣṭhā il Sole e la Luna avanzano verso nord, a metà di Sārpa [Āśreṣās] verso sud. Ma il Sole sempre [si muove verso nord e verso sud] in Māgha e in Śrāvaṇa [rispettivamente]". Si noti che il solstizio d'inverno era già stato collocato in Māgha dal Kauṣītakibrāhmaṇa (Brāhmaṇa della scuola Kauṣītakin; XIX, 2-3).

L'impossibilità di esprimere una data di riferimento impedì a Lagadha di costruire un sistema funzionale. Se non è noto quando nel passato si sia verificata una congiunzione tra il Sole e la Luna all'inizio delle Śraviṣṭhā, non è possibile calcolare in quale momento del corrente yuga ci si trova. Lo yuga è fatto piuttosto per essere applicato in brevi intervalli di dieci o quindici anni su una base ad hoc. Calcolando semplicemente il tempo a partire da un opportuno novilunio, si ottiene un calendario approssimativo utilizzabile per un breve periodo di tempo. Esso è usato, per esempio, nel Mahābhārata (Grande poema dei Bhārata; Virāṭaparvan, 47, 3-4). Considerando il Jyotiṣavedāṅga in questa prospettiva, diventa ovvio che le durate erronee della lunazione e dell'anno solare, l'impiego di un moto rigorosamente mediano e le inesatte collocazioni degli equinozi e dei solstizi non fanno alcuna differenza sul piano pratico. Il Jyotiṣavedāṅga, infatti, non aspira alla precisione, né può farlo in mancanza di date di riferimento.

Ciononostante, alcuni elementi dell'astronomia di Lagadha sono utilizzati in numerosi testi non soltanto precedenti, ma anche successivi, al V sec. d.C. quando ha inizio l'astronomia dei siddhānta: nell'Arthaśāstra (Trattato sull'utile), attribuito a Kauṭilya, nello Śārdūlakarṇāvadāna (Gesta di Śārdūlakarṇa), nel Paitāmahasiddhānta (Siddhānta di Brahmā, la cui epoca è l'11 gennaio dell'80 d.C.), riassunto da Varāhamihira nella sua Pañcasiddhāntikā (Esposizione dei cinque siddhānta; cap. 12), nello Yavanajātaka composto da Sphujidhvaja nel 269/270 d.C., nel Vasiṣṭhasiddhānta (Siddhānta di Vasiṣṭha), anche questo riassunto da Varāhamihira nella sua Pañcasiddhāntikā (cap. 2), e nei testi jaina Sūriyapaṇṇatti (Esposizione del Sole) e Caṃdapaṇṇatti (Esposizione della Luna), che seguono l'interpretazione della recensione yajurvedica. Anche molti Purāṇa utilizzano Lagadha, aggiungendovi però i segni zodiacali e l'idea della velocità non uniforme. Inoltre, l'ultimo verso (36) della recensione ṛgvedica ‒ "I Veda apparvero per il bene dei sacrifici; i sacrifici furono stabiliti come procedenti regolarmente nel tempo. Perciò colui il quale conosce il jyotiṣa, la scienza del tempo, conosce tutto" ‒ servì a dare una giustificazione allo studio dell'astronomia nel sistema Brāhmapakṣa sin dai suoi inizi nel V sec. d.C.

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