Scienza indiana: periodo vedico. I Veda

Storia della Scienza (2001)

Scienza indiana: periodo vedico. I Veda

Christopher Minkowski

I Veda

Le raccolte di formule vediche (Saṃhitā) rappresentano l'anima della tradizione vedica, il nucleo della tradizione dell'induismo brahmanico, così come è venuto costituendosi ed è stato trasmesso e praticato fino a oggi. Le Saṃhitā sono state preservate da una tradizione orale di notevole accuratezza, integrata negli ultimi nove secoli circa da una tradizione ausiliare manoscritta. È arduo datare questi testi con sufficiente sicurezza, ma gli studiosi contemporanei presumono che i versi che compongono le Saṃhitā siano stati composti approssimativamente nel periodo compreso tra il 1500 e il 1000 a.C., sebbene nel loro complesso probabilmente non abbiano assunto la loro forma definitiva che molti secoli più tardi.

Quella vedica è una tradizione essenzialmente rituale: le Saṃhitā furono redatte nella forma in cui ci sono note come supporto all'esecuzione di un sistema di complesse pratiche sacrificali. Le formule conservate nelle Saṃhitā sono recitate nel corso dei sacrifici, costituendone il linguaggio performativo. I sacrifici sono generalmente costituiti dall'offerta di vari prodotti agricoli, appositamente preparati e dedicati alle divinità del pantheon vedico, che sono posti nel fuoco consacrato.

I sacrifici vedici richiedono non meno di quattro e fino a sedici sacerdoti, ognuno dei quali svolge una funzione specifica, non intercambiabile. I sacerdoti si distinguono innanzitutto in base alle formule vediche recitate da ciascuno. Questa 'divisione del lavoro' tra sacerdoti si riflette in una 'divisione del lavoro' tra i testi vedici. I Veda sono quattro: Ṛgveda (Veda degli inni), Yajurveda (Veda delle formule sacrificali), Sāmaveda (Veda dei canti) e Atharvaveda (Veda degli Atharvan), ciascuno con la propria Saṃhitā. Essi furono composti in una forma di sanscrito preclassica, che già ai più antichi commentatori di cui si ha notizia, e finanche ai primi compilatori di indici e di altri manuali di recitazione e conservazione, risultava arcaica e parzialmente incomprensibile. Il significato dei testi vedici era pertanto in certa misura ignoto a molti di coloro ai quali ne era stata affidata la trasmissione, e a maggior ragione a coloro che non avevano competenze specifiche nel campo delle tradizioni ausiliarie ai Veda.

La perdita della piena intelligibilità delle Saṃhitā vediche è conseguenza del fatto che la tradizione ha sempre privilegiato la forma del discorso vedico, piuttosto che il suo significato. Questa preferenza trova spiegazione nella storia intellettuale della tradizione religiosa vedica, che riflette la storia dello sviluppo del rituale vedico. Nel corso di questa evoluzione si assiste a un incremento della complessità degli atti rituali e all'affermarsi della convinzione che l'efficacia del sacrificio non conosca limiti. Al tempo stesso si rafforza la teoria secondo la quale ciò che rende i sacrifici efficaci sono le parole recitate nel momento appropriato e, in particolare, il loro suono. Di conseguenza, le parole delle Saṃhitā diverranno a tal punto importanti da assumere uno speciale status ontologico nell'ambito della tradizione tardo-vedica e di quella brahmanica postvedica. Per le tarde tradizioni brahmaniche le formule sacre dei Veda rappresentano la śruti, la più alta forma di verità, vale a dire le parole che sono state udite da saggi ispirati, e quindi la rivelazione. Pertanto, i testi appartenenti alla śruti sono considerati come autoesistenti su un proprio piano di realtà e non creati da dèi o da uomini (apauruṣeya). Anche dopo la fine dell'Universo, quando tutte le cose rimangono increate in attesa di una successiva ricreazione, i Veda continuano a esistere indipendentemente da conoscitori o enunciatori, umani oppure divini. Considerata l'enorme importanza attribuita ai suoni delle formule raccolte nella śruti in generale, e nelle Saṃhitā in particolare, non sorprende che la tradizione orale dei Veda si sia prodigata allo scopo precipuo di preservare le parole della śruti alla lettera, per sviluppare le scienze scolastiche di analisi ed esegesi filologica, nonché per consacrare e codificare il dovere di officiare i complessi sacrifici vedici.

Nel processo di sviluppo delle tradizioni scientifiche indiane, l'eredità dei Veda si è manifestata nella significativa influenza che questi testi esercitarono su una delle principali classi di intellettuali dell'India antica, i brahmani, per i quali la conservazione dei Veda rappresentava un dovere primario. Di qui ebbe origine la generale tendenza della tradizione intellettuale brahmanica al conservatorismo in senso letterale, all'impegno nelle scienze filologiche ed esegetiche, all'utilizzo di determinate modalità di analisi e concettualizzazione derivanti dai principî di strutturazione gerarchica della letteratura vedica e della relativa pratica rituale e a un'alta considerazione della conoscenza in sé stessa. È significativo, a tale proposito, che il sacro verso Gāyatrī (Ṛgveda, III, 62, 10), recitato quotidianamente dai brahmani osservanti, esalti l'autoluminosità della divinità non per fini di salvezza o di benessere materiale, ma perché essa ispiri le menti degli uomini.

Terminologia

Il termine saṃhitā significa 'raccolta' o 'congiunzione' e si riferisce al formato dei testi, piuttosto che al loro contenuto. Tale termine può essere inteso in due sensi: nel suo senso più tecnico e ristretto caratterizza l'esposizione fonologica del testo, che in quanto tale va distinta dall'esposizione padapāṭha, cioè 'parola per parola'. Nel testo padapāṭha sono annullati i processi di combinazione eufonica (sandhi) tra le parole. Nel testo di una Saṃhitā le parole sono invece riunite sulla base dell'analisi fonologica. Pertanto, secondo tale accezione del termine, una Saṃhitā è la versione del testo ricomposta a partire dal padapāṭha. È dunque il loro stesso nome a suggerire la storia delle Saṃhitā, in quanto prodotto di un'attenta tradizione di ordinamento fonologico e in quanto radicate in una tradizione scolastica specializzata nell'analisi linguistica.

Per comprendere il secondo, più generale, significato del termine saṃhitā è necessario premettere che i testi vedici operano un'antica distinzione tra due generi di linguaggio vedico: mantra e brāhmaṇa. Il primo termine si applica alle formule utilizzate nell'esecuzione dei sacrifici come elementi attivi, il secondo ai passi esegetici in cui si discutono le formule e i relativi rituali. Un mantra può essere in versi o in prosa, mentre il materiale esegetico, detto brāhmaṇa, è sempre in prosa. Nella sua seconda accezione il termine saṃhitā si riferisce dunque a un genere di testo vedico che va distinto dai Brāhmaṇa (intesi qui come classe di testi e non come genere letterario), dagli Āraṇyaka e dalle Upaniṣad. La Saṃhitā è, almeno in linea di principio, la raccolta di tutti i mantra, mentre i Brāhmaṇa, ecc., comprendono vari generi di esegesi e discussione (nella pratica, tale distinzione non è sempre applicata rigidamente).

In relazione a una determinata recensione vedica, è la Saṃhitā a rivestire la massima importanza, giacché contiene il materiale più rilevante, ossia i mantra. Tra tutti i testi di una data recensione, il testo della Saṃhitā è quello tramandato con maggiore scrupolo, corredato da gran parte della letteratura sussidiaria, ossia indici, padapāṭha, commentari, ecc. La maggior parte delle recensioni vediche include anche Brāhmaṇa, Āraṇyaka e Upaniṣad. I Brāhmaṇa tramandano antiche discussioni esegetiche sui mantra e sui rituali in cui questi sono utilizzati. Negli Āraṇyaka sono incorporati gli sviluppi tardi dei rituali, come pure discussioni dal carattere speculativo assai più marcato sui significati reconditi dei rituali stessi. La filosofia speculativa sarà proseguita fino a divenire indipendente dalla tradizione rituale originaria, presentandosi con le Upaniṣad in termini più astratti e generalizzati.

Cronologia

Gli studiosi moderni fanno risalire la lingua, se non la forma finale, delle Saṃhitā al periodo compreso tra il 1500 e il 1000 a.C. Questa stima è basata soltanto su alcuni dei dati storici di cui normalmente si dispone per datare periodi letterari o storici. Poiché la tradizione dei Veda è eminentemente orale e non esiste un criterio sicuro per collegare gli autori dei testi vedici ai materiali archeologici risalenti alla preistoria dell'India settentrionale, gli storici si sono ampiamente affidati all'analisi storico-linguistica e alle testimonianze fornite dalla letteratura più tarda, databile con maggior sicurezza. La datazione più comunemente accettata è perciò suggerita dalla considerazione dei seguenti elementi: la natura della lingua dei Veda, assai vicina alla lingua della letteratura avestica; l'antichità relativa della lingua delle Saṃhitā in rapporto al sanscrito 'classico' della letteratura postvedica; le testimonianze fornite da più recenti materiali storici d'origine buddhista, jaina, ecc., i quali sono databili alla metà del III sec. a.C. Tale datazione consentirebbe inoltre una rappresentazione coerente del tempo che la lingua indiana e iranica impiegarono per differenziarsi e svilupparsi nelle rispettive fasi storiche.

Le scoperte della linguistica storica comparativa sulla fonologia, la morfologia, la sintassi e il lessico consentono di stabilire una cronologia relativa degli stili e strati della letteratura vedica: la fase più antica è rappresentata dalle Saṃhitā, seguite dai Brāhmaṇa, dagli Āraṇyaka e dalle Upaniṣad. Si può inoltre precisare che tra le Saṃhitā quella del Ṛgveda è palesemente la più antica; quella dell'Atharvaveda è di poco più tarda, mentre le Saṃhitā dello Yajurveda e del Sāmaveda appartengono a un'epoca nettamente più recente.

Asserire che i testi pubblicati in epoca moderna documentino semplicemente una tradizione orale conservatasi senza soluzione di continuità nel corso degli ultimi tre millenni è problematico per due ragioni: in primo luogo, a causa della prospettiva distorta conseguente alla selettività del testo stampato, che astrae la Saṃhitā dal suo contesto tradizionale, costituito cioè da un intero apparato di materiali sussidiari e di supporto; in secondo luogo, a causa della storia movimentata, spesso turbolenta, dei Veda quali elementi e fattori storici. Infatti, sebbene questi testi rappresentino una tradizione vivente, che nel XVIII sec. era ancora in via di espansione, essi non furono mai, per lo meno non fino all'Età moderna, ampiamente ed egualmente accessibili agli hindu di casta alta in tutto il territorio indiano. Al contrario, la fortuna dei Veda è stata di natura discontinua, dipendente dal supporto regale, statale o istituzionale, e quindi, date le vicissitudini delle dinastie e delle istituzioni politiche nel corso della storia indiana, soggetta ad ascese e a decadenze, migrazioni, sconfitte e rinascite. Pertanto le Saṃhitā vediche, così come ci sono pervenute, nonostante i risultati pressoché stupefacenti del lavoro della tradizione mnemonica, sono state soggette a 'diaskeúasis ortoepica', a ricompilazione o, nei casi peggiori, a fusione, corruzione e scomparsa.

Di tutta la letteratura vedica, le Saṃhitā sono le meno soggette a modifiche; è quasi assiomatico che quanto più è centrale un testo vedico, tanto meno è soggetto a variazioni testuali nel manoscritto e nelle tradizioni orali superstiti. A tale riguardo, il Ṛgveda con la Śākalasaṃhitā (Raccolta propria della scuola Śākala), l'unica recensione conservatasi, rappresenta l'esempio più significativo: in tutte le sue manifestazioni manoscritte e orali, mostra infatti un numero sorprendentemente basso, vista anche la sua antichità, di varianti significative.

Letteratura sussidiaria

Le Saṃhitā sono state conservate nei secoli da una tradizione recitativa preminentemente orale, all'interno di famiglie di brahmani ortodossi (vaidika), e anche nelle pāṭhaśālā, una sorta di scuole pubbliche. Ogni Saṃhitā era tramandata all'interno della rispettiva scuola di recensione (śākhā). Diverse scuole di recensione sono sopravvissute, con varia fortuna, fino all'epoca moderna; alcune di esse sono ancora molto vitali nella memoria dei recitatori e degli officianti; di altre rimangono soltanto i relativi manoscritti; altre ancora sono note solamente grazie a riferimenti presenti in altri testi.

Tutte le scuole vediche, e in modo particolare quelle ancora esistenti, hanno elaborato pratiche scolastiche atte a garantire l'accuratezza e l'integrità dei propri 'testi' canonici, al di là del metodo fondamentale della trasmissione orale: la ripetizione da parte dell'allievo dei versi enunciati dal maestro. Le pratiche scolastiche sono state esse stesse poste in forma di testo e rese parte della tradizione mnemonica. Questa letteratura sussidiaria è nota come Vedalakṣaṇa ed è una fonte preziosa per la comprensione della storia delle Saṃhitā vediche. Essa è tra l'altro degna di nota per la sua pluralità, poiché ogni scuola di recensione ha costituito la propria letteratura Vedalakṣaṇa in modo diverso. La letteratura Vedalakṣaṇa comprende:

a) testi di fonetica e fonologia, quali le Śikṣā e i Prātiśākhya;

b) indici degli autori, divinità e metri dei versi delle Saṃhitā, codificati in varie forme mnemoniche, quali Anukramaṇī e Baiṭh;

c) opere sulle diverse forme di recitazione delle Saṃhitā vediche. Oltre alla Saṃhitā e al Padapāṭha, le scuole di recitazione possiedono altri metodi, dalla complessità crescente, di divisione e ricombinazione delle parole dei testi di base. Un genere di letteratura Vedalakṣaṇa formula le regole in base alle quali queste forme di recitazione, dette genericamente prakṛti e vikṛti, sono costituite;

d) elenchi di parole con un trattamento speciale nei Padapāṭha, quali aniṅgya, o 'non divisibili', e śamāna.

Poiché la lingua parlata dai brahmani praticanti il Veda cominciava a differenziarsi a causa del cambiamento storico dalla lingua delle Saṃhitā, si cercò di conservare e spiegare il senso dei complessi mantra. La letteratura dei Brāhmaṇa rappresenta essa stessa una forma iniziale di commentario ed esegesi. In epoca antica fu poi raccolta nel Nighaṇṭu (Glossario) una lista di parole di significato oscuro; tale lista fu commentata nel Nirukta (Analisi semantica). Il più antico commentario alle Saṃhitā che sia giunto fino a noi è quello di Skandasvāmin al Ṛgveda, risalente agli inizi del VII sec. d.C. Alcuni indizi nel testo suggeriscono che Skandasvāmin, autore anche di un commentario sul Nirukta, avesse accesso a commentari di epoca precedente; taluni ne hanno dedotto l'esistenza di una tradizione di redazione di commentari alle Saṃhitā assai più antica, addirittura ininterrotta sin dal remoto passato vedico. Tuttavia le testimonianze testuali relative a tali antichi commentari sistematici ai Veda sono esigue. Inoltre, spesso i commentatori non riescono a stabilire il significato dei passi oscuri delle Saṃhitā. Sembra dunque altrettanto plausibile che la pratica di commentare le Saṃhitā abbia avuto inizio non molte generazioni prima di Skandasvāmin e che gli esegeti abbiano cominciato a comporre commentari ai testi vedici imitando gli autori dei commentari redatti nell'ambito delle discipline scientifiche e filosofiche. Ancora nel XVIII sec. si producevano commentari alle Saṃhitā, tuttavia l'apice di questa attività fu raggiunto nel XIV sec. con l'opera di Sāyaṇa, sotto il regno di Vijayanagara. La scuola vedica di Sāyaṇa compose commentari rivolti a gran parte della letteratura vedica, inclusa la Ṛgvedasaṃhitā (Raccolta del Veda degli inni), la Śuklayajurvedavājasaneyisaṃhitā (Raccolta del Veda bianco delle formule sacrificali propria della scuola Vājasaneyin [recensione Kāṇva]), la Kṛṣṇayajurvedataittirīyasaṃhitā (Raccolta del Veda nero delle formule sacrificali propria della scuola Taittirīya), la Sāmavedakauthumasaṃhitā (Raccolta del Veda dei canti propria della scuola Kauthuma) e l'Atharvavedaśaunakasaṃhitā (Raccolta del Veda degli Atharvan propria della scuola Śaunaka).

Recensioni

Nessuna analisi storica della tradizione vedica può prescindere dalla considerazione delle scuole di recensione (śākhā). Il termine śākhā designa la recensione di una Saṃhitā in quanto conservata da una tradizione orale di recitazione; un brahmano conosce una Saṃhitā solamente nella forma tramandata all'interno di una particolare śākhā. Questo termine significa letteralmente 'ramo' e fa parte di una delle immagini dominanti della tradizione vedica: il grande albero dei Veda (vedavṛkṣa). Questa immagine ha permesso ai brahmani di porre in forma concettuale la relazione tra una concezione unitaria della tradizione vedica e la realtà storica delle molte versioni di quella tradizione. Secondo questa concezione le diverse recensioni delle Saṃhitā, dei Brāhmaṇa, ecc., sono tutte organicamente connesse tra loro attraverso un tronco e un sistema radicale, come i rami di un albero. L'immagine dell'albero non è usata, a ogni modo, per suggerire relazioni storiche, e lo studioso moderno dei Veda cadrebbe in errore qualora pensasse di leggervi un albero genealogico. La storia dello sviluppo delle śākhā non è stata, del resto, ancora pienamente compresa; la ricerca contemporanea suggerisce a ogni modo il quadro generale che sarà esposto di seguito.

Non v'è ragione di supporre che ognuno dei quattro Veda sia sorto in forma di Saṃhitā originaria compiutamente redatta, che soltanto in epoca successiva si sarebbe suddivisa nelle divergenti tradizioni delle śākhā. Anche alcuni resoconti purāṇici leggendari della storia dei Veda narrano di poeti o ṛṣi che, pur avendo 'visto' i Veda mediante la forza della propria visione interiore, poi li persero, oppure li ricompilarono, o li insegnarono soltanto in parte. Sembra dunque che i testi abbiano attraversato diversi stadi di recensione e ricompilazione; più scuole contribuirono, in modi e gradi differenti, ai processi di raccolta dei versi, alla loro 'classicizzazione' rituale e alla loro distribuzione geografica.

Il materiale appartenente alle Saṃhitā che ha preso forma per primo è rappresentato dai versi singoli e dagli inni; la Ṛgvedasaṃhitā ne presenta una raccolta in diversi 'strati' storici. Tali versi e inni antichi continuarono a esistere in forma meno compiuta, come parte di un corpus di materiale vedico 'fluttuante'. Da questo materiale furono tratti molti dei versi confluiti nella compilazione dell'Atharvaveda, dello Yajurveda e del Sāmaveda. Alcuni di questi testi successivamente 'corressero' parte dei loro versi perché si accordassero alla versione più rifinita della Ṛgvedasaṃhitā; nella storia delle scuole vediche il Ṛgveda occupa infatti un posto d'eccezione, giacché la sua forma canonica fu in gran parte, se non interamente, ultimata già in una fase antica.

Una grande trasformazione delle Saṃhitā ebbe luogo durante quello che si è soliti definire il periodo vedico 'classico', allorché la celebrazione dei rituali vedici fu razionalizzata secondo un sistema di modello e variante. In questo sistema i riti sacrificali del novilunio e del plenilunio (darśapūrṇamāsau) servono da modello a tutti i sacrifici più semplici basati sull'offerta di prodotti agricoli, mentre l'agniṣṭoma (lode ad Agni), rito della durata di un giorno, funge da modello per tutti i riti del soma, la bevanda sacra. Le diverse recensioni della Yajurvedasaṃhitā (Raccolta del Veda delle formule sacrificali) furono costruite come testi liturgici, il cui nucleo era costituito dai versi da utilizzare nell'esecuzione di tali sacrifici modello. Nello stesso periodo furono organizzate le recensioni della Sāmavedasaṃhitā (Raccolta del Veda dei canti) sulla base della medesima sistemazione liturgica dei riti sacrificali del soma. L'Atharvavedasaṃhitā (Raccolta del Veda degli Atharvan) presenta due recensioni molto diverse, una delle quali è stata sottoposta alla suddetta classicizzazione testuale e rituale in misura ben maggiore.

Sembra evidente che una delle principali ragioni dello sviluppo delle śākhā fu la diffusione della cultura vedica in una parte sempre più vasta del subcontinente indiano. La storia della distribuzione geografica delle śākhā può essere ricostruita sulla base delle più antiche testimonianze testuali indiane, sia vediche sia non vediche. La composizione della Ṛgvedasaṃhitā avvenne tra popolazioni del Panjab orientale, mentre da alcuni passi della Yajurvedasaṃhitā si desume che il fulcro della cultura vedica si sarebbe in seguito spostato nel Doab, la regione tra il Gange e la Yamuna, e poi ancora più a est nella valle del Gange. Testi vedici di epoca un poco più tarda denotano una conoscenza del Deccan settentrionale e di altre aree situate ai margini dell'Āryāvarta, la patria vedica. Agli inizi dell'epoca moderna i Veda erano ormai diffusi su quasi tutto il territorio indiano. I più importanti materiali manoscritti per lo studio della letteratura vedica erano spesso disponibili in regioni marginali dell'India, dal Malabar al Kashmir, dal Bengala al Rajasthan, tutte aree che la letteratura vedica considerava al di fuori del territorio della civiltà aria.

Le testimonianze fornite dai testi suggeriscono pertanto che, sebbene le śākhā abbiano cominciato a prendere forma assai presto nella storia della tradizione vedica, per un lungo periodo i brahmani appartenenti a śākhā diverse rimasero in contatto più o meno stretto tra loro, sottoponendo a revisione e perfezionando i propri testi, e perfino adottando materiali appartenenti a śākhā contigue. Ciò nondimeno, le differenti recensioni delle Saṃhitā furono alla fine conservate dalle rispettive tradizioni di recitazione come consapevolmente distinte l'una dall'altra. In altre parole, sebbene consapevoli delle versioni che altre śākhā davano di particolari mantra o pratiche rituali, i brahmani appartenenti a una certa śākhā si sentivano in dovere di proteggere la propria versione. I testi vedici, a cominciare dalle più antiche parti in prosa, riferiscono dell'esistenza di pratiche rituali vediche o di scelte di mantra alternative sia in tono neutrale, sia, in molti casi, deprecandole. Quindi, a dispetto dell'idea dominante di molti Veda visti come rami di un albero, esiste nella letteratura vedica anche una sorta di rivalità e di competitività intravedica.

Il contenuto, l'organizzazione e la distribuzione delle 'śākhā'

Ṛgveda

La Ṛgvedasaṃhitā (Raccolta del Veda degli inni) rappresenta la principale eccezione alla caratterizzazione della letteratura vedica come primariamente liturgica. Sebbene molti versi di questa Saṃhitā svolgano un ruolo centrale nella forma classica dei sacrifici vedici, essi precedono l'era yajurvedica 'classica'. Ciò si evince sia dalla loro analisi storico-linguistica, sia dalla forma semplice, non elaborata, del rituale cui alludono. All'era preclassica della letteratura vedica appartengono anche il contenuto e lo schema generale d'organizzazione del Ṛgveda. La grande maggioranza dei suoi versi è incorporata in brevi poemi lirici o inni di lode dedicati alle varie divinità vediche, in particolare a Indra, la divinità principale, e ad Agni, dio del fuoco. In tali inni, chiamati sūkta, si allude di frequente a un'attività rituale che tuttavia non è mai descritta con precisione.

La Ṛgvedasaṃhitā non è strutturata come un manuale liturgico, giacché i versi vi appaiono in ordine di autore, divinità e forma metrica (ṛṣi, devatā e chandas). Tra i dieci libri che la compongono, i Libri II-VII, detti 'libri familiari', raccolgono tutti gli inni attribuiti a un poeta o ad una famiglia di poeti, ulteriormente ordinati in base alla divinità cui si rivolgono e, ancora, a seconda della lunghezza del metro in cui sono composti. Gli altri libri presentano numerosi strati di collezioni aggiunte in epoca successiva e organizzate secondo i medesimi tre principî, sebbene non necessariamente applicati nella stessa sequenza.

A questo proposito, il decimo libro della Ṛgvedasamhitā è di particolare importanza. Aggiunta finale alla raccolta, è un assortimento di materiali particolarmente eterogenei, che di frequente non trovano posto nel rituale vedico classico. Oltre a versi su materie non rituali, quali uccelli, rane e gioco d'azzardo, il decimo libro include raccolte di versi usati nelle pratiche rituali domestiche, come gli inni matrimoniali e funebri (X, 14-18 e 85), e nelle pratiche rituali semimagiche, come gli incantesimi contro malattie o addirittura contro mogli rivali; lo stile delle composizioni è, in effetti, lo stesso caratteristico dell'Atharvavedasaṃhitā (Raccolta del Veda degli Atharvan). Il Ṛgveda contempla anche inni d'argomento cosmogonico, incluso l'inno 90 del Libro X, dedicato al Puruṣa, che contiene i più antichi riferimenti vedici ai quattro varṇa, le classi sociali della sociografia vedica.

Gli inni cosmogonici rappresentano una componente di un più ampio gruppo di inni 'filosofici', presenti soprattutto nel decimo libro, ma anche altrove nella Saṃhitā, perfino nelle sue parti più antiche. Questi inni sono considerati 'filosofici' o 'speculativi' in quanto consapevoli dell'incertezza epistemologica od ontologica implicita nelle domande ultime da loro stessi sollevate. Le discussioni 'speculative' proseguono nell'Atharvavedasaṃhitā e nella successiva letteratura vedica per culminare nelle formulazioni upaniṣadiche della natura del sé, dell'Universo e di ciò che è situato tra di essi. La tradizione brahmanica identifica questo materiale filosofico definendolo 'sezione della conoscenza' (jñānakāṇḍa); esso si contrappone al materiale ritualistico, che è identificato come 'sezione dell'azione' (karmakāṇḍa). Per la sopravvivenza della Ṛgvedasaṃhitā in epoca successiva, comunque, più importante degli interessi filosofici testimoniati dai suoi inni è l'incorporazione del suo testo nel canone della tradizione rituale, nella quale lo Yajurveda è predominante.

Yajurveda

Le scuole dello Yajurveda sono tra le vediche quelle che meglio si affermarono, godendo della più ampia diffusione. Le Saṃhitā yajurvediche testimoniano una trasformazione della religione vedica: essa fu concettualmente riorganizzata attorno all'esecuzione di rituali di eccezionale complessità e solennità. Le recensioni della Yajurvedasaṃhitā (Raccolta del Veda delle formule sacrificali) si formarono probabilmente in un momento storico-politico caratterizzato dall'emergere di Stati più vasti, con organizzazione sociale più complessa e strutture centralizzate. In questo periodo le Saṃhitā di tutte le scuole, incluse quelle del Ṛgveda, furono sottoposte a riformulazioni più o meno ampie, così da adattarle alla nuova idea di testo e di pratica.

Gli yajus-mantra, le formule sacrificali, che possono essere sia in versi sia in prosa, sono recitati dal principale sacerdote officiante, l'adhvaryu, o dal suo assistente, mentre esegue le azioni principali del sacrificio. Le formule prendono di solito la forma di un'affermazione circa il carattere divino delle azioni eseguite, o anche di richieste dirette agli dèi di esercitare la loro influenza su un'azione mentre essa è compiuta. Entrambi i tipi di formule stabiliscono un rapporto tra le attività dei sacerdoti e quelle degli dèi, i quali, in questo sistema di credenze, sono essi stessi sacrificatori.

I criteri d'organizzazione delle recensioni della Yajurvedasaṃhitā sono i medesimi dell'applicazione rituale. I mantra sono elencati nell'ordine del loro utilizzo in un dato rituale, e i passi brāhmaṇa seguono l'ordine dei mantra nello spiegare un'azione o una formula rituale. I sacrifici del novilunio e del plenilunio e il sacrificio agniṣṭoma del soma sono descritti come sacrifici modello in tutte le recensioni della Yajurvedasaṃhitā. Gli altri sacrifici sono trattati implicitamente, essendo considerati varianti di questi modelli. Tutti i testi delle Saṃhitā sono corredati da materiali supplementari, inclusi hautra, ossia i versi recitati dal hotṛ, o sacerdote ṛgvedico, e dai suoi assistenti. Sebbene di gran parte di questi testi esista una versione ṛgvedica, nelle recensioni della Yajurvedasaṃhitā i versi hautra sono ordinati alla maniera yajurvedica, essendo disposti nell'ordine del loro utilizzo nel rituale. Inoltre, molti dei versi hautra si discostano dalla loro controparte testuale ṛgvedica; essi sembrano derivati da qualche fonte 'fluttuante' alternativa.

Kṛṣṇayajurveda e Śuklayajurveda

Le recensioni testuali yajurvediche sono tradizionalmente distinte in due generi: nere (kṛṣṇa) e bianche (śukla); si tratta di una distinzione tra ordinamenti misti e non misti dei tipi di testi. Lo Yajurveda non misto, 'bianco', che è probabilmente il prodotto di una redazione più tarda, presenta uno schema d'organizzazione più chiaro, nel quale le Saṃhitā contengono i mantra, mentre il Brāhmaṇa che le accompagna (lo Śatapathabrāhmaṇa) contiene le spiegazioni brāhmaṇa. Inoltre, la Saṃhitā e il Brāhmaṇa sono disposti in modo tale da procedere secondo l'ordine dell'esecuzione rituale, e attraverso i rituali in ordine crescente di complessità, a cominciare dal capitolo che verte, sia nella Saṃhitā sia nel Brāhmaṇa, sui sacrifici del novilunio e plenilunio.

Lo Yajurveda misto, 'nero', include, dal canto suo, mantra e brāhmaṇa sia nel testo denominato Saṃhitā sia nel testo denominato Brāhmaṇa. Mentre le sottosezioni (kāṇḍa) di questi testi comprendono esclusivamente mantra o passi brāhmaṇa, e seguono l'ordine della sequenza di esecuzione, l'organizzazione generale delle sottosezioni non è stata sistematizzata quanto quella dello Yajurveda bianco. Si presume che questo minore grado di coerenza organizzativa riveli uno stadio antecedente di redazione. La testimonianza delle tradizioni testuali ausiliarie suggerisce peraltro che fino in epoca medievale continuarono a essere accessibili diversi ordini e sistemazioni delle sottosezioni del Kṛṣṇayajurveda (Veda nero delle formule sacrificali).

Di quest'ultimo rimangono quattro Saṃhitā. La Maitrāyaṇī ('propria della scuola Maitrāyaṇīya') è ritenuta la più antica. Non ci è pervenuto un Brāhmaṇa relativo. Sembra che questa Saṃhitā abbia avuto origine durante il medio periodo vedico nel Doab gangetico. La Saṃhitā della scuola Taittirīya è la meglio conservata e sopravvive attualmente nell'India meridionale, soprattutto nell'Andhra Pradesh e nel Tamil Nadu, con un corredo completo di Brāhmaṇa, Āraṇyaka, Upaniṣad, Śrautasūtra e Gṛhyasūtra, e con un vasto assortimento di letteratura ausiliaria. Sembra che questa raccolta abbia costituito in epoca vedica lo Yajurveda del clan Bhārata; è quindi da localizzare nel Kurukṣetra e nella pianura gangetica occidentale. La Saṃhitā della scuola Kāṭhaka si è conservata soprattutto nel Kashmir, benché non rappresenti più una tradizione vivente, se non in forme molto limitate. Il suo Brāhmaṇa e la letteratura successiva si sono conservati solamente in parte. Nel medio periodo vedico questa Saṃhitā occupò probabilmente la regione tra il Gange e il Panjab.

La Kapiṣṭhalakaṭhasaṃhitā (Raccolta dei Kapiṣṭhala e dei Kaṭha) è la raccolta meno ben conservata, essendo stata ricostituita sulla base di un unico manoscritto. Associata molto da vicino alla Kāṭhakasaṃhitā, questa recensione sembra essere un tempo fiorita nel Panjab. Del suo Brāhmaṇa esistono soltanto frammenti, e non rimane letteratura ausiliaria.

Lo Śuklayajurveda (Veda bianco delle formule sacrificali) ha una Saṃhitā, caratteristica della scuola Vājasaneyin, tramandata in due recensioni, quella della scuola Mādhyaṃdina e quella della scuola Kāṇva. La Mādhyaṃdina si diffuse probabilmente durante il tardo periodo vedico dal Doab tra Gange e Yamuna verso est, lungo la valle del Gange, fino al Videha. Da allora essa si è mantenuta quale unico e dominante Yajurveda dell'India settentrionale in generale, sino al Maharashtra centrale. La tradizione Kāṇva di questo testo non conobbe altrettanta fortuna. La sua Saṃhitā fu composta in epoca vedica nella regione del Kosala. Sebbene la scuola Kāṇva sia ancora molto vitale, sopravvive in sacche isolate localizzate nell'Orissa, nel Maharashtra meridionale, nel Karnataka e nel Tamil Nadu.

Sāmaveda

Con poche eccezioni soltanto, i versi contenuti nelle varie recensioni della Sāmavedasaṃhitā (Raccolta del Veda dei canti) hanno la loro controparte nell'VIII e nel IX Libro della Ṛgvedasaṃhitā. L'interesse principale del Sāmaveda non risiede pertanto nell'originalità poetica dei suoi versi, ma nella musica che se ne può trarre.

Le Saṃhitā del Sāmaveda sono divise in sezione di repertorio e sezione applicata. La prima sezione (pūrvārcika) comprende una lista di circa 600 versi singoli, che sono i versi di base di ciascuna delle diverse melodie del Sāmaveda, alle cui parole le melodie sono specificamente applicate. La seconda sezione della Saṃhitā (uttarārcika), comprendente circa 1200 versi, elenca i versi che nel corso dei sacrifici del soma il principale sacerdote sāmavedico, l'udgātṛ, e i suoi assistenti devono cantare. Uniti a entrambe le sezioni vi sono libri di canti (gāna), costituiti da compilazioni delle melodie da accompagnare ai versi i cui testi sono dati nelle sezioni (arcika).

Le scuole del Sāmaveda si differenziano in base ai versi conservati e alla misura in cui essi si discostano dalla loro controparte ṛgvedica, in base al numero delle melodie di ciascuno dei libri di canti e, principalmente, in base allo stile del canto. Tutte e tre le scuole sāmavediche sopravvivono come tradizioni viventi soltanto in forma molto attenuata, ma se ne ha testimonianza manoscritta, soprattutto nella scuola Jaiminīya.

Atharvaveda

L'eccezionalità della storia dell'Atharvaveda è suggerita dalle differenze tra le sue due recensioni superstiti, differenze nel grado di diffusione e di conservazione, nella natura della lingua e del contenuto. Le parti comuni a entrambe le versioni della Saṃhitā inducono a una datazione delle parti più antiche della raccolta compresa tra un'età di poco posteriore a quella di gran parte della Ṛgvedasaṃhitā e un'età anteriore a quella del periodo yajurvedico 'classico'. Tanto la lingua quanto il testo dell'Atharvaveda subirono revisioni sostanziali di vario genere nel 'periodo classico'. La diversità tra le revisioni è probabilmente dovuta al particolare status dell'Atharvaveda. La letteratura vedica contiene regolari e antichi riferimenti a una distinzione istituzionale tra gli altri tre Veda, che collettivamente sono detti 'la triade' (trayī), e l'Atharvaveda. Ciò si deve al fatto che inizialmente quest'ultimo non era incorporato nella formulazione del rituale vedico 'solenne'. I sacerdoti principali dei rituali vedici 'classici' sono specialisti in uno dei Veda della triade; almeno in un primo tempo il rituale classico non richiedeva esplicitamente un sacerdote atharvavedico; non v'è dubbio che ciò sia dovuto alla natura del contenuto dell'Atharvaveda. Le sue parti più antiche constano di due elementi: forme di ciò che oggi andrebbe sotto la definizione di magia ‒ incantesimi, maledizioni e cure ‒ e discussioni speculative su questioni generali. Queste ultime si pongono come una continuazione della vena filosofica già presente nel Ṛgveda. Gli elementi magici ‒ formule mantiche per rituali e scopi privati ‒ sono associati a due famiglie sacerdotali mitiche, gli Atharvan e gli Āṅgirasa, da cui il testo avrebbe tratto il suo nome primitivo, Atharvāṅgirasās, plurale che sottolinea la natura composita del testo. Questo materiale, un tempo, deve aver occupato una nicchia culturale molto diversa da quella del materiale caratteristico delle altre Saṃhitā vediche.

L'Atharvaveda giunse a farsi considerare come il 'quarto Veda' mediante l'aggiunta ai suoi capitoli più tardi di materiale dedicato ai rituali domestici e solenni. Particolarmente degna di nota è l'inclusione dei versi destinati a essere utilizzati dal sacerdote detto brahman, il cui ruolo rappresenta un'appendice al quadro del rituale classico. Almeno secondo i testi atharvavedici, il sacerdote brahman dev'essere uno specialista dell'Atharvaveda. I versi destinati al brahman testimoniano dunque l'aggiunta dell'Atharvaveda alla tradizione rituale yajurvedica classica.

Due sono le scuole atharvavediche che si sono conservate: la Śaunaka e la Paippalāda. Sembra che la recensione Śaunaka sia nata nella stessa regione della scuola Taittirīya dello Yajurveda; in tempi recenti essa era ancora vitale nel Rajasthan e nel Gujarat. La tradizione Paippalāda sopravvive ancora attualmente soltanto nell'Orissa.

Conclusioni

La preoccupazione per la conservazione dei Veda, come già osservato, ha generato nei loro custodi, i brahmani, un conservatorismo scolastico, un'attenzione per tutti gli aspetti dello studio della lingua e un interesse per la conoscenza in sé.

Un ulteriore lascito intellettuale della tradizione vedica è lo studio delle strutture formali in cui è organizzata la conoscenza. Il sistema di organizzazione che emerge nel periodo yajurvedico 'classico' è basato sulla schematizzazione dei rituali in base a principî come quelli di modello e variante. La prevalenza di questo criterio, insieme con lo sviluppo nei testi brāhmaṇa di un determinato sistema di spiegazione dei processi rituali, colpì Hermann Oldenberg (1854-1920), studioso dei Veda, che lo definì una 'scienza pre-scientifica' (Oldenberg 1919). E infatti, nei trattati scientifici indiani, per esempio negli aforismi (sūtra) di Pāṇini, oltre al contenuto scientifico, si riscontra uno straordinario impegno volto alla classificazione, alla schematizzazione e all'esposizione.

Il modo in cui i Veda sono stati conservati ha inoltre influito sulle epistemologie sviluppatesi nell'India antica. Il fatto che i Veda siano stati conservati nell'ambito di tradizioni prevalentemente orali ha significato che la verità da essi incarnata, per gran parte della sua storia, è stata disponibile solamente presso esponenti viventi; di qui l'importanza dell'autorità riconosciuta al maestro (guru) e della natura assoluta del suo accesso alla vera conoscenza. Il fatto che i Veda siano stati conservati nell'ambito di differenti scuole di recensione ha inoltre portato alla creazione di intese che mediassero tra l'esistenza di una e di molte verità, provenienti da fonti molteplici a vari livelli.

Quali monumenti centrali della tradizione vedica, le Saṃhitā sono state interpretate dalla tradizione brahmanica in due modi collegati tra loro: come letteratura rivelata, nel senso già indicato e, allo stesso tempo, come retaggio di un lontano passato. I seguaci della tarda tradizione vedica hanno dunque immaginato i Veda situati al di fuori della storia, immutabili e, a un tempo, come monumenti di grande antichità. La recitazione o esecuzione dei Veda, quindi, fornisce al recitante o all'officiante un legame con un passato mitico che è, al contempo, un 'regno di cose' fuori dal tempo.

Ciò premesso, la natura della verità rivelata dai Veda è anche limitata. È opinione di alcuni maestri appartenenti a entrambe le grandi tradizioni esegetiche dei Veda, la Karmamīmāṃsā e il Vedānta, che i Veda siano incontrovertibilmente autorevoli, ma soltanto per quel che concerne il mondo non accessibile alla percezione. I Veda non sono quindi da considerare autorevoli quanto al mondo dell'esperienza, al quale d'altronde non si interessano e che costituisce, invece, materia di studio per la scienza empirica. I Veda rappresentano piuttosto l'autorità in due campi ben più importanti: la conoscenza del dharma, ossia ciò che dev'essere fatto, che è l'ambito d'indagine della scuola della Karmamīmāṃsā ('disamina dell'azione rituale'); e la conoscenza (jñāna) del sé e della Causa Ultima, che è l'ambito d'indagine della scuola del Vedānta, il quale studia appunto gli insegnamenti vedici circa ciò che è reale.

Da ciò consegue, come sostengono i filosofi, che le affermazioni dei Veda non sono in competizione con la testimonianza dell'esperienza. Né ‒ si potrebbe aggiungere ‒ esse hanno bisogno di essere avallate dalle scoperte della ricerca scientifica empirica, poiché per definizione non possono essere convalidate al di fuori dei Veda. Per coloro che credono nell'autorità dei Veda, il campo d'indagine di questi testi è di gran lunga troppo importante per dipendere dalla ricerca scientifica, che si limita a studiare una gamma di cose conoscibili tramite i sensi, per quanto potenziati dalla tecnologia. Da tale punto di vista, quindi, le letture scientistiche contemporanee dei Veda, che nel tentativo di giustificare le rivendicazioni di verità di questi testi si sforzano di scoprirvi dichiarazioni nascoste in linea con la scienza moderna, vanno contro l'atteggiamento filosofico degli śāstra, vale a dire le scienze tradizionali indiane, e non tengono in gran conto l'intrinseco interesse dei Veda tanto per l'azione rituale quanto per la conoscenza ultima. Lo scientismo vedico è esso stesso un recente fenomeno culturale degno di studio, che ha paralleli in altre parti del mondo. Senza dubbio esso è da porre in relazione con il declino delle tradizioni viventi di studi vedici e con gli sviluppi storici e culturali di un globalismo che è emerso come conseguenza del governo coloniale.

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