SCIPIONE Africano, Publio Cornelio

Enciclopedia Italiana (1936)

SCIPIONE Africano, Publio Cornelio (P. Cornelius P. f. L. n. Scipio Africanus)

Gaetano De Sanctis.

Generale romano. Nacque nel 235 a. C. di nobilissima famiglia patrizia. Il padre fu Publio Scipione, console nel 218 (v.), la madre una plebea, Pomponia, sorella, è da credere, dei Pomponî, consoli nel 233 e 231. A parte alcuni particolari di valore dubbio sull'inizio della sua carriera militare, sappiamo che fu nominato edile curule nel 213. Sulla sua elezione Polibio narra un aneddoto che dice di aver appreso da Lelio, il fedele amico di S., ma anche quest'aneddoto non è in tutto fededegno perché presuppone che S. venisse eletto insieme col fratello Lucio, mentre il suo collega fu invece M. Cornelio Cetego (Livio). Nel 211 il padre e lo zio caddero combattendo contro i Cartaginesi in Spagna, e, dopo una breve missione colà di C. Claudio Nerone, a S., che era semplice privato, fu dai comizî conferito l'imperio proconsolare per prendere ivi il comando: deroga dalle consuete norme costituzionali, che fu allora praticata, pare, per la prima volta. L'elezione unanime fu predisposta, è da credere, dal senato e dovuta non a mene di partiti, ma alla fiducia che ispiravano le doti del giovane ufficiale e alla gratitudine per gli eminenti servigi resi in Spagna dal padre e dallo zio. S. riordinò l'esercito profittando dell'inverno 210-9 e poi nella primavera del 209, mentre i tre eserciti cartaginesi di Spagna svernavano separatamente, tutti e tre lontani dalla capitale Carthago Nova (Cartagena) che nessuno credeva in pericolo, mosse a marce forzate contro questa città con 25.000 fanti e 2500 cavalieri, mentre per mare vi giungeva la squadra romana di 30 quinqueremi agli ordini di C. Lelio. S. s'era esattamente informato del sito della città, sapeva che essa era poco presidiata e che poteva venire assalita per terra non solo lungo l'istmo che la congiungeva con la terraferma, ma anche, ad acque basse, dalla parte della laguna che ne cingeva un lato. Nonostante l'energia con cui il comandante punico, Magone, apprestò le difese, gli scarsi difensori non riuscirono a resistere a un attacco generale per terra e per mare con la fronte da parte di terra notevolmente estesa, per l'abbassarsi delle acque della laguna. Cosi la geniale sorpresa fruttò la conquista di una piazza ritenuta imprendibile in ottima posizione sulla costa, con immenso materiale da guerra. Caddero in mano di S. gli ostaggi delle tribù spagnole ivi raccolti dai Cartaginesi. Rilasciandoli, egli cominciò a guadagnarsi l'animo delle tribù indigene insofferenti del dominio punico. L'anno seguente 208, profittando nuovamente della separazione dei tre eserciti cartaginesi, egli mosse contro l'uno di essi che stanziava nella Betica presso Becula in vicinanza del Guadalquivir, agli ordini di Asdrubale, posizione assai forte, pervenne con sapiente manovra a costringerlo a una battaglia che per gli avvedimenti tattici di S., impreveduti dall'avversario, riuscì vittoriosa per i Romani. Fu questa la prima battaglia in cui S. diede saggio della sua abilità manovriera e della felicità delle sue concezioni tattiche. Asdrubale disimpegnò una buona parte del suo esercito e ripiegò verso il nord nella direzione dei due altri eserciti cartaginesi. S. non lo inseguì, per non trovarsì esposto a combattere contro forze di gran lunga superiori alle sue. È noto che Asdrubale col suo esercito prese poi la via della Gallia per i passi occidentali dei Pirenei non presidiati dai Romani, e di là mosse verso l'Italia per congiungersi con Annibale. Per questo da antichi e da moderni S. venne accusato d'inettitudine per essersi lasciato sfuggire Asdrubale. Cosi Th. Mommsen e R. Laqueur. Ma l'accusa appare ingiusta a chi rifletta che le forze di S. erano di gran lunga inferiori ai tre eserciti cartaginesi riuniti e che solo la sua valentia e gli errori degli avversarî gli avevano dato successi importanti e ricchi di conseguenze. La bilancia delle forze non mutò in Spagna che dopo la partenza di Asdrubale, e fu soltanto allora che S. riuscì a conseguire vantaggi definitivi.

Quella vittoria, la partenza di Asdrubale, le defezioni degli Iberi dai Cartaginesi prepararono i buoni successi della campagna seguente. S., giovandosi della consueta separazione dei due eserciti punici, l'uno dei quali svernava nella Celtiberia sotto Magone, il fratello di Annibale, l'altro nella Betica sotto Asdrubale, figlio di Gisgone, mosse col grosso delle forze contro quest'ultimo, affidando a Silano il compito di tener a bada Magone. Tuttavia Magone, sebbene battuto da Silano, riuscì a congiungersi con Asdrubale. Anche S. raccolse tutte le forze. Lo scontro ebbe luogo presso Ilipa (v.) sulla destra del Baetis: fu una delle maggiori battaglie che i Romani avessero fino allora combattute. Essa decise le sorti dell'impero spagnolo di Cartagine. S. ottenne vittoria nonostante l'inferiorità del numero, oltre che per il valore delle legioni, per i genialissimi avvedimenti tattici con i quali imitò originalmente la tattica cui Annibale aveva dovuto la sua vittoria di Canne. Asdrubale avendo veleggiato per l'Africa, la difesa di quel che rimaneva dell'impero fu affidata a Magone, il quale pose a Cadice il suo quartiere generale. S., dopo aver vinto alcune ribellioni di Iberi che cominciavano a temere la potenza di Roma, e dopo aver domato una sedizione scoppiata nel campo romano per il ritardo della paga, riprese nella buona stagione del 206 la lotta per cacciare del tutto i Cartaginesi dalla Spagna, aiutato in ciò dallo scarso zelo della principale città punica di Spagna, Cadice. Magone, che movendo di là aveva tentato invano una sorpresa su Cartagena, non poté rientrarvi e la città si diede ai Romani, i quali le concessero condizioni favorevolissime. Così per la genialità politica e militare di S. in meno di quattro anni i Cartaginesi furono interamente cacciati dalla Spagna e fu acquistata per sempre alla latinità la penisola iberica.

L'assoggettamento delle tribù iberiche del tutto o quasi indipendenti, cioè della metà almeno della regione, non era che questione di tempo e di volontà. Ma S. pensò giustamente che incombevano a Roma e a lui compiti assai più urgenti, e però sullo scorcio del 206, rimesse a Marcio e Silano le forze di cui disponeva, si recò in Italia dove giunse in tempo per chiedere il consolato per l'anno 205. Fu eletto console insieme col pontefice massimo P. Licinio Crasso. Si doveva sperare che S., per porre termine alla guerra, affrontasse Annibale nel Bruzio, dove questi aveva ripiegato abbandonando alla loro sorte i suoi antichi alleati italici. Tutto mostra che, se avesse voluto, S. avrebbe potuto in quell'anno 205 porre fine alla guerra. Ma una vittoria che avesse lasciato Cartagine grande potenza nel pieno possesso dei suoi dominî africani, a S. non bastava. S. voleva che la rivale fosse fiaccata e sottoposta per sempre al predominio romano, sicché fosse tolta igni possibilità di mettere Roma o i suoi possessi in pericolo. Ciò non si poteva ottenere se non sconfiggendo Cartagine in Africa. E poiché sarebbe stato impossibile condurre il popolo ad una guerra in Africa, quando la cacciata di Annibale dall'Italia avesse reso facile una pace vittoriosa e gloriosa, S. non volle punto affrontare Annibale e chiese come provincia l'Africa. Gli si oppose il vecchio Fabio il Temporeggiatore, cui questa pareva impresa rischiosa e non necessaria, appoggiato senza dubbio da molti i quali vi vedevano uno sperpero di energie deprecabile in un momento in cui l'Italia era così terribilmente stremata dalla lunghissima guerra. In via di compromesso, S. ottenne la Sicilia come provincia e la facoltà di passare in Africa, se lo credesse utile, con le due legioni ivi stanziate, ma col divieto di raccogliere nuove truppe e navi, se non per mezzo d'arruolamenti volontarî e di doni.

In Sicilia il console, che portava con sé 40 navi da guerra e 5000 soldati volontarî, si diede ad addestrare le truppe preparando la spedizione d'Africa. La preparò anche politicamente allacciando o rinnovando relazioni con Massinissa principe dei Numidi orientali (Massili) spodestato da Cartagine e da Siface il re dei Numidi occidentali Massesili. Siface che aveva prima combattuto contro Cartagine tenendosi in buone relazioni con Roma, s'era poi collegato con Cartagine contro Massinissa e aveva sposato la figlia di Asdrubale Sofonisba; onde ora intimò, ma inutilmente, a S. di non sbarcare in Africa se non voleva averlo nemico. Frattanto S. con l'aiuto di Locresi rifugiati in Siracusa riuscì ad occupare di sorpresa Locri Epizefirî, una delle pochissime città che rimanessero ancora ad Annibale. S. tornò quindi in Sicilia lasciando in Locri Q. Pleminio. I vincitori trattarono i Locresi con durezza e saccheggiarono anche il tempio di Persefone, di cui Annibale aveva lasciato intatti i tesori. Pleminio stesso più degli altri inferociva e rapinava. Nonostante questo, S., accorso per una sedizione scoppiata fra i soldati romani, confermò nel suo ufficio Pleminio, il quale non conobbe più limiti nell'inferocire contro i sudditi e contro i ribelli. Le accuse portate dai Locresi a Roma rinvigorirono l'opposizione ai divisamenti di S. Gli oppositori capitanati dal vecchio Fabio ottennero che si procedesse a un' inchiesta e che due tribuni della plebe e un edile accompagnassero la commissione con l'incarico di arrestare, se ne fosse il caso, lo stesso S. Era provvedimento gravissimo, ma i partigiani di S. seppero attenuarlo sia con la scelta dei commissarî sia con la nomina a presidente di Pomponio, governatore della Sicilia, che doveva essere legato di parentela con S. per parte della madre. I commissarî arrestarono Pleminio, ma rimasero tanto ammirati della cura e dell'energia con cui S. preparava l'impresa d'Africa che, avendo i Locresi receduto da ogni accusa contro di lui, conclusero la loro inchiesta nel modo per lui più favorevole. Sicché alla buona stagione del 204, prorogato il suo imperio, S. salpò verso l'Africa conducendo in tutto un 25.000 uomini, di cui un decimo cavalieri, su 400 navi da trasporto, scortate da 40 vascelli da guerra.

Lo sbarco avvenne a Capo Farina, a occidente di Utica. S. pose subito il campo presso la città, assediandola per terra e per mare. I Cartaginesi non avevano per il momento truppe sufficienti per dare battaglia campale a un esercito romano forte e agguerrito. Quindi, mentre si apparecchiavano alla lotta, mandarono un corpo di cavalleria sotto Annone per molestare gli assedianti. Annone si lasciò sorprendere e battere a Saleca nelle vicinanze di Utica da S., che era stato frattanto rinforzato da un distaccamento di cavalieri numidi sotto la guida di Massinissa. Ma dopo 40 giorni d'assedio, quando mossero verso Utica i Cartaginesi al comando di Asdrubale con gli aiuti che ad essi aveva condotto Siface, S. dovette lasciare l'assedio e trincerarsi in una penisoletta a oriente di Utica, dove le sue navi da guerra gli assicuravano le comunicazioni e dove perciò era facile sostenersi contro forze terrestri anche soverchianti di numero (castra Cornelia). Ma era posizione pericolosa, perché i rifornimenti si potevano avere solo per via d'acqua e c'era pericolo che i Cartaginesi, rimettendo in assetto la loro armata, potessero assalire il campo per terra e per mare. Nell'inverno S. trattò con i nemici che si erano attendati 10 km. a sud dei castra Cornelia. Siface, che si atteggiava a mediatore, proponeva la pace sulla base dell'abbandono da parte dei Cartaginesi della Spagna e dell'Italia e del ritiro dei Romani dall'Africa. S. menò in lungo le trattative nell'inverno 204-03 dandosi a divedere disposto alla pace e, addormentata così la vigilanza degli avversarî, studiò frattanto accuratamente le loro posizioni e le loro forze. Poi, al principio della buona stagione del 203, dichiarò improvvisamente rotte le trattative e la sera stessa predispose un notturno attacco di sorpresa che riuscì a pieno. I due campi nemici furono dati alle fiamme. Cartaginesi e Numidi perdettero due terzi dei loro effettivi, cioè non meno di 20.000 uomini, mentre le perdite dei Romani furono nulle o quasi. Asdrubale e Siface si separarono fuggendo con poche forze in diverse direzioni. Genialissima sorpresa somigliante alla conquista di Cartagena, che mutò di colpo in Africa, come già in Spagna, la situazione militare. Cartaginesi e Numidi si congiunsero nuovamente nei Campi Magni sul Bagrada a 120 km. a sud di Utica, dove, raccolto un piccolo esercito, si preparavano a radunare forze per una nuova offensiva. Ma S. non ne lasciò loro il tempo e li sorprese in mezzo alla loro preparazione avendo raggiunto i Campi Magni a marce forzate. Qui venuti a battaglia, furono sbaragliati dai Romani. S. adoperò allora per la prima volta la nuova tattica che consisteva nell'utilizzare tutti insieme i manipoli della seconda e rispettivamente della terza linea, cioè i principi e i triarî. Di nuovo i superstiti, Cartaginesi e Numidi, si separarono. Gli ultimi con Siface fuggirono verso la Numidia. S. mandò a inseguirli un corpo di cavalleria e di fanteria leggiera sotto Lelio e Massinissa. A questi riuscì di battere e far prigioniero Siface che tentava di difendere i confini del suo regno, e poi d'impadronirsi della capitale, Cirta. Mentre S., occupata Tunisi, mirava ad asserragliare dalla parte di terra Cartagine, i Cartaginesi con le loro navi da guerra rimesse in assetto tentarono una sorpresa sul campo Cornelio. Ma S., che da Tunisi si avvide del tentativo, accorse prontamente, sicché la sorpresa, sebbene costasse qualche perdita ai Romani, mancò del suo effetto. E ora i Cartaginesi iniziarono trattative di pace accettando le condizioni imposte da S.: indennità di guerra, consegna dei prigionieri e dei disertori, abbandono della Spagna, Liguria e Italia, rinunzia ad ogni pretesa sulla Numidia e riconoscimento di Massinissa. Queste condizioni furono approvate a Roma tanto dal senato quanto dal popolo. Frattanto, subito dopo la battaglia dei Campi Magni, Cartagine aveva inviato a Magone e ad Annibale l'ordine di ricondurre le loro truppe in Africa, e queste vi erano giunte e si erano raccolte in Adrumeto al comando di Annibale, Magone essendo morto per una ferita durante la traversata. La presenza di queste truppe e l'occasione di una tempesta che, disperdendo un grosso trasporto di vettovaglie dirette per mare a S., mise in mano dei Cartaginesi navi romane cariche di granaglie, diedero loro l'animo a rompere la tregua e a non ratificare la pace ormai convenuta, sicché alla buona stagione del 202 le ostilità ricominciarono. Ma si conclusero presto con la battaglia di Naraggara (che alcuni moderni continuano ancora a chiamare a torto battaglia di Zama), la quale diede a S. una vittoria compiutissima contro i Cartaginesi. Non solo gli riuscì pienamente la preparazione strategica di quella battaglia, essendosi egli potuto congiungere, dopo aver risalito il Bagrada, con la cavalleria numidica di Massinissa, mentre Annibale fu costretto a combattere prima che gli pervenisse il contingente dei Numidi suoi alleati, guidati da Vermina, figlio di Siface, ma agli avvedimenti escogitati da Annibale per rimediare a tale inferiorità Scipione contrappose genialissime innovazioni tattiche, quella anzitutto di disporre per la prima volta i manipoli degli astati, dei principi e dei triarî in colonna invece che a scacchiera, in modo che gli elefanti nemici, trovando libero il varco tra le colonne, fossero indotti a precipitarsi nelle vie così aperte; quella poi già usata ai Campi Magni, ma ora perfezionata, di porre un tale intervallo tra i manipoli degli astati, dei principi e dei triarî da poter usare dei principi e dei triarî al momento più opportuno non più per colmare i vuoti tra i manipoli degli astati o per rincalzare questi direttamente nel combattimento, ma per prolungare da una parte e dall'altra di essi al momento opportuno la linea di battaglia (v. naraggara, XXIV, p. 267 seg.).

La sconfitta di Naraggara costrinse Cartagine ad accettare le dure condizioni imposte dal vincitore. Queste condizioni miravano ad abbattere per sempre la potenza cartaginese, a ridurre Cartagine sotto il predominio di Roma, eliminando la possibilità che essa riuscisse mai più pericolosa all'antica rivale; e infine, permettendo a Massinissa ogni rivendicazione di vetusto possesso numidico in territorio cartaginese e ad un tempo, vietando a Cartagine di far guerra senza il permesso dei Romani, sottoponevano la sua stessa esistenza al beneplacito di Roma. Ma del resto Roma instaurava qui quella politica di predominio, non di diretto dominio cui si attenne in Africa come in Oriente per mezzo secolo, e poté certo parere ai Romani grande magnanimità verso il vinto quella di evacuare poi l'Africa senza conservarvi nessun possesso territoriale e nessun presidio, lasciando ai Cartaginesi, se accettavano senza riserve il predominio romano, la possibilità di una vita autonoma tranquilla e prospera. S., tornato a Roma nel 201 dopo l'immane vittoria dovuta in gran parte al suo genio, trionfò dei Cartaginesi e di Siface, che condusse prigioniero nella sua pompa trionfale, assumendo il cognome glorioso di Africano. Egli divenne allora a buon diritto l'uomo politico più autorevole di Roma e tale posizione gli fu ufficialmente riconosciuta dal suo collega P. Elio Peto censore con lui nel 199, che lo designò a princeps senatus, sebbene non fosse ancora quarantenne e non potesse prender posto tra i più anziani consolari. Come uomo politico preminente di Roma egli ha iniziato e diretto la politica d'impero che Roma seguì verso l'Oriente ellenico nel decennio dopo il suo ritorno dall'Africa.

S'intende che tale politica germogliava dalla prodigiosa potenza che Roma aveva dimostrata nella guerra annibalica, dalla consapevolezza di tale potenza, dall'immensa forza espansiva di cui Romani e Italici disponevano. Ma a S. e ai suoi amici si deve d'aver subito indirizzato queste forze nel loro pieno rigoglio verso l'Oriente anziché verso l'Occidente e di averle consapevolmente guidate alla conquista dell'assoluto predominio nel Mediterraneo. La caratteristica di questa politica d'impero fu la stessa di quella che S. seguì nell'imporre la pace a Cartagine: la politica di assoluto predominio, di riduzione all'impotenza degli stati maggiori, ma senza nessuna occupazione territoriale e col più grande rispetto delle autonomie locali, anzi col desiderio di assicurare il pacifico sviluppo e il benessere dei popoli sottoposti alla tutela romana. E appunto in ciò sta la dimostrazione che S. fu il principale autore di questa politica d'impero, la quale mutò poi radicalmente per effetto delle condizioni stesse create dalla vittoria romana; ma gl'inizi di tale mutamento furono contemporanei al declinare della potenza degli Scipioni.

Del resto, già in questo decennio si cominciò a manifestare nel senato l'opposizione della gelosa oligarchia nobiliare verso il prepotere degli Scipioni. Con siffatta opposizione si collega sia l'elezione di Flaminino a console nel 198, sia la lunga durata, anche dopo la pace con Filippo, del costui imperio proconsolare in Grecia. Altro segno della potenza dell'opposizione fu la nomina a console per il 195 di M. Porcio Catone, homo novus avverso a S. fin dal tempo in cui era stato questore presso di lui nel 204 e legato alle consorterie nobiliari a lui ostili. Quando peraltro, dopo la vittoria di Cinoscefale che aveva prostrato la Macedonia (197), si cominciò a desiderare o a temere la rottura con la maggiore potenza ellenistica, la Siria, S., trascorso l'intervallo costituzionale di dieci anni dal primo consolato, fu eletto console per la seconda volta per il 194. Ma Antioco III il Grande, che credeva ancora di poter regolare pacificamente i suoi dissensi con Roma, non ruppe guerra e le controversie non erano giunte a tal punto da giustificare una dichiarazione di guerra per parte di Roma; onde seppure è vero che S. chiedesse, come ci è detto, la provincia di Macedonia, gli fu assegnata l'Italia insieme col collega. Ma la guerriglia con i Galli e i Liguri nell'Italia settentrionale non soddisfaceva punto le ambizioni di S., il quale nella stessa conquista della Spagna non sembra aver veduto se non un mezzo di colpire Cartagine (è favola quanto riferisce Plutarco che egli comandasse in Spagna dopo Catone). Non sembra infatti che S. avvertisse l'importanza del compito di civiltà e di espansione che incombeva a Roma nell'Occidente barbaro. Sicché o non si recò nella provincia o non vi imprese nulla di notevole. Nel 193 poi, sorte divergenze tra Massinissa e i Cartaginesi, egli fu inviato in Africa con altri due ambasciatori. Bisognava impedire che le divergenze si acuissero ritenendosi sempre inminente la guerra con Antioco, ma bisognava altresì non disgustare né l'uno né l'altro dei contendenti. Sicché S. temporeggiò lasciando la controversia insoluta. Si parla pure di una sua ambasceria in Asia, nella quale avrebbe avuto occasione d'incontrare Annibale in Efeso. Ma essa spetta probabilmente al regno della favola.

La guerra con Antioco scoppiò sullo scorcio del 192 col passaggio di lui in Grecia, e il console che la combatté vittoriosamente nel 191, M. Acilio Glabrione, era legato, pare, con S. e con i suoi amici. Questi per l'anno successivo 190, essendo S. costituzionalmente ineleggibile, riuscirono a far eleggere il fratello di lui Lucio e l'amico C. Lelio, ciò che assicurava in ogni caso all'Africano la parte direttiva nell'andamento della guerra.

A L. Scipione fu assegnato il comando contro Antioco ed egli partì con rinforzi, accompagnato dal fratello in qualità di legato. Giunti in Oriente essi trovarono Acilio impegnato nella guerra etolica, che rischiava di protrarsi ancora a lungo. S. se ne liberò con una tregua di sei mesi con gli Etoli e subito attraverso la Macedonia e la Tracia si preparò a trasportare l'esercito romano in Asia. La difficile marcia fu perfettamente condotta con l'aiuto di Filippo V di Macedonia, al quale premeva di dimostrare il suo zelo verso i Romani con cui si era alleato contro Antioco e di conquistarsi l'amicizia di quello che era allora l'uomo più potente di Roma. Per poter passare con sicurezza in Asia si richiedeva peraltro il possesso del mare. Questo era stato già acquistato l'anno precedente dal pretore C. Livio Salinatore con la battaglia del Corico e fu ribadito nel 190 dal successore di lui, il pretore L. Emilio Regillo con la battaglia di Mionneso (v.). Un tentativo di Annibale inviato da Antioco in Fenicia per raccogliervi navi e penetrare con esse nell'Egeo, venne frustrato dai Rodî, alleati romani, nella battaglia di Side. Sicché le legioni poterono tragittare senza nessuna difficoltà in Asia presso Abido e di là procedettero con aiuti pergameni oltre il margine meridionale del territorio di quello stato. Ivi non lontano da Magnesia presso il Sipilo si combatté sullo scorcio del 190 la battaglia decisiva. S., a cui è da attribuirsi il merito della preparazione strategica di quella battaglia, non poté prendervi parte e dirigerla tatticamente perché trattenuto addietro da una malattia (v. magnesia al sipilo: La battaglia di Magnesia).

Subito dopo la vittoria, recatosi col fratello in Sardi, S. segnò con Antioco i preliminari di pace che toglievano al re l'Asia al di qua del Tauro, gl'imponevano una gravissima indennità di guerra e, pur lasciando alla Siria la possibilità di vivere, intendevano ridurla a potenza di secondo ordine sotto la tutela di Roma. Con i Greci d'Asia poi S. intendeva seguire lo stesso indirizzo di filellenismo e di liberalità praticato in Grecia da Flaminino; di che sono testimonianza i due soli documenti che abbiamo di lui, cioè le lettere indirizzate dai due fratelli a Colofone a mare e ad Eraclea del Latmo.

Ma la lontananza da Roma di S. e di molti de' suoi più validi partigiani, che saranno stati nell'esercito romano d'Asia, diede agio agli oppositori di menare contro di lui un colpo gravissimo. Non si voleva che S. avesse il vanto di soggiogare l'Asia come aveva avuto quello di soggiogare l'Africa, e particolarmente urtanti dovevano riuscire i suoi legami d'amicizia con re come Massinissa o Filippo V e le dimostrazioni di cui certo gli saranno state larghe le città greche. Comunque, prima che giungesse la notizia della vittoria di Magnesia, già s'era stabilito di assegnare la provincia d'Asia a uno dei suoi successori nel consolato, e così, anche dopo quella vittoria, gli fu tolto l'onore di condurre a termine definitivo le trattative di pace. Queste infatti sulle basi dei preliminari fissati da S. furono concluse da Cn. Manlio Vulsone console del 189. Gli Scipioni tornarono in Italia per mare. Un documento epigrafico fa credere che essi, insieme con l'ammiraglio Emilio Regillo, si fermassero nel ritorno in Creta, dove furono onorati da Aptera con un decreto di prossenia. Erano sullo scorcio dell'anno consolare 189 in Roma, dove Lucio celebrò solennemente il suo trionfo asiatico. I due censori di quell'anno, Flaminino e Marcello, appartenevano ai gruppi nobiliari avversi a S. Tuttavia essi non osarono revocargli il grado di princeps senatus. Ma nel 187 gli avversarî degli Scipioni capeggiati da Catone tentarono d'infrangerne il potere e in gran parte vi riuscirono. Tali vicende che sono conosciute col nome di processi degli Scipioni, quantunque sia persino incerto se essi furono fatti segno a veri e proprî processi, ci sono assai mal note.

È infatti molto dubbio che gli annalisti di questi anni ne dessero conto con qualche larghezza. Polibio, certo, scrivendo trenta o quarant'anni dopo, non ne faceva cenno che occasionalmente. Onde gli annalisti posteriori ricorsero a congetture, a invenzioni, a documenti falsificati. Indubbio è che la controversia verté principalmente intorno ai 500 talenti che S. si fece consegnare dal re Antioco prima del versamento dell'indennità di guerra, e su cui egli, considerandoli come bottino, non si credette obbligato a regolare rendiconto. Sappiamo che, chiesto a L. Scipione un tale rendiconto in senato, il fratello rimproverando la grettezza di quelli che non ponevano mente alle migliaia di talenti per opera sua entrati nell'erario né alla Spagna, all'Africa e all'Asia da lui soggiogate, si fece recare il libro dei conti e lo lacerò pubblicamente. Pare che due tribuni, di nome entrambi Q. Petilio, presentassero una rogazione alla plebe per un'inchiesta de pecunia regis Antiochi. Nella discussione intorno a questa proposta deve essere stata detta l'orazione di Catone De pecunia regis Antiochi, uno dei pochi documenti autentici della vicenda. In una delle concioni in cui se ne discusse, la quale cadeva nel giorno della vittoria di Naraggara, S. invitò il popolo a seguirlo dal comizio in Campidoglio per ringraziare gli dei della vittoria ottenuta. Se la proposta poi fosse lasciata cadere, o se l'inchiesta iniziata non fosse condotta a termine non sappiamo. Quel che Livio dice seguendo Valerio Anziate circa le condanne allora inflitte non sembra che un tessuto di falsificazioni. Ignoriamo se in relazione con questa inchiesta o con un tentativo tribunizio d'altra natura un tribuno della plebe volle obbligare L. Scipione a dare garanti per il pagamento di una multa e, rifiutando egli di darli, si apprestò a condurlo in carcere, ma ne fu impedito dal veto del collega Ti. Sempronio Gracco. Quanto si riferisce intorno al violento e illegale contrasto di P. Scipione con i tribuni in tale congiuntura è senza dubbio invenzione tendenziosa. Ma noi non sappiamo neppure se questi fatti, e in particolare l'ultimo e il più grave di essi, spettino tutti al 187 ovvero in parte a quest'anno, in parte ad anni successivi.

Comunque, anche se non vi fu vero processo e non vi fu vera condanna (o al più una condanna tribunizia di L. Scipione ad una multa, che peraltro non fu ratificata dalla plebe per l'intervento di Ti. Gracco), da queste lotte il potere degli Scipioni rimase spezzato. È possibile che nei racconti antichi siano molte esagerazioni e che in realtà la vicenda non avesse portata maggiore di quella che ha usualmente in un governo parlamentare la caduta di un ministero. Ma a S. non venne fatto di ritornare al potere perché, di salute cagionevole fin dal tempo della guerra di Antioco, morì nel 183 a Literno dove si era ritirato. Ivi, non nelle tombe degli Scipioni in Roma, egli fu sepolto.

Le parole dell'iscrizione che avrebbe voluto far incidere sulla sua tomba, ingrata patria ne ossa quidem mea habebis, sono probabilmente invenzione retorica. Non è certo però e neppure probabile che i censori del 184, L. Valerio Flacco e M. Porcio Catone gl'infliggessero prima della morte lo smacco di privarlo della dignità di princeps senatus.

S. Africano, nonostante le vicende dolorose degli ultimi anni, fu nell'antichità ammiratissimo e l'ammirazione per lui si perpetuò nel Medioevo e nel Rinascimento. Ingiusta per lui fu invece talora la storiografia del sec. XIX, in particolare Th. Mommsen, che non apprezzò equamente le sue doti di politico e di soldato. In realtà S. fu come politico e come militare l'uomo che più di tutti fino a Cesare segnò a Roma la sua via d'impero. Nella strategia e nella tattica egli si dimostrò novatore genialissimo e degno avversario di Annibale, pur non mancando, come era suo dovere, di profittare degl'insegnamenti del grande rivale. Le novazioni tattiche da lui introdotte assicurarono alle legioni romane quella superiorità sulle falangi alla maniera macedonica che i Romani non avevano posseduto al tempo della guerra di Pirro. Come stratega dimostrò la sua valentia nella mirabile concezione delle guerre in Spagna, Africa e Asia che siamo venuti illustrando. "Unico fra i generali romani, egli ha osato sfidare il maggior condottiero dei suoi tempi, uno dei maggiori della storia, gli ha imposto la sua volontà, e l'ha vinto. Nessun altro generale nella storia ha dato prove simili" (Caviglia). Fu pure singolarissima la sua arte nel conquistarsi l'animo dei soldati e quindi nell'ottenerne sforzi che potrebbero parere sovrumani. Anche nel guadagnarsi alleati nel campo avversario si dimostrò politico e psicologo espertissimo. Inoltre la chiarezza rettilinea di vedute con cui diresse la politica romana nel decennio che seguì alla vittoria di Naraggara, contribuì non poco allo stabilirsi del predominio di Roma nel mondo antico. Insomma S. è uno degli uomini che maggiormente hanno influito nel corso della storia e ciò non, come sembra credere il Mommsen, per una singolare fortuna, ma per la potenza della sua personalità che seppe tutte far valere per condurle all'immane successo le forze latenti di cui Roma disponeva.

Di fronte a tali doti e a tali fatti scompaiono quasi le minori deficienze che si notano in lui e che egli pagò a caro prezzo: l'aver troppo tollerato per parte di ufficiali sul cui concorso faceva affidamento, come Pleminio, l'aver troppo dimostrato la consapevolezza della propria superiorità di fronte ai nobili che ne erano invidiosi. Quanto alla sua politica in generale, una piena valutazione di essa non si può dare se non in relazione col giudizio intorno all'imperialismo romano e all'efficacia di esso nella storia universale. Certo la politica di predominio senza dominio diretto e il tentativo di conciliarla con la prosperità e l'autonomia degli stati sottoposti a tale predominio, non ressero all'urto della realtà e furono presto sostituiti da tutt'altre direttive. Ma quella politica, la cui sincerità non deve mettersi in dubbio, non è da dire senz'altro utopistica: era anzi la sola che intorno al 200 potesse condurre facilmente i Romani al successo, mentre una politica di conquista allora avrebbe reso, se non impossibile, di gran lunga più difficile la fondazione dell'impero. Piuttosto si può osservare, come accennammo, che S. non intravvide neppure il compito grandioso che era assegnato a Roma nell'Occidente. I primi che lo videro e tentarono organicamente di attuarlo, furono, assai più tardi, Cesare e Augusto. E d'altronde se S. dirigeva, come avrebbe potuto dopo la vittoria su Cartagine, l'espansione romana verso l'Occidente, avrebbe perduto le occasioni impareggiabili che in quel momento l'Oriente offriva all'imperialismo romano; mentre l'Occidente, dove le condizioni di barbarie si perpetuavano, rimaneva sempre aperto all'espansione di Roma solo che essa avesse voluto.

S. del resto non fu soltanto un politico e un guerriero. Aveva lo spirito aperto alla cultura, come dimostrano il suo filellenismo, la sua lettera, scritta in greco, a Filippo V di Macedonia intorno alle proprie imprese spagnole, che è ricordata da Polibio, la protezione da lui accordata al poeta Ennio. Nella vita privata egli sembra meritare la lode che gli viene attribuita d'una temperanza rara fra gli antichi, seppure anche qui la leggenda abbia colorito taluni fatti in modo romanzesco. Era inoltre animo religioso, d'una religiosità, per quel che pare, più profonda e sentita che non fosse quella comune allora in Roma. Le testimonianze che abbiamo intorno alla sua religiosità non possono essere messe da canto quali falsificazioni, come fanno taluni moderni, anche sfrondandole di particolari leggendarî o d'invenzioni tendenziose; ma meno lecito ancora è ritenere S. simulatore o falsario.

S. prima della sua partenza per la Spagna sposò Emilia, figlia di L. Emilio Paolo, il vinto di Canne, e sorella del vincitore di Pidna. Da essa ebbe due figli e due figlie: Publio che per la sua salute cagionevole si tenne lontano dalla vita politica e di cui Cicerone esalta la cultura e l'ingegno dimostrati da alcune oratiunculae e da una Historia Graeca scripta dulcissime, della quale non sappiamo altro; Lucio che sembra essere il figlio di S. caduto in mano di Antioco durante la guerra siriaca e che poi pare facesse cattiva prova come pretore nel 174, onde fu colpito dalla nota dei censori dello stesso anno; Cornelia che fu sposa di P. Scipione Nasica Corculum e madre di P. Scipione Nasica Serapione, il noto avversario delle riforme graccane; un'altra e più celebre Cornelia che sposò Ti. Sempronio Gracco e fu madre di Tiberio e Gaio Gracco, che furono pertanto cugini sia di Scipione Nasica sia, per acquisto, del figlio adottivo del loro zio Publio, Scipione Emiliano, a cui erano stretti con vincolo di parentela anche per parte della loro nonna Emilia.

Fra le storie generali di Roma v.: G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, pp. 452 segg., 577 segg.; IV, i, ivi 1923, pp. 25 segg., 179 segg., 576 segg. - Inoltre, U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, Berlino 1913, pp. 151, 509 segg.; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique di Nord, Parigi 1921, p. 417 segg.; Cambridge Ancient History, VIII, Cambridge 1931, pp. 83 segg., 219 segg.; E. Pais, Storia di Roma durante le Guerre Puniche, II, 3ª ed. Torino 1935, passim; J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912, p. 578 segg.; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920.

Rinviando in generale a queste opere per la bibliografia più antica, siano qui citati, oltre il lavoro fondamentale di Th. Mommsen, Die Scipionenprozesse, in Römische Forschungen, II, Berlino 1879, p. 417 segg., alcuni tra gli scritti più caratteristici dell'ultimo trentennio, i quali mostrano come la critica si vada orientando verso un giudizio più equo intorno a S.: P. Fracaro, I processi degli Scipioni, Pisa 1911; M. Holleaux, L'entretien de Scipion l'Africain et d'Hannibal, in Hermes XLVIII (1913), p. 75 segg.; W. Brewitz, Scipio Africanus Maior in Spanien, Tubinga 1914; G. Sann, Untersuchungen zu Scipios Feldzug in Afrika, Lipsia 1914; E. Meyer, Ursprung und Entwicklung der Überlieferung über die Persönlichkeit des Scipio Afrikanus, in Sitzungsber. der preuss. Akademie, 1916, p. 1068 segg. (Kleine Schriften, II Halle 1924, p. 423 segg.); L. De Regibus Il processo degli Scipioni, Torino 1921; R. Laqueur, Scipio Africanus und die Eroberung von Neukarthago, in Hermes, LVI (1921), p. 130 segg.; G. De Sanctis, Una lettera degli Scipioni, in Atti di d. R. Acc. di Torino, LVII (1922), p. 242 segg.; E. Caviglia, Fra i condottieri nemici, par. VII, in Nuova Antologia, 1° luglio 1923; M. Holleaux, La lettera degli Scipioni agli abitanti di Colofone a mare, in Rivista di filologia, n. s., II (1924), p. 29 segg.; W. Schur, Scipio Africanus und die Begründrung der römischen Weltherrschaft, Lipsia 1927; M. Guarducci, Gli Scipioni in una nuova iscrizione cretese, in Riv. di Filol., n. s., VII (1929), p. 60 segg.; B. H. Liddel Hart, Un uomo più grande di Napoleone, trad. ital., Firenze 1929; H. H. Scullard, Scipio Africanus in the Second Punic War, Cambridge 1930; R. H. Haywood, Studies on Scipio Africanus, Baltimora 1933; A. Ferrabino, Sogno di S., in Atene e Roma, s. 3ª, a. I (1933), p. 171 segg.; F. S. Grazioli, I grandi capitani, Padova 1934. Per l'iconografia di S.: v., circa i busti a lui falsamente attribuiti e la moneta di Cn. Blasione in cui pare sia da riconoscere la sua immagine, J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, I, Monaco 1882, p. 32 segg., 55; Dennison, in Am. Journ. of Arch., n. s. IX (1905), pp. 11-43; Hansez, ibid., n. s. XII (1908), pp. 56-7.

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