CALANDRINI, Scipione

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CALANDRINI, Scipione

Michele Luzzati

Figlio illegittimo di Giuliano di Filippo, nacque, probabilmente a Lucca, intorno al 1540. Sebbene abbia avuto qualche rapporto con i congiunti di legittimi natali, non ebbe parte alcuna nelle vicende collettive della sua famiglia salvo che nei primi anni di gioventù, quando con i fratelli fu affidato alle cure di un comune precettore. Questi, allievo di Aonio Paleario, di cui fu scolaro lo stesso C., venne arrestato a Lucca nel 1556, trasferito a Roma e qui posto al rogo come eretico. Presumibilmente sulla scorta delle ammissioni del precettore fu emesso un mandato di cattura anche per il C., che tempestivamente avvertito fuggì da Lucca, riparando prima nei Grigioni e poi a Ginevra dove fu ammesso alla cittadinanza il 9 genn. 1559. Egli fu dunque uno dei primi lucchesi ad abbracciare la Riforma e in particolare uno dei pochi che abbiano maturato la loro conversione in un ambiente tutto italiano, indipendentemente da qualsiasi contatto con le corti e le piazze mercantili d'oltralpe già guadagnate alle idee della Riforma.

Nell'agosto del 1561 il C. era sempre a Ginevra: "escollier" presso l'"Académie", prestava anche servizio come ministro della Chiesa italiana. A Ginevra, probabilmente in questi anni, si sposò, o ebbe quanto meno una figlia, Barbara, che il 3 sett. 1577 sarebbe andata sposa in Ginevra a un tessitore di seta milanese: alla stipulazione del matrimonio parteciparono Niccolò Balbani, in rappresentanza del padre, pastore a Sondrio, e Pompeo Diodati, in rappresentanza dello zio paterno del C., Benedetto, che assegnò alla sposa una dote di 400 libbre tornesi.

Nel 1562 il C. sollecitò le Signorie di Ginevra e di Berna a intervenire presso il governo lucchese perché venissero mitigati gli editti contro gli eretici; nello stesso anno, nel marzo, il C. fu a Zurigo presso il Büllinger; da Zurigo, con raccomandazioni del Büllinger, passò a Coira presso il Fabritius, che avrebbe dovuto appoggiare una sua richiesta ai governatori dei Grigioni.

Ignoriamo la natura di questa richiesta; in ogni modo, scriveva il Fabritius al Büllinger il 27 marzo, "D. Scipio impetravit ab amplissimis nostris dominis, intercessione tua et nostra, quae voluit" (Schiess, II, 425). è possibile che il C. cercasse di ottenere anche dai Grigioni un intervento moderatore presso la Repubblica di Lucca. Ciò che maggiormente interessa di questo episodio della vita del C. (che fra l'altro non esitò a presentarsi al Fabritius come "nobilis") è una confidenza che il lucchese avrebbe fatto al Büllinger circa le intenzioni di Pietro Paolo Vergerio di officiare una "italicam ecclesiam" a Coira: di fronte a questa prospettiva il Büllinger lanciava un grido d'allarme, richiamandosi esplicitamente alle difficoltà che gli andava creando in Zurigo Bernardino Ochino con l'analoga istituzione della chiesa locarnese: nell'ancor latente conflitto fra i padri della Riforma elvetica e gli emigrati italiani, il C. già sembrava schierato con i primi.

Non si hanno notizie precise sulle vicende del C. fra il 1562 e il 1572: pare che sia stato a Lione e che vi si sia falsamente presentato come servitore di certo Chaumont, probabilmente da identificare con Antoine de La Rochefoucauld, signore di Chaurnont, cugino di Frangois de La Rochefoucauld, luogotenente del re ed uno dei capi del partito protestante. è certo che nel 1566 il C. era nuovamente a Ginevra, dove, presentato da Théodore de Bèze, cominciò a insegnare gratuitamente dialettica e retorica al "Collège": egli metteva così a frutto l'ottima formazione umanistica che aveva ricevuto fin dai primi tempi della sua educazione lucchese.

Due anni più tardi, forse deluso per non essere riuscito ad ottenere la cattedra di filosofia, il C. lasciò Ginevra per Heidelberg, dove fu studente e insegnante di filosofia, teologia e lettere.

Il soggiorno del C. ad Heidelberg non dovette prolungarsi più d'un paio d'anni, perché egli venne chiamato dal Consiglio delle Chiese retiche a succedere come pastore di Morbegno, in Valtellina, a quel Francesco Cellario che era stato rapito, portato a Roma e bruciato sul rogo nel 1569. La prima testimonianza diretta sulla presenza del C. in Valtellina è del febbraio 1572, ma è certo che già da parecchi mesi egli aveva assunto l'ufficio di ministro della Chiesa di Morbegno. In questo periodo corse anche voce di un attentato perpetrato contro di lui su ispirazione dei frati domenicani: in realtà vittima dell'episodio fu Lorenzo Soncino, pastore di Mello.

Dalla Chiesa di Morbegno, che reggeva ancora nel giugno del 1575, quando partecipò con Scipione Lentulo al sinodo di Coira, il C. passò, almeno dal 1577, a quella di Sondrio. la principale sede della Valtellina, che non doveva più lasciare. A Sondrio potè continuare non soltanto la sua attività pastorale, ma anche un'intensa opera di propaganda e di educazione. Così all'inizio del 1600 lo presentava Broccardo Borrone nel suo libello contro i riformati della Rezia: "…est hic homo perniciosissimus… libros hereticos plurimos ex gallica et latina linguis a se transfusos… per Italiani dispergit… iactat se esse nobilem… est in magna opinione apud hereticos. Reducendus forte ad Ecclesiam catholicam esset, spe ei facta ad sublimes honoris gradus conscendendi" (Da Porta, II, p. 188).

Pastore di una comunità di lingua italiana e di tradizioni italiane, il C. si trovò in una posizione veramente eccezionale, perché la sua era una delle pochissime Chiese italiane che potremmo definire "indigene", per distinguerle da quelle "del rifugio", costituite dagli esuli in terre straniere. La piccola Chiesa riformata di lingua italiana, di cui il C. fu tra i massimi esponenti, poteva e doveva assumersi un impegno di proselitismo verso l'Italia che le varie Chiese "del rifugio", disperse per l'Europa e soffocate dalle Chiese riformate nazionali, non pensavano minimamente di affrontare. Questo sforzo per l'affermazione di una Riforma italiana è palese non soltanto nel C., ma anche, ad esempio, nel suo collega di Chiavenna Scipione Lentulo: entrambi italiani e passati attraverso l'esperienza calvinista, dalle porte d'Italia, dalla Valtellina, tentarono, fra i pochi, di riportare all'Italia quel vangelo per cui erano andati in esilio.

Appoggiato dal successore zurighese del Büllinger, Rudolf Gualther, il C. organizzò a Sondrio un ginnasio ove l'educazione umanistica, secondo le tradizioni italiane, aveva larghissima parte: frutto dell'impegno didattico del C. è ad esempio una traduzione, compilata a Sondrio nel 1595, delle Bucoliche di Virgilio. L'impegno di saldare all'attività pastorale le istituzioni educative era evidentemente assunto in funzione di una precisa opera di proselitismo in direzione dell'Italia. La reazione della parte cattolica nella stessa Valtellina non si fece attendere, e se lo scontro avvenne sul problema delle istituzioni scolastiche, in realtà la maggiore preoccupazione dei cattolici, sollecitati dai confratelli italiani, e soprattutto dal clero della confinante Lombardia, era quella di arginare e possibilmente di stroncare sul nascere la propaganda dei riformati.

In questo campo già il C. si era distinto con almeno due notevoli pubblicazioni. La prima, anonima, senza data e senza indicazioni tipografiche, ma che riteniamo di poter attribuire al C. perché il suo nome compare annotato a penna in calce alla copia conservata nel Fondo guicciardiniano della Biblioteca nazionale di Firenze, risale probabilmente al decennio 1560-70 e si presenta esteriormente come opera del polemista cattolico Antonio Possevino: si tratta della Lettera di Antonio Possevino nella quale si sforza di provare che i libri che si leggono sotto il nome di Dionigi Areopagita siano di quello che fu disciepolo di S. Paolo.Sotto questo titolo, in minuscoli caratteri, compare la scritta: Con la refutazione delle sue ragioni.

L'operetta si apre con un indirizzo "al lettore" dal quale si ricava che l'autore della "refutazione", venuto in possesso della Lettera del Possevino, aveva sentito il bisogno di dare una risposta al gesuita, "desiderando io l'honore suo et la salute sua, anchora che mai lo vedesse, né del fatto suo udissi ragionare prima che venisse a Lione". Ricevuta la "refutatione", il Possevino - che ricorderemo giunto in Francia nel 1563 - avrebbe fatto "grandi schiamazzi" e avrebbe "prodotto in pergolo la mia… lettera con una infinità di villanie, di maledicentie et di cose indegne d'ogni huomo Christiano". Di qui la decisione dell'autore della "refutatione" - e che possa trattarsi del C. è confermato dal suo soggiorno lionese intorno alla metà del settimo decennio del Cinquecento - di dare alle stampe la lettera del Possevino e la propria risposta.

Sorvolando sulle ovvie e facili ragioni con cui il C. dimostra il suo assunto contro il Possevino, osserveremo da un lato come ancora una volta la più corretta filologia (finemente appoggiata anche a Dante, Paradiso, XXIX, 97-102) fosse posta al servizio d'una esatta lettura dei testi patristici, in polemica con certe grossolane approssimazioni di parte cattolica, e dall'altra come il C. abbia scelto di usare la lingua italiana, nell'intento di portare la polemica non tanto sul piano della discussione dei dotti quanto, piuttosto, sul piano della divulgazione e del confronto diretto fra riformati e cattolici.

L'intento apologetico e propagandistico dell'operosità letteraria del C., contenuto sempre in termini di moderazione e di rispetto per le opinioni altrui, appare scopertamente nella traduzione da lui pubblicata nel 1591, probabilmente a Ginevra, del Trattato della Chiesa nel quale sono dichiarate le principali controversie nate a' nostri tempi intorno a questa materia di Philippe de Mornay.

La traduzione è preceduta da una significativa prefazione del C. intitolata All'Italia, in cui, premesso che la Cristianità è divisa e in lotta per motivi religiosi, l'autore lamenta la scarsa coscienza dei problemi di fede: "Si vede la maggior parte della gente dall'una parte e dall'altra della Christianità appagarsi solamente col dire: Io son nato e allevato in questa religione, overo in quell'altra: i nostri maggiori e i nostri Principi tengono così; i nostri Theologi ci insegnano in questo modo, e simili altre cose". Questo atteggiamento di rifiuto di ogni discussione non soltanto allontana dalla verità ma risctùa anche di far incorrere in quelle grandi calamità che Iddio riserva a quanti manifestano nei suoi riguardi "negligentia et disprezzo". E alla domanda come condurre alla vera fede i popoli, il C. risponde: non con la forza e con la violenza, ma con "la dottrina e con l'esortationi", "perché la verità è potente sopra tutte le cose… onde non può essere oppressa da violentia alcuna". Gli esempi della recente storia europea dimostrano che la violenza non serve a nulla, e mentre in Italia ci si ostina a valersi soltanto di essa, in molti paesi vi "è la libertà delle due religioni, senza violentare né l'una né l'altra nella sua conscientia e si combatte tra loro solamente con la dottrina, e si mantengono civilmente in pace le parti discordanti, e tutte le cose vi stanno in pace, né la politia, o la repubblica vi è perturbata". E l'augurio del C. è che anche l'Italia si adegui alla convivenza delle due religioni.

La coesistenza, l'aperto confronto fra le due religioni è il tema centrale dell'attività propagandistica del C. e degli altri pastori delle Chiese riformate della Valtellina; questa è a loro avviso la carta sicuramente vincente: attraverso la libera discussione la Riforma conquisterà i popoli e i principi. Nella stessa Valtellina la sfida fra cattolici e riformati, gli uni gli altri liberi di professare la loro fede, e costantemente aperta e il C. si distingue fra i maggiori paladini della Riforma.

Così nell'ottobre del 1595 e nel marzo e nell'agosto del 1596 in tre successivi colloqui tenutisi a Tirano i pastori protestanti, fra cui il C., e i parroci cattolici della Valtellina si affrontarono in pubblici dibattiti sulla dottrina calvinista. A seguito dei colloqui l'arciprete di Sondrio, Niccolò Rusca, pubblicò a Como nel 1599 gli Acta disputationis Tiranensis adversus Calvinum et Ministros Calvini defensores;i pastori risposero con le Disputationis Tiranensis inter Pontificios et Ministros verbi Dei in Rhoetia anno 1595 et 1596 habitae, stampate a Basilea nel 1602, che contenevano, fra l'altro, anche l'Oratio Calandrini et disceptatio cum Cabasso et Rusca relative al colloquio del marzo 1596, che per la parte riformata era stato presieduto dal Calandrini. Di notevole rilievo è il metodo di dibattito proposto dal C., di interventi alternati e non disturbati da interruzioni. Si faceva dunque ogni sforzo per contenere la disputa entro confini addirittura accademici, ma, come in fondo emerge dalle stesse contrapposte e polemiche pubblicazioni sui colloqui di Tirano, il tentativo di mantenere sul piano della sola discussione dottrinaria il confronto fra riformati e cattolici della Valtellina doveva risultare vano per i reciproci sospetti e per le reciproche accuse.

In particolare proprio due dei protagonisti dei colloqui di Tirano, il C., pastore di Sondrio, e il Rusca, arciprete della stessa città, già fieri avversari per la questione delle istituzioni scolastiche del capoluogo valtellinese, furono al centro di drammatiche vicende che dovevano preludere a quel "sacro macello" che nel 1620 chiuse tragicamente l'esperienza della libertà religiosa in Valtellina.

Nel luglio del 1594, presso Caiolo, sull'Adda, il C. venne assalito da tre uomini che intendevano rapirlo e trascinarlo in Lombardia; riuscì però a sfuggire all'agguato ed anzi i suoi aggressori vennero arrestati. Sottoposti a processo, ammisero di aver agito per ordine d'un certo Michele Chiappino, ma negarono che l'iniziativa del ratto fosse partita dall'arciprete di Sondrio, Niccolò Rusca, come, secondo il Da Porta, "ex aliis indiciis… constabat". Il Chiappino, fuggito dalla Valtellina, venne poi arrestato nel 1608 e confessò non solo di aver organizzato l'aggressione contro il C. (per cui venne decapitato), ma sostenne di aver agito su istigazione dell'arciprete Rusca. Questi, presente all'interrogatorio del Chiappino, si difese accanitamente e fu prosciolto, ma i riformati non cessarono di sospettarlo e il 22 giugno 1618 lo rapirono a Sondrio e lo trascinarono a Thusis, nei Grigioni, per processarlo, ancora sotto l'accusa di aver attentato al Calandrini. Il 4 sett. 1618 Niccolò Rusca moriva sotto la tortura e la Valtellina cattolica, nel nome del suo martire, si apprestava al terribile massacro del 1620.

Davanti ai giudici di Thusis Niccolò Rusca sostenne di esser stato in cordiali rapporti con il C., di avergli più volte fatto visita, di avergli prestato dei libri: e il C., probabilmente scomparso fin dagli inizi del sec. XVII (soltanto il Cantù lo dà ancor vivo dopo il 1618), aveva in effetti lasciato una testimonianza che, se non scagionava il Rusca, indicava almeno ai confratelli riformati la via della moderazione e della rinuncia ad ogni violenza. Nella sua Responsio ad parochos vulturenos, pubblicata intorno al 1600, il C. respingeva le accuse che gli erano rivolte, difendeva i meriti del suo quasi trentennale ministero valtellinese e accusava apertamente i cattolici di voler perseguitare e torturare i riformati. Ma se i cattolici ricorrevano alla violenza, i riformati non intendevano comunque accettare lo scontro su questo piano: "Cupimus errantes argumentis ex verbo Dei erudire, non tormentis excarnificare, et cum Hieronymo lib. V in Esai. cap. XIV illud ambimus: "Utinam filios haereticorum, et omnium qui decepti sunt interficiamus sagittis spiritualibus"".

Nobili parole che sembrano coronare degnamente una vita tutta dedicata non solo alla predicazione del Vangelo, ma anche all'affermazione del principio della pacifica convivenza di cattolici e riformati. In questa accanita difesa da parte del C. del diritto di coesistenza delle due religioni in una terra, come la Valtellina, italiana non solo per lingua e tradizioni, ma addirittura italiana come provincia ecclesiastica, circola veramente uno spirito nuovo, di rottura verso il passato, che venne poi inesorabilmente stroncato perché una simile presenza evangelica alle porte dell'Italia cattolica avrebbe rappresentato un costante pericolo per l'unità religiosa delle terre italiane.

Nell'apologetica di parte protestante, anche nel caso del C., si tende tuttavia a sopravvalutare la portata di questo spirito nuovo, di questa aspirazione all'aperto confronto fra le due fedi: si tende cioè a porli come premessa dell'affermazione dell'idea di tolleranza. In realtà uomini come il C. puntavano sulla coesistenza delle due fedi come strumento per l'inevitabile affermazione della loro verità, e, sebbene facessero un passò avanti rispetto alle concezioni autoritarie del cattolicesimo, andavano anch'essi esattamente nella direzione opposta all'idea di tolleranza: così per esempio, nel proemio All'Italia della traduzione del Trattato del Mornay, il C., negando il diritto di ricorrere alla violenza per dirimere le dispute religiose, dichiara di far riferimento "solamente a quelle religioni che abbracciano il Vecchio e il Nuovo Testamento et il Simbolo Apostolico et i Concili… et non alle religioni che sovvertono i fondamenti della religione e della politia, come delli Ariani, degli Anabattisti e di simili altri". La conseguenza è indiscutibile: è lecita la violenza contro le religioni "che sovvertono i fondamenti della religione e della politia". Il C. non aveva bisogno di molte altre chiose a questa sua conclusione del 1591: poco meno di vent'anni prima egli aveva addirittura scritto, in lingua italiana, un trattato sugli eretici e sul diritto-dovere di perseguirli penalmente, che è rimasto fino ad oggi sconosciuto, almeno al di fuori del ristretto ambito della storia della tipografia nei Grigioni (Sprecher, in Bornatico).

Il Trattato dell'origine delle heresie et delle schisme che sono nate o che possano nascere nella Chiesa di Dio et de' rimedij che si deono usare contra di quelle, cioè della scomunica et della potestà del magistrato civile, fatto in cinque lettioni da M. Scipione Calandrini venne pubblicato a Poschiavo "per Cornelio et Anthonio Landolphi" nel 1572. La lettera dedicatoria all'ammiraglio di Francia e capo del partito protestante Gaspard de Coligny è datata "in Morbegno, in Valtellina, il dì primo di febbraio 1572".

In essa il C. spiegava di esser stato "ricercato alli giorni passati da alcune delle nostre chiese che la Divina Bontà ha piantate in questi confini d'Italia sotto la tutela degli Illustrissimi Signori Grigioni" di compilare il trattato. Sebbene il C. non lo ammetta apertamente, la decisione di scrivere il libello era strettamente legata alle discussioni dottrinali che avevano infiammato i Grigioni nel 1570 e 1571. Su sollecitazione di Scipione Lentulo si era ottenuto dalla Dieta federale nel 1570 "un decreto per il quale chiunque volesse risiedere nelle terre di lingua italiana doveva professare" la fede evangelica secondo la "Confessio Rhaetica" o la fede cattolica, mentre ogni altro errore anabattistico, ariano o simili, doveva esser distrutto e sradicato dall'autorità civile. Ognuno doveva sottoscrivere la professione di fede della sua chiesa, pena l'espulsione (D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1967, p. 316). Poiché il decreto venne applicato con molta elasticità i pastori riproposero la questione al sinodo di Coira del giugno 1571, in cui il principale punto in discussione era la condanna del pastore Johann Gantner che aveva preso le difese di due anabattisti di Coira. Nel corso della terza sessione del sinodo "omnium italorum negotia proposita fuerunt" (Da Porta, I, 2, p. 543): si ripropose cioè la questione degli eretici italiani. Tutti gli italiani "arianizzanti" furono scomunicati; il sinodo confermò "esse omnino magistratus haereticos plectere ac contumaces in fidei rebus cogere et punire" (ibid., p. 539). A partire da questa data il movimento anabattistico e arianizzante cessò praticamente di esistere nei Grigioni e nella Valtellina.Lo scritto del C. si colloca evidentemente a monte del sinodo di Coira del giugno 1571 al quale egli, forse già chiamato a reggere la Chiesa di Morbegno, probabilmente assistette. La sostanza delle sue argomentazioni è analoga a quella del Bèze nella sua celebre risposta al De haereticis an sint persequendi.Egli non ha esitazioni nella sua drastica condanna degli eretici: è infatti Satana che cerca di "infettare le chiese col veleno degli heretici". Anche per lui, come per il Bèze, la scomunica è una sanzione insufficiente; solo la morte è pena adeguata alla pervicacia ereticale di orribili e scellerati mostri, di "turbatori del publico riposo", come Michele Serveto, come Tommaso Münzer, "primo instrumento di Sathana", che "messe le armi in mano a una gran moltitudine ignorante". E a chi obietta che, in materia di fede, "la conscientia… non vuole essere sforzata et la religione non si dee abbracciare per timore, ma per amore", il C., nel suo calvinistico rigore, ribatte: "Tutto ciò è vero, se s'intende della semplice forza et tirannica, ma se s'intende d'una violenza giusta, o d'un gastigo legittimo, il quale si fa con l'accompagnare la dottrina con la disciplina, è falso".

La violenza del tono del C. deve essere considerata più che altro strumentale: egli non si assegnò il compito di dare un contributo originale e dottrinalmente valido nell'ambito della controversia fra i riformati e gli eretici, come fu il caso di Scipione Lentulo e della sua Responsio orthodoxa pro edicto ill. dom. Trium Foederum Raetiae adversus haereticos pubblicata a Ginevra nel 1592, ma scritta anch'essa vent'anni prima, bensì quello di persuadere gli italiani anabattisti e arianeggianti della Valtellina e dei Grigioni a piegarsi alle decisioni del Consiglio delle Chiese retiche. Il trattato ha uno specifico fine propagandistico ed è diretto a un gruppo circoscritto di fedeli altrettanto tenaci nelle loro convinzioni, quanto probabilmente di scarso livello culturale, tanto da aver bisogno d'esser raggiunti da uno scritto in lingua italiana. Per altro verso, lo scritto di un italiano, in lingua italiana, contro eretici che erano in massima parte italiani, doveva in certo modo fornir la prova dell'ortodossia di quella nazione italiana che i padri della Riforma svizzera sospettavano in blocco d'esser la pecora nera del gregge evangelico. Che il C. si sia assunto con questo libello un compito eminentemente propedeutico si rileva anche dal fatto che mentre violentissimo è il suo tono contro il Serveto e contro gli anabattisti tedeschi od olandesi, egli passa quasi completamente sotto silenzio gli italiani, proprio per non urtare la sensibilità dei fedeli cui dirigeva il suo scritto. Soltanto a Bernardino Ochino si muove l'appunto di aver tollerato che un suo discepolo passasse a seconde nozze: davvero ben poco rispetto a quello che si poteva opporre all'Ochino! E infatti - osserva il C. - ciò "nondimeno la memoria e del maestro e del discepolo è anchora pretiosa appresso di molti che vogliono essere tenuti buoni christiani" (pp. 56-57).

Opere: una copia della Lettera di Antonio Possevino si conserva nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze; ivi anche la traduzione del Trattato di Ph. de Mornay (due copie). Un esemplare di questo sta anche in Bibl. Apost. Vatic.; qui pure una copia del Trattato dell'origine delle heresie (altra copia del quale si trova nella Bibl. cantonale di Coira) e degli Acta disput.Tiranensis.Non è stato possibile vedere né una Confutatione delle calunnie…che il catalogo della Biblioteca Planta di Samaden segnala stampata a Ginevra nel 1596 sotto il nome di Calandro Scipio (cfr. P. Chaix-A. Dufaur-G. Morel, Les livres imprimés à Genève de 1550 à 1600, Genève 1966, p. 147), né la Responsio ad parochos vulturenos del C. di cui ampi estratti sono pubblicati dal Da Porta; l'autografo, sempre secondo il Da Porta, sarebbe conservato a Zurigo. La traduzione manoscritta delle Bucoliche di Virgilio, ad opera del C. è segnalata da C. Bonorand nella Biblioteca cantonale di Coira. Lettere del C. a Rudolf Gualther, a Heinrich Büllinger e a Jacob Zwinger, sono segnalate dal Bonorand nella Zentralbibliothek e nello Staatsarchiv di Zurigo e nella Universitäsbibliothek di Basilea.

Fonti e Bibl.: Lucca, Bibl. govem., ms. 1109: G. V. Baroni, Notizie genealogiche delle famiglie lucchesi (sec. XVIII), c. 68; Firenze, Bibl. nazionale, Raccolta Guicciardiniana, 2.3.2.: V. Burlamacchi, Libro di memorie diverse della Chiesa italiana di Ginevra dal 1550al 1669 (copia ms. sec. XIX), cc. n.n.; Büllingers Korrespondenz mit den Graubündern, a cura di Th. Schiess, II, April 1557-August 1566, Basel 1905, nn. 421 s., 425 s.; III, Oktober 1566-Juni 1575, ibid. 1906, nn. 276 s., 310, 454 s.; Livres des habit. de Genève, a c. di P. F. Geisendorf, I, Genève 1957, p. 148; Th. de Bèze, Correspondance, a cura di H. Aubert-H. Meylan-A. Dufour-A. Tripet, IV, Genève 1965, p. 244; P. D. Rosius de Porta, Historia Reformationis Eccles. Raeticarum, I, 2, Coira 1771, pp. 483 s., 496 e passim;Th. Maccrie, Istoria del progresso e dell'estinzione della Riforma in Italia nel sec. sedicesimo, Parigi 1835, pp. 338 s.; Ch. Eynard, Lucques et les Burlamacchi, Paris 1848, p. 184; C. Cantù, Gli eretici d'Italia, III, Torino 1866, pp. 231, 234 ss., 238 s.; Id., Il sacro macello di Valtellina, Milano 1885, pp. 17, 51, 54; J. B. G. Galiffe, Le refuge italien de Genève aux XVIe et XVIIe siècles, Genève 1881, pp. 77, 153; G. Sforza, La patria, la famiglia e la giovinezza di papa Niccolò V, in Arti della R. Acc. lucchese di scienze, lettere e arti, XXIII(1884), pp. 318-319; E. Picot, Les Français italianisants au XVIe siècle, I, Paris 1906, p. 379; F. Tocchini, Note su la Riforma a Lucca dal 1540al 1565, in Boll. stor. lucchese, IV(1932), pp. 116, 120; A. Pascal, Da Lucca a Ginevra, Pinerolo 1935, passim;A.Giussani, La riscossa dei Valtellinesi contro i Grigioni nel 1620, Como 1935, p. 98 (dove Michele Calandrini è il C.); C. Bonorand, Die Entwicklung des reformierten Bildungswesens in Graubünden zur Zeit der Reformation und Gegenromation, Thusis1949, pp. 39 s., 56 s., 71, 84 s., 126, 157 ss., 161, 164; E. Camenisch, Geschichte der Reformation und Gegenreformation in den italienischen Südtälern Graubündens, Coira 1950, pp. 33, 122, 146, 148, 154; R. Bornatico, L'arte tipografica nelle Tre Leghe (1549-1803), Coira 1971, p. 44.

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