GONZAGA, Scipione

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Scipione

Gino Benzoni

Nacque, nel Mantovano, a San Martino dall'Argine l'11 dic. 1542 da Carlo, marchese di Gazzuolo (1523-55) di Pirro, e da Emilia (1517-76) di Francesco Cauzio (o Cauzzi) e Isabella Boschetti.

Il G. era il secondogenito di sette fratelli: primo di questi Pirro (1540-92) e, nati dopo di lui, Annibale (francescano nel 1562, con il nome di Francesco), Giulio Cesare scomparso in tenera età, Alfonso (1549-69), Ferdinando o Ferrante (1550-1605), un altro Giulio Cesare; si aggiungono almeno tre sorelle: Camilla coniugata con Sforza Appiani nipote di Iacopo (VI) signore di Piombino; Polissena sposata con Ferrante dei Rossi dei conti di San Secondo; Laura monaca benedettina. I Cauzio avevano avuto dall'allora marchese Federico la concessione di avvalorare il cognome - di per sé non illustre - con quello del marchese regnante. Ciò perché il nonno d'Emilia avrebbe avuto il merito di allertare Federico su di una trama ordita a corte a suo danno. Ma in realtà il riconoscimento è riconducibile alla nuora Isabella, oggetto della notoria passione di Federico. E - così almeno nelle chiacchiere di corte - la stessa Emilia, la madre del G., sarebbe frutto della relazione di Federico con la bella Isabella, iniziata ancor prima di succedere al padre nel marchesato.

I primissimi mesi di vita del G. furono funestati da una malattia della pelle: questa cadeva riducendone il corpicino a carne viva, che le nutrici avvolgevano con edera, così da non entrare in diretto contatto con le fasce. Scampato così il pericolo, da bambino il G. rischiò nuovamente: un molosso paterno cui stava accarezzando il dorso, con scatto improvviso, gli addentò il labbro superiore e per poco non glielo asportò. Ci vorranno anni perché ne recuperi l'uso e possa riadoperare senza sofferenza la dentatura. E sempre cagionevole la salute, anche quando uscì dalla puerizia. Destinato sin dalla nascita alla carriera ecclesiastica, nel 1550 venne affidato al cardinale Ercole Gonzaga, che lo accolse in casa propria. Suo compagno di stanza Francesco Gonzaga, figlio di Ferrante e nipote del cardinale, maggiore del G. di cinque anni e al G. sordamente ostile - glielo confesserà, a scarico di coscienza, lo stesso Francesco anni dopo - nel vederlo trattato, ancorché non parente stretto, ancorché tanto inferiore per censo e lignaggio, allo stesso modo dallo zio. Il G. - orfano, nel frattempo del padre, che morì il 13 giugno 1555 dopo aver designato tutori dei figli il cardinale Ercole, il nipote di questo Guglielmo duca di Mantova, il cugino Vespasiano marchese di Sabbioneta, il fratello Federico - trascorse otto anni presso il cardinale, sollecito a che, oltre ad applicarsi con profitto nello studio, avendo per precettore Antonio Possevino, il G. non trascurasse gli esercizi ginnici, l'equitazione, la scherma. Ormai maturato intellettualmente e cresciuto fisicamente, il G. nel 1558 fu inviato a proseguire gli studi a Padova. Generosamente dotato dal cardinale, vi si poté sistemare in un'ampia dimora, arredata signorilmente, con tappeti, argenteria, stoviglie di pregio; e al suo fianco, perché gli fosse di guida e consiglio, il dotto eugubino Giulio Gabrielli, traduttore in latino di Senofonte e Plutarco, autore di una Laudatio (Venetiis 1561) del principe di Molfetta Ferdinando Gonzaga, ristampata a Venezia nel 1568, in italiano. Il G. adolescente godette pertanto di una situazione dorata, alla quale il cardinale Gonzaga, senza tema di deroga dalla normativa relativa all'età, aggiunse il vacante arcidiaconato della cattedrale mantovana; donde, il 1° ag. 1559, la tonsura chiericale per il G. e l'obbligo dell'abito talare. Solo che il cardinale - nel morire a Trento il 2 marzo 1563 - non aveva resistito alle pressioni volte a modificare le sue antecedenti disposizioni testamentarie. Al capezzale del morente il conte Federico Maffei, che ne aveva sposato la figlia naturale Isabella, ma non il G., che, invece, avvisato troppo tardi dell'aggravarsi delle condizioni di salute del proprio munifico protettore, fece appena in tempo a incontrare, nei pressi di Verona, il corteo funebre diretto a Mantova con la salma. E non gli restò che unirsi a questo, per poi apprendere che - nell'ultimissimo testamento - risultavano assai ridotte le promesse fattegli dal cardinale ancora nel 1558. I 10.000 ducati allora assicuratigli sono diventati 6000 e, per di più, aleatori, giacché ricavabili solo dalle rendite spagnole dello scomparso. E gli immobili, nelle antecedenti disposizioni testamentarie assegnati al G. senza riserva, ora, con le ultimissime disposizioni, furono vincolati a passare, una volta morto il G., ai figli del Maffei e di Isabella Gonzaga.

Dispiaciuto per non aver potuto contrastare con un'altrettanto tempestiva presenza l'assedio di Maffei all'agonizzante, il G. mantenne, nel contempo, intatti i suoi sensi di gratitudine per il cardinale, la cui scomparsa fu pianta con versi anche del G., membro della mantovana Accademia degli Invaghiti. Dopo le esequie del cardinale il G. fu di nuovo a Padova. Visto l'abito che indossava - ma solo in chiesa e nelle aule del Bo -, vista la carriera che si riprometteva, una laurea in utroque iure sarebbe stata per lui la più conveniente. Ma, come egli stesso racconta nei Commentarii, non sono le lezioni di diritto a interessarlo.

I Commentarii sono un autoprofilo in latino, dove il G., adottando la terza persona, scrive di sé dalla nascita ai 37 anni. Ne iniziò la stesura nel 1579 e, probabilmente, nello stesso anno pressoché erano conclusi, salvo un rapido prosieguo; lo scritto vedrà la luce nel 1791 con la stampa romana corredata dall'aggiunta ai suoi tre libri di un quarto redatto da Giuseppe Marotti (riprodotto anastaticamente quest'ultimo nella moderna edizione della versione italiana Scipione Gonzaga, Autobiografia, a cura di D. Della Terza, Modena 1987).

A Padova il G. frequenta insegnamenti filosofici e, a partire dal 1563, teologici. Suo "precettore" in entrambi i versanti è il mantovano Federico Pendasio, l'autore del De natura corporum coelestium (Mantuae 1555) e di Phisicae auditionis texturae… (Venetiis 1603), nonché "interprete", nel Ginnasio, di "sacri testi" e soprattutto esegeta d'Aristotele, delle cui lezioni del 1557 sul testo del De anima resta traccia (cfr. Olivieri). Ma soprattutto il G. è attratto dalle "belle lettere". Destinata a questi studi è l'Accademia degli Eterei da lui fondata, nel 1564, nella propria dimora patavina. Vi convengono, bisettimanalmente, una ventina di giovani, e tra questi T. Tasso adolescente, per dissertare gravemente di argomenti non "trattati da altri nelle scuole", ignorati nelle aule del Bo. All'insegna degli studi letterari e del culto della poesia il radunarsi dell'eletta, e per nascita e per costumi, compagnia in casa del G., la cui autofrequentazione si traduce, con le Rime- che, uscite a Padova nel 1567, saranno ristampate a Ferrara nel 1588 - in autoidentità di gruppo. Nella silloge, "nobile legato" alla posterità, oltre al primo consistente mannello di Tasso lirico, l'intero - come tale va valutato, dato che quest'esercizio poetico giovanile non fu portato innanzi -corpus dei versi del Gonzaga. Una quindicina di liriche in tutto ruotanti - ad eccezione dell'epicedio per la morte del re di Francia Enrico II, del 10 luglio 1559 - sull'amore per "Leucippe", bella e crudele a un tempo, nell'ambito di un petrarcheggiare di non inabile fattura nella cui manierata eleganza si attutisce e si smorza la vampa di vicende amorose che devono essere state autentiche e intense.

Un'operazione postuma, comunque, a futura memoria la stampa del 1567, perché gli Eterei non ci sono più. E non più filtrante e decantante in versi pene e gioie d'amore il G., che, nello sguardo retrospettivo dei Commentarii, considerò il proprio verseggiare e il vissuto che l'ha alimentato come dalla lontananza d'un costruito distanziamento, alla luce di una maturazione intesa come superamento della fase adolescenziale. Ma ciò non senza rimpianto per il "calore dell'età giovanile", per il "senso del bello" in quella così urgente, per la "vocazione poetica" in quella trapelata. Partendo, nel 1565, da Padova - e, lui partito, spariscono gli Eterei, rimasti senza sede e senza principe - il G. rinuncia alla poesia, si sentì da questa "totalmente alieno". Assai di rado poi gli capiterà - o per altrui insistere o per proprio momentaneo sussulto - di azzardare dei versi: ma con fatica, con "difficoltà", con esiti stenti. La "vocazione" - già forte a Padova - era venuta meno. Quel che ha prodotto è racchiuso nel "piccolo libro" delle Rime che ogni tanto il G. sfoglia anche per rileggersi, e non senza nostalgia, non senza ammettere che la successiva afasia poetica è stata il pedaggio pesante pagato all'assunzione di responsabilità che l'ingresso nella vita adulta ha per lui comportato. "Poco sensato", comunque, lo dice egli stesso, lasciare Padova senza avervi conseguito "il titolo dottorale". Sin negligente, per tal verso, il giovane; ma, per il momento, non può rimediare, perché - trattenuto il fratello primogenito Pirro da un impiego mediceo - sta a lui portarsi alla corte cesarea a omaggiare l'imperatore Massimiliano II e soprattutto a protestare per la prepotenza con la quale Vespasiano Gonzaga, non pago di Commessaggio, pretende di arraffare - a danno della sua famiglia - altro e di più nell'intrico di poteri locali, proprietà, diritti mal definiti. E a tal fine contrasta di fatto quanto la madre del G. Emilia sta facendo come amministratrice del patrimonio familiare.

Messosi in viaggio con lo zio paterno Federigo Gonzaga - anche questi in urto con il signore di Sabbioneta -, raggiunta Innsbruck, sceso di qui in barca l'Inn sino a Passavia per poi proseguire sul Danubio sino a Vienna, i due - ricevuti due volte dall'imperatore - non osarono fare "parola" sui loro guai. È Massimiliano stesso, in un'udienza successiva, a sollecitarli a parlare liberamente. Ed è il G. che, "in un lungo e dettagliato discorso", espone le angustie della famiglia, consegnando poi un relativo promemoria. Interessato a una soluzione del contenzioso pure Vespasiano che, a sua volta, ha insistito con l'imperatore perché sia stabilito, una volta per tutte, "quali beni" a lui spettino. E delegato "il giudizio" in merito al duca di Parma e Piacenza Ottavio Farnese, mentre il G. e lo zio ripartono non "a mani vuote", gratificati come sono dalla nomina a principi del Sacro Romano Impero e dalla promozione a marchesato di Gazzuolo. Tornato a Mantova passando per Padova - prima d'entrare in Italia un diverbio con lo zio è stato talmente aspro per cui ognuno dei due ha preferito proseguire per conto proprio -, il G. si rimette in viaggio al seguito del cardinale Francesco Gonzaga, diretto a Firenze per le nozze di Francesco de' Medici con Giovanna d'Austria. Ma repentinamente mutata la destinazione nell'apprendere a Bologna della morte, avvenuta il 18 dicembre, di Pio IV, del quale, da poco, dietro pressione medicea, il G. era divenuto cameriere segreto: il cardinale si precipita a Roma e il G., invertendo la direzione, si porta a Padova: quivi, finalmente - fatta il 15 febbr. 1566 la debita professione di fede - si laurea in teologia di lì a due o tre giorni.

Protratto il soggiorno patavino per riassaggiare i piaceri dei disinvolti "costumi studenteschi", per riassaporare appieno quella "vita studentesca" che, senz'altro, è "tra tutte la più bella e gioconda", per lo meno - così il G., ad attenuare una tanto perentoria asserzione - "per chi non voglia saziarsi ai divini pascoli della grazia celeste". Peccato - sospira - non poter fare lo studente a vita. Egli deve pensare a sistemarsi. Ma troppi lo precedono nella lista degli aspiranti ai favori del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga; ma non a portata di mano l'appetita protezione medicea. È, a ogni modo, nella collocazione clientelare che punta. Sicché accetta - sia pure senza gran entusiasmo; ma non vede alternative praticabili - di "far parte della famiglia" del cardinale Ippolito d'Este. Non se la sente di rifiutare le offerte "grazie" di un prelato di tanto conto.

Non può più, allora, indugiare negli ozi patavini. Deve prendere "congedo dalla vita studentesca", pensare a preparare il proprio "trasferimento". A Mantova dal febbraio, circa, del 1567, ne parte - visitati gli amici e i parenti - dopo Pasqua; in barca sul Mincio e il tratto finale del Po si porta a Ferrara, per di qui, al seguito del cardinale estense, raggiungere Roma.

Doverosa, strada facendo, la sosta a Loreto. E qui una sorta di sconvolgente folgorazione per il giovane che, sino allora "abituato ai costumi studenteschi e cortigiani", non si è astenuto da quel che offrono i "pascoli" terreni, accontentandosi di una religiosità esteriore, della comunione un paio di volte al mese, senza un particolare impegno di preghiera e meditazione.

"Entrato" - racconta nei Commentarii- "nella cappelletta" del santuario, come costretto al "mistero imperscrutabile della divina Incarnazione", assorto in una riflessione in lui inusuale, lo invade una violentissima "subitanea paura". Annichilito, si prostra ai piedi del confessore invocando il conforto di una confessione che lo risollevi. Quella religiosità già tiepida e abitudinaria nella quale si era sino allora adagiato limitandola al rispetto delle scadenze, a esterni adempimenti ora gli si evidenzia in tutta la sua miseranda grettezza. È un peso insopportabile per la sua coscienza ridestata dal torpore. È una colpa di cui pentirsi, da rimuovere con il riscatto di un'ardente spiritualità. Segue alla "penitenza" il gaudio immenso, mai prima provato e mai prima immaginato, della comunione trasformante la dolente contrizione in salvifica rigenerazione. Come rischiarato dentro dalla luce della verità il G., nel riprendere - con il cardinale e la sua comitiva - il cammino.

Solo che Roma non è la città più adatta a tenere desta la fiamma che in lui è divampata, né vi si reca perché chiamatovi da una qualche voce risuonante nell'anima, ma per pratico calcolo delle possibilità che la città offre. Indicativo, comunque, che il G. - anziché sistemarsi, come potrebbe, in un appartamento nel palazzo del cardinale - preferisca alloggiare con la sua "famiglia" (dispone, infatti, di propria servitù), per proprio conto, in un proprio spazio "né angusto, né privo di eleganza", dove "rifugiarsi", appartarsi, ritrarsi, come in una zona franca in cui virtualmente barricarsi di contro all'assedio della mondanità, entro la quale disintossicarsi dall'inquinamento dei traffici curiali serbando così un minimo la memoria della vertiginosa altezza alla quale, d'un tratto, s'è sentito sollevato a Loreto. Ma ciò ogni tanto e non più che tanto. La solitudine spiritualmente assorta è un lusso che il G. non può permettersi. Presentato a Pio V dal cardinale d'Este, evita - sapendo che il duca di Mantova preme per la porpora al cugino Gianvincenzo, figlio di Ferrante Gonzaga - successivamente d'aggirarsi nelle anticamere, di cogliere l'occasione per riapparire agli occhi del papa, di farsi amico il personale al servizio diretto di quello. Così - calcola - finirebbe solo per interferire con le mire del duca di Mantova. Meglio farsi notare non come postulante sempre fisicamente presente, ma con la paziente costruzione di una reputazione. Donde, da parte sua, la visita a "tutti" i cardinali, uno per uno, sì da essere, in breve, "amato da tutti", inclusi i "più potenti". E a più di uno tra questi il G. diventa "talmente caro" da guadagnarsene l'"intrinsichezza".

Ma la partenza per la Francia, nel 1568, del fratello Pirro - che, in urto con lo zio Federico, lo ha addirittura, con un colpo di mano, cacciato da Gazzuolo - costringe il G. a interrompere l'accorta tessitura del proprio profilo romano per rientrare a San Martino a occuparsi delle faccende di famiglia. È lì lì per accordarsi con lo zio, quando - per lo scriteriato intervento del fratello più giovane Giulio Cesare - la composizione salta. Il che offre il destro all'intromissione del duca Guglielmo, deciso a ridurre le enclaves della famiglia del G., non senza la relativa guerricciola - ancorché incruenta, ancorché senza morti e feriti - assurga, nel solenne latino dei Commentarii, a bellum domesticum lacerante il Ducato e, quindi, a bellum civile. Di fatto la bega, non risolta, con Federico, lo zio, una volta che questi - pressato dal duca - gli cede i propri diritti dietro il compenso di un cespite annuo fisso, finisce con il contrapporre il G. e i suoi proprio a Guglielmo. Con il che il confronto diventa impari. A vuoto il tentativo del G. di un colloquio pacificante. "Non abbiamo niente da dirci": così secco il duca, quasi a dichiarar guerra ai "signori di San Martino". E, in effetti, occupata militarmente Gazzuolo, senza che questa accenni a resistere, non resta al G. che portarsi, nel settembre del 1569, a Bratislava per recare all'imperatore Massimiliano la "prova tangibile" dell'iniquo "colpo di forza" e a chiedere, oltre alla restituzione di Gazzuolo, l'annullamento dell'alienazione a favore di Guglielmo di proprietà di per sé inalienabili, per volontà testamentaria appurabile lungo i secoli sempre vincolati all'esclusivo ambito della più stretta parentela. Salomonica la lettera imperiale del 27 al duca nello stabilire che questi rimetta nelle mani di Federico Gonzaga quei "beni" di cui a suo tempo era stato "investito" dall'imperatore. Un riportare la questione al punto di partenza che costringe - sia pure non immediatamente; il duca tergiversa - Guglielmo a sgomberare Gazzuolo.

Certo che il G. trattante alla corte cesarea "in abiti civili" e non in "abito talare" - paventa questo irriti i funzionari - sta compromettendo le sorti della propria carriera ecclesiastica. Deviante l'eccessivo suo coinvolgimento nel groviglio delle questioni familiari. E il consuntivo non è gran che soddisfacente: all'arcidiaconato - da lui talmente trascurato da essere rimbrottato dal vescovo per il suo assenteismo - ha dovuto rinunciare e a lui subentrato nella titolarità del beneficio il nobile mantovano Giulio Strozzi. Gli resta, a mo' di pensione, riservata la metà dell'usufrutto. E gode di un'altra pensione. Ma la sua rendita complessiva non supera i 275 ducati annui. Troppo poco, a suo avviso.

Rientrato intanto Pirro dalla Francia, il G. non può, come vorrebbe, liberarsi dalle incombenze di famiglia. La nomina, da parte dello zio Federico, del duca a proprio erede universale riaccende i contrasti. E il G. - che sa esporre, che sa stare a corte - è più idoneo di Pirro a sottoporli all'imperatore. Sta a lui precipitarsi a Praga per invalidare il testamento; e, mentre il testatore muore, Guglielmo occupa Dosolo e Pirro occupa Gazzuolo, per poi portarsi di persona a Praga. Solo che non subentra al Gonzaga. È questi a essere preferito come interlocutore. Sicché Pirro torna indietro e il G., pur di rimanere accanto all'imperatore, si aggrega alla comitiva che con lui lascia Praga il 1° giugno 1571 alla volta di Spira, passando per Pilsen e Norimberga ("situata quasi all'ombelico di tutta la Germania", città commerciale "amministrata a modo di repubblica" e all'uopo avvalentesi di "leggi veneziane", questa sembra al G. città felice; peccato non sia cattolica). Affidata da Massimiliano - non sordo all'appellarsi del duca mantovano a una clausola della pace di Costanza, in virtù della quale è in Italia che dev'essere trasferito il giudizio - l'"istruzione della causa" in merito alla "vertenza" al rappresentante cesareo presso la S. Sede conte Prospero d'Arco, al G. non resta che - lasciata Spira e dopo "pochi giorni" a San Martino - raggiungere, a fine novembre, Roma per esporre ad Arco le ragioni della propria famiglia, mentre a sostenere quelle ducali provvede il giurista mantovano e segretario del duca Aurelio Zibramonte.

Intanto la non concessa porpora a Gianvincenzo Gonzaga autorizza il G. a sperare che il pontefice Pio V stia ritenendolo a quella più idoneo. Ma l'incipiente speranza fu troncata dalla morte, del 1° maggio 1572, del papa. Successore di questo Gregorio XIII, a omaggiare il quale parte da Mantova il duca. E il G. ci tiene a mostrarsi - malgrado il contenzioso tra Guglielmo e la sua famiglia - con lui rispettoso. Ma vanno a vuoto i tentativi di un incontro, prima che Guglielmo arrivi, lungo il viaggio. Il G. è tra i cavalieri, allora, che lo aspettano a due miglia da Roma tutti schierati a salutarlo. E, dopo che Guglielmo ha preso alloggio nella residenza di Gianvincenzo, il nipote aspirante al cardinalato, a S. Maria dell'Anima, ogni giorno - con il pretesto di visitare il padrone di casa - il G. si fa vedere dal duca, lo scorta, con altri cortigiani o aspiranti tali, alla "carrozza", ove però, non viene mai invitato a salire. Di proposito il duca evita qualsiasi possibilità di "colloquio privato". Di proposito il G. continua a manifestare la più premurosa deferenza; è proprio la "reverenza costante" a metterlo in buona luce, laddove, per contrasto, risalta la sgraziata scortesia di Guglielmo. Ma, allorché giunge il giorno della partenza del duca, il G., che nel frattempo non ha conseguito alcunché, stanco di simulare ossequio e di dissimulare rancore, tramite un cursore, fa recapitare al partente una sorta di citazione a giudizio. Offesissimo, Guglielmo avvampa di sdegno. Invano il vescovo di Fano Ippolito Capilupi, che è tra i presenti, si adopera a placarlo, osservando che nella consegna del foglio non c'è niente di lesivo: è un procedere usuale nella "pratica tribunalizia" romana, sperimentato dallo stesso Carlo V che, per tre volte "convocato" da un suddito, lungi dall'adontarsi, al cursore latore della convocazione ha dato una generosa mancia. Ma Guglielmo è sordo al richiamo di tanto antecedente, agli inviti alla calma dei più saggi e anziani di quanti l'attorniano. È, invece, ai cortigiani più giovani - servili costoro gli vanno dicendo quel che vuol sentirsi dire, mostrandosi, quasi ad aizzarlo viepiù, di lui più sdegnati - che presta orecchio, che bada. Intollerabile l'offesa arrecatagli. Subito furono spediti al papa - allora a Ostia - due legali a esigere la punizione dell'affronto. Non inascoltata la richiesta da parte di Gregorio XIII: preoccupato Guglielmo non parta irritato, lo compiace dandogli soddisfazione coll'intimazione di tre vigorosi tratti di corda al cursore e del carcere a Tor di Nona, "una prigione ignobile" destinata a "prigionieri comuni", per il Gonzaga. Al G. non rimane che constatare - allorché, nottetempo, l'uditore della Camera apostolica Alessandro Riario gli porge la sentenza papale - come Gregorio XIII, visto che non ha dato "sodisfazioni" particolari a Guglielmo nelle sue svariate richieste, lo risarcisca d'un tratto a sue spese, con la sua pelle. Lo stesso Riario, il latore della "sentenza", è "d'accordo" con il G. sul fatto che il carcere di Tor di Nona è una punizione spropositata: "il luogo è indegno". Ma fu respinto il tentativo di ottenere una detenzione nella prigione di Castel Sant'Angelo, impotente lo stesso Riario con l'irremovibilità del pontefice. Solidale con il G. non può che invitarlo a colazione, che rallentare sino all'imbrunire l'incarcerazione a Tor di Nona, di cui, a detta di Gregorio XIII, non vi è ragione il G. si lamenti; nel medesimo carcere, fa notare il papa, "sono stati tenuti in custodia ecclesiastici importanti e nobili di alto rango". E non incrudelente il pontefice nel concedere nella "stanza" al G. riserbata rimanga "al suo servizio" un suo familiare, il fido Giorgio Alario di Vitelliano. E non disperato il G., perché memore di quanto predettogli, a suo tempo, da un "fisionomista" e "indovino dal nome greco": a detta della predizione sarebbe finito tra le sbarre prima di compiere 30 anni e poi le cose sarebbero andate bene. Prossimo alla scadenza dei 30 anni il G. e fiducioso che la profezia si avveri del tutto.

Carcere relativo d'altronde quello che saggia: appena nove giorni e con reclusione sin blanda. Appena entrato può mettersi a scrivere, per segnalare il proprio caso, lettere a "quasi tutti principi […] cristiani" e a quanti hanno "accesso presso di loro". E, essendo la porta chiusa, nulla vieta trasmetta le missive dalla finestra. E aperta la porta già a partire dal terzo giorno. Donde l'andirivieni di personalità di riguardo a fargli visita. Lieve, altresì, l'accusa mossagli: avrebbe interpellato, bloccandolo per strada, un principe venuto a rendere obbedienza al papa. Un'imputazione pretestuosa adoperata da Gregorio XIII per ostentare una severità che tenga buono Guglielmo sì da farlo partire soddisfatto. Ma non più arcigno Gregorio XIII con il G., una volta che il duca è sulla via di Mantova. Scarcerato il G. e quindi, per 27 giorni, agli arresti domiciliari. E sin affabile con lui il papa, quando il G. si reca a ringraziarlo della recuperata libertà di movimenti. Da non escludere il papa si sia in cuor suo vergognato un po' della "durezza" adottata contro il G. "ad un cenno d'altri".

Muore intanto, il 22 nov. 1572, Prospero d'Arco, il "giudice della lite" con il duca. E muore, il 1° dic. 1572, il cardinale Ippolito d'Este. Di per sé il G. dovrebbe passare sotto la protezione del nipote di questi, il cardinale Luigi, fratello del duca Alfonso. Ma costui non ha gran simpatia per il G., il quale, colta l'opportunità del suo pensare alla partenza per la Francia - e dall'agosto del 1573 alla fine del 1576, in effetti, in Francia il cardinale - entra "nel novero" dei "clienti" del cardinale Ferdinando de' Medici, figlio del granduca Cosimo. Privo di forza contrattuale autonoma, il G. non contempla per sé altra condizione che quella clientelare: "per non apparire agli occhi del mondo negletto", indossa la casacca d'un'autorevole "protezione".

Nel contempo la "prolungata molestia" della contesa con il duca pare un po' sbloccarsi, avviarsi alla soluzione. Il braccio di ferro in questa non favorisce alla lunga il G. e i suoi fratelli. Guglielmo può mobilitare i cervelli dei migliori giuristi, può reggere le relative spese, può prolungare, ritardare, protrarre. Non altrettanto la controparte. D'accordo con Pirro, il G. punta a un "accomodamento" dal quale sortire, purché compensati da una grossa somma, senza Gazzuolo e Dosolo. In discussione, allora, l'entità della somma: il G. e i suoi pretendono 100.000 ducati; il duca ne offre 70.000. La questione, ancora una volta, rimbalza alla corte cesarea. Qui l'imperatore - che ha simpatia per il G., che, in una lettera del 1573 ai cardinali Girolamo Morone e Ludovico Madruzzo, s'esprime su di lui in termini elogiativi; e che, forse, s'è infastidito per il continuo insistere di Guglielmo e, forse, una volta tanto, vuol togliersi la soddisfazione di favorire il più debole - fissa l'indennizzo addirittura a 130.000 ducati. Una "somma" vistosamente "superiore" a quella pretesa dalla famiglia del Gonzaga. Un vero trionfo - per questa - l'imperatore ingiunga al duca di pagarla, metà in contanti e metà con immobili di valore equivalente, laddove i suoi "avvocati", pungolati dalla sua avarizia, avevano addirittura giocato al ribasso riducendo i 70.000 ducati inizialmente proposti ad appena 40.000. Chiusa, così, con vantaggio della famiglia del G., l'annosa "vertenza", può iniziare, almeno formalmente, la recita della concordia ritrovata, che vede il G. - rientrato a Mantova a fine agosto del 1573 - ricevuto "con volto sorridente" dal duca, il quale, "con parole elaborate, artificiose", simula "affabilità", ricambiata con il deferente omaggio, del pari simulato, del Gonzaga. Ormai pratico questi degli usi e costumi della corte, sa ben mascherare i propri sentimenti. Un esercizio necessario epperò faticoso. Forse per questo continua a pensare con nostalgia ai tempi spensierati di quand'era scolaro a Padova, quando poteva divertirsi allegramente, spontaneamente, senza fingere.

Di nuovo a Roma in novembre, per il G. è ora conveniente assecondare il duca, crearsi un credito di cui valersi quando s'offrirà l'occasione; ed è già una benemerenza la sua rinuncia al 50% della rendita, peraltro modesta, dell'arcidiaconato, sicché questa passa per intero a un "uomo" al servizio di Guglielmo, da questo, in virtù del relativo giuspatronato, designato arcidiacono. Né per questa diminuzione delle sue entrate il G. - che, probabilmente, beneficia d'introiti di famiglia aumentati dopo l'avviato indennizzo - deve risentire nel tenore di vita, se può permettersi che Giovanni Pierluigi da Palestrina, "con una sua compagnia dell'opera" formata da "buoni musici" intrattenga i suoi ospiti "in una casa" sua, come risulta da una lettera del 17 apr. 1574 di Annibale Cappello, un mantovano al servizio del cardinale d'Este e, insieme, informatore del duca gonzaghesco. A Venezia in occasione della splendida accoglienza del re di Francia Enrico III, ha modo d'incontrare il duca di Nevers Ludovico Gonzaga per poi portarsi a Mantova figurando - il che, nella segnaletica di corte, significa essere sin nelle grazie di Guglielmo - accanto al duca quando questi, il 2 agosto, si reca fuori città ad accogliere il sovrano che si sta avvicinando. Quindi, dopo un soggiorno a San Martino, il G. è ancora a Roma, quivi iniziato al suddiaconato il 1° genn. 1575 per poi diventare, in maggio, diacono.

È in corso da anni, con implacabile accanimento, il processo a Bartolomeo Carranza. "Introdotto" coll'appoggio d'autorevoli personaggi ad assistervi, il G. rimane turbato dalla "sentenza" ove quello viene giudicato "sospetto d'eresia". E ancor più turbante il morire di lì a poco, il 2 maggio 1576, dell'arcivescovo di Toledo a causa della "tortura morale" inflittagli per tanto tempo, prima ancora che per malattia. Di specchiata probità, di limpida fede il prelato. Epperò perseguitato. Sembra quasi vittima d'un sistema. Viene al G. quasi da chiedersi se questo non sia ingiusto. Ma di fronte a siffatto interrogativo nei Commentarii arretra, quasi autocensurandosi. Come bloccata, d'altronde, e rimossa in quest'opera una riflessione che si interroghi e che supponga alternative nel mondo così com'è. Sicché è scontato che il G. sia destinato ancor prima di nascere alla carriera ecclesiastica. È scontato che si conformi alla prassi clientelare. È scontato che si occupi delle faccende di famiglia. È scontato, allora, che lo stesso sconvolgente episodio di Loreto non sconvolga alcunché, non modifichi l'andamento rerum suarum di un G. attento a presidiare, di contro alle manomissioni del principe, le sorti d'un ramo secondario dei Gonzaga e, insieme, a innescare, nella subalternanza romana, un qualche movimento in salita.

Niente di riprovevole ma nemmeno niente di particolarmente lodevole nell'autoritratto agghindato in latino nel quale il G. si autorappresenta in termini di decorosa mediocrità, che fuoriesce dall'anonimato solo perché si prende la briga di dirsi in decoroso latino. Silente, invece, il G. - nei Commentarii, ove pur annota che il principe gli ha fatto un cenno di sorriso, ove pur riporta tutti i dettagli della banalissima insulsa lite con lo zio Federico al ritorno da Vienna - su quel che è il proprio tratto fortemente individualizzante che decisamente ne stralcia il profilo dalla folla sbiadita e grigia dei tanti, come lui, aspiranti a una carriera romana. Nettamente distinto da questo il G. e, anche, al di sopra di questi collocabile in virtù del suo rapporto con Tasso, con il quale l'esistenza del G. - altrimenti quasi insignificante, altrimenti quasi incolore - in certo qual modo si risemantizza, acquista un ruolo, una funzione. Centrale la presenza del G. nella vicenda della Liberata tassiana, quale privilegiato interlocutore del poeta da far entrare nell'officina mentale ove si inventano gli episodi e si coniano le parole in un indefesso lavorio di perfezionamento, di revisione, di scrittura e riscrittura, di riflessione, di chiarimento, di rettifica, di correzione, di sistemazione e risistemazione. Quella poesia che il G., a Padova, ha un po' corteggiato, al più sfiorandola nel tentare di accarezzarla, per poi desistere, in fin dei conti continua a praticarla mettendosi al servizio di quella tassiana. Investito il G., con le lettere a lui di Tasso, dalle soluzioni e dai crucci, dai temi e dai problemi del, per dir così, diario di bordo dell'accidentata navigazione dal Goffredo alla Liberata, su di lui rovesciati le gioie e i tormenti del difficoltoso tragitto. Sottoposto all'attenzione del G. quel che il poeta chiede anzitutto a se stesso, in merito alle "soluzioni per machina", alla convocabilità o meno della "fortuna", delle "deità" pagane, al "parlar disgiunto" (se questo è un "difetto", resta però la "continua lezione" in tal senso dell'Eneide), agli "scherzi di parole", all'"ornamento" da usare con parsimonia nelle "materie non oziose" e abbondando in quelle "oziose", al rapporto tra il "capitanio" Goffredo e l'"esecutore" Rinaldo, alla "vaghezza" che può essere "soverchia", all'"asprezza" che forse va attenuata, all'artificio della "replicazion de le parole" con il quale è opportuno non esagerare, sul "glorioso" con il quale aggettivare l'"acquisto", sul "ferro" cui s'addice tronca, sul "turbine" che, invece, schianta. Depositario il G. dei propositi del poeta, quando determinato a che Tancredi "veggia il sangue e senta i gemiti dell'arbore" perdendo, nel contempo, la spada nell'"orrore de l'incanto". A lui confidato da Tasso dove vuol mutare, dove vuol rimuovere, dove, invece, resta in dubbio. Spettatore il G. di una gestazione al rallentatore - travagliatissima nel suo elaboratissimo perfezionismo, e con alternanza di entusiasmo e di stremata stanchezza perché la vena, così Tasso in una lettera del 29 luglio 1575, s'è fatta "esausta e secca" - e in questa coinvolto ché il poeta lo ritiene buon maestro "non solo nel far di novo, ma nel rappezzare", perché lo sollecita e lo incalza perché voglia direttamente "affaticarsi" sinanco nella "politura" dei suoi versi. Indirizzate al G., nello sterminato epistolario tassiano, le tante e diffuse lettere ove - senza risparmio - il travaglio compositivo squaderna le proprie ansie, i propri scrupoli, le proprie ossessioni, i propri ripensamenti, le proprie sostituzioni e sciorina il proprio vocabolario vagliando la scelta dei lemmi, ponderati nella loro accezione. Ed è al G. che Tasso dalla "prigionia" e dalla "solitudine" di S. Anna, nel maggio del 1579, fa presente quanto sia "oppresso" e "travagliato".

Certo, Tasso si rivolge al G. lungo la sua esistenza; il G. di Tasso si occupa e si preoccupa sin dagli anni padovani, al punto da commissionare, nel 1566, a Iacopo Dal Ponte detto Bassano il suo ritratto; e in mano del G. - glielo ricorda lo stesso Tasso, nel 1580, dalla detenzione di S. Anna - uno dei tre "volumi" (gli altri due sono rispettivamente in possesso d'Ercole Tassoni e del duca Alfonso d'Este) delle sue Rime; dedicato al G. il dialogo Il padre di famiglia, mentre è suo fratello Giulio Cesare il "Gonzaga secondo" interlocutore in quello sul gioco; indirizzati al G. i giovanili Discorsi dell'arte poetica e reale destinatario il G. dei Discorsi del poema eroico- dei primi tardo rifacimento -, ancorché, nella stampa napoletana del 1594 (ma il G. è ormai morto) figuri come dedicatario il cardinale Pietro Aldobrandini. Tutti dati di eloquente evidenza. Ma non altrettanto l'effettiva trascrizione, da parte del G., degli originali inviatigli da Tasso soprattutto tra il febbraio e l'ottobre del 1575; laddove l'identificazione del relativo codice nei Nuovi Acquisti 1160 della Biblioteca nazionale di Firenze è stata - oltre che contestata - sostituita con un'altra identità, sicché il "codice Gonzaga", l'autografo, appunto, del G. sarebbe all'Ariostea di Ferrara. Indubbio, insomma, che il G. abbia trascritto, ma ancor non unanime il riconoscimento dell'autografo. E oggetto d'accanito discutere tra filologi l'edizione mantovana, per i tipi di Francesco Osanna, del 1584 della Liberata, per secoli ritenuta la più attendibile, sinché, con l'avvio del richiamo alle due antecedenti edizioni ferraresi allestite nel 1581 da Febo Bonnà, se ne è messo in discussione il primato al punto da esitare nel deciso privilegiamento della seconda edizione Bonnà. Indubbio, a ogni modo, per gli studiosi di Tasso, il ruolo di promotore e curatore del G. nell'edizione Osanna. Riprodotto, con il testo in questa stampato, l'"ultimo originale per man di chi ha spiato ad uno ad uno tutti i pensieri dell'autore", il cui "nome" viene taciuto dallo stampatore solo perché "così" gli "vien comandato". Un silenzio, allora, imposto dallo stesso Gonzaga. Solo che - a mano a mano dallo scrutinio del testo pubblicato risultano e risaltano contaminazioni disinvolte, interventi arbitrari, forzature, scarso rigore testuale - le benemerenze editoriali del G. si sono offuscate. E se ne è dedotto, per lui, il timbro di sin cattivo editore non senza che si affacci l'ipotesi - per e pur di non ammetterlo - d'escluderlo da ogni responsabilità editoriale nei confronti del testo proposto dall'edizione Osanna.

A Firenze, nel settembre del 1575, a perorare - peraltro senza esito - presso Bartolomeo Concina il richiamo del cognato Ferrante (o Ferdinando) de' Rossi da tempo esiliato, il G. rallenta il rientro a Roma visitando Vallombrosa, Camaldoli, La Verna, Assisi. Nel 1576 scorta Isabella Gonzaga, sorella di Guglielmo e vedova del marchese di Pescara, da Vasto, per Loreto - e qui, annota meticoloso nei Commentarii, si confessa e si comunica nel giorno delle ceneri -, ad Argenta, donde inverte il cammino sin nei pressi di Pesaro, nella quale di proposito non entra, a evitare l'omaggio al duca Francesco Maria II Della Rovere, ché questi - in un suo antecedente transito per la città - lo aveva escluso dalla propria mensa. Funestato il ritorno a Roma da un incidente all'occhio, s'aggiunge il cruccio di dover mediare tra i fratelli in lite tra loro non senza rischio - visto che girano attorniati da armati - di scontri sanguinosi. Si stanno disputando i tre castelli di San Martino, Isola, Pomponesco. "Vera iattura", per il G., l'eventualità che Giulio Cesare si rivolga all'imperatore Rodolfo II con "devoluzione" al suo giudizio della "divisione della proprietà". E a sventarla e pur di sventarla, e a disinnescare e pur di disinnescare lo scoppio del bellum tra fratelli - se Annibale, fattosi francescano, a questo è estraneo, c'è il fronteggiarsi del G. alleato con Pirro e di Giulio Cesare alleato con Ferdinando -, magnanimo il G. rinuncia alla quota di San Martino, che ha in comune con Pirro, di sua spettanza. La bega in famiglia così s'appiana, per il momento finisce. Agevole la suddivisione dei tre castelli in tre fratelli.

Intanto la porpora conseguita, il 21 nov. 1578, da Gianvincenzo Gonzaga, se gratifica Guglielmo, un minimo sposta in avanti la posizione del Gonzaga. Non più illusione ora il cardinalato, ma obiettivo. Sinora gironzolante attorno alla Curia in cerca di un qualche accesso, ora - purché sappia muoversi accorto - la porta pare aperta. Non più differibile l'assunzione della veste sacerdotale. Consacrato prete, il 1° nov. 1579, al Quirinale, nella chiesa di S. Silvestro, dal vescovo di Saint Asaph Thomas Goldwell (a Roma vivente perché cacciato dall'Inghilterra ancora nel 1559), il G.; e officiata, l'11, nella basilica di S. Maria delle Nevi la prima messa.

Trascorso nella "quiete e tranquillità" il 1580 - annota il G. nei Commentarii, ove, sbrigativamente, va oltre il 1579 sino al 1587 -, nel 1581 è a Mantova, incaricato dal duca d'accogliere onorevolmente i cardinali Alessandro Farnese e Gianfrancesco Gambara al loro arrivo per il protrarsi a Mantova dei festeggiamenti delle nozze di Vincenzo Gonzaga, il primogenito del duca, con Margherita Farnese celebrate a Parma il 30 aprile. Rimane, quindi - salvo la parentesi d'una puntata a Ferrara in visita al cardinale Luigi d'Este (ma non se la sente di trasmigrare dalla protezione del cardinale Ferdinando de' Medici a quella da quello offertagli) e a Padova sua "seconda patria", sede dei suoi anni più belli -, nella natia San Martino. Qui, in luglio, è suo ospite Curzio Gonzaga che a lui sottopone il Fidamante (e Giuseppe Malatesta, nel suo dialogo in difesa del Furioso, farà del G. l'interlocutore anteponente il poema a quello ariostesco per i "pregi" dell'artificio, per la corrispondenza ai modelli estetici cinquecenteschi, per l'aderenza ai classici); qui si preoccupa di rimediare allo stato pietoso della chiesa madre di questa. Con il ricavato dalla vendita d'un podere e coi proventi d'un credito riscosso dal fratello Pirro stanzia la somma per un intervento drastico. Da abbattere addirittura il vecchio edificio malconcio; da costruirne al suo posto uno nuovo. Ed è il G. stesso - scontento dei progetti proposti dagli architetti consultati - a delinearne forma e struttura, per poi, rinviato l'inizio dei lavori alla primavera ventura, essere a fine anno a Roma. In viaggio nel 1582, al seguito del cardinale Ludovico Madruzzo legato apostolico alla Dieta d'Augusta, è a Loreto proprio il 25 marzo, nel giorno dell'Annuncio a Maria, quindi - per Senigallia, Fano, Rimini, Ravenna - a Ferrara, donde, sopraggiunta notizia del rinvio della Dieta, ne approfitta per portarsi a San Martino a verificare di persona l'avvio della costruzione della chiesa e per presenziare alle nozze mantovane, del 14 maggio, d'Anna Caterina Gonzaga, figlia del duca, con Ferdinando d'Austria, rappresentato dal duca di Baviera Ferdinando.

Riunitosi, poi, a Bressanone con Madruzzo, è con lui - per Innsbruck e Monaco - ad Augusta, fredda ancorché sia estate, e, alla lunga, micidiale per la sua salute nella misura in cui non può sottrarsi ai continui banchetti, tutti troppo abbondanti e tutti troppo fitti di brindisi. Sicché quasi soccombe; e ne scampa debilitato trasportato in 11 giorni a San Martino, per riprendervisi quel tanto che basta per tornare a Roma ove si rimette, finalmente, in sesto. Tra quanti predicano nei giorni festivi nella chiesa di S. Ambrogio nel 1583-84, viene tentato - visto che non gli si offre niente di meglio - dall'idea di trasferirsi a Padova. Ma questa ipotesi viene meno non appena - di là da ogni sua speranza - il duca di Mantova gli assicura il proprio appoggio nelle sue aspirazioni al cardinalato. Al che il G. si mobilita - e, d'altronde, privo com'è di una precisa attività, sta a lui impiegare il tempo altrimenti vuoto; tant'è che s'è messo pure a spedire antichi marmi al duca di Sabbioneta Vespasiano Gonzaga forte della licenza di esportazione rilasciatagli, il 6 giugno 1584, dal cardinale camerario Filippo Guastavillani - per guadagnarsi una qualche visibilità approfittando della venuta in Italia del duca di Nevers: gli va incontro a Pisa, gli sta attorno sinché a Roma, lo accompagna da questa a Firenze. E poi - a ciò espressamente incaricato dal duca di Mantova - raggiunge, prima che rientri in Francia, ad Asti il Nevers, a giustificare lo sgarbo fattogli dal fratello con il non invitarlo a Mantova. Venuto il Nevers in Italia a mo' di portavoce ufficioso della Lega cattolica - è ben per caldeggiare questa che a Roma ha contattato i cardinali e s'è fatto ricevere da Sisto V -, proprio per questo, timoroso delle ire d'Enrico III, il fratello ha preso le distanze. Ma persuasivo il G. nell'ammorbidire il conseguente sdegno del Nevers e accolto come "angelo" di notizia rasserenante quando assicura a Guglielmo che lo sdegno è sbollito, che quello non nutre propositi di vendetta.

Ulteriore incarico di fiducia al G. incontrare la delegazione giapponese che, già accolta solennemente a Roma e Venezia, arriva, con la patente di cattolica, a Mantova il 13 luglio 1585, per sostarvi - festeggiata e colmata di doni - cinque giorni. Sempre più ben disposto verso il G. Guglielmo, anche perché questi - ancorché ritenente i "diritti" della propria famiglia più fondati di quelli ducali relativamente a Bozzolo, Rivarolo, Isola, San Martino - evita clamorosi reclami e s'adopera perché altrettanto facciano i fratelli. Da un lato sa che, in "vertenze di tal genere", alla lunga i più deboli ci rimettono, dall'altro soprassiede per ingraziarsi il duca. È il patrocinio di questo che può favorirlo a Roma, ove il G. - a rendersi ai suoi occhi viepiù benemerito - recluta per lui "virtuosi" nella musica, a tal fine trattando anche con Luca Marenzio, che al G., nel gennaio del 1585, quale "amantissimo atque intelligentissimo" di musica dedica i propri "Motecta festorum totius anni". E qui, finalmente, dopo tanto attendere, il 23 sett. 1585, la nomina a patriarca di Gerusalemme. Un "onore" assai "grande" sostanziato dalla "pensione" annua di 1000 scudi d'oro ed evidenziato, il 4 ottobre, dalla consacrazione da parte del cardinale d'Aragona Iñigo d'Avalos assistito dal patriarca d'Alessandria e prossimo cardinale Enrico Caetani e dall'arcivescovo di Napoli Annibale Di Capua mentre è il cardinale Luigi d'Este, in qualità di primo diacono, a porgergli il mantello. Si slarga, per il G., l'orizzonte delle attese. Si aspetta una nunziatura a Praga o, almeno, in Polonia. Spera a portata di mano la porpora. Ma non viene nominato nunzio, non figura tra gli otto cardinali creati il 16 nov. 1586.

Deluso il G. - in compenso, "accompagnato" dal G. e dal vescovo di Torino Girolamo Della Rovere entrambi aspiranti al cardinalato, il 26 sett. 1586 il celebrante Bartolomeo Ferratini nella benedizione della croce con cui coronare l'obelisco eretto in piazza S. Pietro - e deluso pure il duca Guglielmo che successivamente, purché la candidatura del G. non cada, fa intendere a Sisto V - senza che, però, questi si fidi più che tanto - d'essere disposto a garantire per lui una rendita annua di 3000 ducati sì che il cardinalato non gravi sulle finanze papali. Ma Guglielmo muore il 14 ag. 1587. Sta, dunque, al nuovo duca Vincenzo I continuare a premere perché al G. la porpora non sia negata, non senza, però, pretendere da lui che si presti a far tornare Tasso a Mantova. Fuggito da questa, il poeta il 3 novembre, "per antica usanza", si presenta al G. che "per compassione della sua miseria" lo accoglie. E, anche se il G. mostra d'assecondare la volontà del duca, dev'essere grazie a lui se Tasso - che a Mantova non vuol tornare; e Sisto V non vuole gli sia fatta "violenza", sia a ciò forzato - non bada al falso amico Antonio Costantini. Questi, escogitando un qualche invito tale da indurre il poeta a muoversi, avrebbe fatto sì che - prelevato a viva forza per strada - fosse riportato a Mantova. Al sicuro, invece, Tasso sinché nella casa del G., in piazza Nicosia, dove, dopo la parentesi napoletana, sarà nuovamente ospitato per nove mesi dal 25 nov. 1588 all'agosto del 1589.

E, intanto, il 18 dic. 1587, il G. è diventato cardinale; e con lui si felicitano, tra gli altri, Stefano Guazzo e Giovan Battista Guarini del cui Pastor fido ancor manoscritto, come risulta in una lettera a lui del 30 sett. 1587 del G., il G. è stato lettore entusiasta; e se suggerisce "alcune poche cosette" non è perché l'opera, "maravigliosa" a suo giudizio, ne abbisogni, ma ad attestare, appunto, con tali suoi suggerimenti, l'attenzione con la quale l'ha letta. Restituito a Roma l'"antico Scipio" esagera, in un sonetto a Sisto V, Antonio Costantini, il letterato marchigiano disposto a organizzare il rapimento di Tasso, che tuttavia riuscirà, a fine febbraio del 1592, a farsi assumere "nell'ufficio di segreteria" del G., con tal "desiderato posto" ponendo fine ai propri "peregrinaggi". "S'ode intorno" risuonare il nome del G. rimeggia diffusamente Annibale Grizi, un altro letterato marchigiano; a lui, "di Manto, anzi d'Europa speglio" il papa ha dato il meritato "guiderdon". Maestosa e solenne la canzone composta per l'occasione da Tasso. Ma senza riscontro, in termini di peso specifico e relativo, il plauso dei letterati, nel senso che, tra i cardinali, non è che il G. - il quale può contare sugli annui proventi della "prevostura" di S. Benedetto nel Mantovano e dell'abbazia di Leucedio nel Monferrato, ma non su quelli dell'abbazia di Nervesa (quando, nel 1589, si fa il suo nome, la Serenissima non lo gradisce, in quanto non veneto) - assuma un qualche risalto. Sicché resta appiattito in ambito gonzaghesco: la corte mantovana rimane il suo angusto riferimento. Donde il suo continuare a occuparsi dei musici a quella inviabili, donde, nel 1590, il suo portarsi, per volontà del duca Vincenzo, a Casale al governo del Monferrato; è con lui il rodigino Girolamo Frachetta che al G., suo "signore", dedicherà la propria Idea… de' governi (Venetia 1592).

Morto, il 27 agosto, Sisto V, il G. ritorna per il conclave a Roma. E qui non risulta nelle grazie dei papi successivi Gregorio XIV, Innocenzo IX e Clemente VIII; né d'altronde, in sede di conclave, si è adoperato come fautore della loro elezione. Nel conclave del 6 ottobre - 5 dic. 1590, elevante al soglio il primo, il G. è, invece, tra quelli che più sostengono la candidatura del cardinale Gabriele Paleotti: dei 20 che promettono di votarlo, dei 17 che mantengono la promessa, dei 32 (ma i voti non bastano; ne occorrerebbero 36) che lo rivotano il 4 dicembre. E a Guarini - che il 3 settembre gli ha scritto una lettera piena di nostalgia per "l'albergo Etereo" - il G. risponde, il 27 genn. 1591, manifestando "invidia estrema" per chi, come Guarini, almeno a Padova può recarsi, mentre la "medesima meta" egli non può permettersela. Un onore, certo, la porpora, ma anche "fumo" e anche "doglia". E a questa sensazione si aggiunge il dolore fisico perché - così, il 15 maggio 1592 a Orazio Ariosti Francesco Patrizi il quale frequenta la casa del G. - la gotta lo sta quasi immobilizzando, lo fa "gridare" dal dolore. E, poiché non riesce a ristabilirsi, preferisce abbandonare la corte pontificia, partire da Roma, come scrive al duca di Mantova Tullio Cerretti il 28 giugno, e rientrare nella natia San Martino, quivi essendo dettagliatamente informato sulle vicende romane da Girolamo Frachetta.

E a San Martino il G. muore l'11 genn. 1593, essendo sepolto nella chiesa di S. Sebastiano, nella cappella di S. Croce ove l'effigia una statua marmorea.

Il 13 febbraio Tasso, appresa la notizia della scomparsa, si affretta a scrivere ad Antonio Costantini, passato nel frattempo al servizio del fratello del G. Ferrante, "per sapere se il cardinale si ricordò di me nella sua morte o s'io gli fui ricordato". Evidentemente si aspetta qualcosa di tangibile. Autentico, invece, il dolore di Guarini, non interessato alle volontà testamentarie del defunto. Mantova - scrive in marzo a Ferrante - ha perso un uomo di valore, la sua famiglia "un ottimo padre", Roma - prosegue senza tema di esagerare - "un futuro pontefice", il "mondo" un vero "tesoro" di virtù. Ed egli - e qui Guarini esprime quel che sta provando - ha perso l'"amico vero", la "vita della" propria "vita".

L'edizione delle Lettere del G. fu pubblicata a Ferrara nel 1856.

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