Scuola e lingua

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

scuola e lingua

Nicola De Blasi

Dal Cinquecento all’Ottocento

Lo studio dell’italiano a scuola si affermò tra la fine del Cinquecento e il Settecento (Manacorda 1980; Marazzini 1985; De Blasi 1993; Matarrese 1993: 21-40) con un processo che modificò l’iter della scuola di grammatica, cioè dell’apprendimento del latino, che era l’unico mezzo per accedere a ogni sapere. I quaderni di esercizi usati nel medioevo (cfr. Gasca Queirazza 1966) mostrano che i volgari parlati, considerati privi di regole, fungevano solo come punto di avvio per poi accedere al latino e per «più innanzi andare» (Convivio I, xiii). Una didattica del volgare, limitata alla lettura e alla grafia, poteva aver luogo presso notai o mercanti (Lucchi 1982; Bartoli Langeli 2000; ➔ mercanti e lingua; ➔ notai e lingua). La riflessione che culmina nella codificazione di ➔ Pietro Bembo porta al riconoscimento del volgare come lingua da insegnare, al pari del latino, attraverso lo studio. Cruciale per tale svolta fu la Grammatichetta di ➔ Leon Battista Alberti (forse nota a Bembo), che dimostrava come le lingue parlate siano dotate di grammatica (Alberti 1996). Ancora nel Cinquecento, però, nelle scuole di grammatica la didattica era centrata sul latino ed era vietata la lettura di opere in volgare (Bruni 1984: 48), benché fossero ricercate da alcuni alunni, mentre il lessico latino era spiegato con le parole del volgare corrente (come nel vocabolario di Scoppa 1511).

La diffusione dei libri a stampa favorì la richiesta di alfabetizzazione in volgare (➔ analfabetismo e alfabetizzazione), sostenuta da letture agiografiche o cavalleresche (dalle Vite dei Santi ai Reali di Francia) che, accanto al modello alto di ➔ Petrarca e ➔ Boccaccio, mettevano in circolazione un «Italiano puro, et commune», non «ristrettamente, et affettatamente Toscano» (Domenico Manzoni, 1564, cit. da Grendler 1991: 352). Le grammatiche del volgare (➔ grammatica; Trabalza 1908; Robustelli 2006), modellate su Bembo, non erano destinate alla scuola, ma a chi coltivava la letteratura anche nei contesti delle accademie. Con il Vocabolario della Crusca (1612; ➔ accademie nella storia della lingua; ➔ lessicografia) assume forma tangibile la storicità dell’italiano, consacrato anche come norma insegnabile attraverso strumenti appositi.

Dopo il Concilio di Trento, con la Ratio studiorum gesuitica (1586-1599), la letteratura in italiano entra come esercizio degli allievi dei collegi dei Gesuiti (Brizzi 1987) e di altri ordini (Morgana 1988), mentre le scuole di dottrina cristiana curano una prima alfabetizzazione, incoraggiata da diversi ordini ancora nel Settecento (cfr. Liguori 1984). Nelle Scuole Pie di San Giuseppe Calasanzio (dal 1597) il latino è per la prima volta insegnato in italiano.

Nel Settecento si delinea l’ideale illuministico di una scuola per tutti fondata sull’italiano (➔ Settecento, lingua del). Diventano necessari nuovi libri scolastici che si diffondono da uno Stato all’altro, come i Rudimenti italiani di Soresi (1756 e 1833), stampati più volte anche a Napoli, o come l’Abbecedario (del 1786) di Francesco Soave, nato per la Lombardia austriaca, dove lo studio dell’italiano è, come altrove, requisito culturale indispensabile. Se in precedenza la scuola insegnava a latinare, dal Settecento in poi gli scolari, partendo dalla spontanea competenza parlata, con nuovi strumenti didattici giungono attraverso l’italiano, lingua di prestigio, al possesso della cultura scritta sia letteraria che scientifica. Con il suo nuovo status di lingua della scuola, che si afferma prima del definirsi del binomio ottocentesco lingua-nazione (➔ politica linguistica), l’italiano è proposto come lingua orientata a modelli letterari che permettono l’identificazione di una norma sicura. L’attività dei puristi (➔ purismo) in diverse parti d’Italia (Antonio Cesari a Verona, Basilio Puoti a Napoli, Michele Ponza a Torino) propone un metodo basato sulla lettura dei testi (De Sanctis 1961), senza trascurare suggerimenti sulla buona pronuncia e l’indicazione di libri di autori contemporanei per alunni più giovani (Mele 1998).

L’Ottocento e la questione della lingua

Già nel primo Ottocento la ➔ questione della lingua ebbe riflessi anche sugli aspetti pratici della didattica, con il profilarsi di problemi (quale tipo di lingua insegnare, nesso tra parlato e norma, rapporto con il dialetto, libri di testo, ecc.) che continuarono a proporsi dopo l’Unità, in una convivenza di tendenze conservative e innovative che è una costante della storia della nostra scuola. Il principale elemento di continuità stava nell’obiettivo di far sì che fosse «una veramente la lingua di questa nostra Italia» – così, nel 1819, il milanese Montani (1980: 17-18) – non solo per i letterati ma per tutti gli scolari. Per la forza di una tradizione plurisecolare, la lingua da insegnare era il toscano, a cui anche i puristi riconoscono per il parlato la stessa autorevolezza che, per la scrittura, attribuivano agli autori del Trecento e del Cinquecento.

Nei programmi scolastici del 1860 (Catarsi 1990), nati per il Piemonte (Coveri 1981-1982), non si va al di là di etichette generiche come «buona lingua», ma figurano numerosi riferimenti alla tecnica didattica, che privilegia, come poi nei programmi del 1867, l’ortografia e il dettato, con la raccomandazione per il maestro «di pronunziar rettamente le parole». L’attenzione per la buona pronuncia segue linee affini a quelle prospettate da Francesco Soave a fine Settecento (De Blasi 2004).

Nel 1868 il problema linguistico venne posto dal ministro Emilio Broglio a una commissione bipartita tra Milano e Firenze (➔ Manzoni; ➔ Ottocento, lingua dell’), che proponeva un dualismo teorico tra tradizione e uso vivo (Raicich 1981). La soluzione manzoniana (proposta dalla componente milanese della commissione), adeguata alla didattica primaria, privilegiava l’uso vivo fiorentino incoraggiando nuovi libri di autori toscani (Manzoni 1972: 175 segg.), mentre per l’istruzione superiore restava valido, con il nesso tra cultura latina e cultura italiana, il ruolo della tradizione, ribadito anche nel 1873 da ➔ Graziadio Isaia Ascoli (Ascoli 1967) in risposta alla propensione all’uso affettato del fiorentino, anche popolare, o di altre varietà toscane.

In una scuola in cui erano in primo luogo i maestri a soffrire di incertezze nel parlare (cfr. le inchieste citate da De Mauro 19955), i libri, anche non scolastici (come Pinocchio), furono un ausilio indispensabile. Per influenza di Manzoni, si redassero libri di dialoghetti con una sintassi vicina al parlato (De Blasi 1997). Nel ruolo dei libri (Barausse 2008) si riflette il principio didattico di autorità veicolato dalla scrittura, sia per gli autori del Trecento e del Cinquecento (come già per quelli latini), sia per l’uso contemporaneo o per lo stile esemplare, al quale offriranno poi un modello I promessi sposi. La centralità della scrittura nella didattica aveva in quel contesto il merito di indicare modelli stabili e unitari, che garantivano i legami con una tradizione plurisecolare.

Più tardi, l’estesa diffusione di un italiano parlato (➔ lingua parlata; ➔ sociolinguistica), favorita anche da nuovi mezzi tecnici (radio, cinema, televisione), permise di porre su nuove basi il problema dell’uniformità della pronuncia e del lessico: di fatto la ➔ pronuncia standard veniva a essere richiesta solo per l’ortoepia professionale, e molti termini di uso regionale sono stati progressivamente accettati anche nell’italiano insegnato a scuola.

La distanza tra uso linguistico spontaneo e lingua dei libri incoraggiò però una costante preoccupazione per la norma ed enfatizzò il problema della correttezza, aprendo la strada a una precettistica spicciola cristallizzata (del tipo «non si dice a me mi o ma però», ecc.) che lasciava in secondo piano problemi linguistici più complessi. Nella pratica dell’insegnamento si discuteva sul ruolo della grammatica nella scuola (Catricalà 1991), con una varietà di posizioni: mentre i programmi esistenti insistevano sull’➔analisi grammaticale, secondo il modello della scuola basata sul latino, il congresso dei pedagogisti del 1874 invitava i maestri a limitare l’insegnamento teorico. Nei programmi del 1888 si consigliavano soprattutto esercizi pratici, mentre la riforma Gentile del 1923 lasciava affiorare la diffidenza idealistica verso una didattica orientata a ridurre la lingua in schemi. A parere di Antonio Gramsci, d’altro canto, espellendo la grammatica dalla scuola si sarebbero danneggiate le classi popolari, negando loro lo studio approfondito della lingua.

Dopo l’Unità (➔ Risorgimento e lingua) la preoccupazione per la norma caratterizzò anche tendenze innovative, visto che la soluzione manzoniana spingeva nei fatti verso un lessico uniforme di tipo fiorentino, chiuso alla varietà dei dialetti e ai cosiddetti provincialismi, cioè alle forme tipiche degli italiani regionali (➔ italiano regionale) riportate in repertori e manuali (per un esempio milanese, cfr. Poggi Salani 1983). Tra i metodi dell’«insegnamento oggettivo» suggeriti nei programmi del 1888 e del 1894, si propone la nomenclatura, cioè la ricerca dell’unico nome corretto per ciascuna cosa (da lì l’uso di pubblicare dizionari detti nomenclatori; ➔ lessicografia). La ricerca di un lessico univoco dà vigore al mito del toscano vivo come dono di natura, che assicura ai nativi il possesso della lingua corretta, trasmesso attraverso libri, manualetti e vocabolari. L’affanno per la proprietà di linguaggio occupa a lungo le scuole italiane, anche se non manca chi propugna la necessità di svincolarsi da un modello fiorentino univoco, entrato poi in crisi anche come riferimento per la pronuncia.

Costante nei programmi scolastici era il riferimento al dialetto (Corrà 1981-1982). I programmi del 1867 suggeriscono di far notare analogie e differenze «tra il dialetto della rispettiva provincia e la lingua nazionale». Nei programmi del 1880, il manzoniano Luigi Morandi suggeriva di riconoscere ciò che ogni dialetto ha «in comune con la buona lingua» (ma con attenzione solo limitata al lessico). Nel 1890 lo stesso Morandi ispira un concorso per vocabolari dialettali a destinazione scolastica, che confrontino il lessico del dialetto con «l’uso vivo di Firenze». Nei programmi del 1905 è affermata la necessità di correggere nelle prime tre classi gli usi dialettali (mentre per il prosieguo ci si affida al modello della scrittura).

L’obiettivo palese della scuola era quindi quello di portare gli scolari alla conoscenza di una lingua uguale per tutti. Le prescrizioni scoraggiano il dialetto a scuola ma, tenendo distinta la conoscenza del dialetto da quella della lingua, non necessariamente ne ostacolano l’uso nella comunicazione non scolastica. Contemporaneamente, il dialetto conquista un posto stabile nella lessicografia oltre che nella letteratura dialettale postunitaria (➔ dialetto, usi letterari del).

Dall’inizio del Novecento a oggi

Un nuovo atteggiamento verso il dialetto si ebbe con la prospettiva idealistica, per la quale la lingua è creazione spontanea; il dialetto è però preso in esame nei suoi usi letterari più che come espressione delle effettive competenze iniziali degli scolari. Così in Trabalza (1917), che presentava la traduzione in diversi dialetti di un brano dei Promessi sposi. La tendenza fu confermata nei programmi del 1923 proposti da Giuseppe Lombardo Radice, che prevedevano la redazione di una serie di manualetti intitolata Dal dialetto alla lingua (➔ norma linguistica).

Questi orientamenti filodialettali furono accantonati sotto il fascismo (➔ fascismo, lingua del), che impose il libro di testo unico (Gensini 2005), ma erano già di difficile applicazione soprattutto per il solito problema dell’insufficiente formazione dei docenti, anche se perfino in qualche libro dell’epoca fascista si trovano citazioni di brani in dialetto (De Blasi 2002).

Dopo la seconda guerra mondiale alcuni problemi si ripresentano immutati: nei programmi del 1955 è sintomatico il principio secondo cui una persona dimostra padronanza di linguaggio solo se «scrive come parla e parla come scriverebbe», mentre per i programmi del 1962 i dialetti, come ogni caratteristica tipica del parlato, sono visti come fonte di errore. Il quadro cambiò con i programmi della scuola media del 1979 che per la prima volta tenevano conto delle varietà della lingua, alludendo anche alla comune origine dal latino di dialetti e italiano (Simone 1979; ➔ educazione linguistica). Ne deriva la giusta istanza di non scoraggiare scolari dialettofoni, ai quali è comunque proposta l’indispensabile conoscenza dell’italiano (Bianchi 2002). Successivamente, nei due decenni a cavallo tra il XX e il XXI secolo, una visione campanilistica dei dialetti e degli usi locali, sostenuta soprattutto dal partito della Lega Nord, indusse a plateali prese di posizione, gravide di ambiguità sul piano degli obiettivi e dei metodi, a favore dell’insegnamento dei dialetti delle diverse parti d’Italia (Pinello 2009).

Con i programmi per le scuole medie del 1979, e con quelli per le elementari del 1985, si diffusero salutari spinte innovative (cfr. Simone 1994): da un lato si motivarono i docenti ad aggiornare le proprie conoscenze in campo linguistico (Berretta 1977), sia pure con il rischio di trasmettere ai discenti terminologie, categorie astratte e contenuti di una linguistica specialistica, dall’altro si sollecitarono utili collegamenti tra ricerca storico-linguistica e didattica. Un impulso determinante a quella che si presentava come una questione della lingua sul versante scolastico (Renzi & Cortelazzo 1977) fu dato dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, redatte da Tullio De Mauro, che ponevano in discussione l’insegnamento tradizionale della grammatica (già criticato da Cardona & Simone 1971; Simone 1973) e affermavano la necessità di tenere conto del «retroterra linguistico-culturale» dell’allievo, il cui «patrimonio linguistico» (De Mauro 1977) andava arricchito con un’educazione alle varietà della lingua. In seguito, mentre si prospettava l’utilità della grammatica per lo sviluppo cognitivo (Altieri Biagi 1978) e per il potenziamento culturale, permaneva nella didattica l’oscillazione tra la riflessione sulla lingua (Serianni 2006; Sabatini 2010, sez. IV) e l’insegnamento tassonomico (con elenchi di complementi e regolette, utili in passato per lo studio del latino, ma non funzionali a un’effettiva competenza linguistica e pragmatica).

Alla prescrizione di una norma rigida si propose di sostituire l’attenzione al «comune sentimento» della lingua (Serianni 2006), mentre diminuiva il peso normativo della lingua letteraria: quella della tradizione non era più proponibile come modello, mentre quella contemporanea era spesso orientata verso il parlato, i dialetti o gli italiani regionali. Anche il vocabolario non era più improntato a una norma univoca vincolante (come nell’Ottocento), ma diventava un repertorio attento all’uso variamente connotato (De Mauro 2000) o alla dimensione testuale della lingua (Sabatini & Coletti 2007). Diventava del resto difficile proporre modelli di fronte allo scivolamento di certe scritture scolastiche verso l’italiano popolare (Bruni 1984), sintomo di un apprendimento linguistico ancora distante dai suoi obiettivi, mentre nella didattica risaltava la necessità di curare la competenza testuale più che l’adesione a un modello linguistico. Anche per questo motivo al tema scolastico sono state affiancate nuove forme come il saggio breve e l’articolo di giornale, che tuttavia al di là della mutata etichetta lasciano inalterati i problemi di fondo, compresi quelli relativi a una correzione produttiva sul piano didattico (Serianni & Benedetti 2009).

Nel nuovo secolo, mentre muta il lessico della burocrazia scolastica (per es., l’elementare diventa primaria, i programmi si chiamano indicazioni programmatiche) in presenza di nuove riforme, appare sempre più necessario affermare e difendere la centralità dell’italiano nella didattica (Serianni 2010). Intanto si sono delineati nuovi problemi: da un lato l’accoglienza di alunni immigrati (Lo Duca 2003: 221-259; ➔ acquisizione dell’italiano come L2) pone in primo piano le questioni della formazione (linguistica e storico-linguistica) dei docenti, dall’altro vi è l’esigenza di promuovere la conoscenza delle lingue straniere, senza però avallare una minore valutazione dell’italiano come lingua di cultura. Infine, alcuni portati della modernità (Internet, media telematici di varia natura; ➔ lingua e media) riducono il ruolo della scuola nell’insegnamento dell’italiano, appreso e praticato in genere dagli alunni come lingua della socializzazione primaria e spontanea, rispetto alla quale la scuola dovrebbe guidare gli alunni a riflessione e usi sempre più consapevoli.

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