Scuola

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

Scuola

Antonio Schizzerotto

Organizzazioni educative, istituzioni scolastiche e altri agenti del processo di socializzazione

In prima istanza la scuola può essere definita come un'organizzazione specializzata nell'educazione formale, vale a dire nella trasmissione riflessiva, sistematica e sequenziale, prevalentemente rivolta alle nuove generazioni, di un insieme variamente esteso di conoscenze teoriche, di abilità pratiche e di criteri di orientamento della condotta individuale in una serie più o meno ampia di discipline e di ambiti di vita.

Dall'insieme delle organizzazioni educative vanno distinte quelle che si configurano come vere e proprie istituzioni sociali. Si tratta di scuole la cui rilevanza è pubblicamente riconosciuta da una società globale (o, almeno, dai suoi gruppi più influenti) in quanto trasmettono competenze e affermano valori, norme e modelli di comportamento ritenuti cruciali per garantire la sopravvivenza nel tempo della società stessa. Proprio per questa ragione la loro attività diventa oggetto di normazione da parte dello Stato. E sempre per la loro centralità nei processi di riproduzione dell'ordinamento e della cultura di una società, la partecipazione ad alcune di tali istituzioni, le cosiddette scuole dell'obbligo, si configura come un'imposizione, sociale e giuridica a un tempo, rivolta ai membri delle nuove generazioni (e alle loro famiglie) non appena essi abbiano acquisito un minimo di autonomia dai propri genitori. Le istituzioni scolastiche contemporanee sono, inoltre, funzionalmente differenziate in senso verticale. Esse danno vita, cioè, a una gerarchia di ordini formativi (usualmente denominati primario, secondario e terziario), a volte internamente suddivisi in gradi o cicli (ad esempio, secondario inferiore e superiore), ciascuno dei quali è preposto all'educazione di particolari fasce di età - dalle più alle meno giovani - e alla trasmissione di saperi sempre più approfonditi e specialistici mano a mano che si passa dagli ordini inferiori a quelli superiori. Questi ultimi, poi, risultano orizzontalmente differenziati, forniscono cioè competenze disciplinari e professionali riguardanti aree distinte della cultura e del mondo del lavoro. Basti pensare all'articolazione in facoltà, o in dipartimenti, delle università contemporanee e ai numerosi indirizzi formativi riscontrabili, almeno in alcuni paesi, negli istituti di istruzione secondaria superiore. In breve, nelle società attuali le istituzioni scolastiche danno vita a un vero e proprio sistema formativo (v. Archer, 1979).

Ai suoi ordini inferiori e obbligatori accedono, come si è già ricordato, tutti i componenti di una società in età pertinente. Quest'ultima, in gran parte dei paesi economicamente evoluti, copre ormai l'arco di vita che va dalla terza infanzia (5-6 anni) alla prima giovinezza (16-18 anni). Ma anche la partecipazione alla formazione successiva a quella d'obbligo coinvolge quote assai cospicue della popolazione giovanile, talché si parla oggi di una scolarità superiore e universitaria di massa. Oltre che periodi sempre più ampi della loro esistenza, i bambini, gli adolescenti e i giovani trascorrono nelle aule scolastiche segmenti sempre più estesi della giornata. Si può, quindi, affermare che nelle società contemporanee il processo di formazione delle nuove generazioni avvenga (quasi) isolandole dalla vita quotidiana della società.Per la loro centralità nella riproduzione della società, per il numero di quanti le frequentano e per il fatto che rilasciano titoli spendibili sull'intero mercato del lavoro, nel linguaggio corrente - ma anche in quello scientifico - vengono usati i termini 'scuola', 'sistema formativo' o altre espressioni similari per riferirsi, salvo esplicite indicazioni contrarie, alle sole istituzioni scolastiche. E quest'uso verrà seguito anche qui.

Si è, però, già accennato al fatto che, nelle società più complesse, l'educazione formale non si esaurisce nel sistema scolastico. Le chiese, le imprese, le organizzazioni sindacali, le più svariate associazioni danno vita a molteplici attività formative che spaziano dai corsi di addestramento e aggiornamento di durata temporale ristretta a vere e proprie organizzazioni educative permanenti che prevedono una frequenza continua per più anni. Tali iniziative, tuttavia, perseguono fini significativi principalmente per chi le ha istituite e per gli individui che le frequentano e solo secondariamente per la società nel suo complesso. Diversamente dalle scuole, poi, esse presentano labili, se non nulli, legami reciproci; coinvolgono insiemi limitati di persone; si rivolgono spesso a soggetti già entrati nel mondo del lavoro, oltre che a bambini e ragazzi. Va ancora tenuto presente che di norma le organizzazioni educative formali non appartenenti al sistema formativo trasmettono competenze altamente settoriali, le quali presuppongono il possesso di conoscenze generali acquisite, appunto, nelle istituzioni scolastiche. Diversamente da queste ultime, infine, le organizzazioni educative non forniscono credenziali utilizzabili come veicoli per l'ingresso nella sfera occupazionale. Esse possono accrescere il valore di queste credenziali, ma non sostituirle.

A fini analitici è opportuno separare le attività delle organizzazioni e delle istituzioni educative formali che rientrano nell'ambito dell'istruzione da quelle che riguardano la trasmissione di principî ideali e di vita. Le prime hanno a che fare con saperi teorici e pratici di carattere strumentale; le seconde con valori, norme e modelli di comportamento. Si tratta di aspetti egualmente importanti del processo di socializzazione degli individui, ossia del processo tramite il quale i singoli acquisiscono le capacità necessarie a esercitare, nei modi previsti dalla cultura della collettività alla quale appartengono, i vari ruoli sociali che via via svolgeranno nel corso della loro esistenza. L'esercizio di tali ruoli presuppone, infatti, il possesso sia di conoscenze teoriche e pratiche, sia di orientamenti normativi e di valore. Ed è proprio per questa ragione che gli uni e le altre sono sempre presenti in ogni attività di educazione formale, ancorché con peso variabile secondo il tipo di organizzazione educativa e di società.

Pur rappresentandone la parte più ampia e visibile, la scuola e le organizzazioni educative non esauriscono le occasioni e i luoghi di apprendimento e di formazione esistenti in una società. La famiglia e le chiese, i mezzi di comunicazione di massa, l'ambiente di lavoro, le amicizie costituiscono altrettanti agenti del processo di socializzazione e, dunque, altrettante fonti di istruzione e di acculturazione. Ma gli apprendimenti che hanno luogo tramite gli agenti della socializzazione diversi dalla scuola e dalle organizzazioni educative presentano un carattere incidentale, asistematico e particolaristico. Si tratta di un'azione educativa incidentale perché, in linea di massima, avviene contestualmente alla realizzazione di altri fini e allo svolgimento di altre attività. Costituisce un processo asistematico in quanto non segue espliciti programmi, né si fonda su una riflessione circa i metodi di insegnamento più appropriati. Si configura come un comportamento particolaristico nel senso che tiene conto delle caratteristiche psicologiche e delle posizioni sociali dei singoli. Esattamente il contrario di quanto avviene nelle scuole e, più in generale, nelle organizzazioni educative dove, almeno in linea di principio, gli individui, prima che come persone tra loro diverse, sono considerati come allievi tra loro eguali e dove, come si è detto, l'apprendimento rappresenta un fine esclusivo che viene raggiunto sulla base di curricula predefiniti e di metodologie appositamente elaborate da specialisti dell'insegnamento.

Evoluzione e caratteristiche attuali dei sistemi scolastici

Le organizzazioni educative e, ancor più, le scuole rappresentano, almeno quando siano intese nei termini qui proposti, un tratto caratteristico delle società occidentali moderne e, soprattutto, contemporanee. Di norma, nelle società tradizionali la trasmissione delle conoscenze, delle abilità pratiche e degli orientamenti di valore non era, infatti, affidata a organizzazioni specializzate, bensì agli agenti ordinari del processo di socializzazione quali la famiglia, la comunità locale, le chiese e le collettività professionali. E l'apprendimento da parte delle giovani generazioni si fondava su una partecipazione diretta alle attività lavorative e sociali degli adulti, anziché su una pressoché completa separazione da esse come, appunto, accade nelle scuole dei nostri tempi.

Gli storici collocano la comparsa in Europa delle prime vere organizzazioni educative in un arco di tempo compreso tra il XVI e il XVIII secolo. Svariate sono le cause - ampliamento dei mercati e degli scambi commerciali, riforme religiose, esigenze di coordinamento nel tempo e nello spazio dell'attività politica e amministrativa, affermazione delle idee illuministiche - da essi richiamate per spiegare questo processo. Un ruolo particolarmente dinamico viene comunque riconosciuto alla riforma protestante che, al fine di avvicinare i propri fedeli alla lettura diretta della Bibbia, promosse l'alfabetizzazione su vasta scala (v. Stone, 1969; v. Ariès, 1972). Tant'è vero che fino agli inizi del XX secolo la quota di persone in grado di leggere e scrivere e i tassi di scolarità di base si sono mantenuti sistematicamente più elevati nei paesi protestanti che in quelli cattolici.

È tuttavia a ridosso e nel corso del XIX secolo che si costituiscono veri e propri sistemi formativi nazionali, vale a dire che vengono definiti, da parte della pubblica amministrazione, i compiti e le posizioni reciproche dei diversi ordini e tipi di scuola, gli insegnamenti da essi impartiti e le condizioni della loro frequenza. Il primo passo verso la formazione di sistemi scolastici nazionali è usualmente coinciso con l'introduzione dell'obbligatorietà dell'insegnamento primario e con l'istituzione di apposite scuole per la preparazione degli insegnanti elementari. Successivamente si è posto mano all'istruzione secondaria inferiore e superiore. In entrambe, ma soprattutto in quella superiore, venne dato particolare impulso alla formazione di carattere tecnico e professionale con la creazione di nuovi indirizzi formativi. E lo stesso avvenne nelle università. Ciononostante, almeno in Europa, la tradizione umanistica dell'insegnamento secondario e universitario continuava a godere di un maggiore prestigio.

Nel XX secolo l'originaria tripartizione verticale dei sistemi formativi è rimasta in larga misura inalterata, anche se l'istruzione secondaria e quella terziaria hanno conosciuto vari mutamenti. I più significativi tra questi consistono nella tendenziale omogeneizzazione della secondaria inferiore (e, più in generale, della scolarità d'obbligo di livello postelementare), nell'introduzione di percorsi per la formazione professionale e nella creazione di attività di istruzione terziaria di carattere non accademico. Mutamenti di rilievo hanno riguardato anche l'intensità della differenziazione e della specializzazione della formazione universitaria, di quella terziaria di stampo professionale e di quella media superiore. L'una e l'altra hanno continuato a progredire dilatando lo spazio riservato agli indirizzi di tipo scientifico, tecnico e professionale, e relegando, di conseguenza, quelli umanistici e classici in posizioni minoritarie.Il risultato finale del processo di cambiamento appena delineato si è imposto su scala mondiale al punto che, al presente, la struttura di fondo dei sistemi scolastici nazionali risulta simile, indipendentemente dal momento in cui è iniziata la costituzione di ciascuno di essi.

Analoghe considerazioni valgono sotto il profilo quantitativo, almeno per la scolarità d'obbligo. Già agli inizi dell'Ottocento parecchi paesi europei e gli Stati Uniti possedevano leggi che sancivano l'obbligatorietà dell'istruzione elementare. E alcuni di essi, nei primi decenni del Novecento, estendevano quest'obbligo fino a 14 anni (Inghilterra, Francia e Germania) o, addirittura, fino a 16 anni (Stati Uniti). Ma la maggior parte delle nazioni dell'Europa mediterranea e, ancor più, quelle dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia si trovavano ben lontane da simili traguardi. Nondimeno, a partire dall'immediato dopoguerra, pressoché in tutto il mondo la generalità degli individui in età corrispondente a quella prevista per legge frequenta almeno le scuole elementari e il primo ciclo dell'istruzione secondaria.Più lenti e differenziati sono stati i progressi delle iscrizioni ai rami superiori dei sistemi formativi. In pratica, è solo dopo la seconda guerra mondiale che, anche nelle nazioni economicamente avanzate, le iscrizioni al secondo ciclo dell'istruzione secondaria e all'università si espandono con ritmi fortemente accelerati fino ad assumere le attuali dimensioni di massa.

Nei paesi dell'Unione Europea e in quelli del Nordamerica (Stati Uniti e Canada), quanti frequentano le scuole secondarie superiori rappresentano ormai i quattro quinti dei giovani appartenenti alla classe di età pertinente. E uno ogni cinque dei giovani tra 18 e 25 anni risulta iscritto all'università o a cicli formativi a essa paralleli (v. OECD-CERI, 1995). In Italia, dove la diffusione su vasta scala dell'istruzione è iniziata con molto ritardo, la quota di persone che hanno concluso almeno gli studi medi superiori passa da poco più del 10% dei nati tra il 1927 e il 1936 a oltre il 40% dei nati nel periodo 1957-1966. Ma cospicui tassi di crescita dei soggetti altamente istruiti si osservano anche in Francia (dove i possessori di diplomi e lauree passano, per le due classi di età sopra ricordate, dal 27 al 66%) e in Inghilterra (dal 48 al 79%), malgrado il fatto che questi due paesi abbiano iniziato assai precocemente politiche di espansione della scolarità (v. OECD-CERI, 1993). Naturalmente la crescita della popolazione scolastica si riflette in una contestuale crescita dimensionale dei singoli sistemi formativi che si configurano come importanti settori di impiego e assorbono quote rilevanti della spesa pubblica. Nelle economie più sviluppate gli insegnanti costituiscono, mediamente, il 3% della popolazione attiva e la spesa complessiva per l'istruzione rappresenta oltre il 6% del rispettivo prodotto nazionale lordo (v. OECD-CERI, 1995).

È stata di recente affacciata l'ipotesi che il principale motivo sottostante alla comparsa e all'affermazione dei sistemi formativi di massa vada ricercato nell'avvento degli Stati-nazione (v. Meyer e altri, 1992). Nei primi organismi di questo tipo (apparsi in Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Svezia) l'istruzione è stata utilizzata come strumento per assicurare la lealtà dei cittadini allo Stato e per integrare i singoli individui nella collettività nazionale. Così, dovunque nel mondo si siano successivamente costituiti Stati nazionali, la presenza di un sistema formativo è stata vista come una caratteristica costitutiva dello Stato stesso.

Altri fattori devono, tuttavia, essere presi in considerazione per spiegare le trasformazioni subite nel tempo dai sistemi formativi e l'espansione su scala di massa dell'istruzione superiore. Un significativo fattore di crescita degli apparati scolastici è rappresentato dalle modificazioni dell'economia. La produzione di beni e di servizi avviene entro organizzazioni sempre più complesse e contemporaneamente sempre più flessibili. La tecnologia che esse utilizzano si fa via via più sofisticata e l'intensità della divisione sociale e, soprattutto, tecnica del lavoro si accresce costantemente. Diventa, pertanto, assai difficile trasmettere da una generazione all'altra le competenze necessarie per svolgere la gran parte delle attività lavorative. Questo compito viene assegnato con sempre maggiore frequenza alla scuola che, attualmente, costituisce la principale istanza di mediazione tra domanda e offerta di forza lavoro.

La crescita e i mutamenti dei sistemi formativi derivano, poi, anche dallo sviluppo della domanda di istruzione proveniente dalle classi popolari. In virtù dei suoi legami con il mondo del lavoro, è la scuola a certificare le abilità possedute dai singoli e a influire, in tal modo, sulle occupazioni da essi ottenute. Queste, a loro volta, incidono sulle condizioni complessive di vita degli individui e sul grado di considerazione sociale di cui godono. I titoli di studio possono, dunque, essere concepiti - e per molti versi effettivamente operano - come strumenti di promozione occupazionale e di ascesa sociale.

La crisi, se non la scomparsa, di alcuni tradizionali elementi di connessione (la comunità locale, le associazioni professionali, i gruppi di età) del singolo alla società globale e la crescente complessità e dinamicità di quest'ultima rappresentano un ulteriore fattore di sviluppo degli attuali sistemi scolastici. A essi non viene più solo richiesto, com'era accaduto fino ai primi decenni del Novecento, di esercitare un puro e semplice controllo sui modelli valoriali e comportamentali acquisiti dai singoli. Si ritiene, invece, che le istituzioni educative debbano formare individui capaci di intervenire consapevolmente nella vita della società, più che accettarla passivamente in ogni suo aspetto. Ma le informazioni che è necessario possedere per partecipare attivamente alla vita associata sono sempre più numerose e diversificate. Ne consegue l'introduzione nei curricula formativi di nuove aree disciplinari e di nuovi argomenti entro le discipline tradizionali. E ne derivano continue estensioni dei periodi di istruzione, di quella obbligatoria, innanzitutto, ma anche di quella superiore.

La scuola e il sottosistema economico

Gli economisti e i sociologi concordano sul fatto che tra istruzione e sottosistema economico sussistono dei legami. Ma su quale sia l'esatta natura di tali legami esiste, oggi come in passato, una notevole difformità di pareri. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta la riflessione sui nessi tra educazione formale ed economia è stata dominata dalla teoria funzionalista e da quella del capitale umano. Lo schema interpretativo elaborato da questi orientamenti di analisi è così riassumibile. Lo sviluppo economico delle società industriali non si fonda solo sulla crescita degli investimenti materiali (macchinari e fabbricati) e della forza lavoro occupata, ma principalmente sul progresso tecnologico. Quest'ultimo provoca sia un incremento dei ruoli lavorativi altamente qualificati, sia un innalzamento delle competenze occorrenti per svolgere le stesse attività tradizionali. La scuola trasmette le abilità generali e specifiche necessarie per esercitare le varie occupazioni. Ne consegue che quante più persone vanno a scuola e quanto più a lungo esse la frequentano, tanto maggiore risulta la disponibilità di forza lavoro altamente istruita inseribile nei ruoli lavorativi e nei settori economici più innovativi e maggiormente remunerativi (v. Schultz, 1961; v. Kerr, 1962). Tant'è vero, sostenevano i sociologi funzionalisti e gli economisti aderenti alla teoria del capitale umano, che le nazioni con il più elevato prodotto nazionale lordo pro capite sono anche quelle con le maggiori proporzioni di persone dotate di titoli di studio superiore (v. Harbison e Myers, 1964). Per garantire il proprio sviluppo economico i vari paesi, soprattutto quelli ancora privi di una solida base industriale, avrebbero dovuto quindi investire nell'istruzione e nella ricerca scientifica.

Le crisi economiche e i fenomeni di disoccupazione dei giovani istruiti che nel corso degli anni settanta affliggono tutte le democrazie industriali, proprio mentre i rispettivi sistemi scolastici conoscono uno dei momenti di maggiore sviluppo, fanno perdere credibilità alle interpretazioni efficientistiche dei rapporti tra scuola ed economia e inducono gli studiosi a elaborare nuove ipotesi.

Gli autori di ispirazione neomarxista ritengono che la funzionalità economica delle istituzioni educative non derivi dalla loro capacità di trasmettere competenze utilizzabili nello svolgimento delle varie mansioni lavorative, bensì dal fatto che esse formano individui predisposti ad accettare la divisione sociale e tecnica del lavoro della società capitalistica (v. Althusser, 1970) o, con più precisione, i modelli comportamentali richiesti dalle imprese ai propri dipendenti (v. Bowles e Gintis, 1976). A parere di Bowles e Gintis l'interiorizzazione da parte degli allievi delle esigenze organizzative del mondo della produzione avviene per due ragioni. Innanzitutto, perché le caratteristiche psicologiche e comportamentali maggiormente apprezzate dagli insegnanti nei loro alunni (sottomissione all'autorità, applicazione, puntualità e precisione) sono le stesse che i datori di lavoro gradiscono nei loro dipendenti. In secondo luogo, perché la forma delle relazioni sociali intercorrenti tra dirigenti scolastici, insegnanti e alunni nella scuola corrisponde a quella dei rapporti che, nelle organizzazioni produttive e di servizio, si instaurano tra imprenditori, dirigenti, impiegati e operai. Ed è proprio la natura del processo di socializzazione scolastica, congiunta ai mutamenti verificatisi nell'organizzazione del lavoro e delle imprese, a spiegare, secondo Bowles e Gintis, la costante espansione delle istituzioni educative statunitensi a partire dalla metà dell'Ottocento. L'introduzione dell'obbligo di frequenza nella scuola primaria, la successiva estensione di questo vincolo all'istruzione secondaria superiore e, poi, la diffusione delle università sarebbero, cioè, collegate al passaggio dalle piccole imprese individuali alle grandi aziende impersonali e burocratizzate come modello fondamentale delle organizzazioni produttive di beni e servizi. Mentre nell'impresa personale di piccole dimensioni il datore di lavoro può controllare direttamente l'attività dei propri dipendenti, gli alti dirigenti della grande azienda non sono in grado di farlo. Il funzionamento della generalità delle imprese contemporanee dipende, dunque, dal fatto che quanti operano al loro interno abbiano già interiorizzato, attraverso una sempre più lunga partecipazione ai processi formativi, le norme e i principî sui quali esso si fonda.

Benché capovolgano il nesso di causalità tra crescita dell'istruzione e trasformazioni dell'economia ipotizzato dalla teoria del capitale umano, le analisi di marca neomarxista incorrono in una limitazione assai simile: non sono in grado, come quella, di spiegare i fenomeni di disoccupazione dei giovani con titoli di studio elevati. A questo interrogativo sono state date due distinte risposte. La prima proviene da alcuni studiosi italiani secondo i quali la disoccupazione intellettuale rappresenta un effetto perverso della crescita della domanda sociale di scolarità superiore innescata dalle difficoltà di inserimento occupazionale incontrate dalle nuove generazioni alla fine della scuola dell'obbligo. In particolare, Barbagli (v., 1974) ha rilevato che in Italia le dinamiche dell'istruzione di base presentano un legame diretto, nel tempo e nello spazio, con quelle dell'apparato produttivo. L'istruzione superiore, al contrario, intrattiene con esse una relazione inversa, nel senso che si è sviluppata soprattutto nei momenti, e nelle aree, di depressione economica. Questa regolarità è spiegabile, secondo Barbagli, con il fatto che, posti di fronte a un sistema economico incapace di assorbire nuova forza lavoro, gli aspiranti a un posto proseguono la loro formazione nella speranza che un titolo di studio più elevato fornisca migliori opportunità d'impiego. Sfortunatamente si tratta di un'aspettativa illusoria: l'aumentata offerta di laureati e diplomati, in presenza appunto di un'economia in fase recessiva, si traduce inevitabilmente in una crescita delle loro difficoltà di inserimento lavorativo e, quindi, dei fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione intellettuale.

Un'ipotesi alternativa a quella ora riassunta è stata elaborata dalle teorie della segmentazione del mercato del lavoro e dell'istruzione come strumento di cernita (v. Thurow, 1975; v. Tolbert, 1982). Secondo queste teorie, il mercato del lavoro delle società industrialmente mature e terziarizzate non è omogeneo, bensì articolato in una pluralità di stati ordinabili lungo un continuum i cui estremi sono costituiti, rispettivamente, dal segmento secondario, o esterno, e da quello primario, o interno. Nel segmento secondario, dove operano le piccole imprese, i livelli di occupazione, il grado di stabilità del posto e le remunerazioni dei dipendenti soggiacciono alle usuali leggi della domanda e dell'offerta. Nel segmento primario, tipico delle grandi aziende e delle pubbliche amministrazioni, l'azione delle forze economiche è, invece, limitata da vari sistemi di regolazione. Sono, cioè, le norme di legge, i contratti nazionali e aziendali, gli esiti di concertazioni tra rappresentanze sindacali e imprenditoriali a stabilire i criteri per l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, le qualifiche da attribuire loro, l'andamento della loro carriera, i loro salari. I soggetti occupati nel segmento primario godono, di conseguenza, di un'elevata stabilità del rapporto di impiego, svolgono carriere interne all'azienda in cui sono impiegati e ottengono trattamenti economici vantaggiosi. Proprio la presenza di questi privilegi rende, tuttavia, difficile l'ingresso nelle imprese con mercati del lavoro interni. Esso può, infatti, avvenire solo quando si rendono vacanti posti di lavoro o quando ne vengono creati di nuovi. La scelta degli individui da collocare nei posti disponibili nel segmento primario del mercato del lavoro avviene sulla base del grado di scolarità. I titoli di studio vengono, infatti, usati dai dirigenti delle grandi imprese e delle burocrazie pubbliche come indicatori dei costi da sostenere per l'addestramento dei nuovi assunti alle mansioni che dovranno svolgere. Gli aspiranti a un posto nel segmento primario vengono, così, a formare una coda in testa alla quale stanno le persone maggiormente istruite. Si comprende così come i singoli abbiano convenienza a innalzare il loro grado di scolarità. Ma l'ingrossamento delle file dei candidati all'ingresso nel segmento primario in possesso di titoli di studio elevati provoca, da un lato, la riduzione del vantaggio fornito da tali titoli in termini di posizioni professionali raggiunte e, dall'altro lato, il regresso delle posizioni nella fila associate alle credenziali educative più basse. Si pongono, in tal modo, le condizioni per ulteriori espansioni della domanda individuale e collettiva di istruzione e quindi, considerate le limitazioni all'ingresso nel segmento primario, anche dei rischi di disoccupazione intellettuale.

Pur riuscendo a fornire una plausibile connessione tra i modi di funzionamento del sistema economico, le dinamiche dei sistemi scolastici e la razionalità (limitata) del comportamento degli attori individuali, la teoria dell'istruzione come alternativa momentanea alle difficoltà occupazionali e quella del titolo di studio come strumento di cernita non indicano se e quando il processo di espansione della scolarità superiore abbia termine. Esse sembrano anzi assumere che, una volta innescato, questo processo si sviluppi pressoché all'infinito. Ma se l'incremento della domanda di istruzione dipende da calcoli di convenienza, il declino delle prospettive occupazionali associate alle credenziali educative più elevate dovrebbe ridurre la propensione a conseguirle. In effetti Collins (v., 1982) ha dimostrato che, in alcuni paesi europei (Francia e Germania) e negli Stati Uniti, i processi di inflazione dei titoli di studio e di disoccupazione intellettuale sono stati sistematicamente seguiti da un declino, assoluto e relativo, della popolazione studentesca. E analoghi fenomeni di contrazione con successiva stabilizzazione della domanda di istruzione superiore e universitaria si sono manifestati anche in Italia a partire dai primi anni ottanta (v. De Lillo e Schizzerotto, 1982; v. Shavit e Westeerbek, 1995).

Le riflessioni degli ultimi anni sui legami tra istruzione ed economia hanno abbandonato la prospettiva monocausale di molte analisi precedenti, ridimensionato l'intensità dei rapporti tra i due sottosistemi e, non di meno, confermato l'esistenza di un ruolo economico della scuola (v. Sanders, 1992; v. OECD, 1993). In genere gli studiosi concordano sull'idea che lo sviluppo della scolarità superiore non rappresenti né l'unico né il principale fattore dello sviluppo economico, ma sono anche convinti che la crescita della domanda sociale di istruzione non sia dovuta solo a meccanismi di inflazione dei titoli di studio. Negli anni ottanta e novanta le economie dei paesi avanzati hanno, infatti, conosciuto (per effetto sia dell'innovazione tecnologica, sia del mutamento dei modelli organizzativi) un reale incremento delle occupazioni di livello superiore che non avrebbero potuto essere ricoperte in assenza di una crescita dell'offerta di forza lavoro altamente istruita. Soprattutto nel terziario sono, però, aumentate anche le posizioni non qualificate. E dovunque si è accresciuta l'incidenza dei posti di lavoro precari. Per effetto di quest'ultima parecchie persone con titoli di studio superiori, e con ruoli lavorativi con essi congruenti, hanno conosciuto e conoscono periodi di disoccupazione e, comunque, un deterioramento, rispetto al passato, delle loro retribuzioni e possibilità di carriera.

Il fenomeno in parola non esaurisce, tuttavia, le cause della disoccupazione e della sottoccupazione intellettuale sperimentata, anche nell'ultimo decennio, dalle nazioni economicamente avanzate. Molte delle difficoltà di impiego incontrate da una parte dei laureati e diplomati vanno attribuite a discrasie, quantitative e qualitative, tra domanda e offerta di forza lavoro altamente istruita. Non di rado accade che le università e le istituzioni formative terziarie preparino un numero sovrabbondante di individui in alcuni settori e un numero insufficiente in altri. Si creano così, a un tempo, condizioni di eccesso e di carenza di forza lavoro a elevata scolarità. Occorre poi considerare che, anche in assenza di scompensi quantitativi, non sempre la preparazione ricevuta dai soggetti con scolarità elevata coincide con le specifiche esigenze delle singole organizzazioni destinate ad assumerli.

La responsabilità di questi mancati incontri tra richieste del mondo del lavoro e formazione scolastica superiore va ricercata, in parte, in disattenzioni e ritardi dello stesso sistema formativo. Ma le discrasie in esame costituiscono anche una conseguenza inevitabile della pluralità di funzioni svolte dall'apparato educativo. L'istruzione superiore non risponde unicamente alle necessità del mondo del lavoro. La sua configurazione dipende anche dai progetti di quanti la governano, dalle aspettative dei singoli e delle loro famiglie, dalle esigenze del sottosistema politico e, più in generale, dalle domande di una molteplicità di gruppi e associazioni. Va inoltre considerato che spesso le richieste formative provenienti dal sottosistema economico sono così peculiari e mutevoli da risultare insoddisfacibili. Proprio per il loro carattere strutturale, molte delle incongruenze esistenti tra scuola e mercato del lavoro non sono eliminabili. Le loro conseguenze possono, però, essere attenuate da opportune misure di politica scolastica quali: l'orientamento della domanda sociale di istruzione; l'introduzione, alla fine del corso di studio, di attività mirate di addestramento professionale; l'adozione di iniziative di formazione permanente. Va tuttavia tenuto presente che nessuna occupazione concreta può essere svolta senza un periodo di addestramento sul posto di lavoro. Il compito dell'istruzione superiore - e la sua utilità economica - consiste nel fornire le competenze necessarie a che questo addestramento avvenga rapidamente e con successo, e così anche tutti quelli che in seguito l'individuo dovrà compiere nel corso della sua vita lavorativa.

Scuola, stratificazione e mobilità sociale

Il ruolo della scuola nei processi di stratificazione e di mobilità sociale è stato oggetto di controversie intense quanto quelle che si sono sviluppate attorno alle sue relazioni con l'economia.I sociologi di orientamento funzionalista partono dall'assunto, largamente condiviso dagli studiosi, che nelle società contemporanee le condizioni complessive di vita degli individui e delle loro famiglie - e dunque la loro collocazione nella gerarchia delle posizioni sociali - dipendano fondamentalmente dal tipo di occupazione svolta, nel senso che all'esercizio di ciascuna occupazione corrisponde un distinto ammontare di ricompense materiali e immateriali. I funzionalisti aggiungono, poi, che nelle società attuali la selezione degli individui ai quali affidare i diversi ruoli lavorativi avviene principalmente in base a criteri universalistici. Non sarebbero cioè le origini sociali dei singoli, ma le loro capacità e i loro meriti, a stabilire se essi devono ricoprire occupazioni di elevata rilevanza sociale, economicamente ben remunerate e poste ai vertici della stratificazione o, invece, ruoli di minore centralità, con ricompense contenute e collocati nelle posizioni inferiori della gerarchia sociale. Come si è ricordato in precedenza, i funzionalisti ritengono che sia la scuola a trasformare le doti intellettuali dei singoli in abilità e competenze professionali. Essi ne traggono, quindi, la conclusione, in prima istanza suffragata dai risultati di importanti ricerche empiriche (v. Blau e Duncan, 1967), che l'istruzione costituisca il principale canale di mobilità e, dunque, la caratteristica personale che più di ogni altra incide sui destini sociali dei singoli. A loro parere, infatti, l'accesso alle istituzioni educative tende a essere sempre meno condizionato dalle appartenenze dei singoli. Innanzitutto perché le diseguaglianze educative, come ogni altra forma di diseguaglianza sociale, si basano in larga misura su caratteristiche acquisite e su principî universalistici. In secondo luogo perché la società ha interesse (in virtù dei legami intercorrenti tra istruzione ed economia) a valorizzare i talenti intellettuali presenti in tutti gli strati sociali e non solo in quelli tradizionalmente privilegiati.Molti degli assunti e dei risultati delle indagini di ispirazione funzionalista sono stati sottoposti a svariate obiezioni da parte di autori successivi, i quali tuttavia non si sono mossi sempre nella medesima direzione.

Alcuni studiosi hanno negato che nelle società contemporanee sia in atto una reale riduzione nel tempo delle influenze delle origini sociali sulle opportunità di accesso ai gradi superiori dell'istruzione (v. Jencks e altri, 1972; v. Bowles e Gintis, 1976). Altri hanno addirittura sostenuto che queste influenze si stanno rafforzando (v. Halsey e altri, 1980). Il divario tra le opportunità di frequentare le scuole superiori e le università dei discendenti dei gruppi economicamente e culturalmente privilegiati da un lato e quelle dei figli dei gruppi socialmente svantaggiati dall'altro tenderebbe, cioè, ad aumentare. Ciò in quanto gli eredi delle classi superiori accrescono i loro tassi di partecipazione scolastica con una velocità superiore a quella dei discendenti da altre classi. Alla luce di questo stato di cose, la presenza di stretti e, secondo qualche studioso (v. Heath, 1982), crescenti legami tra livello di scolarità e posizione occupazionale raggiunta non indica, dunque, che le società contemporanee siano sempre più mobili e aperte. Al contrario, essa significa che le disparità nei livelli di istruzione si limitano a coprire e a legittimare, con una patina meritocratica, diseguaglianze di carattere ereditario.

Sono stati, tuttavia, i sociologi neoweberiani (v. Collins, 1979) a sviluppare più compiutamente l'idea che la crescita dell'istruzione non rappresenti un fattore di eguagliamento delle opportunità di successo professionale ma, all'opposto, l'esito di processi di chiusura sociale, di tentativi, cioè, di escludere artificiosamente le persone prive di titoli di studio elevati dall'accesso alle posizioni occupazionali maggiormente vantaggiose. Secondo questa prospettiva di analisi, le scuole superiori e le università non hanno a che fare tanto con l'apprendimento di competenze tecniche e professionali, quanto con quello degli stili culturali tipici delle classi medie e superiori. La ragione per cui i titoli di studio costituiscono un elemento centrale della stratificazione occupazionale va, pertanto, ricercata nella loro utilizzazione come strumenti: a) per creare ruoli professionali; b) per convincere la collettività dell'importanza di questi ruoli, così da riservare loro vantaggi materiali e simbolici; c) per monopolizzarne l'accesso. La crescita dell'istruzione superiore è, dunque, innescata da conflitti sociali per il controllo delle credenziali educative e dei connessi vantaggi occupazionali e non dalla volontà di permettere ai migliori di eccellere.

La concezione dei titoli di studio come risorsa di potere è condivisa anche da Boudon (v., 1973), il quale, in analogia alle teorie dell'istruzione come strumento di cernita, vede nell'espansione della scolarità superiore il prodotto del progressivo declino nel tempo delle posizioni occupazionali raggiungibili con un dato titolo di studio. A differenza dei critici della teoria funzionalista, tuttavia, Boudon ritiene che nelle società contemporanee sia in atto un vero e proprio processo di democratizzazione dell'istruzione e che quest'ultima possa rappresentare un utile, ancorché sempre meno efficace, veicolo di ascesa sociale. Il suo ragionamento è, all'incirca, il seguente. Le società economicamente sviluppate hanno permesso l'espansione dei posti disponibili negli ordini superiori del sistema scolastico. Non hanno, invece, consentito (né avrebbero potuto farlo, se non alterando la propria configurazione) che un'analoga crescita avvenisse nelle posizioni più elevate della stratificazione occupazionale. Ed è il veloce aumento del numero di concorrenti con credenziali educative elevate, congiunto a una struttura occupazionale che cambia molto lentamente, a produrre il costante innalzamento del livello di istruzione necessario per ottenere una medesima posizione lavorativa.

Le teorie e le ricerche fin qui riassunte, sia che enfatizzino il ruolo dell'istruzione come fattore di apertura sociale e di mobilità occupazionale, sia che neghino ogni sua influenza in materia, soffrono di un medesimo limite metodologico: si sono tutte limitate a considerare l'andamento nel tempo di due ordini di probabilità, quelle che soggetti di diversa origine sociale ottengano i vari titoli di studio, e quelle che individui con distinti titoli di studio raggiungano le singole posizioni occupazionali. Ma la probabilità di conseguire una qualsiasi credenziale educativa dipende da due fattori che possono variare l'uno indipendentemente dall'altro. Il primo di essi è costituito dai lineamenti che la distribuzione complessiva dei titoli di studio assume in una società a un momento dato. Il secondo fattore è costituito dai vantaggi o dagli svantaggi che, entro quella distribuzione complessiva, le persone di una specifica provenienza sociale godono o subiscono rispetto agli appartenenti ad altri gruppi quando competono con essi per acquisire i singoli titoli di studio. È evidente che solo quest'ultimo elemento costituisce una valida misura dei legami tra origini sociali e opportunità formative. Analoghe osservazioni valgono per le connessioni tra istruzione e posizione occupazionale. Per individuarne la consistenza netta occorre separare gli effetti della configurazione della stratificazione occupazionale da quelli della situazione di superiorità, o inferiorità, in cui si trovano i possessori di uno specifico titolo di studio, rispetto ai titolari di credenziali educative minori o più elevate, nella gara per raggiungere le diverse posizioni occupazionali.

Recenti indagini (v. Shavit e Blossfeld, 1993; v. Cobalti e Schizzerotto, 1994; v. Müller e Shavit, 1997), condotte in una pluralità di paesi e svolte adottando metodi di analisi dei dati in grado di stimare le associazioni nette tra origini e istruzione e tra istruzione e destinazioni occupazionali, sono giunte alle seguenti conclusioni. Le riforme volte all'espansione e alla democratizzazione degli accessi all'istruzione sono riuscite ad accrescere la frequenza con cui i figli dei gruppi sociali subalterni partecipano alle scuole superiori e all'università, ma nella generalità dei casi non hanno ridotto l'intensità delle diseguaglianze intercorrenti tra soggetti di diversa origine sociale nelle chances di raggiungere i singoli livelli di scolarità. Nella competizione per ottenere diplomi e lauree, ad esempio, mezzo secolo fa i vantaggi competitivi dei figli dei gruppi socialmente privilegiati erano altrettanto superiori rispetto a quelli dei discendenti dai gruppi socialmente deprivilegiati quanto lo sono oggi. Ciononostante, la scolarità rappresenta il fattore che più di ogni altro influisce sulle opportunità di raggiungere le varie destinazioni occupazionali. E non esiste alcuna indicazione che i vantaggi, o gli svantaggi, competitivi associati ai singoli titoli di studio siano variati sistematicamente nel tempo. Dunque, oggi come nel passato, l'istruzione costituisce un effettivo canale di mobilità sociale. Naturalmente anche le origini sociali condizionano, e anch'esse con intensità costante, le chances di pervenire alle singole posizioni nella stratificazione occupazionale. Se si tiene congiuntamente conto degli effetti della famiglia di provenienza sulle opportunità formative e su quelle occupazionali dei singoli, occorre dire che in gran parte delle società contemporanee il peso dell'ereditarietà sociale è simile, se non superiore, a quello del merito. Va, tuttavia, ribadito che l'istruzione gioca un proprio autonomo ruolo nel modellare i destini lavorativi e sociali dei singoli, cosicché il figlio laureato di un operaio gode di opportunità di giungere al vertice della stratificazione occupazionale maggiori di quelle godute dal discendente di un imprenditore che abbia arrestato la sua formazione alla scuola dell'obbligo.

La scuola e la trasmissione di valori e di norme

Come si è accennato all'inizio di questo articolo, la scuola non è chiamata solo alla preparazione e alla selezione delle persone da allocare nelle varie posizioni della stratificazione occupazionale. I suoi compiti consistono anche (e, forse, prima di tutto) nell'acculturazione delle nuove generazioni. Delle due principali dimensioni che costituiscono la cultura di una società verrà trattata ora quella riguardante la trasmissione di principî e regole di vita, mentre la dimensione più propriamente cognitiva sarà esaminata in seguito.

La convinzione che la scuola contribuisca all'integrazione sociale è ampiamente diffusa tra gli studiosi. Mutano, tuttavia, sia il livello di analisi del processo di socializzazione scolastica, sia la prospettiva teorica dalla quale esso viene studiato. La generalità dei sociologi si è soffermata sui suoi aspetti macroistituzionali; altri sociologi, e ancor più gli psicologi sociali, hanno invece posto l'attenzione sulle interazioni quotidiane tra insegnanti e alunni in classe. Secondo la versione funzionalista delle analisi macrosociologiche, la scuola rappresenta uno dei principali strumenti attraverso i quali viene garantito l'ordinato funzionamento della società (v. Parsons, 1959), cosa che presuppone l'interiorizzazione da parte dei singoli dei valori socialmente condivisi e delle norme che presiedono all'esercizio dei vari ruoli sociali. A parere di Parsons, il contributo specifico fornito dal sistema scolastico in quest'ambito consiste, innanzitutto, nel garantire che le nuove generazioni introiettino il principio dell'universalismo, secondo il quale i comportamenti assunti nei confronti dei singoli devono dipendere dai compiti che essi svolgono e dalle posizioni che essi ricoprono nella società e non dalle loro caratteristiche personali. La scuola è la prima istituzione sociale incontrata dal bambino a imporre il rispetto di questo principio. Essa, infatti, richiede agli insegnanti di comportarsi nello stesso modo con tutti i propri allievi e obbliga ogni allievo ad assumere atteggiamenti di rispetto nei confronti di qualsiasi insegnante, e di colleganza paritaria con tutti i compagni di classe. Accanto all'orientamento universalistico, la socializzazione scolastica favorisce l'assunzione del principio di realizzazione secondo il quale le persone debbono essere valutate, e la loro collocazione sociale diversificata, in base alla bontà delle loro prestazioni. A scuola questo criterio trova un luogo elettivo di applicazione nel senso che gli allievi, inizialmente in posizioni identiche, vengono via via differenziati sulla base della loro abilità nel fare i compiti, nel rispondere alle interrogazioni, nell'adeguare il proprio comportamento alle regole della convivenza in classe. Queste ultime, poi, garantiscono lo sviluppo del senso civico in quanto abituano al rispetto per l'autorità, alla cooperazione con gli altri, all'impegno nello svolgimento del proprio dovere.

Il carattere del processo di socializzazione scolastica muta sensibilmente, secondo Parsons e Platt (v., 1973), nell'università. Per meglio dire, la frequenza universitaria consente l'acquisizione di orientamenti di valore e normativi che producono sia una più consapevole partecipazione alla vita associata, sia maggiori motivazioni all'autoaffermazione. Il principale valore presente nelle università è costituito dalla razionalità cognitiva. Esso costituisce una specificazione dell'orientamento all'attivismo strumentale, ossia all'impegno dell'individuo verso la riuscita professionale e personale come strumento per la realizzazione di due fondamentali mete collettive: lo sviluppo economico e il progresso tecnico e scientifico. L'introiezione di questo valore è collegata al rafforzamento di ulteriori tratti personali congruenti con la complessità degli ordinamenti sociali contemporanei. Si tratta: a) del riconoscimento della necessità funzionale della differenziazione, in termini di autorità e di ricompense, dei vari ruoli sociali; b) della capacità di condursi in modo razionale; c) della propensione ad agire in modo autonomo; d) della motivazione a competere con successo; e) del disciplinamento dei propri affetti e istinti.Nelle analisi macrosociologiche di ispirazione neomarxista la scuola è concepita come un agente di integrazione sociale ancor più efficace, se possibile, di quanto non ritengano i funzionalisti. Solo che, per la sociologia neomarxista, l'integrazione non avviene rispetto a valori socialmente condivisi, bensì nei confronti delle esigenze di dominio delle classi sopraordinate. Come si è accennato in precedenza, Althusser (v., 1970) e Bowles e Gintis (v., 1976) ritengono che la scuola: a) trasmetta i criteri di orientamento costitutivi dell'ideologia dominante; b) formi persone predisposte ad accettare le posizioni di subalternità che dovranno ricoprire nella divisione sociale del lavoro; c) legittimi, tramite la differenziazione delle riuscite e dei percorsi formativi, le diseguaglianze sociali.L'ipotesi che il processo di socializzazione scolastica riproduca l'ordinamento sociale esistente è condivisa anche da Bourdieu e Passeron (v., 1970) e da Bernstein (v., 1971). A loro parere, tuttavia, l'azione conservatrice della scuola riguarda, prima di tutto, l'ordinamento culturale delle società contemporanee. È grazie alla riproduzione di quest'ultimo che anche i rapporti sociali di dominio e di subordinazione, a esso soggiacenti, vengono mantenuti.

L'idea che le società contemporanee posseggano un sistema formativo capace di dar vita a un processo di socializzazione del tutto coerente con gli interessi e con gli orientamenti culturali di un'ipotetica classe dominante, e di imporre gli uni e gli altri a masse di allievi pronti a recepirli acriticamente, è stata giudicata irrealistica da numerosi autori. E un simile giudizio è stato esteso anche all'ipotesi secondo cui la scuola favorirebbe l'introiezione di orientamenti di valore socialmente condivisi. Si è, innanzitutto, osservato che i processi di differenziazione funzionale delle società attuali e la varietà di ruoli sincronicamente ricoperti dai singoli producono sia una pluralizzazione delle posizioni sopraordinate (v. Hradil, 1990), sia una frammentazione degli schemi di riferimento dell'agire individuale e di gruppo (v. Berger e altri, 1974). Le ricerche sugli insegnanti (v. Cavalli, 1992) hanno inoltre posto in luce che essi posseggono convinzioni pedagogiche e orientamenti di valore tra loro disomogenei e, nel contempo, diversi da quelli dei gruppi sociali superiori. Gli studi sulle interazioni in classe hanno mostrato che gli allievi, fin dalle scuole materne, oppongono svariate forme di resistenza alle regole della vita scolastica (v. Corsaro, 1988). Infine, dalle indagini sugli studenti di bassa origine sociale traspare che essi sono in grado di elaborare propri modelli culturali, contrapposti a quelli della scuola (v. MacLeod, 1987). Più in generale, gli psicologi sociali e i sociologi che si rifanno all'interazionismo simbolico, alla fenomenologia e all'etnometodologia hanno sottolineato che le analisi macrosociologiche, quale che sia il loro orientamento teorico, sono incapaci di dare conto delle effettive caratteristiche e degli effettivi contenuti morali della socializzazione scolastica per la buona ragione che non prestano alcuna attenzione a quanto accade quotidianamente dentro le singole classi (v. Mehan, 1992).

Negli ultimi tempi la psicologia sociale (v. Carugati e Selleri, 1996) e la microsociologia interpretativa (v. Wittrock, 1986) hanno prodotto numerosi studi che illustrano le dinamiche sociali interne alla scuola. Sfortunatamente le conoscenze così raccolte non si sono ancora tradotte in un quadro generale delle caratteristiche attuali della formazione scolastica. Si può, tuttavia, cercare di riassumerne il senso complessivo alla luce delle riflessioni che alcuni sociologi (v. Loockwood, 1964; v. Berger e altri, 1974; v. Giddens, 1984) hanno compiuto sulla natura di fondo della vita sociale contemporanea e dei processi di socializzazione che in essa hanno luogo. Dall'insieme di queste analisi traspare che la capacità della scuola di plasmare le coscienze individuali è contenuta e che la sua azione formativa consiste non tanto nella trasmissione esplicita di organici sistemi di valore, o di principî generali di legittimazione dell'ordinamento sociale esistente, quanto nel favorire l'acquisizione di norme e strategie di comportamento quotidiano. Il processo di socializzazione scolastica, analogamente a quanto accade in altre istituzioni, si basa principalmente sull'apprendimento di routines, ossia di schemi di attività relativamente stabili e prevedibili che, nel caso specifico, organizzano i rapporti tra l'insegnante e gli alunni. Le routines scolastiche rappresentano il prodotto di negoziazioni, implicite ed esplicite, tra questi e quello. È tuttavia evidente che l'insegnante, in virtù della sua posizione sopraordinata, influisce su di esse più di quanto non possano fare gli allievi. Poiché riguardano innanzitutto comportamenti, le routines definiscono cosa fare e come fare più che le ragioni del fare. Naturalmente le regole incorporate in esse si ispirano a criteri organizzativi, a concezioni della scuola e a principî ideali (oltre che a interessi). A volte gli insegnanti, e gli allievi, li richiamano nel corso delle loro negoziazioni, ma in genere essi rimangono sullo sfondo. Ne consegue, come si è accennato sopra, che la parte formativa della socializzazione scolastica presenta un carattere fortemente pragmatico. La scuola non abitua, cioè, a riflettere sul senso ultimo del proprio agire, ma a prevederne e controllarne le conseguenze tenendo conto sia del comportamento di altri attori, sia delle regole e delle rappresentazioni sociali che definiscono il contesto dell'azione.

In termini sostanziali, sembrerebbe che le istituzioni educative richiedano ai propri allievi di rispettare gli insegnanti, accettare le regole della convivenza scolastica, partecipare attivamente alle varie iniziative didattiche e collaborare, in modi più o meno competitivi, con i compagni di classe. L'intensità con cui si pretende l'adesione a questi criteri e la loro definizione specifica varia secondo le concezioni pedagogiche degli insegnanti e secondo il connesso clima di classe. Quest'ultimo è definibile come lo stato di integrazione sociale e affettiva prodotto sia dal modo in cui gli insegnanti organizzano la vita scolastica e si rapportano agli allievi, sia (ma in via subordinata) dalle valutazioni che questi ultimi compiono dei comportamenti degli insegnanti e delle regole che vigono in aula (v. Fraser, 1989). Semplificando grossolanamente, si può dire che i vari tipi di clima di classe identificati dai ricercatori siano raggruppabili nelle tre classiche categorie proposte da Lewin (v., 1938) più di mezzo secolo fa. Il clima democratico, basato su un'attiva partecipazione degli studenti alle decisioni riguardanti la vita scolastica e sull'assunzione, da parte dell'insegnante, del ruolo di autorevole punto di riferimento, svilupperebbe forti motivazioni allo studio, elevate capacità collaborative, una consistente identificazione con la classe e l'accettazione consapevole dell'autorità. Al contrario, il clima di classe autoritario o intimidatorio, quello cioè in cui l'insegnante centra la sua attività sul mantenimento della disciplina e su uno stretto controllo del comportamento degli allievi, produrrebbe forti propensioni competitive, forme diffuse di aggressività tra pari, scarsa identificazione con la classe e tendenze o all'adeguamento passivo all'autorità o, all'opposto, a forme di ribellismo. Dal canto suo, il clima di classe permissivo, caratterizzato dal riconoscimento di ampi margini di discrezionalità agli alunni e dall'occasionalità degli interventi regolativi da parte dell'insegnante, provocherebbe forme di disinteresse verso l'applicazione nello studio, un disarmonico sviluppo dell'autonomia personale e un limitato senso di responsabilità nei confronti delle istituzioni e della collettività.

Va notato che le categorie appena illustrate rappresentano tipi ideali verso i quali tende l'effettiva configurazione della vita scolastica, più che realtà concrete. Si può, anzi, dire che uno stesso insegnante oscilli, non di rado, tra l'una e l'altra di esse, in dipendenza dagli specifici problemi che si trova a dover affrontare nella gestione quotidiana della sua classe. Nondimeno questi tre climi di classe appaiono connessi ad altrettanti modi di concepire la funzione formativa della scuola, ed è proprio in quanto modello di riferimento per l'organizzazione della vita quotidiana in aula che ciascuno di essi ha conosciuto periodi di diffusione e periodi di declino all'interno dei sistemi scolastici. Si può dire che dal dopoguerra fino agli anni sessanta la concezione prevalente dei rapporti insegnante-alunno avesse un carattere tendenzialmente autoritario. Successivamente, e fino alla prima metà degli anni ottanta, hanno goduto di particolare apprezzamento versioni variamente attenuate del modello permissivo. Al presente parrebbe invece in atto un rafforzamento del prestigio delle impostazioni che conducono a un modello democratico.

Il fatto che la scuola contemporanea, quali che siano il modello pedagogico e il clima di classe in essa prevalenti, non trasmetta principî ideali di vasto respiro rappresenta, prima che un suo limite interno, un riflesso dell'attuale assetto sociale. Poiché quest'ultimo è caratterizzato dal pluralismo degli schemi di orientamento, le istituzioni educative non posseggono alcun criterio per stabilire a quale di essi ispirare la propria azione. Ma se anche lo possedessero, occorre tener presente che gli elevati ritmi di mutamento delle società contemporanee si riverberano anche sugli ideali di vita. Privilegiando uno dei possibili schemi di orientamento, la scuola correrebbe il rischio di proporre modelli formativi destinati a rivelarsi, in breve tempo, lontani dalla realtà. Va, infine, ricordato che il forte accento posto dalla cultura contemporanea sull'autonomia e sulla libertà individuali porrebbe, comunque, severi vincoli all'azione formativa delle istituzioni educative. Del resto, negli ultimi settant'anni solo i regimi autoritari hanno utilizzato la scuola come strumento di esplicito indottrinamento e di palese manipolazione delle coscienze. Nei regimi pluralistici le istituzioni educative si sono, in genere, limitate a forme indirette e attenuate di socializzazione morale e politica.

Va in ogni caso sottolineato che la trasmissione di norme dell'agire quotidiano in collettività si configura come una formazione morale, ancorché limitata e parziale. Non solo perché dietro queste norme stanno, comunque, principî più generali; ma soprattutto perché esse definiscono i diritti e i doveri dei singoli ruoli sociali. E sono proprio queste definizioni a garantire il coordinamento dei comportamenti individuali e, quindi, a permettere la vita associata. Il deficit di socializzazione morale collegato alla mancata trasmissione di organici sistemi di valore può, tuttavia, diventare un grave problema quando le regole quotidiane vengono sistematicamente disattese da gruppi più o meno ampi di persone che, in tal modo, pongono in discussione anche il patto collettivo su cui si fonda una società. Se, infatti, i principî ideali sottostanti a questo patto non sono stati interiorizzati, diventa arduo mobilitare i singoli in difesa della società alla quale appartengono.

La scuola e la trasmissione del sapere

L'istruzione scolastica consiste essenzialmente nella trasmissione di un modello conoscitivo, vale a dire nella trasmissione di informazioni, di schemi per organizzarle e di più generali strategie di apprendimento e di pensiero. Si può avere una prima idea di cosa si impari a scuola esaminandone i programmi. Sulla scorta di un'ampia indagine comparativa, alcuni studiosi hanno recentemente sostenuto (v. Benavot e altri, 1991) che, a partire dai primi decenni del Novecento, i curricula delle istituzioni educative d'obbligo risultano straordinariamente stabili nel tempo e nello spazio. Allora come oggi, nella grande maggioranza dei paesi, questi programmi prevedono l'insegnamento delle seguenti aree disciplinari: a) lingua nazionale; b) lingua straniera; c) matematica; d) scienze naturali; e) scienze sociali; f) educazione artistica; g) educazione fisica; h) educazione sanitaria; i) educazione morale e religiosa; l) attività pratiche. La ragione di questa invarianza andrebbe ricercata nella già ricordata affermazione su scala mondiale dell'istruzione pubblica di massa quale istituzione caratteristica dei moderni Stati nazionali. Va tuttavia notato che l'immagine di stabilità proveniente dai curricula della scuola di base si attenua sensibilmente quando le grandi aree disciplinari appena elencate si articolano in materie più specifiche. Così, ad esempio, le scienze sociali si sono a lungo esaurite in nozioni di geografia e di storia, e solo a partire dagli anni cinquanta iniziano a comprendere anche i veri e propri studi sociali. Lo stesso si può dire per le scienze naturali che fino al dopoguerra, e in alcuni paesi fino agli anni sessanta, non prendevano in considerazione, o quasi, discipline come la chimica e la fisica. I cambiamenti risultano ancor più evidenti se dalle materie si passa agli argomenti trattati in esse. Nel corso del tempo i programmi di matematica si sono estesi dall'aritmetica e dai primi rudimenti di algebra all'insiemistica e al calcolo delle probabilità. L'educazione sanitaria, dal canto suo, è passata da semplici norme d'igiene quotidiana a informazioni su una pluralità di fattori di rischio per la salute (alimentazione, ambiente fisico, droga, alcol, comportamenti sessuali). Analoghe osservazioni potrebbero essere fatte per tutte le rimanenti discipline, al punto che, almeno in linea di principio, le attuali scuole dell'obbligo paiono dibattersi in una situazione di sovraccarico conoscitivo.

Considerazioni simili a quelle fin qui esposte possono essere estese alle secondarie superiori di carattere non professionale. Anche nel loro caso, infatti, gli studi comparativi (v. Kamens e altri, 1996) pongono in luce un'impressionante stabilità e omogeneità dell'impianto curricolare di base. Dagli anni trenta in poi, le secondarie superiori di moltissimi paesi prevedono l'attivazione delle aree disciplinari elencate qui di seguito: a) letteratura e filosofia; b) lingue classiche; c) lingue straniere; d) matematica; e) scienze; f) scienze sociali; g) storia e geografia; h) educazione morale e religiosa; i) istruzione artistica; l) educazione fisica. Ed è interessante notare che stando alle suddette indagini comparative, la diversificazione degli indirizzi dell'istruzione superiore non comporta tanto una differenziazione delle aree disciplinari attivate, quanto una diversa accentuazione del peso riconosciuto a ciascuna di esse. L'ampiezza della diversificazione tra indirizzi tende, tuttavia, ad aumentare se si pone l'accento su materie specifiche e su argomenti entro le materie, e in tal caso anche la stabilità nel tempo dei curricula si riduce. Benché con tempestività variabile, le scuole secondarie superiori sono state, infatti, costrette a fare i conti con la crescita delle conoscenze prodotte dalla sempre più specializzata cultura contemporanea e richieste dall'elevata complessità organizzativa delle società attuali. Al punto che, anche per questa fascia del sistema formativo, si è parlato di eccedenza degli oggetti di apprendimento.

Oltre che dalla composizione dei piani di studio, il carattere dell'istruzione scolastica dipende dalle modalità di organizzazione del sapere e dai metodi di apprendimento. Per molto tempo si è ritenuto che l'insegnamento dovesse basarsi sull'istituzione di rigidi confini tra le discipline, su una forte segmentazione dei loro contenuti e su un preciso ordinamento sequenziale di questi ultimi. Si pensava, infatti, che lo sviluppo intellettuale e cognitivo degli allievi rappresentasse l'esito di un lungo processo di addestramento della mente e di una sistematica accumulazione di conoscenze ottenuta attraverso la costante applicazione allo studio, svincolato da immediate preoccupazioni ed esigenze pratiche. Di conseguenza, i principali metodi di apprendimento erano costituiti dalle lezioni dell'insegnante, dalla lettura e dalla memorizzazione dei libri di testo, dall'esercizio individuale e dalla sua correzione. A partire dagli anni sessanta questo modello di organizzazione e di trasmissione del sapere è stato radicalmente criticato come nozionistico, dissonante rispetto ai modi e ai ritmi di evoluzione delle capacità cognitive, inadeguato a suscitare motivazioni allo studio, negativamente discriminatorio nei confronti degli alunni di origine sociale inferiore e slegato dalla vita economica e sociale. E, almeno fino alla metà degli anni ottanta, esso venne sostituito - nella pedagogia ufficiale, ma almeno in parte anche nella pratica dei docenti - da un codice pedagogico a debole classificazione e a bassa strutturazione, come lo definirebbe Bernstein (v., 1977). Secondo questo diverso modello, l'istruzione deve avere un carattere spontaneo, fondarsi sull'analisi di esperienze vissute, portare all'invenzione di conoscenze ed essere immediatamente diretta alla soluzione di problemi reali. Di conseguenza, nelle scuole di molti paesi sono stati introdotti rilevanti mutamenti nei metodi di apprendimento. Le lezioni frontali, le interrogazioni e i compiti individuali sono stati in larga misura sostituiti da attività didattiche svolte in piccoli gruppi, da insegnamenti personalizzati e da iniziative di studio formalmente prossime alle ricerche degli studiosi. Sono stati introdotti cambiamenti di peso anche nell'organizzazione del sapere trasmesso. Gli oggetti dell'apprendimento non sono più stati desunti dalle tradizioni delle singole discipline, bensì dai temi di studio di volta in volta scelti dagli insegnanti e dagli alunni. I confini tra le materie sono stati resi meno distinti sulla base dell'assunto che nell'analisi della realtà occorre fare continuo e contemporaneo riferimento a una pluralità di discipline. È stata, infine, attenuata la sequenzialità degli apprendimenti sostenendo che le specifiche conoscenze da impartire dovessero dipendere dai temi oggetto di analisi e non dalle esigenze interne alla singola disciplina.

Ancorché più elaborato e, per certi versi, più valido di quello tradizionale, il modello dell'istruzione interdisciplinare, tesa a stimolare la creatività dell'alunno e orientata alla soluzione di problemi pratici, ha condotto a risultati inferiori alle attese. Le indagini empiriche svolte nel corso degli anni settanta e ottanta hanno posto in luce l'esistenza di consistenti fenomeni di analfabetismo funzionale in molti paesi che avevano adottato i principî didattici in questione (v. Bottani, 1986). In più esse hanno evidenziato, come si è già avuto modo di sottolineare, la permanenza di cospicue diseguaglianze nella riuscita scolastica di soggetti con diversa origine sociale e un rilevante scollamento tra l'istruzione e le esigenze dell'economia e della società. Questi insuccessi appaiono imputabili a svariati fattori: a) l'organizzazione interna, spesso piuttosto rigida, dei sistemi scolastici; b) il sovraccarico di funzioni (cognitive, di socializzazione, di formazione per il lavoro e per la vita) assegnate alla scuola; c) l'insufficiente preparazione professionale degli insegnanti; d) alcuni fraintendimenti riguardo la natura della ricerca scientifica e i risultati degli studi sull'evoluzione delle capacità cognitive e sui meccanismi dell'apprendimento. Nel tentativo di superare i limiti del modello di apprendimento a classificazione e strutturazione deboli, da una decina d'anni a questa parte ha preso l'avvio un processo di riaggiustamento dell'organizzazione del sapere scolastico caratterizzato, innanzitutto, da una rivalutazione delle specificità disciplinari e dalla strutturazione degli oggetti e dei percorsi di apprendimento. Dal lato dei metodi di trasmissione della conoscenza, si è proposto di adottare procedure di insegnamento (in genere derivate dal mastery learning) capaci di contemperare gli apprendimenti individualizzati e le lezioni rivolte a gruppi variamente numerosi di allievi. Parallelamente si è assistito a una riattribuzione di significato allo studio personale. Sono state, poi, avanzate proposte di semplificazione delle funzioni assegnate alla scuola, privilegiandone i compiti cognitivi e di trasmissione della cultura. Infine, si sono messi a punto programmi nazionali (tranne che in Italia) e locali di controllo e di valutazione degli esiti delle attività formative al fine di fondare gli interventi didattici su basi più solide e meditate che nel passato.

Se i programmi di studio e i modi di organizzazione e di trasmissione del sapere definiscono ciò che, in linea di principio, si può apprendere a scuola, è la pratica quotidiana dell'insegnamento (oltre alle caratteristiche intellettuali e sociali degli allievi) a determinare cosa, del possibile, viene realmente appreso. Di rado, infatti, il curriculum manifesto coincide con quello che usualmente viene chiamato curriculum latente e che, a ben vedere, è l'unico effettivo. Della pratica dell'insegnamento qui saranno richiamati solo gli aspetti collegati alla funzione docente, perché si sono rivelati più incisivi, rispetto agli esiti scolastici, di quelli riguardanti gli aspetti organizzativi e materiali dell'attività didattica: numerosità delle classi, disponibilità di attrezzature e tecnologie per l'apprendimento, grado di autonomia dell'insegnante (v. Trivellato e Zuliani, 1979; v. Chiari, 1994). Il clima di classe rappresenta uno di questi elementi, e al suo riguardo si è già accennato che sono i climi di stampo democratico a produrre i migliori risultati in termini di apprendimento. Il secondo, e più importante, fattore è ovviamente costituito dal livello di preparazione professionale degli insegnanti. In gran parte dei paesi le competenze disciplinari, metodologiche e pedagogiche attualmente possedute dagli insegnanti non sono ritenute pienamente soddisfacenti. Come al solito, le cause di questo stato di cose sono molteplici. In parte esse vanno attribuite a lacune nella formazione iniziale dei docenti, in parte derivano dallo scarso rigore delle politiche di reclutamento seguite negli anni di maggiore espansione della popolazione scolastica, in parte infine sono da collegare a crisi motivazionali degli stessi insegnanti indotte dalla burocratizzazione della loro professione (non di rado favorita dalle stesse associazioni di categoria) e dal declino (relativo) del prestigio sociale e delle ricompense materiali a essa riconosciute. Per porre riparo a questo stato di cose molte nazioni hanno rivisto le proprie politiche di formazione e selezione degli insegnanti. In particolare, sono state approfondite le conoscenze disciplinari, metodologiche, pedagogiche, psicologiche e sociologiche trasmesse nel corso della formazione iniziale. È stata estesa l'offerta di formazione in servizio e si sono assunte misure idonee a incentivare la partecipazione a essa. Sono state, infine, introdotte varie forme di valutazione e di certificazione della qualità delle prestazioni dei docenti. La principale fonte di informazioni internazionalmente comparabili sui livelli di apprendimento degli studenti dei vari ordini di scuola e, quindi, sull'efficacia formativa dei singoli sistemi scolastici nazionali è costituita dalle indagini IEA. Da una di esse, svolta tra il 1983 e il 1986, traspare per esempio che le competenze scientifiche possedute dagli alunni delle elementari sono elevate in Giappone, Finlandia e Svezia; di livello intermedio in Italia, Stati Uniti e Canada; piuttosto contenute in Inghilterra e Polonia. La situazione italiana si deteriora lievemente passando alle medie inferiori dove, oltre che da giapponesi, finlandesi e svedesi, i nostri studenti sono superati anche da canadesi, polacchi, norvegesi e australiani. Gli esiti italiani diventano, infine, i più bassi (in una graduatoria comprendente 13 nazioni) quando si giunge alle superiori (v. IEA, 1988). Risultati analoghi, ma un po' meno lusinghieri per le nostre scuole medie inferiori, emergono da un'altra indagine IEA condotta nel 1991 e riguardante le capacità di lettura e comprensione della lingua materna. In un ordinamento costituito da 18 paesi il punteggio degli alunni delle scuole elementari italiane risulta inferiore solo a quello di finlandesi, statunitensi, svedesi e francesi. Ma i frequentanti delle medie inferiori scendono alla tredicesima posizione, superati, oltre che dagli studenti delle nazioni appena citate, da tedeschi, danesi, svizzeri e altri ancora. Solo gli studenti di Olanda, Irlanda, Grecia, Spagna e Belgio hanno prestazioni inferiori a quelle italiane (v. OECD-CERI, 1995).

Differenze tra sistemi scolastici

Malgrado le ricordate tendenze alla convergenza, la specificità delle tradizioni culturali e amministrative dei singoli paesi continua a differenziare, a volte anche profondamente, l'assetto dei sistemi formativi nazionali. Tra i vari caratteri istituzionali e organizzativi che distinguono un sistema scolastico dall'altro, verrà qui prestata attenzione al modo in cui essi sono gestiti, alla loro struttura interna e ai loro legami con il mondo del lavoro.Il grado di centralismo dell'amministrazione costituisce la principale dimensione lungo la quale è possibile distinguere le forme di governo dei sistemi formativi (v. Hopper, 1968). Quello francese costituisce il prototipo dei modelli centralistici, nei quali i programmi didattici di ogni livello e tipo di istruzione, le procedure di esame, il calendario e gli orari di funzionamento, le soglie massime e minime di numerosità delle classi, la posizione giuridica e il trattamento economico del personale docente, così come una miriade di altri aspetti organizzativi, sono stabiliti dallo Stato e fatti (più o meno rigidamente) applicare, tramite i suoi organi periferici, in tutte le sedi scolastiche presenti sul territorio nazionale. L'Italia, la Grecia e il Portogallo sono altre nazioni europee con sistema scolastico centralizzato. L'Inghilterra, la Danimarca e gli Stati Uniti sono, all'opposto, paesi nei quali la scuola è tradizionalmente amministrata su base locale. Le autorità scolastiche di ciascuna collettività sono, almeno in linea di principio, libere di fissare gli obiettivi formativi, i percorsi didattici e le modalità di funzionamento delle rispettive istituzioni formative, così come le procedure di reclutamento degli insegnanti. I sistemi scolastici della Germania e della Svezia si configurano, infine, come casi intermedi tra i due estremi del centralismo e del decentramento. In questi due paesi i curricula dei vari indirizzi formativi, i sillabi di ciascuna disciplina e i livelli di preparazione professionale degli insegnanti sono fissati su base nazionale. Le amministrazioni locali e le singole scuole sono, però, libere di integrare variamente l'offerta didattica centrale.

Il carattere centralizzato o, invece, decentrato del governo di un sistema scolastico produce conseguenze rilevanti sulla sua flessibilità e, dunque, sulla qualità della sua offerta didattica. I sistemi centralizzati conoscono maggiori difficoltà di adeguamento alle mutate esigenze formative rispetto a quelli decentrati (v. Archer, 1979), a causa dei diversi meccanismi di cambiamento utilizzabili da ciascuno di essi. I sistemi centralizzati infatti sono riformabili solo tramite negoziazioni politiche, che risultano assai complicate, soprattutto là dove esistono un'elevata frammentazione delle rappresentanze parlamentari e forti orientamenti corporativi nei singoli gruppi di interesse. In questi casi le riforme educative presentano spesso lineamenti confusi, a causa dei faticosi compromessi di cui sono frutto. Inoltre, esse ambiscono quasi sempre a configurarsi come interventi rifondativi, difficili da realizzare compiutamente e in tempi ragionevoli. Infine, i provvedimenti legislativi assumono un andamento intermittente con lunghi periodi di immobilità tra l'uno e l'altro. Al contrario, i sistemi formativi decentrati adottano procedure di cambiamento di tipo incrementale che, in virtù della loro gradualità e della loro contenuta portata, risultano più agevoli da introdurre, più facili da valutare nelle loro conseguenze e, proprio per ciò, meglio in grado di produrre effetti durevoli e di vasta portata. Questa maggiore capacità innovativa dei sistemi scolastici decentrati è dovuta al fatto che, per cambiare il proprio assetto, essi possono ricorrere, oltre che alla negoziazione politica, a transazioni dirette tra responsabili scolastici e gruppi sociali e a iniziative autonome degli stessi insegnanti e capi di istituto. Per converso, nei sistemi scolastici decentrati è maggiore il rischio di disomogeneità territoriali nei livelli di apprendimento.

Al fine di conservare i vantaggi e di eliminare gli svantaggi insiti nei due modelli di amministrazione della scuola, si sono da tempo manifestate spinte verso l'adozione di sistemi intermedi. Così, nella generalità dei sistemi centralizzati sono state assunte iniziative, o sono allo studio programmi, per concedere maggiori autonomie didattiche e gestionali alle singole sedi scolastiche. D'altro canto, nei sistemi formativi decentrati sono stati fissati obiettivi formativi di fine ciclo identici per tutte le scuole di un dato ordine e indirizzo, e modalità standardizzate di esame per il conseguimento dei vari titoli di studio. Sotto il profilo della struttura interna, un'importante caratteristica differenziale degli attuali sistemi scolastici è costituita dal loro grado di apertura. Sono aperti quei sistemi che consentono di progredire lungo tutta la gerarchia degli studi, indipendentemente dal canale formativo di provenienza (v. Barbagli, 1974). La Danimarca, l'Italia, l'Inghilterra e la Svezia posseggono sistemi scolastici di questo tipo: qualunque sia la scuola secondaria superiore frequentata, si può liberamente scegliere l'indirizzo degli studi universitari da seguire. La Germania, l'Olanda e il Giappone posseggono, invece, sistemi scolastici variamente chiusi, nel senso che alcuni percorsi formativi impediscono di proseguire gli studi oltre il loro termine. La presenza di queste scuole a vicolo cieco ha, ovviamente, l'effetto di istituzionalizzare e rafforzare le disparità nelle chances formative dei soggetti provenienti dalle varie classi sociali.

La portata dei fenomeni selettivi e il peso delle origini sociali sulle opportunità di istruzione dipendono, però, anche dal grado di differenziazione orizzontale dei canali formativi e dalla loro collocazione rispetto all'inizio del processo educativo (v. König e altri, 1986). Si possono definire a forte differenziazione quei sistemi scolastici caratterizzati da una precoce articolazione degli indirizzi di istruzione (entro un medesimo ordine formativo) e da difficili passaggi dall'uno all'altro di essi. La maggioranza dei sistemi scolastici europei rientrano in questa categoria poiché: a) istituiscono nette distinzioni tra l'istruzione secondaria superiore di carattere liceale, quella di tipo tecnico e quella di natura professionale; b) in alcuni casi (ad esempio, la Germania, l'Olanda e l'Inghilterra) prevedono che anche il completamento dell'obbligo scolastico avvenga entro indirizzi formativi distinti; c) subordinano il trasferimento da un indirizzo all'altro al superamento di appositi esami di idoneità. La Svezia, gli Stati Uniti, il Canada e, più in generale, i paesi che solo di recente hanno costituito sistemi scolastici nazionali posseggono, invece, strutture formative orizzontalmente indifferenziate o, come si usa dire, onnicomprensive. In pratica, fino all'università tutti frequentano un medesimo indirizzo di studio. Le ragioni per cui un'elevata e precoce differenziazione dei percorsi formativi rende altamente selettivo un sistema scolastico sono molteplici. Innanzitutto, perché i canali formativi di élite forniscono, in genere, una preparazione migliore e più completa di quella garantita dagli indirizzi tecnici e professionali. In secondo luogo, perché alla formazione secondaria di carattere accademico, che ha come sbocco principale l'istruzione universitaria, si rivolgono soprattutto i rampolli dei gruppi sociali superiori, mentre i figli delle classi inferiori si dirigono in larga maggioranza verso quegli indirizzi che consentono anche di entrare nel mercato del lavoro. Infine perché quanto prima gli studenti sono costretti a scegliere il corso di studi da seguire, tanto maggiore è il rischio che essi assumano decisioni poco congruenti con le loro motivazioni e con i loro interessi conoscitivi. Per evitare almeno questo pericolo, alcuni sistemi scolastici un tempo a forte differenziazione orizzontale, come quello spagnolo, hanno di recente spostato in avanti il momento della scelta degli indirizzi formativi e introdotto orientamenti onnicomprensivi.

Il grado di professionalizzazione degli indirizzi formativi costituisce la variabile più importante per spiegare le differenze esistenti nei legami tra i sistemi scolastici nazionali e le rispettive strutture occupazionali. In linea di massima si può dire che in tutti i paesi l'università presenta un carattere professionalizzante e, all'opposto, la scuola dell'obbligo è istituzionalmente sottratta a questo tipo di responsabilità. Per stabilire in che misura un sistema scolastico sia collegato alla realtà occupazionale diventa, dunque, necessario prestare attenzione alle scuole secondarie superiori di carattere tecnico e professionale e alla vera e propria istruzione professionale di base. Da questo punto di vista, la Germania - grazie anche al suo sistema di formazione duale, fondato su una stretta collaborazione tra pubblica amministrazione, sindacati e imprese - rappresenta il paese con l'apparato educativo maggiormente connesso, in termini sostanziali e istituzionali, al mercato del lavoro. All'estremo opposto della Germania stanno l'Italia e l'Inghilterra, dove il grado di professionalizzazione del sistema scolastico risulta decisamente contenuto. Questi due paesi differiscono, tuttavia, tra loro per le caratteristiche della formazione professionale di base. In Inghilterra essa è del tutto esterna al sistema scolastico in quanto viene affidata direttamente alle imprese. In Italia è, invece, assegnata alle regioni ed è inserita in una sorta di sistema educativo parallelo a quello statale. I risultati di questa soluzione paiono meno efficaci non solo di quella tedesca, ma anche di quelle francese e svedese, nelle quali la formazione professionale di base fa parte integrante del sistema scolastico statale. Nel caso svedese, poi, i legami dell'istruzione con il mondo delle occupazioni sono favoriti anche da misure di sostegno all'alternanza tra partecipazione scolastica ed esperienze lavorative.

Si noti che un basso grado di professionalizzazione del sistema formativo comporta l'assenza di strette connessioni tra la preparazione scolastica e lo specifico ruolo lavorativo svolto, ma non di legami, anche intensi, tra grado di scolarità e posizione occupazionale raggiunta. In paesi nei quali vige un forte credenzialismo, il titolo di studio può agire, come si è ricordato, da strumento di monopolizzazione degli accessi ai livelli medi e superiori della struttura occupazionale, indipendentemente dalle caratteristiche sostanziali delle occupazioni poste in questi livelli. In tal caso, tuttavia, sono i sistemi di regolazione del mercato del lavoro, più che i modi di funzionamento del sistema scolastico, a essere chiamati in causa. (V. anche Educazione; Istruzione e sistemi scolastici; Socializzazione).

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