CONCA, Sebastiano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

CONCA, Sebastiano

Giuseppe Scavizzi

Figlio di Erasmo, commerciante e agente delle imposte, e di Caterina de Iorio, nacque a Gaeta l'8 genn. 1680 (1676, secondo De Rossi, 1786, ma vedi, anche per le altre notizie biografiche, Michel, 1981, pp. 25 ss.). Secondo l'anonima biografia manoscritta del nipote Tommaso, conservata nell'Archivio dell'Accademia di S. Luca, la famiglia avrebbe avuto origini spagnole; è documentata a Gaeta agli inizi del secolo. Intorno al 1690 il C. andò a Napoli e fu messo nella bottega del Solimena, sotto il quale passò non meno di tre lustri. Qui collaborò naturalmente con il maestro, il quale addirittura "impiegato lo volle nell'abbozzare i propri dipinti" (Elogio..., 1775), ma contemporaneamente produsse anche in proprio tele di piccolo formato e cicli di affreschi.

Questo primo periodo napoletano è però ancora avvolto nell'oscurità; le uniche opere sicuramente dì quegli anni sono tre tele per la cappella del Battista a Montecassino, databili a prima del 1707, che andarono distrutte nell'ultimo conflitto mondiale; le fotografie sembrano comunque indicare che i suoi modi già in questa fase si allontanano dall'accademismo del maestro, e specialmente rifiutano il troppo intenso plasticismo, e luminismo di quello a favore di forme chiare e sgranate, immerse in un paesaggio di origine arcadica e classica (ill. 1a-1c, in catal., 1981, p. 89).Il C. si spostò quindi a Roma: nel 1706 secondo il De Dominici (1742), 0 1707 secondo il Pio (1724) e l'abate Gattola, citato da Iannitti (1979). Al suo arrivo l'artista iniziò subito, com'era consuetudine del tempo, a esibir quadri nelle mostre tenute annualmente in varie chiese; il Pascoli (in catal., 1981, p. 400) testimonia di una mostra del genere tenuta con grande successo in S. Salvatore in Lauro. L'ipotesi che al suo arrivo il C. abbia abbandonato la pittura per applicarsi al disegno, suggerita da alcuni biografi, va senz'altro rigettata, dovendosi ritenere, invece sulla scia del Clark (1967), che si tratti di una leggenda nata sotto l'influsso delle dottrine neoclassiche. Lo stesso Clark nota del resto come le prime opere romane del C. non si distacchino dallo stile dei perduti dipinti di Montecassino, e che la maniera del pittore non mutò drammaticamente dopo il 1706.

La produzione del C. in questi anni comunque non fu imponente, come diverrà più tardi, e anteriormente al 1720 solo poche opere sono databili con certezza.

Fra queste sono: l'Adorazione dei Magi del Museo di Tours (1707); le due Allegorie della Gall. Spada di Roma, non datate, ma di sicuro eseguite prima del 1710; due tele di soggetto profano in collezioni private recanti la data del 1715 (Clark, 1967; Sestieri, 1970); alcune pitture in chiese di Roma, come il Geremia in S. Giovanni in Laterano (1718), e le tele e gli affreschi della chiesa di S. Clemente (Madonna del Rosario, 1714, e un Miracolo di s. Domenico, eseguiti per il cardinale T. M. Ferrari; un Miracolo di s. Clemente che è uno degli otto affreschi affidati agli artisti più in vista del momento durante i restauri della chiesa, 1701-1719, voluti da Clemente XI).

In questo primo ciclo di opere gli agganci già scarsi alla tradizione solimenesca sono presto dimenticati. Il Miracolo di s. Domenico in S. Clemente ha una nobile e severa grandezza che ricorda il Sacchi; e in genere si può affermare che il classicismo delle composizioni religiose è soprattutto marattesco, mentre l'esecuzione con il suo disegno elegante e il tonalismo fine e intimista riecheggia Chiari, Passeri e Luti. I richiami alle tendenze più aggiornate della tradizione giordanesca a Napoli e a quella del Ricci sono egualmente presenti; e sebbene il rapporto sia spesso difficile da provare in modo puntuale, lo stile del C. prima del 1720 si incontra con quello di pittori napoletani come D. A. Vaccaro, G. del Po, P. de Matteis, e veneziani come Balestra, Amigoni e Trevisani.

Una differenza naturalmente è avvertibile tra le opere di grande formato e le opere di cavalletto (e anche qui il C. partecipa vivamente alle tendenze del tempo): le prime sono maggiormente marattesche, mentre le seconde, con le loro atmosfere intimiste, arcadiche, raccolte, sono piuttosto nello spirito del nascente stile rococò. Le Allegorie Spada o le telette del 1715, sopra citate, sono esempi straordinari della seconda maniera. Proporzioni, spazio e luce perdono le qualità naturalistiche che la tradizione del classicismo seicentesco aveva sempre rispettato; la visione si fa soggettiva, atmosferica, sognante. Spesso le forme sfaccettate, minute e porcellanose anticipano direttamente quelle di C. Giaquinto. Non è dubbio che questo nuovo genere era ciò che presto avrebbe attirato al C. tante simpatie da parte del collezionisti di tutta Europa.

Il riconoscimento arrivò per tempo: dopo il 1710 molte composizioni del C. vennero incise; ammesso nella Congregazione dei Virtuosi al Pantheon nel 1714, il 9 ott. 1718 fu eletto accademico di S. Luca (Michel, 1981, pp. 375, 388 s.) e a partire dal '20 circa la sua fama era stabilita. Cominciarono a piovere le richieste di opere da ogni parte d'Italia. Attraverso Iuvarra ottenne commissioni per i reali piemontesi: dal 1721 al '24 per la Venaria, nel 1726 per Superga e in seguito per il palazzo reale di Torino, per l'oratorio di S. Filippo nella chiesa omonima, per la chiesa di S. Teresa (Schede Vesme, 1963; Griseri, 1963). Il cardinale Acquaviva, ambasciatore di Spagna, gli procurò l'importante commissione del soffitto per S. Cecilia in Trastevere nel 1721; i cartoni furono inviati alla regina di Spagna, e il modello al duca di Parma. Il successo dell'opera spinse quest'ultimo, e il cardinale, a concedere al pittore un appartamento nel palazzo Farnese, dov'egli nel 1725 trasferì lo studio e stabilì la scuola che aveva aperto, secondo la testimonianza dell'Orlandi (1719; vedi anche Michel, in catalogo, 1981, p. 39) fin dal 1712: questa accademia privata, spesso menzionata dai visitatori, era ben seguita e senz'altro contribuì a divulgarne il nome (catal., 1981, p. 400).

II C. ricevette la protezione del cardinale Pietro Ottoboni per il quale eseguì molte commissioni e che lo insignì nel 1729 del titolo di cavaliere dello Speron d'oro; fu anche favorito da Benedetto XIII Orsini per tutta la durata del suo pontificato. Fra il 1729 e il 1731 fu, per la prima volta, principe dell'Accademia di S. Luca, e da questo momento divenne figura pubblica di primo piano. Sovraintese alla riorganizzazione dell'Accademia e delle sue collezioni, e alla decorazione della chiesa dei SS. Luca e Martina (1731), alla quale egli stesso contribuì attivamente con la donazione di varie opere d'arte; per la cappella dell'Assunta nella stessa chiesa egli eseguì anche una pala d'altare nel 1740 ed elaborò un progetto di decorazione che non sembra sia stato portato a termine (sulla proprietà di quella cappella, che il C. considerava cappella di famiglia, sorgerà un contenzioso che durerà per molti anni dopo la morte del pittore: vedi K. Noehles, La chiesa dei SS. Luca e Martina..., Roma 1969, ad Indicem).Dall'agosto del 1731 fino al giugno 1732 compì un trionfale viaggio in Toscana che lo portò a Siena, dove lavorò all'affresco della Probatica piscina, nella chiesa dell'ospedale della Scala, quindi a Firenze e a Livorno.

Nel 1732 presiedette la commissione per il concorso per la facciata di S. Giovanni a Roma; nel 1735 ricevette dallo luvarra la prestigiosa commissione della Religione per S. Ildefonso a Torino. Dal 1739 al 1741 fu per la seconda volta principe dell'Accademia di S. Luca; in questo momento pare essersi interessato di questioni teoriche e scrisse gli Ammonimenti, opera di scarsa originalità ma interessante per conoscere le sue idee sul tirocinio artistico (M. Missirini, Memorie... della romana Accademia di S. Luca, Roma 1821 pp. 214-219; catal., 1981, pp. 396-398). Le commissioni pubbliche si susseguivano senza sosta: intorno al 1730 il cardinale A. F. Zondadari commissionò al C. un episodio della propria vita (Incontro con Filippo V, a Roma, Galleria nazionale d'arte antica: Sestieri, in catal. 1981, pp. 174 ss.); del 1741 è la Nascita della Vergine, firmata e datata, per la Madonna della Misericordia a Macerata; la Madonna e santi in SS. Lorenzo e Damaso a Roma, cappella Ruffo, è databile a poco prima del 1743 (Sestieri, 1981, p. 282); del 1746 è la Madonna della Pinacoteca di Spoleto; al 1746-47 è databile l'affresco con la Allegoria delle scienze nella Bibl. Corsiniana di Roma (catal., 1981, p. 300, ill. 108; Borsellino, 1981); del 1749 sono i perduti affreschi della sacrestia di Montecassino. Né il C. si tirava indietro: afferma il De Rossi (1786) che "egli era continuamente occupato, e la vastità, o la molteplicità delle opere non lo atterriva".

Questo enorme successo si fondava naturalmente su concrete qualità del C., anzitutto su un'attività delle più feconde; in secondo luogo l'artista fu in grado di porsi, in una città che era ancora al centro di un'intensa vita artistica dal punto di vista delle commissioni pubbliche, come vero erede, continuatore e aggiornatore della tradizione della decorazione monumentale del Maratta, nella vena un po' compromissoria di quello che è ormai comunemente definito come "classicismo barocco"; infine, il C. era riuscito a sviluppare uno stile con molte sfumature, adattabile a vari generi e formati, aperto alle più varie destinazioni ed esigenze delle commissioni del tempo.

L'Adorazione dei Magi della chiesa dell'Annunziata di Gaeta (firmata, 1720) segna un punto d'incontro fra la tradizione del colore e del gesto esuberante di un protorococò napoletano e veneto con le maniere più composte di Maratta e soprattutto Chiari. Le due tele per la cappella della Venaria (Madonna con Bambino e s. Carlo Borromeo; Madonna con Bambino e s. Francesco di Sales;pagamenti dal 1721 al 1725 [Schede Vesme, 1963, p. 358]), il Miracolo di s. Toribio della Pinacoteca Vaticana (datato 1726) e la Madonna con s. Carlo Borromeo (firmata e datata 1728) della Pinacoteca di Ascoli Piceno sembrano anch'esse combinare un marattismo di fondo con effetti di leziosità epidermica, intimista, con più di un tocco di sentimentalismo. Il Trionfo di s. Cecilia, realizzato per la chiesa romana di S. Cecilia (iniziato intorno all'anno 1721 e terminato alla fine del 1724; bozzetto a Firenze, Uffizi: Sestieri, 1981, pp. 148-151), riprende l'idea marattesca di palazzo Altieri ma abbandona ogni ricerca di razionale interazione delle figure, di chiaro bilanciamento delle masse e di architettonico senso dello spazio per effetti di ricchezza di forme e di florido pittoricismo. Opera indubbiamente innovatrice, il soffitto venne esaltato già nel Settecento ed è ai nostri giorni considerato giustamente il più importante soffitto rococò a Roma: ciò ha il suo peso in una scuola dove la decorazione illusionistica aveva tanta importanza. Questa tendenza a trasformare e aggiornare il classicismo barocco in uno stile rococò, che è visibile specialmente nel decennio 1725-35, traspare anche da quello che è ritenuto spesso il capolavoro del C., la Probatica piscina della chiesa dell'ospedale della Scala a Siena (terminata nel 1732; vari bozzetti a Siena nella collezione Chigi Saracini) che parte dall'abside di S. Ignazio del Pozzo ma perviene nella parte alta dell'affresco a effetti di luminose trasparenze non indegni della migliore tradizione veneziana (l'opera fu ammirata da C. de Brosses che la cita in una lettera del 1739: Viaggio in Italia..., Bari 1973, p. 230).

Come per gli anni che precedono, le vette più alte sono raggiunte in opere da cavalletto di dimensioni modeste. Qui, con tecnica bozzettistica e fortemente abbreviata, con una circolarità di segno e un impasto liquido che discendono probabilmente dalla conoscenza della contemporanea pittura francese, il C. crea straordinarie e incantevoli visioni dove il carattere religioso del soggetto e il tono drammatico della narrazione si stemperano in puro lirismo. Esempi ne sono il bozzetto della collezione M. Mayers, New York, con il Martirio di s. Erasmo (1729), costruito in forme lievi e luminose; il bozzetto con Riposo in Egitto, già a Londra, Galleria Colnaghi, le cui figure quasi si dissolvono nell'atmosfera campestre e arcadica; il piccolo rame dello stesso soggetto della collezione Brinsley Ford di Londra (firmato e datato 1738), così tipico nella sua levità arcadica e anche un po' manierata da parere al Clark (1967) come un'epitome di "tutto ciò che v'è di più incantevole nelle arti minori della Roma del Settecento" (per i due ultimi, vedi Sestieri, 1981, pp. 212 s.).

Si sa che questi quadri piccoli erano avidamente collezionati, come testimonia il De Dominici a proposito dei molti che ne possedeva il cardinale Ruffa e che erano specialnente le opere di piccolo formato a rendere famoso il Conca. Come è stato notato più di una volta, dal 1730 al 1750 gli stranieri in viaggio per l'Italia notavano solo Trevisani a Roma, Tiepolo a Venezia e Solimena a Napoli come rivali del C.; "il suo impiego da parte dei committenti stranieri era secondo solo a Tiepolo ma probabilmente più lucrativo, ed egli riceveva un numero di gran lunga maggiore dì commissioni individuali" (Clark, 1967). Il De Dominici (1742) parla di opere nelle gallerie di molti patrizi romani, e in effetti diverse quadrerie, come quelle dei cardinali Ruffo e Acquaviva, possedevano numerose sue opere; altre opere raggiungevano Palermo e Messina, Genova e Torino, Loreto e Gaeta ("non v'ha forse città in Italia, che non abbia al pubblico qualche suo quadro", afferma il De Rossi, 1786); altre erano inviate all'estero, specialmente in Inghilterra, ma anche in Spagna e Portogallo, Austria e Germania e Polonia, e ancora il De Rossi notava con stupore che le sue opere giungevano fino in America. Un esempio dell'ammirazione di un "forestiero" per l'arte del C. era dato da Thomas Coke, conte di Leicester, uno del grandi connoisseurs della sua generazione, il quale avendo conosciuto il C. a Roma nel 1716, in vari periodi - dal 1716 al 1753 - formò poi quella che era la miglior collezione di opere del C. fuori d'Italia, e che ancora fa mostra di sé negl'intatti ambienti di Holkham Hall (Clifford, 1977).

Forse stanco di tanta attività e di tanto successo., il C. intorno al 1752 ritornò a Napoli. Si stabilì allora a Gaeta dove durante tutta la sua lunga vita non aveva mancato, di tanto in tanto, di soggiornare. A Napoli sono documentati (1752-55) importanti affreschi in S. Chiara, distrutti nella seconda guerra mondiale; specie nel riquadro centrale, in una complessa struttura architettonica che era un culmine nella tradizione scenografica napoletana, il C. aveva creato uno sfondato ricco dei più straordinari effetti illusionistici, un'opera se non più fine certo più risonante dello stesso Trionfo di s. Cecilia. Con l'appoggio del Vanvitelli ottenne la commissione di cinque tele dipinte nel 1756-59 per la cappella palatina di Caserta (distrutte). In questi ultimi anni vengono recuperate da vari luoghi del Regno di Napoli, ivi compresa la Sicilia, le opere tarde del C. nelle quali è spesso sensibile un declino qualitativo (Spinosa, 1981, pp. 74-86).

Il De Rossi (1786), che da angolazione neoclassica aveva sempre giudicato con sospetto il fatto che "l'inventare non gli costava la più piccola fatica", affermava che il C. nella sua vecchiaia si era abbandonato "ad uno stile di mera pratica", attribuendo questo a "lo strapazzo, e la stanchezza dell'età". II 1o sett. 1764 il C. morì a Napoli, e venne quindi sepolto a Gaeta.

Negli ultimi anni, recuperato il significato della sua opera grafica, il percorso del C. disegnatore è apparso grandemente chiarificato dagli studi del Vitzthum (1966, 1967); anche in questo campo si è delineato un percorso che partendo da uno stile ancora memore del Solimena, seppure più pittorico e libero (quattro disegni a Holkham Hall, circa 1715), raggiunge risultati di grande fluidità atmosferica pervenendo a una "più soffusa, quasi rarefatta sensibilità di segno" (Sestieri, 1976) dal 1720 in poi (ad esempio, nella Madonna, circa 1723 e nel Cristo benedicente, del 1741, entrambi agli Uffizi). Molte sue opere vennero incise, particolarmente da Giacomo Frey, e fra queste alcuni ritratti come quello di Benedetto XIII, del cardinale Passionei, di A. Albani, di G. M. Lancisi. Un Autoritratto del C. che accompagnava originariamente le Vite del Pio è al Museo naz. di Stoccolma (A. Clark, in Master Drawings, V[1967], p. 12); un altro Autoritratto a olio è agli Uffizi (circa 1732); un altro, tardo, all'Accademia di S. Luca (1763). Per tutta la sua vita il C. "ebbe tanti scolari nel suo studio, che quasi impossibile sarebbe il numerarli" (De Rossi, 1786); fra questi furono R. Mengs, G. Lapis, G. Ranucci, C. Giaquinto e il nipote Tommaso.

Fonti e Bibl.: Fondamentale il catal. della mostra di Gaeta, 1981, dove si trovano, tra l'altro, regesto, documenti, fonti e bibl.; ma vedi anche: P. A. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna 1719, p. 390 (vedine anche la trascrizione di G. M. Gaburri, con aggiunte manoscritte verso il 1740, in catal., 1981, p. 395); N. Pio, Le vite de' pittori, scult. e archit. [1724], a cura di C. e R. Enggass, Roma 1977, pp. 145, 234, 296 s.; L'eccell. delle tre nobili e belle arti... dimostrata nel Campid. dall'insigne Accademia di S. Luca..., Roma 1729, p. 9; L. Pascoli, Vita di Bastiano C., a cura di A. Rossi, in Giorn. di erudiz. artistica, III (1874), pp.65-76 (anche in catal., 1981, pp. 400-403); F. Valesio, Diario di Roma... [1729-1742], a cura di G. Scano, V-VI, Roma 1979, ad Indicem;B. De Dominici, Vite de' pittori... napoletani III, Napoli 1742, pp. 664-666; F. Moücke: Museo Fiorentino che contiene i ritratti..., IV, Firenze 1762, p. 247; Bologna, Accademia di belle arti: Atti dell'Accad. 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