SERVITÙ

Enciclopedia Italiana (1936)

SERVITÙ

Giuseppe GROSSO
Luigi RAGGI
*
Manlio UDINA

. Con questo termine si indicano modernamente sia le servitù secondo la tradizionale definizione accolta nella compilazione giustinianea (servitù prediali e personali), sia altri istituti (servitù legali), che i Romani non configuravano come servitù, tra i quali occupano - specialmente oggi - un largo posto le servitù di diritto pubblico, amministrative, militari; sia, anche, nel campo del diritto internazionale, le restrizioni della sovranità statuale concernenti direttamente il territorio (servitù internazionali).

Diremo di esse partitamente.

Servitù prediali.

Le servitù prediali sono diritti reali, di contenuto limitato, che gravano su un fondo (detto servente) e vengono stabiliti per l'utilità di un altro fondo (detto dominante).

Il nome originario, nel diritto romano, era quello di iura praediorum. In quanto si vide in questi iura un concetto comune di asservimento di un fondo a un altro fondo, ne derivò il nome di servitus; di praedia serva e di servire, parla già Cicerone.

Nel diritto giustinianeo, accanto a questa categoria di servitutes (servitutes praediorum), troviamo designati col nome di servitù personali (servitutes personarum) altri diritti sulla cosa altrui costituiti nell'interesse di una persona (usufrutto, uso, abitazione, opere degli schiavi e degli animali); così la categoria delle servitù venne ad abbracciare tutti i principali e più antichi diritti reali sulla cosa altrui, quelli che si erano formati nell'antico ius civile. Ma questo concetto ampio di servitus, che configura un servire della cosa alla persona, parallelo al servire del fondo al fondo, dal punto di vista sistematico lascia alquanto a desiderare, in quanto le due categorie vengono puramente a identificarsi nel concetto di iura in re aliena (nel diritto giustinianeo si trova un accenno non svolto ad abbracciare nel concetto di servitus anche la superficie: Dig., XXX, de leg. e. fid., 86, 4): tale sistematica è dovuta alla mentalità teorizzante dei Bizantini (un recente tentativo di scorgerne un precedente in Marciano, non pare felice).

Il concetto delle servitù personali (che ancora sussiste in alcune legislazioni) fu, per ragioni storiche contingenti, abbandonato dal codice napoleonico, e sul suo esempio dal codice civile italiano; l'infelicità di esso fa auspicare che sia completamente abbandonato dalla dottrina.

La categoria delle servitù prediali nel diritto romano si è formata progressivamente; dapprima si ebbero poche figure determinate; se ne aggiunsero altre, e si andarono poi moltiplicando.

Il regime della proprietà era anticamente regolato in modo da garantire nel modo più ampio la reciproca indipendenza dei fondi; assicuravano questa indipendenza i limites e i fines che circondavano l'ager limitatus, la figura tipica originaria di fondo in proprietà; l'ambitus (regolato dalle XII Tavole), che correva intorno a ogni edificio (insula) e ne faceva un ente isolato.

Le servitù si presentano come istituto proprio del diritto romano: il diritto greco sembra ignorarle.

Le servitù più antiche sono quelle di passaggio (che in epoca storica sono tre distinte: iter, actus, via) e quella di acquedotto (presa e conduttura d'acqua); esse sono nate nei rapporti tra i fondi per i bisogni dell'agricoltura. Un altro gruppo di iura sorse nella città, nei rapporti tra gli edifici; la pratica di case contigue, che probabilmente si sviluppò a partire dalla ricostruzione di Roma dopo l'incendio gallico, l'uso di case a più piani, che ricevette incremento dall'aumento della popolazione, soprattutto a partire dall'epoca della seconda guerra punica, fecero sentire la necessità di regolare i rapporti di vicinanza con l'introduzione di nuovi tipi di iura, i quali vennero a rappresentare una categoria parallela a quelli sorti nei rapporti tra i fondi rustici. Si ebbero, così, le due categorie degli iura praediorum rusticorum e degli iura praediorum urbanorum, abbracciate dall'unico concetto di servitus; e anche la prima si venne accrescendo con l'aggiungersi di nuove figure, tra cui abbastanza antico è l'aquae haustus.

Molto discusso è il problema dell'origine delle servitù. Chi le ha volute far derivare da rapporti obbligatorî; chi dal regolamento convenzionale delle limitazioni legali della proprietà; chi le collega all'opera dell'arbiter familiae erciscundae nella divisione. La congettura che ha per sé il più alto grado di verosimiglianza, è quella secondo la quale la concezione delle prime servitù, come iura sulla cosa altrui, sarebbe stata preceduta dal concetto, più consono alla mentalità di un popolo primitivo, che la porzione destinata alla servitù (la striscia di terreno su cui si passava, il rivo dell'acqua) appartenesse al proprietario del fondo a cui serviva, come ammennicolo della proprietà del fondo. Il fatto che le servitù rustiche sono res mancipi, il significato dei termini iter, actus, via, aquae ductus, usati promiscuamente a indicare sia la servitù sia l'oggetto materiale, la mancipatio delle servitù rustiche, l'antica vindicatio delle servitù, l'antica usucapio, abolita dalla lex Scribonia, sono argomenti abbastanza probanti per un'originaria identificazione della servitù con la porzione di fondo su cui si esercitava. L'obiezione, che ne sarebbe derivato uno strano e dannoso spezzettamento dei fondi, si potrebbe superare, per la servitù di passaggio, ammettendo una comunione (secondo il concetto originario di questa, come proprietà plurima integrale); del resto, va notato che l'acquedotto rappresenta realmente un'entità materiale a esclusiva disposizione del titolare della servitù.

Svoltosi il concetto di questi diritti come iura sul fondo altrui; sorte, in rapporto alle circostanze indicate, le servitù urbane, aggiuntesi nuove figure al primo gruppo di servitù rustiche, si venne formando un'ampia categoria di servitù e se ne vennero delineando i caratteri fondamentali. Nuove esigenze importavano sempre tuttora la creazione di nuovi tipi, e la giurisprudenza vi riconosceva il carattere di servitù. Le servitù erano sorte come diritti tipici; non si era formato, cioè, il tipo della servitus, a cui i privati potessero dare (entro i limiti generali della sua definizione) qualsiasi contenuto, ma singoli tipi di servitutes, dapprima in numero assai limitato, che si andò poi accrescendo. La posizione della giurisprudenza romana nella creazione del diritto, spiega come tale moltiplicazione dei tipi di servitù, adeguata alle esigenze della vita, potesse avvenire conservando nel diritto la tipicità delle servitù. Ma, d'altra parte, emergendo i caratteri generali, in base ai quali avveniva il riconoscimento da parte della giurisprudenza, il passo a superare la tipicità e assurgere alla categoria della servitus con libera determinazione del contenuto era breve. Da alcuni testi risulta che i Romani avrebbero compiuto questo passo; d'altra parte, però, la trattazione delle servitù, e la sistematica su cui poggia, risente dello sviluppo storico, caratterizzato dalla progressiva formazione di nuovi tipi, ed è ancora fondamentalmente ispirata alla tipicità.

Fondamentale rimase nel diritto romano la distinzione fra servitù rustiche e urbane. Originariamente la distinzione fra praedia rustica e urbana doveva dipendere dall'ubicazione dei fondi. Ma, resosi promiscuo l'uso delle diverse servitù in campagna e in città; trasformatosi il significato della distinzione tra praedia urbana e rustica, nel senso che i primi erano gli edifici; ammesse servitù rustiche a favore o a carico di edifici, l'antico criterio discretivo fra servitù rustiche e urbane si è oscurato. Rimasero rustiche o urbane le servitù che erano sorte come tali; le altre venivano assegnate all'una o all'altra categoria; e si cercò di formulare il criterio di distinzione collegando le servitù urbane agli edifici. Non rispondono alla concezione romana i tentativi di far dipendere il carattere di servitù urbana o rustica, in concreto, dalla qualità del fondo dominante o servente.

La distinzione tra servitù rustiche e urbane conservò un'importanza in rapporto agli effetti giuridici: le prime (secondo alcuni, solo le quattro più antiche) erano res mancipi, e si potevano costituire a differenza delle seconde anche mediante mancipatio; le prime si estinguevano per non usus, le seconde richiedevano l'usucapio libertatis.

Fra le servitù rustiche ricorderemo, oltre alle quattro più antiche, l'aquae haustus, il pecoris ad aquam adpulsus, le servitù harenae fodiendae, cretae eximendae, calcis coquendae. Fra le urbane la servitus cloacae, la servitus tigni immittendi, la servitus oneris ferendi, la servitus ne altius tollatur, ecc.

Gli elementi, i requisiti e il regime delle servitù nel diritto romano si possono riassumere in questi cenni. La servitù richiede l'esistenza di due fondi, quello su cui grava (fondo servente), quello a favore del quale è costituita (chiamato dagl'interpreti, con locuzione estranea alle fonti romane, fondo dominante); titolare della servitù è il proprietario del fondo dominante, e la servitù è inseparabile dalla proprietà del fondo, così che è presentata come una qualitas fundi, negativa per il fondo servente, positiva per il fondo dominante; e non se ne può neppure cedere l'esercizio (il rigore di questo principio, che del resto si è affermato progressivamente, è stato attenuato nel diritto giustinianeo). Oggetto di servitù non può essere un fondo extra commercium; in rapporto al fondo dominante troviamo menzione di servitù a favore dei sepolcri, le quali si ricollegano allo ius sepulchri, cioè al rapporto che lega i sepolcri ai privati. Fondo dominante e fondo servente non possono appartenere allo stesso proprietario (nemini res sua servit); ciò non è che una conseguenza del carattere assoluto della proprietà. È disputato se la servitù potesse sussistere a carico o a favore di un fondo nullius; per il fondo servente la risposta dev'essere affermativa; per il dominante, negativa. Il contenuto della servitù deve presentare un'utilità per il fondo dominante; finché le servitù sono figure determinate, in numero limitato, il diritto, col riconoscere determinati contenuti di servitù, vi riconosce e tutela determinate utilità dei fondi, e occorrerà che l'utilità rappresentata dal contenuto della servitù sia destinata al fondo dominante; col moltiplicarsi delle servitù, in quanto emergono i caratteri e i criterî generali che ispirano il riconoscimento, si delinea anche da un punto di vista più generale questo concetto dell'utilità per il fondo dominante, che fa sì che il contenuto della servitù rappresenti realmente un servizio al fondo e non alla persona, e troviamo nelle fonti anche enunciazioni di carattere generale (Dig., VIII, 1, de servit., 15 pr.). È discusso se esistesse anche un particolare requisito di vicinanza dei fondi; ma, dove viene in considerazione, la vicinanza rientra puramente nella valutazione di quegli elementi da cui risulta che il servizio è destinato al fondo; è quindi subordinata al requisito più ampio dell'utilità.

Il contenuto della servitù non poteva consistere in un facere del proprietario del fondo servente, ma soltanto in un pati (servitù affermative) o in un non facere (servitù negative), in quanto si riteneva che un vincolo di facere investisse la persona, esprimesse quindi un rapporto obbligatorio (servitus in faciendo consistere nequit); la intentio della formula della vindicatio servitutis affermava una facoltà del titolare della servitù o negava una facoltà al proprietario convenuto, sulla cosa. L'eccezione che si ammise per la servitus oneris ferendi, in cui la refectio parietis spettava al proprietario del fondo servente (il che fu oggetto di disputa tra Gallo Aquilio e Servio) non trovava espressione nell'intentio, ma verosimilmente veniva desunta dall'interpretazione della clausola restitutoria, in rapporto al concetto che oggetto della servitù era un paries idoneus.

La servitù non poteva essere costituita ad tempus; nel diritto giustinianeo si ammise però l'exceptio doli vel pacti, scaduto il termine. Non era necessario, invece, che la servitù presentasse una perpetua causa, come risulterebbe da un malaccorto glossema in Dig., VIII, 2, de servit. praed. urb., 28. Essa è un particolare requisito delle servitù che hanno per contenuto l'utilizzazione di acqua.

La servitù è diritto indivisibile.

Nel diritto romano classico le servitù rustiche si potevano costituire, come si è detto, mediante mancipatio; tutte, mediante in iure cessio o legato per vindicationem, mediante retentio nella mancipatio, nella in iure cessio o nel legato di un fondo, per adiudicatio dell'arbiter nel iudicium familiae erciscundae o communi dividundo. Trattandosi di res incorporales, di cui non si concepiva il possesso, non erano ammesse la traditio e l'usucapio; quest'ultima, ammessa in antico, fu poi abolita.

Iure civili le servitù si potevano costituire soltanto sul suolo italico o avente lo ius italicum, che era oggetto di proprietà privata ex iure Quiritium; sui fondi provinciali, come non esisteva, iure civili, proprietà, così neppure si potevano costituire servitù; ma, parallelamente alla tutela della cosiddetta proprietà provinciale, venivano tutelati dal magistrato rapporti di servitù costituiti pactionibus et stipulationibus. L'interpretazione di questa espressione dà luogo a difficoltà; e si discute anche se iure praetorio si tutelassero rapporti di servitù costituiti in questo modo sul suolo italico.

Nel diritto giustinianeo, scomparse la mancipatio e la in iure cessio, la costituzione pactionibus et stipulationibus divenne generale. Intanto, corrispondentemente al formarsi del concetto di una quasi possessio o possessio iuris (derivato da una trasformazione del concetto classico della quasi possessio rei utendi fruendi causa, nell'usufrutto), si configurava nel diritto giustinianeo un concetto di traditio o patientia servitutium. Inoltre si ammette la retentio anche nella traditio. Prendendo lo spunto da una presunzione di esistenza della servitù, che i Romani ammettevano sulla base dell'esercizio da tempo immemorabile per l'acquedotto (e pure per qualche altro caso particolare), i compilatori ammisero la longi temporis praescriptio delle servitù. Inoltre nel diritto giustinianeo tende ad affermarsi, sebbene in casi sporadici, con una portata più ampia, una costituzione tacita di servitù (oltre che sul fondamento della necessità) sulla base del precedente stato di servizio; nel diritto classico soccorreva, caso per caso, il pretore.

Le servitù si estinguevano anzitutto con atti corrispondenti a quelli con cui si costituivano, mancipatio (solo le rustiche), o in iure cessio al dominus del fondo servente; si estinguevano per il venir meno del fondo dominante o servente, o dello stato di cose necessario all'esistenza e all'esercizio della servitù (salvo talora la possibilità di risorgere), si estinguevano per confusione quando fondo dominante e fondo servente si venivano a trovare in proprietà dello stesso proprietario; si estinguevano per non usus le servitù rustiche, per usucapio libertatis le servitù urbane, per il tempo della prescrizione acquisitiva degl'immobili.

L'actio in rem che spettava a tutela delle servitù, è, come quella a difesa dell'usufrutto, chiamata dai Bizantini actio confessoria (per ribadire l'unità della servitus secondo il concetto lato dei Bizantini); quella che spettava al dominus per negare l'esistenza della servitù è chiamata negatoria. La legittimazione passiva nella vindicatio servitutis è oggetto di discussione; il problema viene anche a riconnettersi con quello più generale della costruzione degli iura in re aliena.

Attraverso l'elaborazione del diritto comune, la dottrina romana delle servitù si è trasmessa al diritto moderno.

La tipicità, già nel fatto superata nel diritto romano classico, e in modo più accentuato nel diritto giustinianeo, è completamente abbandonata. Il codice civile italiano all'art. 616 dispone: i proprietarî possono stabilire sopra i loro fondi o a benefizio di essi qualunque servitù, purché sia solamente imposta a un fondo e a vantaggio di un altro fondo e non sia in alcun modo contraria all'ordine pubblico. Rimangono nella pratica rilevanti alcuni tipi più comuni, che sono in gran parte quelli già esistenti nel diritto romano, e per questi il codice detta norme, che hanno in gran parte carattere dispositivo (art. 616 cap.).

È disputato se e fino a che punto il principio romano servitus in faciendo consistere nequit conservi efficienza nel diritto italiano, come inerente al carattere del diritto reale, o almeno delle servitù. L'eccezione, che indirettamente, attraverso la clausola restitutoria, in rapporto a una particolare interpretazione dell'oggetto della servitù, nel diritto romano s'introdusse per la refectio parietis nella servitus oneris ferendi, può oggi, in forza del titolo, trovare applicazione in tutte le servitù (art. 641 c. civ.); è sempre salva al proprietario del fondo servente la facoltà di liberarsi dall'onere delle spese abbandonando il fondo al proprietario del fondo dominante (art. 643). È discusso se si ammetta soltanto che si possa costituire un obbligo di facere come onere reale accessorio di una servitù, oppure si possa anche convenzionalmente stipulare come oggetto autonomo di servitù un facere.

La distinzione tra servitù rustiche e urbane, che già nel diritto romano poggiava soprattutto su ragioni storiche, ha perduto importanza; fondamentali sono divenute, invece, la distinzione fra servitù continue e discontinue, e quella fra servitù apparenti e non apparenti, che erano ignote al diritto romano. La prima fu elaborata, in rapporto all'acquisto per prescrizione, sullo spunto di un brano interpolato di un passo di Paolo (Dig., VIII, 1, de servit., 14 pr.) e della famosa legge foramen, pure di Paolo (Dig., VIII, 2, de servit. praed. urb., 28); la distinzione elaborata dalla glossa trovò una chiara formulazione in Bartolo; benché sottoposta poi a una critica negativa sulla base di una retta esegesi dei testi romani, rimase fondamentale, sorretta dalla pratica, e fu accolta dal codice francese e dai posteriori; il criterio di distinzione è così formulato nell'art. 617 del codice civile italiano: continue sono quelle il cui esercizio è o può essere continuo senza che sia necessario un fatto attuale dell'uomo; discontinue sono quelle che richiedono un fatto attuale dell'uomo per essere esercitate. Introdotta dagl'interpreti, soprattutto a scopi pratici, anche la distinzione fra servitù apparenti e non apparenti ha, nel diritto italiano, importanza fondamentale; così è formulata nell'art. 618 del codice civile: apparenti sono quelle che si manifestano con segni visibili, come una porta, una finestra, un acquedotto; non apparenti sono quelle che non hanno segni visibili della loro esistenza, come il divieto di fabbricare sopra un fondo o di non fabbricare che a un'altezza determinata.

Queste distinzioni si sono affermate e svolte soprattutto in rapporto all'acquisto delle servitù per prescrizione, ed è questa la loro principale efficacia; mentre tutte le servitù si stabiliscono mediante titolo, soltanto le servitù continue e apparenti si acquistano mediante prescrizione trentennale. E così soltanto le servitù continue e apparenti s'acquistano per destinazione del padre di famiglia. Sullo spunto degli sporadici accenni, nelle fonti giustinianee, di una costituzione tacita di servitù sulla base dello stato di servizio di due fondi appartenenti allo stesso proprietario, attraverso l'elaborazione degl'interpreti (anche qui l'opera di Bartolo è fondamentale), la cosiddetta destinazione del padre di famiglia è divenuta un vero e proprio modo di costituzione della servitù; ha luogo quando consti che due fondi attualmente divisi sono stati posseduti dallo stesso proprietario e che questi pose o lasciò le cose nello stato dal quale risulti la servitù; cessando i due fondi di appartenere allo stesso proprietario senza alcuna disposizione relativa alla servitù, questa s'intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra ciascuno dei fondi separati (articoli 632, 633, cod. civ.).

Modo di costituzione generale a tutte le servitù è il titolo, e cioè un atto in cui si disponga la costituzione della servitù; deve essere redatto in scritto, se si tratta di convenzione (art. 1314, 2°, cod. civ.), rispondere agli speciali requisiti richiesti dalla legge, se consiste in una donazione o in una disposizione testamentaria; può anche essere una sentenza.

Riguardo all'acquisto mediante prescrizione e alla limitazione alle servitù continue e apparenti, desta difficoltà il disposto dell'art. 631 cod. civ. che statuisce che nelle servitù affermative il possesso utile per la prescrizione si computa dal giorno in cui il proprietario del fondo dominante incominciò a esercitarle sul fondo servente, nelle servitù negative dal giorno della proibizione fatta dal proprietario del fondo dominante a quello del fondo servente per contrastargli il libero uso del medesimo. Le difficoltà nascono dal fatto che le servitù negative non sono apparenti. Ma con questo problema s'intreccia quello dell'applicabilità dell'usucapione decennale, che non è prevista negli articoli 629 e 630.

La capacità di costituire e acquistare servitù dipende dalla natura del diritto e dalle regole relative alla capacità di alienare e acquistare. La servitù, secondo le norme comuni, può essere imposta dal proprietario (con le limitazioni derivanti dall'esistenza di diritti reali sul fondo); possono anche imporre servitù l'enfiteuta sul fondo enfiteutico, il marito sul fondo dotale per il carattere del loro diritto (discussa è al riguardo la posizione dell'usufruttuario).

Quanto all'acquisto, se anche la servitù si acquista al proprietario, esiste minor rigore che nel caso inverso; anche prescindendo dalla rappresentanza, nel mandato e nella negotiorum gestio, le servitù acquistate dall'enfiteuta, e dal marito al fondo dotale, non si estinguono col risolversi del loro diritto; discussa è la posizione dei condomini, dell'usufruttuario e del possessore o detentore in genere.

Attraverso l'evoluzione e con le trasformazioni indicate, la struttura delle servitù nei loro caratteri precipui si ricollega a quella romana. Restano fondamentali l'inerenza e l'inseparabilità dal fondo, i caratteri e requisiti che vi si riconnettono, l'indivisibilità, i requisiti del fondo dominante e del fondo servente, l'impostazione del problema relativamente ai fondi nullius. Naturalmente questi elementi e caratteri e i problemi relativi vanno considerati e trattati secondo quei criterî e concetti che sono proprî del sistema giuridico italiano.

E così pure si dica per l'estinzione; le servitù si estinguono per impossibilità di uso; per il non uso per lo spazio di trent'anni, che decorre per le servitù discontinue dal giorno in cui si è cessato di usarne, e per le continue dal giorno in cui si è fatto un atto contrario alla servitù (da questa prescrizione estintiva va tenuto distinto il problema dell'usucapione del fondo come libero); per confusione; per rinunzia; per scadenza del termine o verificarsi della condizione risolutiva; per il risolversi del diritto del costituente.

Bibl.: Diritto romano: R. Elvers, Die römische Servitutenlehre, Marburgo 1865; O. Schönemann, Die Servituten, Lipsia 1866; M. Voigt, Über den Bestand und die historische Entwicklung der Servituten während der Republik, in Berichte der sächs. Ges. d. Wiss., 1874, p. 165 segg.; V. Scialoja, Sulla servitus oneris ferendi, in Arch. giur., XXVII (1881), p. 145 segg. (Studi giuridici, I, p. 84 segg.); S. Perozzi, Sulla struttura delle servitù prediali in diritto romano, Roma 1888; id., Perpetua causa nelle servitù prediali romane, in Riv. it. sc. giur., XIV (1893), p. 175 segg.; id., Fructus servitutis esse non potest, in Bull. ist. dir. rom., VI (1893), p. 1 segg.; id., I modi pretorii d'acquisto delle servitù, in Riv. it. sc. giur., XXIII (1897), pp. 3 segg., 167 segg.; id., Ist. di dir. rom., 2ª ed., Roma 1928, I, p. 753 segg.; C. Arnò, Della distinzione tra servitù rustiche e urbane, Torino 1895; C. Longo, La categoria delle servitutes nel diritto romano classico, in Bull. ist. dir. rom., XI (1898), p. 281 segg.; L. Lusignani, Le origini delle servitù prediali in diritto romano, Roma 1898; B. Brugi, in F. Glück, Pandette, trad. it., VIII, Milano 1900; H. Krüger, Die prätorische Servitut, Münster in W. 1911; G. Segrè, Sulla denominazione di actio confessoria in particolare per la rivendicazione dell'usufrutto e delle servitù, in Mélanges Girard, II (1912), p. 511 segg.; E. Rabel, Le praetorische Servituten, ibid., II (1912), p. 396 segg.; C. Fadda, Servitù (lezioni), Napoli 1913; S. Riccobono, Dies et condicio nella costituzione delle servitù, in Tjidschrift voor Rechtsgeschiedenis, III (1922), p. 333 segg.; P. Bonfante, Servitù e limitazioni del dominio, in Scritti giuridici, II, Torino 1926, p. 926 segg.; id., La longi temporis praescriptio della servitù, ibid., p. 956 segg.; B. Biondi, Actio negativa e actio prohibitoria a difesa delle servitù e dell'usufrutto, in Annali Univ. Messina, III (1929), p. 91 segg.; P. Bonfante, La regola "servitus in faciendo consistere nequit", in Studi in onore di A. Ascoli, Messina 1931, p. 179 segg.; G. Grosso, Sulla servitù di aquae haustus, in Bull. ist. dir. rom., XL (1932), p. 401 segg.; id., Le servitù prediali (lezioni), Modena 1932; id., Sulle servitù altius tollendi e stillicidii non avertendi, in Studi Albertoni, I, Padova 1933, p. 455 segg.; B. Biondi, Corso di diritto romano. Le servitù prediali, Milano 1933; G. Segrè, La clausola restitutoria nelle azioni de servitutibus, ecc., in Bull. ist. dir. rom., XLI (1933), p. 17 segg.; P. Bonfante, Corso di diritto romano. Diritti reali, III (1933), p. 15 segg.; id., Nota in tema di servitù, in Studi in onore di S. Riccobono, Palermo 1934, IV, p. 149 segg.; V. Arangio-Ruiz, La cosiddetta tipicità delle servitù e i poteri della giurispr. romana, in Foro ital., LIX (1934), p. iv; id., Ist. di diritto romano, 3ª ed., Napoli 1934, p. 225 segg.; G. Grosso, Costituzione di servitù a favore e a carico di un edificio futuro, in Studi Ratti, Milano 1934.

Diritto italiano vigente: V. Simoncelli, La destinazione del padre di famiglia come titolo costitutivo delle servitù prediali, Napoli 1886; L. Coviello, Della usucapione delle servitù prediali, ecc., in Riv. it. sc. giur., X (1890), p. 161 segg.; J. Kohler, Beiträge zum Servitutenrecht, in Arch. f. civ. Prax., LXXXVII (1897), p. 157 segg.; P. E. Bensa, Delle servitù prediali, Siena 1899; L. Coviello, Le servitù prediali, Napoli 1926; A. Butera, Delle servitù stabilite per fatto dell'uomo, in P. Fiore, Diritto civile italiano, Torino 1926; L. V. Berliri, Sulla distinzione delle servitù in continue e discontinue, in Arch. giur., CVI (1931), p. 129 segg.; CVII (1932), p. 17 segg.; A. Cicu, Le servitù prediali, Bologna 1931; Wolff, Das Sachenrecht, in Enneccerus Kipp und Wolff, Lehrb. d. bürg. Rechts, III (9ª ed., Marburgo 1932), p. 375 segg.; R. Ruggiero, Ist. di dir. civ., 6ª ed., Messina 1934, II, p. 501 segg.

Servitù personali.

Per le servitù personali, v. uso; usufrutto.

Servitù irregolari.

Si chiamano servitù irregolari quei rapporti in forza dei quali una particolare utilità di un fondo, che suole formare il contenuto di una servitù prediale, è attribuita con efficacia reale a una determinata persona, creandosi così all'infuori delle tre figure dell'usufrutto, dell'uso, dell'abitazione, tante servitù personali quante sono le utilità che un fondo presenta e che la volontà del proprietario eleva a contenuto di ius in re.

Se questa figura di servitù sia ammissibile, è disputatissimo nella dottrina pandettistica, nella dottrina civilistica francese e italiana. La controversia civilistica si agita intorno alla portata degli articoli 686 e 628 del codice civile francese, 616 e 476 del codice civile italiano. La dottrina che nega la possibilità di configurare servitù siffatte è, tra l'altro, più rispondente alla mens del legislatore italiano.

Bibl.: C. E. Zachariae, Über die sogenannten irregulären Personalservituten, in Archiv f. d. civ. Praxis, XXVII (1844), p. i segg.; L. Coviello, Delle cosiddette servitù irregolari nel diritto italiano, in Arch. giurid., XLI (1888), p. 285 segg.; F. Bianchi, Diritti di uso o servitù irregolari, in Foro ital., 1889, p. 740 segg.; L. Tartufari, Sulla giuridica possibilità di costituire servitù personali non contemplate dal codice vigente, in Foro ital., 1891, p. 1077 segg.; F. Santoro Passarelli, I diritti d'uso limitato, in Riv. it. per le scienze giurid., 1927, p. 101 segg.

Servitù legali.

Il codice civile italiano distingue le servitù in stabilite dalla legge e stabilite dal fatto dell'uomo (art. 532); le prime sono quelle che nel codice napoleonico (art. 639) e nei codici a esso ispirati formavano le due distinte categorie di servitù derivanti dalla situazione naturale dei luoghi e dalle obbligazioni imposte dalla legge.

Si può dire che un concetto di servitù legale o naturale fu estraneo al diritto romano classico; il regolamento legale della proprietà, ispirato in origine alla massima indipendenza dei fondi, il successivo regolamento della vicinanza e l'affermarsi di limitazioni d'ordine pubblico escludono pur sempre il concetto di servitus; vere e proprie servitutes imposte dalla legge non si ritenevano ammissibili. Se in alcuni passi si parla di servire per la soggezione dei fondi inferiori a ricevere l'acqua dai superiori, della natura loci accanto alla lex agris dicta e alla vetustas, come causa per cui inferior locus superiori servit, il termine è usato in un senso non tecnico. Lo stato di servitù si contrappone al regime legale della proprietà, che configura e delimita lo stato di libertà dei fondi. Le servitù si configurano come iura che trovano espressione nell'intentio della vindicatio servitutis la quale non ha applicazione nel regolamento legale della proprietà; le limitazioni della proprietà, che vanno via via accrescendosi, si pongono da tutt'altro punto di vista; e questa netta separazione processuale rappresenta la netta separazione concettuale. Nelle fonti bizantine e in testi interpolati della compilazione giustinianea sembra affiorare il concetto di servitù legale: in una costituzione di Zenone (Cod., VIII, 10, de aedif. priv., 12), il divieto di fabbricare è espresso come δουλεία. L'accrescersi delle limitazioni del dominio nel nuovo diritto lo favorisce.

Attraverso alterne fortune nelle opere degl'interpreti, il concetto di servitù naturale e legale è pervenuto al codice napoleonico e ai codici derivati, e la categoria delle servitù legali al codice italiano. La legittimità di questo concetto è oggetto di viva disputa. Contro di esso si fa valere: l'interesse sociale che ispira le limitazioni della proprietà; la difficoltà di stabilire un esatto criterio di distinzione, tra quei limiti che rappresentano puramente la delimitazione dell'esplicazione normale del dominio di un fondo, e quelli che rappresenterebbero un peso imposto su un fondo per l'utilità di un altro fondo; il fatto che le stesse servitù si presentano come un incremento del fondo, cosicché è difficile far capo ad altro criterio di distinzione, diverso da quello che contrappone la servitù, come particolare diritto, a quelle limitazioni che aderiscono per legge a un'obiettiva situazione di cose, e per far valere le quali basta provare l'esistenza del dominio; il fatto che la rinunzia a un beneficio risultante dalla limitazione imposta dalla legge si configura come servitù, mentre la rinunzia a una servitù convenzionale rappresenta il riacquisto della libertà del fondo. D'altra parte, pur riconoscendo il peso di queste osservazioni (che, del resto, si esplicano nell'antitesi processuale del diritto romano) si osserva come la nozione di diritto inerente alla proprietà di un fondo e limitante quella di un altro a beneficio del primo, propria delle servitù, si riscontri anche nei cosiddetti limiti di vicinanza; come talvolta la differenza di contenuto tra limite legale e servitù sia puramente quantitativa, come la concezione di una proprietà libera da vincoli, o almeno assai meno limitata di quella che ci offre il diritto moderno non sia una concezione aprioristica, ma un fatto storico innegabile; come le limitazioni siano diverse a seconda delle diverse cose e delle diverse situazioni, mentre non si può negare un concetto unitario della proprietà.

In ogni modo, con ciò non si giustifica la larga estensione di questa categoria nel codice italiano, che vi comprende istituti e principî d'indole svariata (come, per es., il diritto alla comunione del muro, e perfino il regolamento della comunione dei muri). Se quindi si ammette la legittimità del concetto delle servitù legali, si pone dal punto di vista dottrinale il problema dei limiti della categoria. Anche su questo le opinioni sono tutt'altro che concordi. Sono da escludere quelle norme che regolano puramente la coesistenza tra fondi vicini in modo da impedire immissioni dannose (per es., il disposto dell'art. 591 codice civ., che ogni proprietario deve costruire i tetti in modo che le acque piovane scolino sul suo terreno o sulla via pubblica, non sul fondo vicino); d'altra parte vi sono casi in cui sembra aversi un vero e proprio obbligo di costituire una servitù prediale (passaggio coattivo, art. 593 segg.; acquedotto coattivo: art. 598 segg.; art. 606); vi è poi una serie di limitazioni (per es., distanze di costruzioni, piantagioni, aperture di finestre, ecc.), che s'impongono bilateralmente ai due fondi vicini e mirano allo scopo di evitare collisioni nell'esercizio delle due proprietà: da un lato esse si presentano come generale regolamento dei limiti delle proprietà, dall'altro si possono configurare come vere limitazioni della proprietà di fondi, a vantaggio di fondi, e hanno un contenuto analogo a quello delle servitù; la loro determinazione concreta dipende dai diversi diritti positivi; l'aggravamento di una di esse è contenuto di servitù convenzionale.

L'applicazione del concetto di servitù legale è qui oggetto di discussione. Le difficoltà derivano dalla stessa natura del concetto e dal conflitto dei diversi argomenti che portano a negarlo o ad ammetterlo. La soluzione negativa, che risponde alla concezione romana, è concettualmente migliore.

Dopo questa premessa, vediamo i limiti e gl'istituti che il codice civile italiano raccoglie sotto il concetto di servitù legale.

L'art. 533 distingue le servitù stabilite dalla legge secondo che abbiano per oggetto l'utilità pubblica o l'utilità privata. L'art. 534 spiega che le servitù stabilite per utilità pubblica riguardano il corso delle acque, i marciapiedi lungo i fiumi e canali navigabili o atti al trasporto, la costruzione o riparazione delle strade e altre opere pubbliche. Per queste applicazioni il codice fa rimando alle leggi e ai regolamenti speciali; e numerose sono le limitazioni della proprietà nell'interesse pubblico, stabilite dalle leggi di diritto pubblico, amministrative, finanziarie, militari. L'inclusione nel concetto delle servitù legali dei casi di limitazioni per interesse pubblico, a cui accenna l'art. 534, rivela sempre più la poca chiarezza di concetti che ispira la configurazione delle categorie delle servitù legali nel codice italiano.

Con riguardo alle servitù legali per l'utilità privata, il codice tratta: delle servitù derivanti dalla situazione dei luoghi; dei muri, edifici e fossi comuni; delle distanze e delle opere intermedie richieste in alcune costruzioni, scavamenti e piantagioni; della luce e del prospetto; dello stillicidio; del diritto di passaggio e di acquedotto.

Vi si raccoglie tutto un complesso d'istituti che configurano il regime della vicinanza nel diritto italiano. Come servitù derivanti dalla situazione dei luoghi si regola l'onere di ricevere lo scolo naturale delle acque, la facoltà di restauro di sponde e di sgombro di canali, l'uso delle acque e delle sorgenti. Un minuto regolamento è dato al regime della comunione dei muri (v. muro: Comunione coattiva di muro). La legge regola poi in particolare le distanze delle costruzioni edilizie, di certe opere, degli scavi, delle piantagioni, la recisione di rami e radici di alberi. La facoltà di aprire finestre è regolata in modo da permettere agli edifici di procurarsi la luce e da limitarne, con la determinazione delle distanze, il prospetto sull'altrui fondo.

In rapporto al diritto di passaggio la legge regola due figure distinte: l'accesso coattivo al fondo altrui, che ha carattere precario e non crea un assoggettamento di un fondo a un altro; il passo coattivo, che, insieme con l'acquedotto coattivo e lo scarico coattivo, ha invece una più spiccata configurazione di servitù (v. acquedotto, Acquedotto coattivo; fondo; passaggio coattivo).

Con leggi speciali è regolato il passaggio di condutture elettriche.

La costruzione giuridica del passo e dell'acquedotto coattivo è molto discussa; in astratto è possibile costruirli dal punto di vista della limitazione vera e propria del diritto di proprietà, per cui la convenzione delle parti o la sentenza avrebbero puramente carattere dichiarativo; ma tale non è la costruzione che meglio si confà al regolamento del codice civile. La soluzione legislativa appare quella, per cui la limitazione del diritto di proprietà deriva dal diritto del proprietario del fondo intercluso di chiedere la costituzione di una servitù prediale; e allora la servitù ha la sua fonte nella convenzione o nella sentenza: insomma, in un suo particolare titolo costitutivo. Così queste figure si avvicinano senz'altro alle servitù costituite per fatto dell'uomo; e il termine di servitù legale viene qui inteso puramente nel senso che si tratta di servitù la cui costituzione è imposta dalla legge.

Bibl.: F. Bianchi, Trattato delle servitù legali, Lanciano 1888; L. Lusignani, Le limitazioni della proprietà in diritto romano, in Filangieri, 1898; B. Brugi, in F. Blück, Commentario delle Pandette (trad. it.), VIII, Milano 1900, p. 148; C. Ferrini e G. Pulvirenti, Delle servitù prediali, Torino 1908 (in P. Fiore, Il diritto civile italiano, III, parte 5ª); P. Bonfante, Corso di diritto romano. La proprietà, sez. 1ª, Roma 1926, p. 230 segg.; G. Scaduto, La servitù di passaggio necessario, in Circolo giuridico, Palermo 1931; C. Maiorca, Lo spazio e i limiti della proprietà fondiaria, Torino 1934.

Servitù amministrative e militari.

La servitù di diritto pubblico, strettamente intesa, consisterebbe in un peso imposto su una cosa privata a vantaggio di una proprietà pubblica o di un ramo dell'amministrazione pubblica, per cui questa proprietà o amministrazione gode parzialmente della cosa di proprietà privata. Si distinguerebbe dalla servitù, invece, il limite di diritto pubblico della privata proprietà, che sarebbe una semplice restrizione apportata alle assolute facoltà di godimento, sfruttamento, disposizione, alienazione della cosa del privato proprietario, per contemperare il suo diritto con la proprietà pubblica vicina o con le esigenze d'un servizio amministrativo. In sostanza, con ciò si riproduce nel campo del diritto pubblico la stessa distinzione che nel diritto privato esiste tra limitazioni legali della proprietà e servitù imposte dalla legge sulla proprietà in favore di altri privati o d'un fondo privato vicino. Sennonché, pur ammettendo la differenza non mancò chi ha notato che alcuni dei divieti imposti al privato proprietario (pur senza uso parziale della cosa) tutelano un bene demaniale o destinato al servizio pubblico, configurandosi come un vero peso (di non facere) imposto a un fondo privato a profitto d'un fondo di proprietà pubblica o d'un servizio pubblico, e quindi si possono anch'essi chiamare servitù pubbliche. Inoltre, è vero che, non solo nell'uso corrente, ma anche nella terminologia legislativa si chiamano servitù militari alcune restrizioni che, secondo il criterio sopra enunciato, sarebbero realmente soli limiti e non servitù. Tutto ciò dimostra la difficoltà della distinzione, e consiglia anche di accomunare la trattazione delle servitù e dei semplici limiti sotto un'unica voce.

1. I limiti di diritto pubblico della proprietà privata, in senso stretto, sono una manifestazione del potere generale di sovranità spettante allo stato e della subordinazione della proprietà a tale sovranità, e consistono in un obbligo di tollerare e non fare. Non possono andare tanto oltre da snaturare il diritto di proprietà; di regola il loro esercizio non è accompagnato da pagamento d'indennità; talvolta hanno carattere personale, talvolta reale. Possono assumere la forma di occupazione temporanea della proprietà privata, o di modificazione di essa, o quella di una lieve tolleranza o di un vincolo all'uso della proprietà, o quella della perdita del possesso della cosa.

Queste limitazioni sono (si ripete quasi universalmente) di specie diversissima, sì che è impossibile enumerarle tutte: esse si sono intensificate in tempo di guerra, per il fine supremo della difesa dello stato e l'approvvigionamento dell'esercito e della popolazione. Non bisogna però annoverare tra questi limiti (come fa qualcuno) né l'espropriazione né la requisizione, istituti che implicano, non un limite, ma l'obbligo di consegnare la cosa, con la consecutiva soppressione della proprietà privata. E autorevolmente si sostiene che il limite non è necessario che risulti sempre da una legge, bastando una norma che, per certi rapporti e per il raggiungimento di certi pubblici interessi, sancisca la preminenza dell'amministrazione di fronte al privato, attribuendo alla stessa poteri discrezionali più o meno larghi a seconda delle esigenze dell'autorità amministrativa.

Semplici limiti di tal genere alla proprietà privata noi troviamo:

A) Nelle occupazioni temporanee più o meno prolungate da parte dell'amministrazione dei fondi privati, che possono giungere fino a privare il singolo del possesso della cosa propria. Dalla possibilità che l'amministrazione entri nei fondi privati o per eseguirvi un arresto, o per constatare se si commettono violazioni a una privativa, o per impedire la propagazione d'un incendio, si passa alle occupazioni per le costruzioni ferroviarie (art. 227: legge sui lavori pubblici), a quelle di cui agli articoli 64 e 71 (legge sull'espropriazione) e a quelle contemplate nelle leggi sulla bonifica (v. art. 7 t. u. 30 dicembre 1923, n. 2356).

B) Nella tolleranza di un peso di lieve entità imposto alla proprietà privata, come, ad es., appoggio di fanali per la pubblica illuminazione, di buche per le lettere, di fili telegrafici e telefonici: limiti, talora, neppure regolati dalla legge.

C) Nel divieto di usare la cosa in un dato senso (non facere), e che talora si può estendere al punto da imporre cautele o lavori speciali ai proprietarî se questi vogliono farne un uso determinato. Tra questi limiti, importanti sono: a) i limiti imposti per ragioni di sanità pubblica. Questi sono o relativi alla macerazione di piante tessili (da eseguirsi lontano dall'abitato e con le precauzioni determinate dai regolamenti locali, art. 203 testo unico leggi sanitarie), o alla coltivazione del riso (soggetta a permessi e a regolamenti provinciali, art. 204 segg. cit. testo unico), o all'esercizio di manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o pericolose alla salute (articoli 216 e 217 testo unico cit.), o ai centri abitati e alle abitazioni urbane e rurali, agli alberghi, alle stalle (art. 218 segg. testo unico cit.); b) i limiti imposti per ragioni di edilizia, contenuti specialmente nei regolamenti comunali; c) i limiti attinenti alla polizia dell'agricoltura (specialmente per impedire la diffusione delle malattie delle piante: legge 3 gennaio 1929, n. 94, per la difesa delle piante coltivate e dei prodotti agrarî); d) i cosiddetti vincoli forestali. Per il r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3267, sul riordinamento e la riforma della legislazione in materia di boschi e terreni montani, il capo 1° del titolo 1°, intitolato limitazioni alla proprietà terriera, sottopone a diversi vincoli i terreni privati. Una prima specie di vincoli a scopi idrogeologici è stabilita dall'amministrazione forestale: per questi vincoli alcuni terreni a boschi non si possono trasformare in altre colture, sono prescritte le modalità di utilizzazione dei boschi, e ristretto il pascolo. Gli estimi di tali terreni possono essere ridotti. Altre limitazioni all'utilizzazione sono stabilite per i boschi che difendono terreni o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento di sassi; dal sorrenamento e dalla furia dei venti. Per tali vincoli è corrisposto un indennizzo. Sono stabilite pene contravvenzionali per i proprietarî che violassero le norme relative al vincolo. Anche per il rimboschimento dei bacini montani, ove non si espropri il terreno, si dà un'indennità ai proprietarî cui ne sia sospeso il godimento: restituiti i terreni rimboscati, essi non possono più essere sottoposti a coltura agraria. I terreni vincolati possono poi essere rimboscati, salvo esproprio; e) limiti all'uso della proprietà fondiaria in alcune zone di confine, dove alcuni sfruttamenti speciali della proprietà sono sottoposti al consenso dell'autorità militare (legge 1° giugno 1931, n. 886, sul regime delle proprietà in zone militarmente importanti); f) i limiti derivanti alla proprietà privata, perché si tratta di cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico. Il proprietario non può demolire, modificare, restaurare immobili sottoposti a tali limiti senza autorizzazione. I terzi con nuove costruzioni non devono danneggiare la loro prospettiva. Gli scavi archeologici non si possono fare senza licenza dello stato e lo stato può compierli nei fondi privati, salvo il risarcimento dei danni. Gl'immobili e oggetti artistici non possono essere alienati senza denuncia, salvo diritto di prelazione da parte dello stato. È proibita l'esportazione di oggetti la cui perdita possa costituire danno per la storia, l'archeologia, l'arte (legge 20 giugno 1909, n. 364, sulle antichità e belle arti); g) i limiti per la tutela delle bellezze naturali e degl'immobili aventi particolare interesse storico (legge 11 maggio 1922, n. 778), in forza dei quali non si può procedere a distruzione o alterazione di tali località senza consenso ministeriale, e i terzi con nuove costruzioni non possono danneggiarne l'aspetto o il godimento; h) i limiti alla proprietà di navi della marina mercantile, per cui gli stranieri non possono averne in proprietà più d'un terzo, sotto pena di vendita coattiva della nave (art. 41 cod. mar. merc.); i) i limiti risultanti alla proprietà da una privativa dello stato, per cui la produzione di determinate materie è vietata o sottoposta a regole speciali (ad es., la produzione del tabacco); k) i limiti derivanti dall'esistenza di divieti generali di polizia amministrativa (caccia, pesca, ecc.).

2. Le servitù sono vincoli consistenti nell'obbligo della proprietà privata di non compiere taluni atti in relazione a un bene demaniale o destinato a un servizio pubblico, oppure nel tollerare un uso parziale della cosa da parte dell'amministrazione o della collettività. Si tratta, in sostanza, di un sacrificio della proprietà privata al particolare incremento di un pubblico interesse, di una parziale signoria della cosa da parte di un altro subietto, di una diminuzione del contenuto della proprietà, cui corrisponde un vantaggio per un bene demaniale o un servizio amministrativo. Queste servitù costituiscono un bene demaniale, e sono soggette a tutte le norme attinenti al regime dei beni demaniali. Esse si distinguono in prediali e personali. Prediali sono i pesi imposti a una proprietà privata per la tutela di un bene demaniale o destinato a un pubblico servizio. Tra esse, degne di menzione particolare sono: a) la servitù di scolo delle acque che dalle strade si scaricano sui terreni più bassi, di cui nella legge sui lavori pubblici; b) la servitù di via alzaia sui beni laterali ai fiumi navigabili (art. 72 testo unico 25 giugno, n. 523, sulle opere idrauliche); c) le distanze, i divieti di costruzione e piantagione da osservarsi relativamente alle strade pubbliche (articoli 66-82 legge sui lavori pubblici); d) le opere, le piantagioni, ecc., relative a beni finitimi al demanio fluviale (cit. testo unico sulle opere idrauliche e sue modificazioni); e) le distanze relative ai cimiteri (art. 338 testo unico leggi sanitarie); f) le servitù relative alle strade ferrate (divieto di costruzioni e piantagioni, depositi, ecc., articolo 233 segg. legge sui lavori pubblici); g) infine, le servitù militari.

Il testo unico delle leggi sulle servitù militari è del 20 dicembre 1932, n. 1849. Le proprietà private possono essere soggette a servitù in vicinanza delle opere militari (di qualunque genere) occorrenti per la difesa dello stato, dei poligoni di tiro, dei campi di esperienze, degli aeroporti, dei campi di fortuna e degli stabilimenti militari nei quali sono depositati o manipolati esplosivi o altre sostanze pericolose. Per ogni opera o stabilimento, anche per gruppi di opere o stabilimenti analoghi, le zone, cui le servitù si estendono, sono fissate con decreto reale, su proposta del ministero militare interessato, sentito il parere di apposita commissione tecnica, corredato dalle mappe catastali. Le servitù possono riguardare l'obbligo del proprietario di non aprire strade, di non scavare fossi o altri vani, di non fare elevazioni, di non impiantare linee elettriche o condotte di acqua o di gas, di non fare date piantagioni o operazioni campestri, di non tenere depositi di materie infiammabili, di non tenere fucine o altri impianti provvisti di focolare, di non fabbricare muri o edifizî, o di limitarli nell'altezza o costruirli solo con date materie, e infine l'impedimento temporaneo al transito o alla sosta di persone, veicoli e animali. Il decreto reale, che le impone, dev'essere pubblicato nell'albo pretorio del comune dove sono situati i fondi, notificato dal messo comunale ai proprietarî, che possono reclamare entro 10 giorni dalla notifica al ministro competente, il quale pronunzia con provvedimento non soggetto ad alcun gravame né amministrativo né giudiziario. Trascorso il termine senza reclami, o dal giorno della notifica del decreto ministeriale che su essi pronuncia, la servitù s'intende costituita. I vincoli sono trascritti a cura del ministero alla conservatoria delle ipoteche. Procedimento speciale è stabilito per i casi d'urgenza. Ove l'amministrazione militare modifichi, all'atto dell'imposizione della servitù, lo stato delle cose, demolendo in tutto o in parte fabbricati o altri manufatti, paga un'indennità in base alla legge sull'espropriazione. Gl'interessati possono chiedere una revisione dell'estimo dei terreni o fabbricati, ove le servitù producano diminuzione del reddito imponibile. L'amministrazione militare può concedere che siano eseguite opere in deroga alle servitù con atto apposito in forma amministrativa, stipulato presso gli uffici tecnici militari e trascritto. Le contravvenzioni sono punite con ammenda da lire 50 a 1000, salvo che il fatto costituisca reato più grave. È ordinata dall'autorità giudiziaria anche la riduzione in pristino, cui può procedere, in caso di disobbedienza, anche l'autorità militare, facendo rendere esecutivo il conto dall'intendente di finanza, che provvede a riscuoterne l'importo con le norme della legge per la riscossione delle entrate patrimoniali dello stato.

Le servitù personali assumono una fisionomia caratteristica, in quanto si tratta di facoltà di uso parziale, che spettano alla collettività dei cittadini (uti cives), dimoranti in un dato territorio, sopra un bene privato. Si è voluto contestare il loro carattere di servitù personali, ma a torto, perché si tratta di servitù pubbliche, il cui concetto si deve adattare alla loro peculiare natura (indefinita durata del pubblico, della collettività che le esercita, che sempre si rinnova, rappresentanza degli utenti del comune, ecc.). Le più tipiche servitù di questo genere sono: a) quella della via vicinale, per cui esiste l'uso pubblico di passaggio sopra una via privata; b) quella sulla sorgente privata in favore degli abitanti d'un comune o d'una frazione, quando sia loro necessaria per usi personali (art. 542 cod. civ.); c) quelle sulle ville, musei, gallerie, biblioteche di proprietà privata, derivanti normalmente da antiche disposizioni in favore del pubblico dei loro proprietarî.

Bibl.: S. Romano, Principii di dir. amm. italiano, 3ª ediz., Milano 1912; M. D'Amelio, Servitù pubbliche, in Digesto italiano, s. 1ª, XXI, iii; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, Torino 1933.

Servitù internazionali.

Espressione usata spesso nella dottrina e nella pratica del diritto internazionale per designare certe restrizioni della sovranità statuale che concernono direttamente il territorio. La dottrina prevalente, negando una qualsiasi analogia del concetto che vi è implicito con quello delle servitù del diritto privato, ritiene trattarsi unicamente di obbligazioni convenzionali, di limitazioni volontariamente accettate dai singoli stati, a favore di altri stati determinati, circa l'esercizio dei diritti loro spettanti sul proprio territorio. Tale opinione è specialmente sostenuta da coloro - e sono la grande maggioranza - che negano allo stesso stato, cui spetta il territorio, un diritto reale su esso e ritengono di dover negare, conseguentemente, anche la possibilità che a uno stato spettino diritti reali, interi o parziali, sul territorio altrui. Parte della dottrina più recente, invece, ritiene che, pur accettandosi la premessa, possa ammettersi la sussistenza di un diritto reale sul territorio, quando questo non viene preso in considerazione nella sua unità complessiva, bensì in qualche sua parte distinta e isolata dal resto.

La controversia circa la natura di diritto reale, o meno, di queste particolari limitazioni della sovranità territoriale ha, però, contenuto pratico solo in quanto si esamini dal punto di vista della successione da stato a stato. Sotto questo profilo, non si potrà certo affermare, ragionando aprioristicamente, che in tali casi una successione si ha per il fatto che ci si trova in presenza di servitù, cioè di diritti reali parziali gravanti sul territorio e seguenti la sorte dello stesso; bensì potrà eventualmente parlarsi di servitù, di diritti di natura reale, cioè concernenti direttamente la condizione giuridica del territorio e seguenti la sorte di esso, quando si accerti che i diritti o gli obblighi internazionali (cioè scaturenti da un accordo scritto o tacito oppure da una consuetudine tra due o più stati determinati), aventi un certo contenuto e inerenti a un determinato territorio, in caso di mutazioni territoriali non si estinguono, ma sono raccolti, in base a una norma del diritto internazionale generale, dal successore, cioè dallo stato che subentra nel territorio su cui gli obblighi stessi gravano o a favore di cui i diritti sono fatti valere.

In ogni caso, non si può negare che si abbiano qui delle analogie, sia pur lontane, con le servitù del diritto privato, se non altro perché anche qui ci si trova dinnanzi a un complesso di obblighi che si riferiscono a una zona nettamente determinata di territorio (corrispondente al fondo servente) di un soggetto, posti nell'interesse permanente e specifico del territorio (corrispondente al fondo dominante) - e, s'intende, del popolo e dell'organizzazione che vi si trovano stabiliti - d'uno o più altri soggetti, egualmente determinati, aventi i relativi diritti, distinguendosi perciò dalle consuete obbligazioni internazionali di carattere strettamente personale e anche da quelle localizzate ma poste nell'interesse generale. La dottrina tradizionale, favorevole al concetto di servitù internazionale in senso proprio, suole distinguerle, secondo quanto si fa nel diritto privato, in servitù di tolleranza (in patiendo) e in servitù di astensione (in non faciendo), comprendendo in queste due categorie varî casi di servitù aventi soprattutto carattere economico o militare (servitù di pesca nelle acque territoriali; di uso di canali, strade o ferrovie; di derivazione di acque; di deposito di carbone o altri materiali; di fortificazione, di mantenimento di presidî, di transito di truppe per determinate parti del territorio; di sorvolo in determinati spazî aerei, ecc.). Noi riteniamo, invece, che si possano ammettere anche servitù internazionali di azione (in faciendo). Non può, infatti, essere di ostacolo a tale ammissione il solo fatto che queste non rientrano nell'analogo - ma soltanto analogo, e non identico - istituto del diritto privato, quando il facere sia imposto a uno stato a favore d'un altro con riguardo alle particolari condizioni di un determinato territorio.

La pratica internazionale, quale si può desumere dalle sentenze e dai pareri della Corte permanente di giustizia internazionale, dalle decisioni arbitrali e dagli atti diplomatici, dimostra una grande incertezza circa i problemi accennati ed evita, generalmente, di pronunciarsi sugli stessi.

Bibl.: I. Clauss, Die Lehre von den Staatsdientestbarkeiten, Tubinga 1894; L. Fabre, Des servitudes dans le droit international public, Parigi 1901; E. Nys, Les prétendues servitudes internationales, in rev. de dr. internat. et de lég. comp., 1907, p. 118 segg., e 1913, p. 314 segg.; P. Labrousse, Des servitudes en droit international public, Bordeaux 1911; P. B. Potter, The doctrine of servitudes in international law, in American Journal of International law, 1915, p. 627 segg.; L. Stael-Holstein, la doctrine des servitudes internationales et son application en Scandinavie, in Rev. de dr. internat. et de législ. comp., 1922, p. 423 segg.; id., Autour de la conception juridique des servitudes internationales, in Rev. gén. de dr. internat. publ., 1934, p. 5 segg.; W. Henrich, Völkerrechtliche Servituten, in Wörterbuch des Völkerrechts und der Diplomatie, II, Berlino 1925, p. 533 segg.; Verdross, Die Verfassung der Völkerrechtsgemeinschaft, Vienna 1926, pp. 188-191, 203; H. Weber, Staatsservituten in den Friedens- und sonstigen völkerrechtlichen Verträgen seit 1919, Marburgo 1927; G. Crusen, Les servitudes internationales, in Recueil des cours de l'Acad. de dr. internat. de La Haye, XXII (1928), p. 5 segg.; F. Münch, Ist an dem Begriff der völkerrechtlichen Servitut festzuhalten?, Berlino 1931; H. D. Reid, International servitudes in law and practice, Chicago 1932; id., Les servitudes internationales, in Recueil cit., XLV (1933-III), p. 5 segg.; S. Romano, Corso di dir. internaz., 3ª ed., Padova 1933, pp. 183-84; H. Kelsen, Théorie gén. du dr. internat. publ., in Recueil, cit., XLII (1932-IV), p. 218-220, 338-341; M. Udina, La succession des États, in Recueil cit., XLIV (1933-II), pp. 714-742; F. A. Vali, Servitudes of international law, Londra 1933; A. Cavaglieri, Corso di dir. internaz., 3ª ed., Napoli 1934, pp. 294-99.

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