SETTANTA

Enciclopedia Italiana (1936)

SETTANTA

Alberto Vaccari

Si chiamano così i primi traduttori della Bibbia (Antico Testamento) in greco, dal numero (arrotondato: propriamente 72), che ce ne presenta la prima relazione, pretendente a storia. Col medesimo termine s'intende ordinariamente la versione stessa, e allora si usa anche come sostantivo femminile singolare: la Settanta; sigla convenzionale: LXX.

Secondo la cosiddetta Lettera di Aristea (v.), a richiesta del re Tolomeo Filadelfo (285-247 a..C.) sarebbero venuti da Gerusalemme ad Alessandria d'Egitto settantadue uomini (sei per ognuna delle dodici tribù d'Israele), allo scopo di tradurre dalla lingua originale ebraica nella greca la legge (torà) giudaica, cioè non più che i cinque libri del Pentateuco. Ospitati dal re in una casa dell'isoletta Faro, avrebbero terminata la traduzione in settantadue giorni. Poiché il Pentateuco contiene circa 81.400 parole (esattamente 81.404 ne contano i masoreti), quei traduttori avrebbero trasportato in greco più di 1100 parole ebraiche al giorno. Ma oltreché da ciò, l'irreale trapela da tutto il racconto d'Aristea, non per ultimo da quel ripetuto ricorrere del numero di settantadue. La leggenda non si fermò qui. Già in Filone si aggiunge un prodigio: ognuno traduce separatamente da sé, e poi si trova che tutti concordano sino all'ultima parola (Vita di Mosè, II, 7). Nella Cohortatio ad Graecos attribuita a S. Giustino, i "Settanta" (qui già il numero rotondo) sono rinchiusi in altrettante celle separate, e sorvegliati, perché non si diano mutua intesa o assistenza (capo III). Nell'autentico Giustino (Apologia I,31) la traduzione più non si restringe alla legge, ma comprende i profeti. Di qui ad attribuire ai Settanta la traduzione di tutto l'Antico Testamento era breve il passo, e tale fu presto l'opinione universale. Abbastanza comune fu pure nell'antichità la convinzione che i LXX nel tradurre fossero ispirati: una singolare forma prende la leggenda sotto la penna di S. Epifanio, per cui i traduttori sarebbero stati rinchiusi a due a due in 36 cellette con l'incarico a ciascun paio di tradurre un solo libro.

Resta da cercare se la leggenda contenga un nocciolo di verità e quale. Indipendentemente dalla falsa lettera di Aristea, il filosofo giudeo Aristobulo vissuto sotto Tolomeo VI Filometore (181-146 a. C.), pretende sapere che prima del Filadelfo erano state tradotte in greco le più notevoli parti della Bibbia ebraica, segnatamente dall'Esodo a Giosuè. Ma, fosse pur certa l'autenticità dell'opera d'Aristobulo, la sua mira tendenziosa su questo punto toglie valore alla sua asserzione. Terreno più solido troviamo nel prologo premesso dal nipote di Gesù di Sirac (v.) alla sua traduzione greca dell'Ecclesiastico. A scusare le imperfezioni della sua versione, egli addita, insieme con la difficoltà intrinseca, l'esempio dei predecessori: "non conservano la medesima forza le cose dette nella propria lingua ebraica, quando sono trasportate in altra favella; anche la Legge e i profeti e le rimanenti scritture non piccolo vantaggio hanno nella loro originale dicitura". Qui abbiamo un testimonio irrecusabile e approssimativamente datato; l'anonimo traduttore s'accingeva all'opera sua qualche tempo dopo la sua venuta in Egitto, che fu nell'anno 38 di Tolomeo Evergete (II di questo nome, 170-117 a. C.), cioè il 132 a. C. Questo ci porta lontano dal presunto Aristea, ma ci assicura che non soltanto il Pentateuco, ma tutta o quasi tutta la Bibbia ebraica era allora tradotta in greco. Quanto al tempo, il secolo che corse fra il regno di Filadelfo e quello di Evergete II è spazio più che sufficiente al lento e lungo lavorio d'una traduzione dell'intera Bibbia nelle circostanze d'allora. Il regno di Filadelfo segnerebbe l'inizio del movimento; e questo può essere il granello di verità donde sbocciò il maestoso albero della leggenda. Certo si può dire che nella seconda metà del sec. III a. C. almeno i libri di Mosè si leggevano in lingua greca. Infatti il cronista giudeo Demetrio, che fioriva al tempo di Tolomeo IV Filopatore (221-204 a. C.), ricorda i fatti biblici con i termini della versione dei Settanta.

Tali sono le scarse testimonianze estrinseche dell'origine di questa celebre versione. Più copiose e più sicure sono le informazioni ch'essa medesima ci fornisce di sé. Né si parla qui della finale dell'Ester greco: "L'anno quarto del regno di Tolomeo e Cleopatra (114 a. C.) Dositeo che diceva d'essere sacerdote e levita, con Tolomeo suo figlio apportò questo scritto, che dicevano tradotto da Lisimaco di Tolomeo, nativi di Gerusalemme". finale paragonabile per la notizia del tempo e del traduttore col prologo del nipote del Siracide. ma del resto unica nel suo genere. È da accennare piuttosto alla varietà di traduttori che si rivela all'esame interno. al confronto dei varî libri fra loro sotto il triplice aspetto dell'intelligenza del testo ebraico, della maggiore o minore fedeltà nel trasportarlo in altra lingua, della scelta dell'espressione greca rispondente all'ebraica. Un esempio fra cento, facile e istruttivo per la risonanza che ha persino nella letteratura italiana. La parola ṣebā'ōt (plurale di ṣābā' -. ordine, schiera) nel nome divino "Jahvè ṣebā'ōt" dal traduttore d'Isaia, che l'usa più di 50 volte; è semplicemente trascritto sabaoth, e di lì passò nella liturgia, dove s'ode ancor oggi (Prefazio della Messa e inno Te Deum), e nel poema dantesco (Par., VII,1). Nei Salmi invece è tradotto letteralmente τῶν δυνάμεων, donde proviene per il tramite del latino exercituum, la locuzione "Dio degli eserciti" o "Signore (Jahvè) degli eserciti". Più avanti, nei profeti minori, la troviamo resa con un aggettivo παντοκράτωρ (= onnipotente). Sono tre versioni caratteristiche, e indizî non dubbî (specialmente nella loro costanza ed esclusività) di tre diversi traduttori, di capacità e di tendenze differenti.

Con tale analisi e criterio, già più di due secoli or sono, Humfrey Hody (De Bibliorum textibus originalibus, Oxford 1705) dimostrava che le varie parti dell'Antico Testamento erano tradotte da diversi in diversi tempi, e precisamente in Egitto, per il colore manifestamente egiziano della versione. Nel sec. XIX, Z. Frankel studiò principalmente la versione del Pentateuco, giungendo alla conclusione che formatasi fra i regni di Filadelfo e di Filopatore (284-204 a. C.), non fu opera di getto né d'una sola mano. Ch'essa fosse compiuta sotto i Lagidi si poteva già congetturare da una curiosa minuzia non sfuggita agli antichi. Per rendere in greco il nome della "lepre" (ebr. 'arnebet), posta fra gli animali impuri vietati dalla legge (Levitico, XI, 6; Deuteronomio, XIV, 7), i traduttori schivarono il comunissimo λαψύς, usando il raro e meno proprio δασύπους. Nel secolo XX si distinse in questo campo d'indagini specialmente St. John Thackeray, e nuove vie aperse con due linee di scoperte: la connessione del lavorio di traduzione con la lettura pubblica nelle sinagoghe, e la bisezione di alcuni libri più lunghi. Che il Pentateuco fosse stato il primo ad essere voltato in greco, si comprende, dacché oltre a godere della massima autorità presso gli Ebrei, nella sinagoga, solo fra le tre parti che compongono il canone biblico (v. canone, VIII, p. 753), veniva letto per intero. Delle altre due parti si leggevano brani scelti in relazione con la lettura del Pentateuco. Di qui traduzioni dapprima parziali dei libri storici e profetici, che più tardi o furono incorporate alle traduzioni integrali o continuarono ad avere un'esistenza separata, reagendo talora sulla rivale versione completa. Tipico a questo riguardo è il cantico (capo III) di Abacuc. Il Thackeray ne ha fatto il fulcro di molteplici ingegnose deduzioni.

La diversità di vocabolario, come nell'esempio sopra citato, non si osserva solo tra libro e libro, ma ben anche fra varie parti del medesimo libro. Secondo questo criterio, il Thackeray divide il libro di Geremia fra due traduttori, col punto di separazione circa a mezzo del libro. Anche Ezechiele va distribuito fra due traduttori, ma non così semplicisticamente, perché il primo ricompare nell'ultima parte del libro. Per i libri dei Re, un simile esame conduce a conchiudere, che un primo traduttore si restrinse alle parti più importanti e in tutto edificanti; altri più tardi supplì il resto.

Per la via così aperta dal Thackeray si spinsero più oltre due eruditi tedeschi, J. Hermann e Fr. Baumgärtel: anche i libri di Isaia e dei dodici profeti minori sarebbero ognuno l'opera di due traduttori diversi. E allora possiamo seriamente domandarci se questa costante divisione di lavoro non provenga da una direzione ufficiale, in altre parole da un'autorità, e questo sia il nucleo storico della leggenda di Aristea e delle coppie di Epifanio. Ma sembra si sia esagerato nel conchiudere a diversità di traduttori; e, per quanto riguarda Isaia e i profeti minori, gli studî posteriori e più accurati di J. Ziegler hanno ristabilita l'unità d'autore.

Molto rumore sollevò nel mondo letterario una nuova teoria lanciata alcuni anni addietro da F. Wutz, che tocca l'origine della LXX e dovrebbe rimutare a fondo la critica testuale dell'Antico Testamento. I traduttori greci avrebbero lavorato sul testo ebraico sì, ma non scritto nei suoi originali caratteri ebraici, bensì "trascritto" (non "tradotto") in caratteri greci. Di qui la cognizione accurata dei sistemi di trascrizione e l'attenzione ai possibili casi di falsa lettura o scrittura in quel travestimento greco dànno la chiave per la ricostruzione del testo ebraico che sta alla base di quell'antichissima versione.

Non si può negare la possibilità di tale intermediaria trascrizione dell'ebraico in lettere greche; ma gli esempî che conosciamo nei manoscritti e vediamo ancor oggi nelle stampe (per esempio in Germania e in Oriente) ci dicono che gli Ebrei usano scrivere coi loro caratteri ebraici le altre lingue, anziché il contrario; e Origene, nativo proprio di Alessandria, e tanto avido cercatore di testi biblici che andò a stanare un'anonima versione greca persino a Nicopoli presso Azzio, ignorò la supposta trascrizione antica, poiché ne fece, o ne fece fare, una apposta per la sua monumentale opera delle Esaple (v. bibbia, VI, p. 893). Sono ragioni sufficienti per rovesciare il fondamento della nuova teoria.

Sorta dal bisogno di lettura, specialmente pubblica nelle sinagoghe, per i Giudei della diaspora ignoranti d'ebraico, la versione greca della Bibbia fu subito accolta con gran favore dai Giudei ellenisti. Filone riferisce che ad Alessandria ogni anno si festeggiava con pompa e giubilo il supposto giorno del compimento della versione (Vita di Mosè, II, 41). Qual posto essa avesse nella cultura del giudaismo d'allora n'è illustre esempio lo stesso Filone, il più grande scrittore dell'ellenismo giudaico, il quale nelle numerose sue opere, quasi tutte a commento del Pentateuco, non si serve mai d'altro testo che dei LXX, messo completamente da parte l'originale ebraico, se pur l'intendeva. Ma anche Giuseppe Flavio, l'altro grande astro della letteratura greco-giudaica, palestinese di nascita e di lingua, subì fortemente l'influenza della versione greca; lo storico delle Antichità Giudaiche l'ha sul suo scrittoio accanto al testo ebraico, e nei libri storici la segue a preferenza di questo. Essa intanto, in quei due secoli o più ch'erano passati dalle sue prime origini, propagatasi dall'Egitto, sua culla, in Siria e in Asia Minore, aveva subito notevoli varianti, e a Giuseppe Flavio giunse con certe particolari lezioni, che si ritrovano più tardi nella recensione antiochena attribuita a Luciano (v. bibbia, VI, p 893)

Simile indirizzo, ma con più deciso orientamento verso i LXX e con varianti che riaffiorano poi in Teodozione, si osserva nei primi scritti cristiani contemporanei di Giuseppe, cioè nelle citazioni del Nuovo Testamento. E invero, la versione dei LXX, diffusa fra tutti i Giudei del mondo greco-romano, fu in mano dei banditori del Vangelo un efficace strumento di conquista, prima fra i Giudei stessi, poi anche fra i pagani. Con essa ai primi provavano la messianità di Gesù Nazareno, ai secondi la superiorità del monoteismo giudeo-cristiano su tutte le forme del politeismo. La Bibbia dei LXX fu l'alleata del Vangelo.

Perciò anche divenne nuovo oggetto di contesa e divisione fra i credenti in Gesù Cristo e i Giudei che non lo vollero riconoscere. Sotto la convergente pressione di tre cause, i Giudei finirono per ripudiare i LXX, la cui opera fu conservata alla posterità solamente dalla Chiesa cristiana. Il profitto stesso che traeva la novella fede da quell'antica versione, la rese antipatica; sta poi il fatto, che quella versione è non di rado piuttosto libera o per altri motivi diverge dal testo ebraico fino d'allora corrente, e quindi offriva buon giuoco ai Giudei per rifiutarla come inesatta; finalmente, su tutto il giudaismo ingrandì e predominò, specialmente dopo la catastrofe dell'anno 70 d. C., l'autorità dei rabbini palestinesi, ostili alle infiltrazioni di cultura greca. Si venne a dichiarare, che "il giorno in cui la legge fu scritta in greco, fu giorno di tenebre per l'universo" (Megillat Taanit), "fu giorno nefasto per Israele, al pari del giorno, in cui si fece il vitello d'oro" (Masseket Soferim; allusione al fatto narrato in Esodo, XXXII). Nei paesi di lingua greca si tollerò la nuova traduzione, estremamente letterale, di Aquila.

Nel mondo cristiano, invece, la versione dei LXX continuò la sua marcia trionfale. Dalle popolazioni di lingua greca passò, per mezzo di traduzioni in secondo grado, alle cristianità d'altro idioma. Ancor oggi le Chiese d'Oriente, sia cattoliche sia dissidenti quasi tutte leggono l'Antico Testamento in una versione derivata dai LXX. Fanno eccezione i Siri, che nella loro cosiddetta Peshiṭtā hanno una versione fatta direttamente dall'ebraico. Ma nonostante le eccellenti qualità di questa antica versione siriaca, anche presso di loro (e questa è forse la prova più eloquente del prestigio dei LXX) l'influenza della greca andò crescendo fino al secolo XIII. Non soltanto si vollero nuove traduzioni siriache dal greco dei LXX (v. bibbia, VI, p. 894), ma lezioni proprie dei LXX invasero sempre più i codici della Peshiṭtā, nei commenti alla Bibbia si citava con onore il "greco" (yaunāyā, come dicevasi) e l'ultimo grande scrittore siriaco l'enciclopedico Barhebreo (v.), nei suoi scolî sull'Antico Testamento affetta quasi disprezzo per la Peshiṭtā a confronto del "greco". Anche nelle regioni di lingua e d'influenza latina l'infanzia della Chiesa fu nutrita con la LXX; e se alla sua virilità era riserbato con la traduzione di S. Girolamo un alimento per molti rispetti superiore, la prevalenza di questa non fu conquistata se non dopo secoli di lotta, né senza ferite (v. bibbia, VI, p. 898); tuttavia i Salmi, che sono rimasti come il libro quotidiano di preghiere nelle Chiese cristiane, in tutta l'estensione della Chiesa latina si recitano e si cantano ogni dì in una forma che deriva direttamente dai LXX.

Da sì vasta diffusione è facile arguire l'influenza che ebbe questa versione sopra la formulazione delle credenze e del linguaggio cristiano. Un tenue esempio l'abbiamo accennato più sopra. Quando parliamo del "firmamento" (per citarne un altro dalla prima pagina della Bibbia) usiamo un'espressione, che, attraverso la Volgata, risale ai LXX. Ma forte e decisiva fu l'influenza dei LXX specialmente attraverso gli scritti del Nuovo Testamento, la cui lingua è tutta impregnata di elementi derivati da quella classica versione. Persino le parole di Gesù, predicate in aramaico, sono riportate dagli evangelisti spesso con termini attinti alla traduzione greca dell'Antico Testamento. S. Paolo illustra la sua dottrina sulla fede commentando la versione greca di Genesi e di Abacuc (cfr. Genesi, XV, 6, con Romani, IV, 1-25, e Abacuc, II, 4, con Romani, I, 17; Galati III, 5-14; Ebrei, X, 35-39). La divinità del Messia nel solenne esordio della lettera agli Ebrei (I, 3) viene espressa con le parole della Sapienza (VII, 25). Al sublime Logos di S. Giovanni non è estranea la veste greca dei profeti dell'Antico Testamento. Una profonda cognizione di questa versione è perciò utilissimo sussidio alle scienze religiose. In particolare se ne avvantaggiano, naturalmente, gli studî biblici, perché essa ci fa raggiungere sia il più antico testo dei Libri sacri, sia la più antica, la prima tradizione esegetica.

Per la relazione col testo ebraico e la questione critica, v. bibbia. VI, p. 892 seg. Il capo della commissione (Septuaginta-Unternehmen) di Gottinga, A. Rahlfs, ha pubblicato un volume dell'edizione critica: Septuaginta Societatis Scientiarum Gottingensis auctoritate, X, Psalmi cum Odis, Gottinga 1931, e un'edizione manuale di tutto l'Antico Testamento con un testo criticamente ristabilito e scelto apparato di varianti, Septuagintia id est Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes, Stoccarda 1935.

Bibl.: Sulla lettera di Aristea e questioni connesse: R. Tramontano, La lettera di Aristea. Introduzione, testo, versione e commento, Napoli 1931; H. G. Meecham, The Oldest Version of the Bible, Londra 1932. Molti "testimonia veterum" nell'edizione del Wendland (Teubner) e in H. St. J. Thackeray, The Letter of Aristeas translated, Londra 1918; id., The Septuagint and Jewish Worship. A Study in origins, ivi 1923; id., Josephus. The Man and the Historian, New York 1929; Z. Frankel, Vorstudien zu der Septuaginta, Lipsia 1841; id., Ueber den Einfluss der palästinischen Exegese auf die alexandrinische Hermeneutik, ivi 1951; J. Herrmann e Fr. Baumgärtel, Beiträge zur Entstehungsgeschichte der Septuaginta, Stoccarda 1923; J. Ziegler, Untersuchungen zur Septuaginta des Buches Isaias, Münster in W. 1934; Fr. Wutz, Die Transkriptionen von der Septuaginta bis zu Hieronymus, Stoccarda 1933; J. Fischer, Zur LXX-Vorlage im Pentateuch, Giessen 1926. Per l'uso nel Nuovo Testamento e nella Chiesa cristiana, H. B. Swete, An Introduction to the Old Testament in Greek, 2ª ed., New York 1914, p. 3ª, capitoli 22-25; W. Dittmar, Vetus Testam. in Novo, Gottinga 1903.

Per la grecità dei LXX: H. St. J. Thackeray, A Grammar of the Old Testament in Greek according to the Septuagint, Cambridge 1909; R. Helbing, Grammatik der Septuaginta. Laut- u. Wortlehre, Gottinga 1907; id., Die Kasussyntax der Verba bei den Septuaginta, ivi 1928; L. F. Schleusner, Novus thesaurus philologico-criticus sive Lexicon in LXX, Glasgow 1928.

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