Shintoismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Pratiche cultuali. 3.
1. Introduzione
Il termine 'shintoismo' è stato diffuso nel secolo scorso dai primi interpreti moderni della cultura giapponese che lo utilizzarono per indicare il complesso delle attività rituali rivolte ai
La definizione di 'divinità' spesso citata come la più puntuale è quella del grande studioso
2. Pratiche cultuali
Tra
Nella maggior parte dei casi il culto si articola in riti agricoli, legati alla coltivazione del riso, che scandiscono i momenti di trapasso stagionale: la richiesta di messi abbondanti all'inizio dell'anno,
3. Clero e luoghi di culto
I siti in cui si tenevano questi riti di comunione con le divinità furono ben presto provvisti di strutture stabili. Nelle lingue europee li si chiama 'santuari' (jinja), per distinguerli in modo sistematico dai 'templi' o 'monasteri' (tera o jiin) buddhisti, anche se prima della metà del secolo scorso la norma era di vedere accoppiate le due istituzioni in un unico complesso di culto. Il santuario dei kami comprende di regola due padiglioni principali con destinazione funzionale diversa. L'uno, ora chiamato honden, serve a offrire alloggio alla divinità e viene aperto nelle occasioni rituali. L'altro, chiamato invece haiden, è il luogo dove hanno luogo tutte le pratiche cultuali. L'ingresso all'intero recinto sacro, che racchiude anche edifici minori (il padiglione dove vengono preparate le offerte di cibo o mikeden, la vasca con l'acqua per il lavacro purificatore dei visitatori, ecc.), viene segnalato da un semplice portale in legno detto torii, più simbolico che funzionale. I santuari conservano il caratteristico tetto di paglia dell'architettura indigena, tramandandone i tratti arcaici riconducibili al prototipo del magazzino, nel caso del tempio di Ise, e a quello della casa di abitazione nel caso di quello di Izumo.
Le funzioni sacerdotali nell'antichità erano accoppiate ai più alti livelli a quelle di governo della comunità. Non solo il sovrano aveva tra i suoi compiti quello di stabilire un rapporto favorevole con i kami dell'universo o con un kami che, nella gerarchia divina codificata mitologicamente, corrispondesse alla sua funzione nel regno, ma anche i governatori provinciali nell'assumere il loro incarico facevano innanzitutto visita ai santuari locali e officiavano i riti in onore dei kami. Nei grandi centri di culto tuttavia si sono costituite famiglie sacerdotali che si trasmettevano ereditariamente la carica insieme alle prescrizioni per l'ufficio dei riti, finché, in epoca moderna, è stato definito lo status di sacerdote shintō (shinshoku), che però conserva nomi diversi a seconda della tradizione locale.
4. Testi e iconografia
Nello shintoismo, in generale, la parola scritta ha una funzione irrilevante ai fini della partecipazione del singolo alla vita religiosa. Anche il culto non prevede l'uso di testi, ma dalla fine del XV secolo è stato riconosciuto un posto nella liturgia, a imitazione delle scritture buddhiste, al
Nei santuari shintō non si notano raffigurazioni delle divinità. Ciò è dovuto al movimento di restaurazione della cultura religiosa antica riflesso nella politica governativa che, a partire dal 1868, ha voluto eliminare qualsiasi influenza buddhista nel culto dei kami. Infatti la tradizione iconografica shintō nacque verso la fine dell'VIII secolo dietro lo stimolo della varietà multiforme della sua controparte buddhista. Si trattava di statue che dovevano evocare, nascoste nei sacelli dei santuari, la presenza numinosa del dio. Quando non adottavano fogge riconducibili direttamente al buddhismo, gli scultori immaginavano i kami come nobili principi o principesse abbigliati con i costumi di corte. Sempre nell'ambito di questa cultura sincretica, a partire dall'epoca tardo-medievale si sono diffuse rappresentazioni pittoriche delle divinità e dei maggiori luoghi di culto (sankei mandara), usate anche dai predicatori itineranti che in quell'epoca ne diffondevano la devozione al di là dei confini dell'ambiente locale.
5. Forme di affiliazione
Le caratteristiche di fede individuale, di adesione volontaristica, tipiche di alcune tradizioni settarie di ispirazione buddhista sono deboli o inesistenti nella religione shintoista. La partecipazione al culto è un mandato obbligatorio derivato dall'appartenenza alla comunità in cui l'individuo è nato. L'unità territoriale è l'ujiko, composta di famiglie che hanno diritti e obblighi cultuali nei confronti della divinità tutelare del luogo (ujigami). La componente laica nella gestione del ciclo rituale è, in questo senso, molto forte, dato che esso è in mano alla comunità più che ai sacerdoti. Soprattutto nel Giappone occidentale, il culto era organizzato da associazioni esclusive chiamate miyaza, composte dalle famiglie di maggior prestigio, ma
Dal secolo scorso, tuttavia, il rapporto che lega l'individuo alle istituzioni religiose è in parte mutato coinvolgendo anche i santuari shintō. L'affiliazione religiosa è diventata in molti casi motivata in senso 'clientelare', per usare l'efficace espressione di W. Davis, il quale definisce 'clienti' di un santuario coloro che intrattengono con esso un rapporto del tutto transitorio e occasionale. Un esempio di associazione clientelare sono le visite compiute
6. Sviluppo storico
Le notevoli trasformazioni delle figure divine, delle forme di devozione, dei contesti istituzionali e dei modi di aggregazione religiosa impediscono di guardare allo shintō come a una realtà identica nel corso del tempo. Una breve panoramica del suo sviluppo storico è quindi necessaria al fine di individuare linee di continuità e punti di rottura nei paradigmi dominanti.
a) Il periodo antico (dalle origini al IX secolo)
Gli scavi archeologici ci hanno restituito tracce di siti cultuali risalenti già al IV secolo d.C. nei luoghi in cui sorgevano santuari in epoca storica. D'altronde la nascita delle prime formazioni statali tra il III e il V secolo è strettamente legata ad aree sacre, come si può vedere dalla distribuzione dei sepolcri monumentali (kofun). Le divinità via via venerate sono anche in questo caso quelle di centri di culto la cui importanza continua ancora oggi: il santuario dedicato al kami del Monte Miwa, nel periodo più antico; quello di Isonokami, dagli stretti legami con clan di guerrieri; quello di Sumiyoshi, collegato probabilmente alle divinità del mare e del ferro, proveniente, per via d'acqua, dal continente. Nei sepolcri dei grandi capitani già da quest'epoca troviamo gli strumenti liturgici propri del culto officiato dal sovrano-sacerdote: la spada, lo specchio, la gemma ricurva detta magatama. Gli stessi oggetti sono rimasti nei secoli gli emblemi regali del sovrano giapponese.
La povertà di fonti impedisce di ricostruire nel dettaglio la mappa delle forme cultuali indigene dei primi secoli, anche se appare chiaro che l'apporto esterno non deve essere stato trascurabile. A partire dal VII secolo esse subirono un processo di sistematizzazione parallelo all'organizzazione amministrativa sul modello burocratico cinese, cui fu sottoposta l'intera società. L'esempio cinese, in effetti, ebbe un forte valore normativo nella riformulazione della religione tradizionale. A questo contesto risale la più antica testimonianza del termine shintō nel Nihon shoki (720). Il culto dei kami viene qui contrapposto a quello buddhista, con un vocabolo preso a prestito in modo occasionale dalla terminologia religiosa cinese, spesso sbrigativamente definita 'taoista'.
Dal punto di vista istituzionale il governo dei riti religiosi assume una forma definitiva durante i regni dei sovrani Tenmu e Jitō (672-697) e la devozione verso le divinità indigene viene indicata in modo sempre più cosciente contrapponendola a quella per i
b) Il Medioevo (secoli X-XV)
Il trapasso verso uno shintō medievale coincide con il X secolo. Nuove forme di devozione, innanzitutto, attribuiscono alle divinità caratteristiche diverse. Dall'incontro dei monaci buddhisti con i culti locali, ad esempio, nasce l'idea, d'ora in poi corrente, che i kami siano 'tracce visibili' di un"essenza originaria' (honji) di buddha o bodhisattva. Quelli considerati più potenti hanno una decisa mobilità e travalicano l'ambito locale grazie al popolare concetto di 'invito' (kanjō). Santuari dedicati allo stesso culto, di conseguenza, si trovano in più luoghi. A quest'epoca risalgono molti di quelli tuttora più diffusi su scala nazionale, in special modo i quattro filoni di
Le nuove forme religiose trovarono un loro modo d'essere anche nella celebrazione di riti propiziatori strettamente legati alla prosperità del regno, indirizzati non solo ai kami ma anche ai buddha e bodhisattva presenti all'interno del complesso sacro. Tra il X e l'XI secolo, epoca del dominio incontrastato del clan dei Fujiwara, la corte imperiale individuò infatti una serie di ventidue santuari, con annesso tempio buddhista (Ise, Iwashimizu, Kamo, Matsunoo, Hirano, Inari, Kasuga, Ōharano, Ōmiwa, Isonokami, Ōyamato, Hirose, Tatsuta, Sumiyoshi, Hie, Umenomiya, Yoshida, Hirota, Gion, Kitano, Niukawakami, Kifune), a cui fu trasferito il compito di osservare il ciclo rituale annuale, una volta di competenza esclusiva dei ritualisti di corte. Si venne così a creare una nuova gerarchia di siti cultuali che, insieme a santuari di antica tradizione, comprendeva centri religiosi di recente popolarità collegati alla devozione personale dei sovrani.
Verso la fine del periodo medievale appare una speculazione dottrinaria che a poco a poco fornisce le basi teoriche per considerare lo shintō una tradizione autonoma rispetto al buddhismo. A tal fine fu importante il ruolo svolto dalla famiglia sacerdotale del santuario di Ise, i Watarai (da qui il nome di Watarai shintō) e dai cosiddetti Cinque scritti sullo shintō (Shintō gobusho) da essi prodotti. Nella concettualizzazione questi scritti tradiscono ancora un forte debito intellettuale nei confronti della Cina e del buddhismo, e in particolare si nota un'attenzione più articolata e cosciente alla condizione di purità individuale di chi celebra o partecipa al rito in onore dei kami. Il loro culto, peraltro, trova rinnovata autorità grazie all'idea, diffusa proprio in questo periodo, del Giappone come regno dei kami (shinkoku), cui infonde vigore la sconfitta delle armate mongole (1274 e 1281) attribuita proprio all'intervento delle potenze divine in forma di tempesta. Successivamente la speculazione dottrinaria si lega alla popolarizzazione dei culti nella figura di Yoshida Kanetomo (1435-1511), della famiglia sacerdotale dell'omonimo santuario di Kyoto. Dei riti ancestrali, abbandonati dalla corte a causa delle rovinose guerre che infiammano la capitale verso la fine del XV secolo, egli si appropria come leader di un movimento religioso che reclama la trasmissione esclusiva e segreta di dottrina e rituali. Nel trapasso verso l'epoca moderna lo shintō adotta forme che in effetti devono molto alla predicazione individuale di Kanetomo. A lui si fa risalire, tra le altre cose, l'inizio della divinizzazione come kami dei governanti defunti (
c) Verso la modernità (dal XVI al XIX secolo)
Con l'inizio del dominio dei Tokugawa, nel XVII secolo, un nuovo assetto istituzionale emerge dalla ricostruzione della società dopo le distruzioni delle guerre precedenti. Anche dal punto di vista dell'amministrazione religiosa, il governo shogunale (
Se si pensa che questi secoli sono anche quelli in cui si sviluppano correnti intellettuali volte a riaffermare la tradizione autoctona, è facile intuire come la situazione appena descritta fosse fonte di tensioni durante tutto il periodo. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento il numero dei sacerdoti shintō che vogliono evadere dal sistema si fa sempre maggiore. All'interno dei singoli feudi, d'altronde, la diffusione di un pensiero ostile al buddhismo fa prendere ad alcuni signori misure drastiche, in contrasto con le linee generali della politica religiosa dei Tokugawa. Nei domini di Mito, Aizu e
Anche il reclutamento del clero viene sistematizzato in quest'epoca, stabilendo definitivamente l'ereditarietà delle cariche nelle mani delle due grandi famiglie sacerdotali degli Yoshida e degli Shirakawa. Gli Yoshida, in particolare, si sostituirono nella sostanza alla corte per il coordinamento dei santuari sparsi sull'intero territorio. Godendo dell'appoggio ufficiale del bakufu, essi avevano uffici di rappresentanza nei grandi centri urbani di Edo e
La riflessione intellettuale è una caratteristica di questi secoli di prolungata pace sociale. Alla teorizzazione del sincretismo shinto-buddhista subentrarono innanzitutto interpretazioni dello shintō in chiave confuciana, visto che il neoconfucianesimo, una delle ideologie dominanti, offriva un vocabolario 'filosofico' del quale finirono per servirsi un po' tutti. Nell'interpretazione dello shintō in quest'ottica ebbe un suo ruolo la tradizione confuciana della polemica antibuddhista, insieme alla convinzione che le virtù confuciane di lealtà al sovrano potevano essere lette, nel contesto culturale giapponese, come un invito a seguire il culto religioso autoctono, inestricabilmente legato, almeno nell'antichità, all'autorità dei sovrani. Figure come Fujiwara Seika (1561-1619) e Hayashi Razan (1583-1657), insieme, ma in forma diversa, a Yamazaki Ansai (1618-1682), sono le più rappresentative di tale tendenza. Tuttavia è l'interpretazione dello shintō legata alla cosiddetta corrente degli 'studi nazionali' (kokugaku) a divenire dominante per la ridefinizione totale dell'universo religioso che la restaurazione Meiji del 1868 indurrà. Tale movimento di idee fa capo a Motoori Norinaga e ai suoi predecessori, condotti a riflessioni anche di carattere religioso da un più generale vagheggiamento estetico-letterario di un'epoca delle origini in cui lo spirito giapponese non era contaminato da sensibilità cinesi. Questa corrente rigettava ogni accostamento del culto indigeno dei kami al confucianesimo o al buddhismo. La speculazione di Norinaga si basava, in modo innovativo, sul Kojiki, predicando l'onnipresenza delle divinità e dando importanza alla figura del dio Takamimusubi come generatore del mondo fenomenico. Le sue idee di fondo furono accolte da Hirata Atsutane (1776-1843), colui che più ha contribuito a trasformare gli 'studi nazionali' da movimento estetico in fonte di attivismo sociale. Atsutane arricchisce il panorama elaborato da Norinaga di nuove prospettive cosmologiche ed escatologiche, cui non dovettero essere estranee le sue frequentazioni di testi occidentali.
d) La riformulazione nel mondo moderno e contemporaneo (dal 1868 a oggi)
La restaurazione del potere imperiale del 1868 ebbe un'influenza determinante sul modo in cui venne organizzata la vita religiosa. In molti campi questa coincise con un rinnovamento che finì per tagliare i ponti con il passato più di quanto a prima vista si potrebbe pensare. Per lo shintō ciò avvenne sia nelle istituzioni che nel culto. Anzi, si potrebbe addirittura dire che lo shintoismo, in quanto complesso dottrinario teorizzato e istituzionalizzato, abbia origine dagli editti di 'separazione tra kami e buddha' (shinbutsu bunri) promulgati allora. Per effetto di essi venne a cessare, non senza forzature e opposizioni violente, quella commistione di elementi riconducibili rispettivamente al buddhismo e al culto autoctono dei kami presente a tutti i livelli nei luoghi di devozione.
Accanto a queste misure, la restaurazione in varie riprese dell'istituto del Jingikan (il già citato Ufficio per le Divinità del Cielo e della Terra) significò un ritorno formale all'antico. Insieme alla diffusione di riti funebri shintō, essa era stata vista come un elemento chiave per il recupero delle istituzioni puramente 'giapponesi' predicato con sempre maggiore insistenza dal XVIII secolo in poi, con l'idea di assicurare di nuovo allo Stato la gestione della prassi rituale ortodossa. Tuttavia la mutata situazione culturale, con le prime avvisaglie di un'invasione missionaria cristiana, fece sentire come altrettanto importante l'esigenza di predicare una 'dottrina'. Questa funzione propagandistica, in cui temi religiosi si mischiavano alle parole d'ordine dei grandi miti 'civili' del Giappone di quegli anni, fu in effetti per un breve periodo demandata a un clero composito alle dipendenze dirette dello Stato. Dal 1872 venne rielaborato e sistematizzato il complesso dei riti che dovevano essere compiuti in occasioni periodiche sia alla corte che nei santuari locali. Prese forma in questo modo ciò che gli storici giapponesi chiamano lo 'shintō di Stato' (kokka shintō). A esso, grazie anche alla diffusione di una concezione della religione modellata sulla tradizione monoteistica europea, venne ben presto negata la qualifica stessa di religione, in nome, paradossalmente, della libertà di culto, e fino al 1945 la cura dei riti shintō venne considerata un aspetto dell'amministrazione civile.
Parallelamente, all'insegna della razionalizzazione e dell'efficienza, vennero assestati poderosi colpi all'assetto tradizionale del clero. Si pose fine, tra l'altro, alla gestione ereditaria dei santuari da parte delle famiglie sacerdotali, che appariva in contrasto con la tradizione più antica. Scomparve così, in breve tempo, l'eredità delle conoscenze tecniche dell'ufficio rituale, e ciò causò spesso anche la scomparsa della prassi religiosa tradizionale, sostituita da elaborazioni studiate a tavolino con lo scopo di ricercare antichi rituali o di adattarli alle esigenze moderne. Per altro verso i santuari, dipendendo anche economicamente dallo Stato, furono sottoposti a misure che ne limitarono l'autonomia. Prima tra tutti, nel 1872, la confisca delle terre di cui erano proprietari, tranne il terreno posto all'interno del perimetro sacro. Questi tentativi di razionalizzazione culminarono nella grande campagna che portò all'eliminazione fisica di molti di essi tra il 1906 e il 1912.
Se nel mondo dei santuari venne confinata una prassi rituale gestita e controllata dallo Stato, la propaganda della dottrina religiosa rimase invece, alla fine, dominio di un gruppo di movimenti settari, anch'essi riconosciuti in modo ufficiale come 'shintō delle sette' (kyōha shintō). Nel 1899 si trattava di 13 organizzazioni che, nella maggior parte dei casi, avevano origine dagli insegnamenti predicati nelle campagne da figure carismatiche vissute verso la fine del periodo dei Tokugawa (Kurozumi-kyō, Tenri-kyō, Konkō-kyō), o dal culto delle montagne, popolare in associazioni laiche dello stesso periodo (Fuji-kyō, Ontake-kyō). L'attribuzione della qualifica di shintō, peraltro, significava in molti casi solo la possibilità di godere di un riconoscimento ufficiale, dato che il rapporto con il culto dei kami di tradizione più antica era a volte effettivamente assai labile. Queste sette rappresentano i primi esempi di quei movimenti religiosi di massa dalle caratteristiche eterogenee che hanno costellato in Giappone la storia di questo secolo, crescendo in modo incontrollabile nel secondo dopoguerra.
La posizione dello shintō come religione di Stato venne meno nel 1945, con un decreto varato dalle autorità di occupazione americane che impose la cessazione del sostegno economico ai santuari e della partecipazione diretta dell'imperatore a riti che avessero un aspetto 'pubblico'. Questo decreto rimase in vigore fino alla stipula del Trattato di pace del 1952 ed ebbe influenza decisiva sulla successiva normativa in materia religiosa. Sulla base del principio della separazione tra Stato e affari religiosi e dell'eguaglianza di tutti i credo religiosi di fronte allo Stato, venivano elencate una serie di proibizioni, peraltro non sempre logicamente coerenti. Si tese soprattutto a estirpare tutte le manifestazioni dello shintō di Stato vietandone la diffusione nell'istruzione a tutti i livelli, vietando le visite ai santuari da parte dei funzionari dello Stato o la presenza dell'altare dei kami (kamidana) negli uffici pubblici. La politica religiosa delle forze di occupazione trovò la sua applicazione, a partire dal 1946, nelle ordinanze emesse dal nuovo governo giapponese. Un occhio di particolare riguardo fu riservato ai riti di corte e ai rituali funebri sulle tombe degli imperatori defunti, che, a parte alterazioni minori, si continuarono a officiare come in passato. Si vollero estirpare, invece, usanze ormai radicate nella società e giudicate ideologicamente pericolose. Così, all'inizio, fu proibito agli scolari delle scuole pubbliche di visitare templi o santuari durante le gite scolastiche, furono vietati la raccolta di fondi per il santuario da parte delle associazioni di quartiere negli ambienti urbani, le cerimonie religiose volte a pacificare le divinità del suolo in occasione della costruzione di edifici pubblici, funerali o commemorazioni pubbliche per i caduti in guerra, monumenti o stele commemorative per i medesimi. La protesta che seguì portò, però, a un'assai maggiore elasticità nell'applicazione di questo genere di provvedimenti a partire grosso modo dal 1949. La separazione tra Stato e religione ha innescato polemiche che hanno costellato la storia del dopoguerra, non ultima quella relativa alla cerimonia per l'ascesa al trono dell'attuale imperatore.
In seguito a questi mutamenti le migliaia di santuari sparsi sul territorio crearono un organismo centralizzato, il Jinja honchō o 'Agenzia Centrale per i Santuari dei Kami', che serve all'amministrazione dei luoghi di culto. L'idea iniziale era di modellare lo shintō sulle altre religioni, in particolare ci si voleva ispirare alla concezione della 'Chiesa' o delle 'Chiese' cristiane. L'agenzia avrebbe quindi dovuto nominare un responsabile dell'ortodossia dottrinale e avrebbe avuto il potere di nominare i sacerdoti oltre un certo grado della gerarchia religiosa. Ciò tuttavia cozzava in modo troppo evidente con la natura tradizionale del culto locale. Perciò si finì per adottare la formula della 'federazione' dei santuari concepiti come organismi indipendenti. Ora lo shintō interviene sempre di più nei momenti privati della vita degli individui, pur se in modo del tutto occasionale. L'evento
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