SIENA

Enciclopedia Italiana (1936)

SIENA (A. T., 24-25-26 bis.)

Attilio MORI
Peleo BACCI
Anna Maria CIARANFI
Doro LEVI
Giovanni CECCHINI
Alfredo BONACCORSI
Settimio CORTI
Tammaro DE MARINIS
Attilio MORI
Aldo LUSINI

Città della Toscana, capoluogo di provincia e sede arcivescovile; per i ricordi del suo passato e i tesori artistici che racchiude, una delle più interessanti e celebrate città minori del regno. Siena sorge nel centro dell'altipiano toscano sulle alture che separano il bacino dell'Arbia (Ombrone) da quello dell'Elsa (Arno) alla posizione geografica media di 43° 19′ latitudine N. e 11° 20′ longitudine E. La sua altitudine, che al Palazzo del comune è di 320 m., varia tra 361 (S. Quirico) e 288 (Porta di Fonte Branda). L' area racchiusa nel perimetro delle sue vecchie mura (6667 m. di sviluppo) ragguaglia 164,93 ha.

Il clima è mite, ma alquanto più fresco che a Firenze come comporta la diversa altitudine. La media temperatura annua è di 13°,5 (0°,8 meno che a Firenze), la media del gennaio è di 4°,6, di un solo decimo di grado inferiore a quella di Firenze, mentre quella del luglio, pari a 23°,5, è inferiore a quella di Firenze di 1°,1. Meno abbondanti le precipitazioni, come si verifica in tutto l'altipiano toscano. La quantità media è di 782 millimetri, di 81 mm. inferiore a quella di Firenze, con minore frequenza (97 giorni contro 120).

Al censimento del 1640 la popolazione di Siena risultò di 16.000 abitanti. Un secolo dopo (1745) era discesa a 14.645, per salire a 18.860 nel 1833, a 20.333 nel 1843, a 22.560 nel 1861. Dopo l'unificazione del regno si ebbe anche a Siena, sebbene in più modeste proporzioni, un incremento più rapido. Nel primo decennio la città era rimasta stazionaria con 21.902 ab., saliti a 22.965 nel 1871; a 25.200 nel 1881; a 28.375 nel 1901. Aggregato il comune suburbano delle Masse con una popolazione di 10.810 abitanti, il comune di Siena venne ad averne 41.673 nel 1911; 42.930 nel 1921; 47.688 nel 1931. Di questi 32.545 vivono nel centro urbano che con lo svilupparsi di nuove costruzioni viene a invadere anche parte dell'antico territorio aggregato delle Masse e il rimanente si trova ripartito in piccoli centri o sparso per la campagna. L'area dell'intero comune dopo l'aggregazione delle Masse, è di kmq. 117,60 di cui kmq. 1,65 rappresenta quella della città.

Nel suo aspetto edilizio, nei suoi monumenti come anche nella sua struttura stradale, Siena è una citta medievale e particolarmente trecentesca. Tale carattere, di poco alterato da costruzioni piu recenti, si è procurato e si cerca di mantenere coi moderni lavori coi quali si è dovuto provvedere al necessario riordinamento di alcuni quartieri della vecchia città. Il centro, dove affiuisce tanta parte dell'attività cittadina e dove si svolge il tradizionale palio che vi fa convenire sì gran numero di spettatori, è il Campo, l'antica piazza a forma concava semicircolare, come di conchiglia, pavimentata a mattoni per coltello, su di un lato della quale sorgono il Palazzo pubblico sormontato dalla caratteristica Torre del Mangia, osservatorio magnifico che domina tanta parte dell'altipiano toscano, e altre cospicue costruzioni private. La rete stradale che se ne dirama è molto irregolare, costituita in genere di strade strette e tortuose intramezzate da piccoli slarghi e piazze su cui si affacciano ricche chiese e palazzi.

Oltre ai riordinamenti e risanamenti accennati, si costruiscono nuovi quartieri fuori delle antiche porte, fra i quali quello di San Prospero adiacente alla Lizza: antica fortezza convertita sino dal 1779 in giardino pubblico. La rete stradale misura nell'interno della città km. 34,550. Bene illuminata da un recente impianto elettrico; provvista largamente di buona acqua potabile, dopo che nel 1914 fu condotta in città quella delle sorgenti del Vivo nell'Amiata, Siena costituisce un gradevole soggiorno, oltre che un centro di attrazione artistica e culturale assai reputato e largamente frequentato e può vantare un reale primato per quanto riguarda le sue opere di beneficenza cui in larga misura provvede il suo antico e potente istituto bancario del Monte dei Paschi (v. monte, XXIII, p. 727). Di scarsa importanza è l'industria che si limita ad alcune lavorazioni di ebanisteria, di ferro battuto e di dolci (panforte).

Arte. - Architettura. - In Siena l'arte non estese una propria egemonia sul contado, ma subì invece le influenze costruttive, come quelle pittoriche e plastiche, che dal contado le vennero. Lo sviluppo della città medievale fu lento. Andò occupando uno dopo l'altro tre colli. Sopra ognuno costruì un castello con particolari mura, porte, fossati; poi i tre castelli vennero recinti da una cerchia murata, irregolare e accidentata, come gli sbalzi del terreno consentivano, racchiudendo borghi, chiese, palazzi, e le alte e forti torri petrigne che infoltivano la linea ondulata dei colli.

Dentro la cinta è tuttavia mantenuto il ricordo dei tre colli che si elevavano dalle bassure di Vallepiatta, di Val di Montone, di Vallerozzi, e dai tre colli venne pure la divisione in terzieri: quello di Città, di S. Martino, di Camollia. Il primo terziere si disse, e si dice, di Città (Civitas), perché costituì il nucleo originale della città vera e propria. In questo terziere fu compreso il borgo, che menava al castrum, costruito sul primo dei tre colli, detto tuttavia Castelvecchio, e fu pure compreso il pianoro a pie' del castello, dove erano la piccola pieve romanica di S. Maria, sull'area della quale venne poi edificato il duomo e, poco distante dalla Pieve, il primo Battistero, oggi distrutto.

Sulla vetta del Castelvecchio, si trovano incorporati nella chiesa di S. Quirico gli avanzi della più remota costruzione civile. Grandi archi a tutto sesto, aventi circa 13 metri di corda, s'impostano su mezze colonne di mattoni sagomati con capitelli di tufo intagliati e capitelli di cotto a piramide rovescia e smussi agli angoli, di tipo lombardo. Tale edificio deve essere verosimilmente identificato nella curtis regia o stallum regis (onde il nome della civica via Stalloreggi): cioè il centro dell'amministrazione pubblica dove risiedeva il gastaldo e dove convergevano le prestazioni civiche e le finanze.

Grandi abbazie benedettine, con vasti possedimenti, occupavano in largo cerchio il contado senese, dal mare, ai monti, alle valli.

Di questo denso fiorire ed espandersi nel contado di abbazie e di pievi, rare e modeste ripercussioni rimangono in Siena: l'epistilio di S. Desiderio, chiesa ricordata nel 1051, dipendente da S. Antimo e oggi sconsacrata; l'abside, il chiostro e la porticina laterale di S. Cristoforo; l'abside di S. Andrea, con copertura poligonale in tufo, ricordata nel 1175 e nel costituto senese del 1262; la torre campanaria di S. Giorgio con celle ad archi a sbarra; San Pietro in Castelvecchio, consacrato nel 1259, con avanzi di cupola ottagona. E tra le badie quella di S. Donato, fondata nel 1096, passata ai Vallombrosani nel 1119, consacrata da Eugenio III nel 1148, oggi parrocchia, con avanzi notevoli di cupola del sec. XII su archi a bozze alternate bianche e nere.

Ogni potere creativo, ogni fasto decorativo si raccolsero poi nel duomo, che sorse sulle rovine della primitiva pieve di S. Maria.

Spartito con pilastri lombardi, ebbe in origine un presbiterio sopraelevato, difeso da cancelli marmorei, e una vasta cripta alla quale si accedeva per due gradinate. Aveva anche un coro poligonale. Mentre dell'opera, o fabbriceria, vi è memoria nel 1196, il ricordo della officiatura del duomo è solo del 1215, come del 1226 è la prima notizia di fornitura di marmi bianchi e neri, che a fasce alternate, zebrano pilastri e paramento. La maestranza costruttiva è capeggiata dal Bencivenni. Negli anni tra il 1259 e il 1262 si apportarono varianti. Furono fatti i sedili del coro, si costruirono vòlte lungo le navate, e vennero coperti i displuvî con piombo.

Lo sviluppo dei sei pilastri che sorreggono la cupola (su pianta esagona irregolare) dimostra un avanzamento di tempo e di stile in confronto dei pilastri delle navate. L'attiguo campanile, della metà del secolo XIII circa, a sei ripiani, che si dice trasformazione di una torre signorile, è pure rivestito da fasce di marmo bicrome. I capitelli dei pilastri interni del duomo stanno a dimostrare riprese o modificazioni d'insieme. Mentre alcuni sono di una arcaica romanicità, altri risentono dell'arte di Nicola Pisano, che potrebbe avervi lavorato prima del 1265. Nelle cornici si vogliono vedere anche influssi gotico-borgognoni.

L'arte cisterciense di S. Galgano influì sugli ultimi rimaneggiamenti del duomo, sulla sua facciata, ideata e dovuta in parte a Giovanni Pisano (1285) e in parte a Giovanni di Cecco (1377), nella costruzione del Duomo Novo, architettato da Lando di Pietro (1340), lasciato in tronco; nelle due fasi della facciata del battistero di S. Giovanni, erroneamente attribuita a Iacopo di Mino del Pellicciaio; nelle chiese di S. Domenico e di S. Francesco; del Carmine; in quella dei Servi, anteriormente alla trasformazione del sec. XV; in quella di S. Agostino, poi rinnovata da L. Vanvitelli (1775), e infine nel portale di S. Pietro alla Magione. E più il gotico cisterciense, con variate modificazioni, diede norma all'architettura civile, nei molteplici palazzi, in alcune porte della cinta murata, come Ovile, Pìspini (1326), Romana (1327), Tufi (1325), e nella fonte pubblica d'Ovile.

I palazzi senesi dell'epoca gotica vanno, press'a poco, dalla costruzione del Palazzo della repubblica (1296) alla pestilenza del 1348. Tra i primi a sorgere, il palazzo Tolomei, tutto in pietra; gli altri costruiti per lo più in mattoni. Caratteristica delle archeggiature è l'arco senese, arco a sbarra collegato con l'arco acuto. Nel paramento si aprono bifore e trifore con colonnette e basi e capitelli marmorei, su cui s'impostano archetti lobati. Trifore le finestre del Palazzo del comune, dei palazzi Saracini, Buonsignori (oggi R. Pinacoteca), Salimbeni (sede del Monte dei Paschi); bifore quelle del palazzo Tolomei e del Capitano (oggi Piccolomini).

L'archetipo dell'architettura civile gotica è il Palazzo del comune, che in una riunì la residenza del popolo e del podestà, con cortile ad arcate, sorretto da pilastri poligoni in cotto; la Torre del Mangia, coronata da Lippo Memmi (1341); e a pie' di essa la cappella gotica (1376) rinnovata nella parte superiore da Antonio Federighi (1468-1470). E con le manifestazioni dell'architettura gotica una vera e propria scuola d' architetti senesi: Lorenzo Maitani, legato alla gloria del duomo di Orvieto; il figlio suo Vitale, e Nicola di Nuto; Camaino di Crescentino, capomaestro del duomo di Siena (1318); Tino, suo figlio, che rivedremo fra gli scultori; Angelo di Ventura, architetto civile e militare che costruì la Porta Tufi; Agostino di Giovanni, disegnatore del palazzo Sansedoni (1340); i figli Giovanni e Domenico d'Agostino; Lando di Pietro, orafo e architetto, ideatore del Duomo Novo; Michele di ser Memmo, anche orafo e musaicista; Giovanni di Stefano; e infine Giovanni di Cecco, coronatore della facciata del duomo e scultore degno di maggior fama.

Questo del tempo gotico fu il pieno fiorire di Siena nell'arte. Ancora goticheggiando, s'iniziò nel 1417 la Loggia de' Mercanti, e ne fu architetto Sano di Matteo. Pisa aveva dominato l'arte senese dalla seconda metà del Duecento ai primi decennî del Trecento; ora Firenze iniziava con l'arte e con gli artisti quella penetrazione fiorentineggiante, che doveva poi portare, per infelici vicende politiche, alla soggezione della libertà senese.

Il Rossellino in Siena scolpisce nel 1446 il portale della Sala del concistoro, e, divenuto l'architetto di Pio II, disegna e inizia il palazzo detto delle Papesse, in Via di Città; Giuliano da Maiano architetta il palazzetto dei monaci di S. Galgano, in Via Romana, e per gli Spannocchi il palazzo, diminuito nel fianco sinistro, sullo sbocco della Piazza del Monte dei Paschi.

Indubbiamente l'architettura senese del sec. XV avrebbe assunto un proprio carattere locale, come l'ebbe nel sec. XIV l'architettura gotica, se si fosse lasciato libero volo ad Antonio Federighi, che in sé condensò in modo personale elementi romani e fiorentini, come dimostra la larghezza concettuale della Loggia del papa, con arcate sorrette da colonne corinzie e dominate da un alto attico. Quanto egli valesse come architetto è confermato dal rialzamento della cappella di Piazza e dalla cappella e palazzo detto de' Diavoli, fuori della Porta Camollia.

Diretti seguaci degli schemi fiorentini furono Francesco di Giorgio Martini e il suo collaboratore Giacomo Cozzarelli. Del Martini operoso in tante parti d'Italia, in Siena non si conoscono opere sicure; ma nell'ambito della sua arte possono essere poste le costruzioni della Madonna delle Nevi, di S. Caterina in Fontebranda, dove pur lavorarono Francesco del Guasta e Corso di Bastiano, e del palazzo Bandini Piccolomini, presso S. Vigilio. Al Cozzarelli possono essere assegnate con sicurezza - dopo il ritorno da Urbino - la costruzione del palazzo del magnifico Pandolfo Petrucci, la sagrestia dell'Osservanza sul Colle della Capriola e la chiesa e convento di S. Maria Maddalena fuori Porta Tufi, demomoliti nel 1526.

L'architettura senese del sec. XVI è tutta compresa nell'arte di Baldassarre Peruzzi, ramo rigoglioso che si innesta su tronco bramantesco e sangallesco. Dopo il sacco di Roma, il Peruzzi ritornò a Siena fuggiasco e derelitto. Architetto del duomo, vi costrui il nuovo altare. Tra le architetture militari, rimane il fortilizio di Porta Pìspini e tra gli edifici civili, il palazzo Pollini in piazza del Carmine.

Ebbe seguaci e imitatori, fra cui Anton Maria Lari, che costruì il palazzo Palmieri (1540), in Piazza Tolomei; Giovan Battista Pelori, morto a Avignone nel 1558, architetto della chiesa di S. Martino, con pianta a croce latina, sormontata da cupola (1537); Bartolomeo Neroni, detto il Riccio, architetto del palazzo Tantucci; Fra Damiano Schifardini, ideatore del magnifico tempio di Santa Maria di Provenzano (1594), con cupola slanciata sopra un alto tamburo, con facciata d'ordine corinzio e composito, con interno barocco, mosso, ma senza eccessi. Al nome dello Schifardini viene associato quello di Flaminio del Turco, che ebbe grande parte nei lavori di Provenzano e che si può dire il vero e proprio realizzatore del barocco in Siena. Si deve a lui la chiesa di San Paolo della Contrada della Chiocciola, la chiesa di S. Niccolò in Sasso, e l'oratorio della Trinità.

Tra gli architetti senesi del sec. XVII che operarono in Siena, ricordiamo Benedetto d'Odardo Giovannelli che architettò la cappella del Voto (1661), in duomo, per papa Alessandro VII, e la facciata della chiesa di S. Raimondo, detta del Refugio.

Scarso di notevoli nomi d'architetti senesi è il secolo XVIII e l'inizio del XIX: Antonio Posi che disegnò i seggi del coro di Provenzano nel 1755 e edificò il campanile della chiesa di S. Francesco nel 1765; Francesco Paccagnini (nato nel 1780), montalcinese, che disegnò la bella scala per il monastero degli agostiniani; Agostino Fantastici (nato nel 1782) che riedificò l'atrio neoclassico del Collegio Tolomei; e pochi altri ancora.

Pittura. - Le origini della pittura senese sono da cercare nella miniatura, certamente operosa nelle grandi abbazie benedettine sparse nel territorio di Siena. Dalla miniatura forse venne in parte alla pittura, o fu rafforzata, quella perenne tendenza al decorativo, alla ricca e preziosa unione di tinte brillanti e pure, al particolare, perfino all'estrema finitezza tecnica. Fra i primi monumenti pittorici senesi vanno dunque ricordate le grandi Bibbie atlantiche, come quella di Montalcino, o una frammentaria proveniente probabilmente da Marturi e ora a San Gimignano, numerose illustrazioni di pergamene presso l'archivio di stato in Siena e alcune miniature nel museo diocesano di Grosseto.

Nel secolo XIII la pittura senese mostra, attraverso la dipendenza continua da quella bizantina, anche alcune differenziazioni originali, come un suo proprio senso del colore. Più che la Madonna di Tressa e quella Chigi-Saracini, è importante il paliotto della badia Berardenga (oggi nella Pinacoteca), la prima opera datata senese - del 1215 - dove appaiono felicemente uniti il colorito, a tinte chiare e asciutte, e un lievissimo rilievo negli ornati e nel Cristo al centro (in rilievo è anche una Madonna dipinta, già nel duomo, ora nel Museo dell'Opera). Un colore chiaro ad azzurri vivaci ricompare in un grande Crocifisso, forse coevo, con storiette ai lati (Pinacoteca, n. 597) La pittura senese si preparava per lento processo a quella maggiore libertà che si vede nella grande Madonna che Guido da Siena compieva nel 1221 (Palazzo comunale, già in S. Domenico). L'influenza di Guido deve essere stata grande nel Duecento a Siena. Fra le principali pitture della cerchia da cui si muove o in cui opera questo maestro sono: al Carmine, la Madonna detta impropriamente dei Mantellini, che è in rapporto con l'arte lucchese; in duomo, la Madonna del Voto, già eseguita nel 1260, di fattura assai fine, e, alla Pinacoteca, una grande Madonna del 1262, ben composta; nonché un paliotto con tre storie di Cristo, di alta qualità artistica; due dossali, uno forse del 1270; una Madonna in trono, già proprietà Galli-Dunn; un grande San Francesco fra storie della sua vita, ecc. Sopra tutti i prodotti duecenteschi senesi, eccellono per alta qualità il paliotto di San Giovanni Battista, già nella chiesa di Santa Petronilla, e maggiormente quello di San Pietro, già nella chiesa di San Pietro in Banchi (ambedue attualmente accolti nella Pinacoteca).

Solo alla fine del sec. XIII e nei primi del XIV s'inizia la grande pittura propriamente senese, che per due secoli sarà fra le più gloriose d'Italia: e la porta a nuove altezze Duccio di Buoninsegna, che ricrea personalmente forme bizantine auliche e forme gotiche. L'opera principale di Duccio, la Maestà (1308-1311), grande tavola dipinta sulle due facce, una volta sull'altar maggiore del duomo, oggi, dopo varie vicende e smembramenti, conservata nel Museo dell'Opera, è il capolavoro dell'artista. Del quale restano anche, a Siena, lavori nella Pinacoteca, fra cui la giovanile e preziosa Madonna dei Francescani.

Duccio ebbe molti seguaci, diretti e indiretti. Oltre a varî anonimi maestri ducciani, di cui rimangono numerose opere nella pinacoteca (ad esempio, il raffinato "maestro della badia a Isola" e il "maestro di Città di Castello", di forme più solide e robuste), sappiamo di pittori più definiti: fra questi, Segna di Bonaventura, nipote di Duccio stesso; il figlio Niccolò di Segna; e su tutti Ugolino di Nerio (di tutti restano opere nella Pinacoteca).

Lo stile di Duccio si diffuse a Siena fin verso la metà del secolo.

Contemporaneo, press'a poco, di Duccio, fu Simone Martini. Con lui la pittura senese divenne più preziosa e più goticheggiante. Dopo la grande Maestà (1315) affrescata nel salone del Palazzo pubblico, e dopo l'affresco con Guidoriccio da Fogliano (1328), nella medesima sala, le forme gotiche si trovano in tutte le numerose opere di Simone e passano con varia risonanza nei suoi seguaci. Fra i quali, più che dell'incerta figura del fratello Donato, va fatta memoria del cognato di lui Lippo Memmi, che collaborò strettamente col maestro (il B. Andrea Gallerani in San Pellegrino alla Sapienza; la Vergine e Figlio ai Servi, circa 1320, detta la Madonna del Popolo; la Madonna nella Pinacoteca). Altri minori si ispirarono a Simone, ma senza raggiungere la finezza del Memmi: così Andrea Vanni (S. Stefano, Pinacoteca), Naddo Ceccarelli (S. Martino, Pinacoteca), Bartolo di Fredi (Pinacoteca), ecc.

Se non si può parlare di una vasta scuola di Simone, questo è dovuto all'immettersi nella pittura senese della prima metà del sec. XIV di una nuova arte, vigorosa e staccata per molti punti da quella precedente. Con i fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti la plasticità entra infatti nell'arte di Siena. È indubbio ch'essi conobbero lo stile di Giotto e dei Fiorentini. Tuttavia è genialità loro il non avere rinunziato, per questa concezione che appare antitetica, alle caratteristiche della pittura senese, ma anzi l'averle con essa mirabilmente conciliate. In Pietro si nota spesso una più spiccata e dolorosa drammaticità e quasi sempre un segno incisivo e un'originale concezione dello spazio (Crocifissione, in S. Francesco; dipinti nella Pinacoteca; Natività, del 1342, al Museo dell'Opera). Ambrogio invece ebbe un temperamento più di colorista, molto raffinato (affreschi in San Francesco; Madonna, del Seminario; pitture nella Pinacoteca). Nel Palazzo pubblico poi ritrasse in affreschi, ora assai guasti, il Buono e il Cattivo Governo (1338-40).

Tra la vasta schiera degl'imitatori dei Lorenzetti, e spesso anche di Simone, si ricordano: Lippo Vanni, miniatore e pittore aggraziato (seminario, Palazzo pubblico, duomo, ecc.); Niccolò di ser Sozzo Tegliacci, egli pure miniatore e pittore, spesso operante con Luca di Tommè, di mediocri possibilità (Pinacoteca); Iacopo di Mino del Pellicciaio, impacciato e provinciale (Pinacoteca, Servi); il mediocre Andrea di Bartolo; e altri pittori, anonimi, tra cui basti citare il maggiore, cioè il lorenzettiano "maestro di San Pietro a Ovile", fine e ricco colorista (San Pietro a Ovile, Pinacoteca).

Giunti ormai alla fine del Trecento, vediamo sullo scorcio di questo e ai primi del Quattrocento operare alcuni maestri di transizione, come Paolo di Giovanni Fei, mediocre, ma che non fu senza conseguenze su artisti del secolo XV (si veda, per esempio, il suo San Domenico nella Pinacoteca, ecc.), e Taddeo di Bartolo, influenzato anche dalla pittura di Barnaba da Modena, autore di tavole e di festosi affreschi (nella cappella del Palazzo pubblico [1407-14], nella Pinacoteca, nell'Opera del duomo, ai Servi, ecc.).

Alla base della pittura senese vediamo, nel secolo XV, un persistere quasi perenne delle tradizioni gotiche trecentesche; e sopra tale fondamento, sul principio del secolo, uno scambio incessante con la pittura fiorentina, sia per la venuta a Siena di artisti di Firenze (massimo per importanza, Donatello; e, più tardi, notevoli Piero e Antonio del Pollaiolo, che operarono nella regione), sia per viaggi a Firenze degli artisti senesi. Verso la metà del secolo e più verso la fine, altre influenze invece vengono a immettersi nella pittura di Siena: o quelle mantegnesche, con Liberale da Verona e Girolamo da Cremona (miniature in duomo, Pinacoteca), o quelle umbre e dell'Italia centrale col Genga (affreschi già nel palazzo del Magnifico, ora nella Pinacoteca), col Signorelli (affreschi perduti nel palazzo del Magnifico), col Pinturicchio (Libreria Piccolomini, Pinacoteca), col Perugino (S. Agostino).

A Siena venne anche Gentile da Fabriano sul principio del secolo, nel 1425: ma di lui non vi resta niente. Tuttavia Giovanni di Paolo, artista operosissimo durante la lunga vita protratta fino agli ultimi del secolo, guardò molto al fabrianese, ma con una drammaticità che si andò facendo sempre più disperata (dipinti nella Pinacoteca, Opera del duomo, Servi, S. Andrea, S. Stefano, ecc.). Stefano di Giovanni detto il Sassetta, che lavorò contemporaneamente a lui, mostra invece un temperamento più lirico, sognante e contemplativo. Varie opere sue sono nella Pinacoteca di Siena; altre nella raccolta Chigi-Saracini; un trittico è all'Osservanza; un affresco, sciupato, sulla Porta Romana. Sano di Pietro, che lavorò pure in quel tempo, talora in compagnia di Pellegrino di Mariano e di Pietro di Giovanni d'Ambrogio, ebbe una pittura facile, ma priva di saldo contenuto (numerosissimi dipinti sono nella Pinacoteca, nel Palazzo pubblico, in duomo, in San Domenico, all'Osservanza, ecc.).

In una corrente diversa aveva operato nella prima metà del sec. XV Domenico di Bartolo, che nelle produzioni giovanili mostra rapporti interessantissimi con l'arte fiorentina, percepita soprattutto attraverso la scultura pittorica di Donatello. Oltre alla Madonna del 1433 (Pinacoteca), restano di lui a Siena una squisita Vergine al Refugio e gli affreschi nel Pellegrinaio dello Spepale (1440-44). Pure legato a Firenze e all'arte di Donatello e del Pollaiolo appare Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, scultore e pittore, che tanto deriva anche dal Sassetta (affreschi nel Pellegrinaio [1441] e in una sala dello Spedale [1443]; in San Giovanni [1450-52]; nel Palazzo pubblico [1461]; numerosi dipinti nella Pinacoteca, ecc.). Matteo di Giovanni, sebbene alquanto immobile, appare finissimo pittore, con ricordi dei Fiorentini, del Vecchietta, e dell'arte dell'Italia settentrionale conosciuta attraverso i citati miniatori, Liberale da Verona e Girolamo da Cremona. Matteo, spesso aiutato dal discepolo Guidoccio Cozzarelli, ha lasciato a Siena una copiosa produzione (Servi, S. Agostino, S. Domenico, Madonna delle Nevi, Pinacoteca, ecc.).

Suo contemporaneo fu Francesco di Giorgio Martini, pittore, architetto, scultore e trattatista. Derivato in scultura da Donatello, anche nella pittura ha continui ricordi di lui, come pure del Botticelli e del Lippi (San Domenico, Pinacoteca). Gli fu aiuto per lungo tempo, e amico, Neroccio di Bartolomeo Landi, dotato di un colorire più costruttivo, in uno strano coesistere di ricordi di pitture senesi trecentesche con quelli fiorentini lippeschi e baldovinettiani (numerose Madonne nella Pinacoteca).

Ricordiamo anche Benvenuto di Giovanni e suo figlio Girolamo di Benvenuto che si confonde spesso con lui.

Il Quattrocento volge ormai al suo finire: del resto varî dei pittori su ricordati seguitano a lavorare nel sec. XVI; ma tanto essi quanto altri (come Giacomo Pacchiarotti, fine e piacevole narratore di storie sacre; cfr. varie pitture nella Pinacoteca) seguitano a essere ancora fortemente tradizionali.

Al principio del Cinquecento l'arte della vicina Firenze dà nuovamente ispirazione ai Senesi. Girolamo del Pacchia prende non poco da Piero di Cosimo e da Fra Bartolomeo, fondendo queste tendenze diverse con personale sicurezza (S. Cristoforo, Carmine, oratorio di S. Bernardino, Contrada dell'Oca, Pinacoteca). Così come Andrea del Brescianino, in una caratteristica pittura di colori sfumati e di aggraziate figure, aveva ripreso non poco da Raffaello. Ma un artista di fuori ebbe soprattutto importanza sul primo Cinquecento a Siena: il lombardo G.A. Bazzi, detto il Sodoma, che importò l'eco diretta della pittura di Leonardo (Palazzo pubblico, S. Agostino, S. Spirito, S. Domenico, Pinacoteca, S. Bernardino, ecc.). A contatto con l'arte di lui molti pittori senesi modificarono profondamente la loro maniera. Quello tuttavia che meglio intese quello stile e lo ricreò fu Domenico Beccafumi, ultimo notevole rappresentante della corrente tradizionale della pittura senese (Carmine, S. Bernardino, Orfanotrofio, Palazzo pubblico, palazzo Bindi-Sergardi, S. Martino, Pinacoteca, ecc.). Più definito, più classico invece, fu Baldassarre Peruzzi, educato anche come architetto all'ampiezza romana (Fontegiusta, palazzo Pollini, villa di Belcaro).

Dopo la metà del Cinquecento altre correnti esterne vengono a fare scorrere con nuova vita il rivo della pittura senese. Sul 10ndamento beccafumiano (base dell'arte di Alessandro Casolani e di Arcangelo Salimbeni) opera infatti un altro squisito colorista, il Baroccio: e a lui s'ispirano Francesco Vanni, ch'ebbe anche influssi bolognesi, e Ventura Salimbeni. Numerosissime le loro opere a Siena, in chiese e oratorî.

L'apparire del Caravaggio e della sua nuova visione, produsse un cambiamento sostanziale di forme e di contenuto anche nella ormai quieta pittura senese. Né va dimenticato che nel corso del secolo opere di Guido Reni, di Mattia Preti e del Guercino ornarono le chiese di Siena e non rimasero senza conseguenza, specialmente dal punto di vista coloristico, sui pittori locali di quel secolo. Il più importante di essi fu Rutilio Manetti (S. Pietro alle Scale, S. Giovannino in Pantaneto, S. Agostino, Servi, S. Domenico, ecc.). E lo seguirono con tono diverso e per diverse vie il figlio di lui Domenico, Raffaello Vanni e il Rustichino, dei quali restano numerose pitture nelle chiese senesi; mentre invece si segnalò, per rudi rappresentazioni di genere, Antiveduto della Grammatica (Pinacoteca, palazzo Chigi-Saracini). Numerosi altri, fra cui Sebastiano Folli, G. P. Pisani, Deifobo Burbarini, Simondio Salimbeni, Dionisio Montorselli, Astolfo Petrazzi (discreto coloritore), Pietro Sorri, Niccolò Cercignani detto il Pomarancio, decorarono con quadri e affreschi la maggior parte delle chiese e degli oratorî di Siena: così che non è possibile, dato anche il loro livello, enumerarne sia pure sommariamente le opere.

Lo stesso si può dire per i Senesi del Settecento. Eclettici, impressionati da tendenze artistiche molteplici, sia per mezzo di pittori recatisi a lavorare a Siena (tra essi principale Sebastiano Conca: v. affreschi in S. Maria della Scala, S. Giorgio, e casa di S. Caterina), sia per viaggi e studî intrapresi in altre regioni, essi si espressero in forme lontane ormai dalla mentalità senese più pura, in uno stile meno tipico, con troppi spunti comuni alla pittura di tutta Italia. Tuttavia, assai importante in quel secolo fu la famiglia dei pittori Nasini, in cui primeggia Giuseppe Nicola, sicuro decoratore.

Sulla fine del Settecento e ai primi dell'Ottocento, Giuseppe Colignon con pittura spigliata e grandiosa diede varie opere (S. Agostino, Carmine, ecc.), alcune delle quali abbastanza significative. Ma più tardi, nella seconda metà dell'Ottocento, subentrò invece la pittura accademica che ebbe come massimi rappresentanti Luigi Mussini (duomo) e Alessandro Franchi (Cimitero della Misericordia, S. Giovanni, Servi, duomo, ecc.). Più impetuoso fu Amos Cassioli, del quale restano affreschi nel Palazzo pubblico; e Pietro Aldi, che secondo le medesime tendenze con lui collaborò. Ultimo rappresentante della scuola pittorica senese dell'Ottocento è Arturo Viligiardi (affreschi nel palazzo Chigi-Saracini, numerosi quadri da altare).

Scultura. - A Siena nomi di lapicidi s'incontrano nel sec. XI e più nel XII. Nel 1079 maestro Pietro di Giraldo; nel 1209 maestro Gregorio, il quale scolpì e firmò il portale, oggi perduto, della chiesa di S. Giorgio. Di sommo interesse per le larghe forme plastiche e gli elementi iconografici, sono i quattro pannelli del pergamo della pieve del Ponte allo Spino (Sovicille), oggi murati nel duomo di Siena.

Che i marmorarî o lapicidi fossero a ogni modo in considerevole numero, ci viene anche confermato dall'essere questi riuniti in corporazione, con speciali statuti, alla fine del sec. XII, e certamente nel 1212. Alle maestranze della fine del sec. XII e primi del XIII si devono alcuni capitelli del rinnovato duomo (uno, non finito, fu recentemente scavato di sotto la colonna fuori Porta Camollia e lì murato per ricordo).

Anche la scultura in legno ebbe per tempo i suoi prodotti in Siena, come mostra il paliotto del 1215, ora nella Pinacoteca e una Madonna nel Museo dell'Opera del duomo.

La riforma benedettina-cisterciense di S. Galgano, che tanto agì sull'architettura in Siena, non poteva non avere riflessi anche sulla scultura: Nicola Pisano medesimo dovette essere a San Galgano prima che fosse compiuto il pulpito (1260) del Battistero di Pisa; e fu appunto il cisterciense Fra Melano, del monastero di S. Galgano, che reggeva l'opera del duomo, a stipulare nel 1255 con Nicola Pisano il contratto per il pergamo del duomo senese, i cui pagamenti si protrassero poi sin verso la fine del 1268.

A un periodo antecedente (1256 circa 1259), nel quale diresse l'Opera del duomo fra Vernaccio, monaco di S. Galgano, ma già in una corrente plastica pisana, si deve riferire l'esecuzione dei sei plutei che formavano il parapetto di un nuovo coro del duomo (Museo dell'Opera). Dalla prima presenza di Nicola in Siena, accompagnato dai suoi discepoli, tra cui Arnolfo e Giovanni, la scultura senese è tutta presa nell'orbita del maestro. Ai "sagaci e sottili maestri d'intaglio", Donato, Lapo e Goro, che ottennero la cittadinanza nel 1272, non possiamo assegnare opere sicure; e nemmeno a Ramo di Paganello, scultore di gran rinomanza nel tempo suo. Giovanni di Nicola Pisano, il quale aveva ottenuto la cittadinanza senese nel 1284, aveva preso a fare per la facciata - a lui attribuita per la parte inferiore - le colonne intagliate della porta maggiore, forse in parte l'architrave, e statue di profeti, di filosofi e di sibille (alcuni animali simbolici e profeti, dovuti a lui e già nella facciata, sono ora nel Museo dell'Opera).

Diretto seguace di Giovanni - oggi definito "antagonista" - fu Tino di Camaino, lontano comunque dalla genialità febbrile del maestro. Anche il padre di Tino, Camaino di Crescentino, fu scultore e lavorò al duomo sino al 1310. Le sculture della parte inferiore della facciata del battistero, fondata nel 1316, si possono assegnare con probabilità a Camaino, morto nel 1339, e ai suoi collaboratori. Tino, che divenne capomaestro dell'Opera nel gennaio 1320, eseguì con altri per il duomo stesso il monumento funerario (1315-17) per il cardinale Petroni, alterato e manomesso nelle avvenute rimozioni. Altri marmi di Tino esistono nel museo annesso alla cattedrale.

Intanto nella "taglia de' marmi" dell'Opera del duomo, già capeggiata da Giovanni e da Tino, si era andata formando una scuola di marmorarî, dei quali alcuni si levarono in qualche fama: Goro di Gregorio, Gano, Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura. Ma sopra gli altri è notevole Giovanni d'Agostino, che portò nella scultura uno squisito senso di arte senese, dedotto e derivatogli dalla pittura locale. Per un decennio (1336-1346) fu a capo della taglia dei marmi e tra i "maestri che lavorano a fare figure", a differenza degli altri che lavoravano di quadro: "il concio de' mattoni e delle pietre". Iniziatosi nel febbraio del 1340 il Duomo Novo, vi scolpì il frontone figurato del portale che immette nella navatella di destra e le lunette sopra le porticciole nel valico del "facciatone". Il Duomo Novo fu in parte demolito e i lavori interrotti nel 1357. Un bassorilievo firmato da Giovanni d'Agostino è nell'oratorio di San Bernardino presso S. Francesco a Siena. Gli si deve anche assegnare la statua lignea del Redentore nella chiesa di Vico Alto, presso l'Osservanza.

Attinente alla scuola di scultura pisano-senese deve essere annoverato Lorenzo Maitani che fu fra gl'ideatori del Duomo Novo di Siena.

Nella seconda metà del secolo XIV la scultura senese, fatta grossolana e lontana da impulsi vivificatori, s'involveva e precipitava verso un'estrema decadenza con Bartolomeo di Tommè detto Upizzino, con Lando di Stefano, con Mariano d'Angelo Romanelli, con Matteo d'Ambrogio detto Sapa (ancora vivente alla fine del 1382), autori delle statue che sporgono dai tabernacoli dei pilastri della cappella di Piazza del Campo. L'unico degno di attenzione è Giovanni di Cecco, che vi eseguì la statua di S. Matteo (1383), del quale si hanno notizie tra il 1363 e il 1397. Molte sue sculture (1370-78), già esistenti nella facciata del duomo senese, e ora nel Museo dell'Opera, lo dicono tuttavia attaccato alla tradizione di Giovanni Pisano, sebbene talvolta quasi iniziatore della tendenza rinascimentale.

La scultura senese, all'inizio del sec. XV, è dominata da tre celebri artisti: Iacopo della Quercia (v.; Fonte gaia sotto la loggia del palazzo del comune nonché parte della decorazione scultorica del fonte battesimale nel S. Giovanni), Domenico di Niccolò detto de' Cori (sculture e opere intagliate nel 1414-15, ora in San Pietro a Ovile) e Francesco di Valdambrino (opere documentate (1409) nel Museo dell'Opera). Ebbero vicine le botteghe, fuori Porta S. Maurizio, e sovente collaborarono tra loro nelle opere. Anche l'orafo Pietro d'Angelo, padre d' Iacopo della Quercia, fu scultore. Quanto alla collaborazione di Francesco con Iacopo, nella Fonte gaia, spetta con sicurezza al primo uno dei gruppi simbolici; quello risarcito da Giuseppe Mazzuoli.

Da Iacopo della Quercia poco appresero gli orafi e scultori senesi Goro di Ser Neroccio e Giovanni di Turino. Questo più risentì della maniera di un collaboratore di Iacopo, Giovanni da Imola. Dell'imolese rimangono bassorilievi nella cappella del Sacramento in duomo, lasciati incompiuti (1425) e terminati da Giovanni di Turino.

Ma, come per l'architettura, così, per la scultura senese, a cambiare e deviare l'originale movimento quercesco, riassumente ed evolvente forme e sentimenti da ricollegarsi più remotamente all'indirizzo seguito da Giovanni Pisano, interviene e soprammonta la corrente fiorentina.

Tra l'11 e il 17 giugno 1416 sono a Siena Lorenzo Ghiberti e i suoi compagni maestro Giuliano di Ser Andrea e maestro Bartolomeo, a dar consiglio per l'edificazione del nuovo fonte battesimale di S. Giovanni. Sollecitatore di questa venuta fu Giovanni di Turino. Anche da Firenze venne Bastiano di Corso, e da Lucca Nanni di Iacopo, che intagliarono i tabernacoli e le cornici della pila bassa; e a Firenze si acquistarono i marmi neri e rossi occorrenti, abbandonando quelli senesi delle cave di Tonni e di Gerfalco.

Dopo il Ghiberti, Donatello. I primi ricordi indiretti delle sue sculture nel fonte battesimale risalgono all'anno 1423, ma l'esecuzione del Banchetto di Erode risulta che ebbe luogo effettivamente soltanto nel 1427.

Verso la metà del secolo (1446), morto da otto anni Iacopo della Quercia, il Rossellino scolpisce la porta di marmo di Carrara per la Sala del concistoro nel Palazzo del comune; poi nel 1457 ritorna Donatello, col proposito di vivere e di morire a Siena. È un incalzare di opere ideate e compiute: l'ornato della cappella del Voto, la statua del Battista, una statua di Golia, una di S. Bernardino per la Loggia della mercanzia, le porte di bronzo del duomo, per le quali comincia a lavorare e fondere alcune storiette (1459), la tomba del vescovo Pecci; questo rigoglioso fiorire di opere continua sino agli estremi ricordi di Donatello in Siena, del 1461.

Vediamo tutta la plastica senese farsi soggetta al donatellismo. Urbano e Bartolomeo da Cortona, forse riprendendo un disegno di Donatello, rinnovarono (1451) l'altare della Madonna del Voto o delle Grazie. È di Urbano uno dei banchi della Loggia di mercanzia e il monumento Felici in San Francesco (1472).

Donatellesco fu Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, che eseguì le statue marmoree (1460-1462) di S. Pietro e di S. Paolo per la Loggia di mercanzia, il tabernacolo di bronzo (1467) trasferito dalla chiesa dello Spedale in duomo, e il Cristo risorto nella chiesa dello Spedale. Il donatellismo si riflesse pure nei discepoli del Vecchietta: Neroccio di Bartolomeo e Francesco di Giorgio, ma modificato da altre influenze fiorentine, che avvicinarono Francesco allo stesso Leonardo. Di Neroccio sono la statua di S. Caterina in Fontebranda, quella in duomo (1487), e la sepoltura Piccolomini (1484), pure nella cattedrale. Di Francesco di Giorgio i bellissimi angioli bronzei (1489) sull'altare maggiore del duomo. Ai verrocchieschi è pure da avvicinare l'amico e collaboratore del Martini, Giacomo Cozzarelli, plasticatore robusto e personale, come mostra, ad esempio, l'accorata sua Lamentazione dell'Osservanza (altre opere al Carmine, S. Agostino, S. Spirito). Antonio Federighi, che morendo lasciò al Cozzarelli l'insegnamento di una scuola privata di plastica da esso istituita, era stato iniziato da Iacopo della Quercia, di cui fu il più genuino seguace (v. acquasantiere e fonte battesimale in duomo, tre statue nella Loggia di mercanzia, due nel Palazzo comunale).

Gli sopravvisse di poco un altro scultore che lavorò in duomo, vicino al Cozzarelli: Giovanni di Stefano, figlio del Sassetta, autore della statua di S. Ansano nella cappella di S. Giovanni in duomo e di due angioli bronzei sull'altar maggiore.

La plastica d' importanza del secolo XV a Siena finisce col Cozzarelli. In Lorenzo di Mariano, detto il Marrina (v. opere in duomo, S. Martino, Drago, Fontegiusta, ecc.), si sente, più che l'arte, il mestiere di un abile decadente. Né a dare nuova vita alla scultura senese bastò il genio di Domenico Beccafumi (il Mecherino), che dal 1548 al 1551 modellò e fuse gli otto angeli portaceri, posti alle colonne del duomo presso il presbiterio. Il secolo XVI si chiude con Fulvio Signorini, detto il Ninno (Cristo risorto, duomo), e con Domenico Cafaggi, detto Capo (Marcello II, in duomo), quest'ultimo oriundo fiorentino, ma trasferitosi sin da giovane a Siena.

Si era ridotti all'estremo della decadenza durante gli ultimi decennî del sec. XVII: e, salvo qualche stuccatore, in quel fiorito ed esuberante getto del Barocco, nessun artista senese seppe immergersi e rinnovarsi. Da Cortona, alla fine del sec. XVII, venne e si stabilì a Siena una famiglia di scultori e architetti: quella dei Mazzuoli. Copiosissima è la produzione da essa lasciata, specialmente nelle chiese: tale produzione, che si diffonde e domina per oltre un mezzo secolo, è in gran parte ancora da determinare, rispetto alle singole personalità della famiglia.

Fra tutti primeggiò Giuseppe il Vecchio (1644-1725), di cui rimangono opere nel palazzo Sansedoni (1694-97: Madonna, due busti, un bassorilievo, ecc.), in San Vigilio (busti sulle tombe de' Vecchi), in San Donato (angioli sul ciborio, 1695), nel duomo (statua di Pio II, 1698; del gran maestro Zondadari, bassorilievo con la Crocifissione, già in Santa Petronilla), in Sant'Agostino (due angioli sull'altar maggiore), ecc. La scultura del Bernini (il quale lavorò per la cattedrale) fu conosciuta e introdotta a Siena soprattutto per opera sua: e poi per mezzo dell'intera famiglia tutta orientata nella corrente berniniana, venne imposta al gusto corrente senese.

Tuttavia molti dei lavori intrapresi non poterono essere finiti da Giuseppe, chiamato spesso lontano. Li completò il fratello Giovanni Antonio (circa 1644 circa 1710), il quale svolse la propria attività soprattutto nel Senese, e in modo particolare a Siena. Non solo scultore in marmo, come il maggior fratello, ma anche stuccatore, ha lasciato larghissima testimonianza del proprio stile: il quale fu meno robusto di quello di Giuseppe il Vecchio e con maggior virtuosità forse nella tecnica, ma di felice ispirazione decorativa nelle sue figure movimentate. Finì varie opere di Giuseppe, fra cui, sembra, i lavori nel palazzo Sansedoni, due statue sugli altari della crociera di San Manino, forse le tombe de' Vecchi in San Vigilio, il ciborio in Sant'Agostino, la decorazione dell'altar maggiore di Santa Maria della Scala, e quella di San Donato, ecc. Sono sue inoltre molte sculture, come la bella decorazione a stucchi dell'oratorio della Contrada della Chiocciola, di quello di San Giuseppe, e della Contrada del Drago (?), di Santa Mustiola, di S. Maria degli Angeli, dell'Oratorio della Tartuca, ecc. Ha lasciato opere anche in altre chiese, fra cui il San Benedetto in San Cristoforo (1693), portatovi nel 1825 dal soppresso monastero di San Benedetto fuori Porta Tufi; la statua dell'Immacolata ai Servi, due busti nella sagrestia della medesima chiesa, assai ben caratterizzati (1688), ecc.

Anche Bartolomeo (morto nel 1749), figlio di lui, continuò le tracce paterne e dello zio, in opere talvolta abbastanza felici (fra cui la decorazione della villa di Cetinale, giardino): e Giuseppe Maria, o Giuseppe il Giovane (1727-1781), leggiero decoratore, ormai lontano dalle sculture di Giuseppe il Vecchio, talvolta un po' lezioso nei gesti esagerati delle sue figure inquiete (v., per es., le grandi statue del B. Agostino Novello e del B. Antonio Patrizi, in Sant'Agostino; o quelle di Santi e Beati senesi in San Pellegrino alla Sapienza).

La scultura senese dell'Ottocento subì le influenze di Roma e di Firenze: della scuola del Canova e del Bartolini. L'Istituto di Belle Arti aperto con rescritto granducale del 26 settembre 1816, sotto la direzione dell'aretino Francesco Nenci, si fornì di gessi tratti da opere classiche e neoclassiche e su tali esemplari si andò formando l'educazione degli scultori locali. Tra i primi che, all'inizio del secolo XIX, ebbero qualche considerazione, si devono ricordare Luigi Magi, Giovanni Lusini e, di gran lunga superiore, Giovanni Duprè del quale resta a Siena, nel Cimitero della Misericordia, la bellissima Pietà. Seguì le orme del Duprè, Tito Sarrocchi le cui opere più significative sono ugualmente in quel cimitero senese.

Nell'acquiescente manierismo di scolpire marmi per monumenti patriottici e per ricordi funerarî, chi gettò in Siena un grido di ribellione fu lo scultore Patrizio Fracassi (1875-1903), del quale quasi tutta la produzione viene conservata nella gipsoteca comunale, nei locali dell'ex-monastero di San Domenico.

Del tempo presente debbono essere ricordati Arturo Viligiardi, pittore e scultore; Ezio Trapassi, Guido Bianconi, collaboratore del Bistolfi; Gino Mazzini, che seguì il Gallori e il Trentacoste; Umberto Cambi, Luigi Sguazzini, che frequentò lo studio di Canonica; Silvio Corsini, e, tra i giovanissimi, Federigo Papi e Vico Consorti.

Arti minori. - In tutte le arti minori si può dire che Siena abbia lasciato l'impronta del suo genio sottilmente adatto a decorare, dal commesso dei pavimenti, ai ferri battuti, ai vetri, ecc.

L'opera più famosa e significativa di commesso di pavimenti, è il pavimento del duomo di Siena. La decorazione di esso cominciò alla fine del sec. XIV per opera di personalità oggi non ben determinabili per stile (1369-1398); si protrasse per tutto il Quattrocento con artisti famosi nel campo della scultura e della pittura (Domenico di Niccolò de' Cori, 1423-24, 1433; Domenico di Bartolo, 1434; Antonio Federighi, 1450, 1459, 1475, 1482; Matteo di Giovanni, 1481, 1483; Urbano da Cortona, 1473, 1482; Neroccio di Bartolomeo, 1483; Benvenuto di Giovanni, 1483-84; ecc.); e seguitò nel Cinquecento, col Pinturicchio prima (1505-1506), col Beccafumi poi (1518-1546). Cominciato con tecnica a semplici contorni, il commesso del pavimento fu rinnovato dal Beccafumi ottenendo con intarsio di zone di marmi variati un effetto simile ai "chiaroscuri" in incisione. Le ultime parti furono eseguite nel 1780, su disegno di Carlo Amidei.

Il pavimento del duomo di Siena, assai deteriorato in progresso di tempo, venne restaurato (1875-78) dal pittore Alessandro Franchi; ma purtroppo svisandolo in massima parte.

Fra gli altri pavimenti senesi derivati da questo, può essere ricordato quello della cappella di Santa Caterina in San Domenico, per il quale, secondo B. Berenson, diede il disegno Francesco di Giorgio Martini.

Scultura in legno. - L'arte dell'intagliare in legno ha in Siena una remota tradizione, e una particolare specializzazione per quanto riguarda l'intaglio decorativo e la tarsia.

Ma della sua abbondante produzione, più restano le memorie e i documenti, che le opere. Tra queste, va ricordato il coro per la cattedrale, che iniziato assai prima del 1362, continuò per secoli, dati gli spostamenti e gli ampliamenti che il coro ebbe a subire in seguito alle modificazioni dell'edificio. Uno dei più abili maestri fu Francesco del Tonghio che fece nel 1362 un leggio e due sedie e, nel 1370, quarantotto seggi.

Nel sec. XV il più eccellente maestro dell'arte dell'intaglio in legno fu Domenico di Niccolò, conosciuto col soprannome "de' Cori", per i molti che con industria e arte speciale ebbe a eseguire. Il suo nome, come provetto maestro di legname, già comincia a comparire nel 1394. Nel 1413 era capo maestro dell'Opera. Il comune di Siena gli affidò l'esecuzione del coro, tuttavia esistente, nella cappella di Palazzo, e lo provvide di un assegno annuo perché insegnasse l'arte dell'intaglio in legno. Fu suo discepolo Mattia di Nanni di Stefano detto il Bernacchino (1403-33) del quale restano due tarsie nel Palazzo comunale (1425, 1428). Altri abili maestri furono Antonio, Pietro (1391-1458), scultore e architetto, e Giovanni del Minella; ma delle loro opere nulla rimane.

Il sec. XVI s'inizia con le opere di Antonio Barili, che dopo Domenico di Niccolò de' Cori, fu il più celebre intagliatore senese (avanzi di un coro, 1502, già nel duomo di Siena, ora nella pieve di S. Quirico d'Orcia, un organo, 1510, in duomo; intagli già nel palazzo del Magnifico, ora nella Pinacoteca). Il Barili segna un punto fisso nella scultura rinascimentale del legno, derivando lo stile figurativo dei pannelli e ornativo dei fregi, delle cornici, delle candelabre, da Francesco di Giorgio Martini e da Giacomo Cozzarelli.

Interessante figura è quella di un altro maestro: Ventura di Ser Giuliano di Tura di Pilli, che fu insegnante nella scuola degli otto ragazzi che l'Opera del duomo sussidiava con un fiorino al mese affinché imparassero l'arte dell'intagliare in legno.

Nella seconda metà del sec. XVI primeggia Bartolomeo Neroni detto il Riccio, che fu pittore e architetto. Nel duomo, il coro, il leggio e le residenze da lui disegnati mostrano le forme costruttive e decorative più castigate del Barili, assurte a una fastosità e magnificenza che costituiscono lo sviluppo insuperato della scultura in legno, figurativa e ornativa, del sec. XVI in Siena. Unica opera che si può avvicinare a queste del Riccio è la decorazione dell'organo di destra esistente nella chiesa dello Spedale di Santa Maria della Scala, attribuita, per il disegno, a Baldassarre Peruzzi.

Durante il sec. XVII l'arte del legno continuò in Siena, prediletta dalla nobiltà, che arricchì i proprî palazzi di lettiere, di cofani, di armadî, di cornici; dalle chiese, dalle compagnie laicali e dalle contrade, che fecero a gara per avere tabernacoli, reliquiarî, candelieri e testate di bare. Gl'intagli ora splendevano d'oro, baroccheggiando con capriccio più macchinoso che spiacevole all'occhio, come le cornici del Monte dei Paschi (1678), il leggio e il dossale di Sant'Agostino (1695), la cantoria e le cancellate della Contrada dell'Onda. Possiamo chiudere i ricordi dell'arte del legno in Siena, nel sec. XVII, con i nomi di G. B. Panichi, che fece la cantoria per la chiesa dell'Osservanza; di Benedetto di Cristoforo Amaroni, di Angelo Guiducci e di Andrea Massari, espertissimo nel lavoro delle tarsie, nelle quali adoperò le più svariate materie, e abbondantemente l'avorio e la madreperla.

Miniatura. - Dopo il lungo periodo della miniatura monastica, che diede origine alla pittura senese del sec. XIII, nel Trecento la miniatura risentì certamente della grande pittura senese, allora nel suo più glorioso fiorire, ma è da dire anche che non fu senza influenza su di essa sì che seguitarono a prodursi fra le due arti scambî continui.

Oltre alla vera e propria miniatura di codici si deve ricordare un genere tutto particolare a Siena: cioè le illustrazioni sulle tavolette di legatura dei libri di Gabella e di Biccherna (oggi in massima parte nell'archivio di stato) con scene sia riferentisi al testo, sia rappresentanti episodî della vita di quel tempo. Si cominciò nel Duecento a decorare questi libri; ma nel Tre e nel Quattrocento essi ebbero le ornamentazioni più significative e più belle; per quanto si seguitasse anche dopo ad ornarli, fino a tutto il sec. XVI. A tali ornamentazioni (ci dicono i documenti d'archivio e quelli stilistici) concorsero artisti di chiara fama - perfino Duccio di Buoninsegna e Simone Martini, che non credettero di diminuirsi in queste più umili forme d'arte.

Uno dei più fini seguaci dei Lorenzetti fu certo il miniatore Niccolò di Ser Sozzo Tegliacci, del quale solo da poco è stata ricomposta l'attività di pittore; suo capolavoro è la grande miniatura del Caleffo dell'Assunta (circa 1334), nell'archivio di stato in Siena. Pure lorenzettiano appare il giì citato Lippo Vanni, che intorno al 1345 eseguì numerose miniature, oggi in gran parte conservate nel Museo dell'Opera del duomo, echi di composizioni maggiori, piacevolmente dipinte.

I colori puri e splendenti che costantemente ricorrono nei dipinti di Sano di Pietro si trovano anche nelle miniature dei codici da lui decorati per il duomo (1445) e per lo Spedale di Santa Maria della Scala. Attesero a miniare Pellegrino di Mariano, Giovanni di Paolo (Bibl. comunale), Francesco di Giorgio (Osservanza), Guidoccio Cozzarelli (duomo), come senza dubbio altri pittori del sec. XV le cui opere di minio sono perdute o tuttora da rintracciare.

Non vanno però dimenticati, sebbene non propriamente senesi ma dell'Italia settentrionale, i due miniatori Girolamo da Cremona e Liberale da Verona, che decorarono numerosi corali per il duomo di Siena ed ebbero importanza grandissima sulla pittura senese della fine del Quattrocento e di tutto il Cinquecento.

Tralasciando i miniatori veri e proprî di questo secolo o degl'inizî del seguente (Giovacchino Semboli, Giovanni di Tedaldo, ecc.) si può notare ormai nella miniatura senese un rapido sfiorire, e quindi uno spegnersi quasi subitaneo. Nel Sei e Settecento troviamo ancora, qua e là, in libri da coro, qualche miniatura; ma in un fare sciatto, che non è più arte.

Oreficeria. - Come quasi sempre avviene per le origini più antiche delle varie arti, anche quelle dell'oreficeria senese non sono ben chiare e sicure. Alcuni crocifissi romanici in bronzo, tuttora superstiti nella regione, non si sa se possano ritenersi o no prodotti locali. È verosimile tuttavia che l'arte bizantina fosse l'ispiratrice prima degli orafi senesi. Se infatti la celebre legatura in oro e smalti (sec. XI-XII) dell'Evangeliario greco, oggi alla Biblioteca comunale e originariamente a Costantinopoli, giunse a Siena solo assai tardi, nel 1359, acquistata a Venezia, è però molto probabile che oggetti di questo stile, che era allora il più giustamente famoso, arrivassero invece a Siena assai prima; e che a essi si ispirassero i primi orafi locali. Bisogna pure presupporre dunque un periodo di preparazione all'oreficeria propriamente senese, che appare già formata e famosa nel sec. XIII.

Vediamo infatti in quel secolo - e specialmente nella seconda metà - tutto un rigoglioso fiorire di orafi che non si limitano a esercitare la loro arte nella città, ma vengono continuamente richiesti in Italia (Toscana, Umbria) e altrove (Ungheria, Avignone); segno che erano già famosi per i loro lavori e il loro gusto. Vanto degli orafi senesi è l'invenzione degli smalti translucidi. Altra particolarità degli orafi senesi è quella di dare alle loro oreficerie un aspetto architettonico ispirandosi alla contemporanea edilizia gotica.

Capolavoro, sotto questo duplice aspetto, è il reliquiario della testa di San Galgano, già nell'eremo di Montesiepi, poi nella chiesa del Santuccio a Siena, ora al Museo dell'Opera del duomo. Questo, che erroneamente viene dato di solito a Lando di Pietro (morto nel 1340, orafo e architetto del duomo di Siena, operoso quivi, a Firenze, a Napoli), è invece da considerare, come afferma il Toesca, appartenente alla fine del Duecento.

Il maggiore degli orafi senesi del Trecento fu Ugolino di Vieri, autore del reliquiario detto del Corporale (nel duomo di Orvieto), che per l'architettura e più per i mirabili smalti translucidi è il capolavoro di tutta l'oreficeria senese.

Sulla fine del Trecento e ai primi del Quattrocento può essere ricordato Goro di Ser Neroccio, che dopo un primo periodo in cui rientra completamente nella corrente trecentesca - come nel reliquiario per il braccio di S. Biagio presso lo Spedale della Scala a Siena (1437) nei calici del palazzo arcivescovile e dell'Istituto Pendola, nel reliquiario in S. Mamiliano in Valli - passa poi alle forme predilette dal Quattrocento, cioè alle statue a tutto tondo, fuse in bronzo. È sua la figura de La Fortezza, sul fonte battesimale in S. Giovanni, eseguita dal 1423 al 1431, in ottone dorato: nervosa ed elegante immagine, assai vicina alla raffinata maniera del Ghiberti; il quale, accanto a Donatello (di cui sono il rilievo col Banchetto di Erode, 1427; le figure della Fede e della Speranza, 1428, e angioletti in alto), eseguì il Battesimo e l'Arresto del Battista (1427), mentre Iacopo della Quercia fondeva nel 1430 il suo riquadro con la Cacciata di Zaccaria dal tempio. Turino di Sano e poi suo figlio, maggiore di lui per arte, Giovanni di Turino, o Turini, orafi, lavoravano pure, con statue, riquadri, e lo stesso sportello, a questo fonte in cui si cimentarono i maggiori plastici senesi dei primi del Quattrocento. Vicino agli scultori veri e proprî anche gli orafi senesi, emulandoli, cercano un fare più grande, allontanandosi un poco dal loro usuale cammino. Dei Turini (Giovanni e suo fratello Lorenzo) restano in Siena altre opere di scultura (v. sopra) mentre le molte di oreficeria di cui è fatta precisa menzione nei documenti, sono perdute.

Nel Quattrocento rimane ricordo di numerosissimi orafi della maggior parte dei quali non conosciamo che il nome. Tuttavia fra le oreficerie senesi superstiti resta ancora qualcosa di non anonimo: così il Crocifisso di fra Giacomo del Tonghio, ora al Museo dell'Opera (1406); ma soprattutto importanti i lavori di uno scolaro di Giovanni Turini, Francesco d'Antonio, il quale nel reliquiario del S. Chiodo allo Spedale della Scala (1453), si riattacca ancora molto al Trecento; mentre nel reliquiario per la veste di S. Bernardino, all'Osservanza (1454-1460), passa a forme più rinascimentali (la teca alla sommità e i due angioli sono del sec. XVII): e finalmente nell'urna per il braccio di S. Giovanni (1466); all'Opera del duomo manifesta aspetti artistici ancora più evoluti. E si può anche ricordare il Vecchietta del quale conosciamo soltanto l'attività come scultore e pittore, essendo i suoi lavori di oreficeria tutti perduti.

Molti oggetti anonimi di orafi senesi del sec. XV restano tuttora a Siena. I più preziosi sono nel Museo dell'Opera del duomo: altri se ne trovano a S. Regina, a Sant'Ansano a Dofana, a S. Maria della Scala: anzi di quest'ultimo nucleo fanno parte anche importanti reliquiarî a forma di testa o di busto. Genere, questo, che sembra sia stato frequente nel Senese. Forse deriva dalla famosa immagine della santa dipinta in S. Domenico da Andrea Vanni il busto di S. Caterina, una volta contenente la testa di lei e ora nella Biblioteca comunale.

Nel Cinquecento l'oreficeria senese decadde per le mutate condizioni civili ed economiche. Sotto l'influsso di Firenze, che poi la dominò anche politicamente, Siena non diede che scarsi prodotti. Restano di questo secolo soprattutto numerose "paci" in bronzo dorato o argentato, anch'esse ispirate più che altro alla scultura fiorentina.

Nel Sei e Settecento, invece, si ebbe un rifiorire di quest'arte. Il senso decorativo del Barocco produsse a Siena gran numero di ostensorî, di calici, di navicelle, di turiboli, di sportelli per ciborio; alcuni dei quali, datati, servono a stabilire meglio lo svolgersi di questo periodo non ancora bene studiato. Le forme artistiche secentesche perdurarono anche nel secolo seguente, nel quale tuttavia acquistarono spesso una precisione di maggior eleganza. Di solito si ebbero lavori a cesello, con volute, ghirlande di frutta e fiori, e teste di cherubini, talvolta anche con riquadri rappresentanti episodî sacri. L'ornato a strisce e a volute, venne spesso fatto a traforo, specialmente nei turiboli.

La città impoverita non si poteva permettere più una produzione lussuosa, e quindi l'antica perizia degli orafi locali si era andata lentamente perdendo. Anche la croce e la bella muta di candelieri di cristallo di rocca e oro, della cappella del Voto, non furono eseguiti a Siena, ma a Roma. Inoltre le residenze per il Santissimo, i busti e statue-reliquiarî, i paliotti di metallo prezioso furono sostituiti (ne restano però esempî in duomo) da quelli di legno intagliato e dorato invero di grande bellezza e perfezione tecnica.

Anche nel periodo neoclassico e poi nell'Ottocento si osserva un adeguarsi dello stile al gusto corrente, in forme semplici dapprima, poi in un ritorno a modelli trecenteschi, imitati con varia fortuna. Ma la stessa fusione non era ormai più quella di una volta: fino dal sec. XVII si vedono oggetti eseguiti a stampo e poi rifiniti a ferretti, ben lontani dalla precisione e finezza del periodo migliore.

Ceramica. - Poiché, come appare anche dal costituto del 1260, a Siena si proibì per buon tratto di tempo di tenere aperte entro le mura fornaci di "coppai, orciolai e pignattai" per evitare i pericoli d'incendî, la ceramica prima che in città fiorì rigogliosa nel contado, soprattutto a Montalcino. La regione senese forniva in quantità ciò che occorreva per i lavori fittili: terre vetrificanti gialle, bianche, rosse; manganese (di cui l'Opera del duomo faceva largo commercio per tutta Italia), antimonio, ramina (o scaglia di rame).

Nel Trecento si cominciò a lavorare la ceramica anche in Siena: e più questo si estese nel Quattrocento e nei secoli seguenti, quando vediamo ricordate nei documenti gran numero di fornaci, che si trovavano in ciascuno dei terzieri, ma soprattutto in quello di Città, dove, nel rione di S. Marco, erano quelle più attive e prospere. Dei prodotti di queste ben poco rimane. Tuttavia numerosi "butti" (ceramiche imperfettamente riuscite) gettati negli scarichi si trovano in gran quantità solo che si scavi nei pressi delle antiche fabbriche. A decorare tali prodotti concorrevano non solo i fornaciai veri e proprî, ma anche pittori specializzati. È di particolare importanza il fatto che nel 1514 un tal Galgano di Belforte avesse importato direttamente da Valenza il modo di dare i lustri metallici: mentre qualche anno più tardi un maestro Fedele da Urbino esercitava a Siena l'arte di dorare e argentare a fuoco le ceramiche.

Buon numero di vasi, boccali e piatti, si trova nella collezione dello Spedale di S. Maria della Scala, che veniva fornito largamente più che altro dalle fornaci del Terzo di Città e del Terzo di Camollia.

Nel Terzo di Città, e più precisamente in S. Marco, lavorava quella famiglia dei Mazzaburroni (Sano, Pietro e Niccolò di Lorenzo) alla quale si deve un pavimento, opera di Pietro e Niccolò, oggi ridotto solo a poche piastrelle integre, nella chiesa di S. Agostino, eseguito dal 1488 al 1489 per madonna Eustachia Bichi, sposa di un Bellanti e poi di un Rangoni; in esso il disegno (d'autore ignoto) è a teste di cherubini, a stemmi della famiglia Bichi e a ornati, tutto in brillanti colori. Sono un prodotto delle fornaci di Città anche i resti dello "spazzo" delle cappelle di S. Francesco; mentre appartiene alle fornaci del Terzo di S. Martino, e precisamente a quella di Girolamo di Marco Gioschi da Galatea di Romagna, vasaio in Pantaneto, il vanto di avere fatto (forse su disegni di Agnolo di Giovanni, pittore) l'impiantito del cosiddetto Oratorio della Cucina nella casa di S. Caterina. Tale impiantito, in parte rinnovato, ha belle colorazioni, soprattutto azzurre, e motivi ornamentali, specialmente a bestie, fronde e nastri, tratti come ispirazione dalle grottesche, ancora in auge in quel tempo. Venne eseguito intorno al 1501, a sostituire quello del 1480, oggi naturalmente perduto.

Sono da ricordare anche, per il Terzo di S. Martino, le fornaci Panducci, attigue alla chiesa di S. Giorgio: esse, già conosciute alla metà del Cinquecento e attivissime per tutto il secolo, vennero cedute nel 1613 alla Compagnia dei Sacri Chiodi; ed ebbero da allora in poi (nel sec. XVIII esistevano sempre) come marca di fabbrica i tre chiodi e iniziali che sembra fossero quelle dei Panducci. Da queste fornaci proviene in massima parte la ricca collezione di ceramiche, per lo più piatti, boccali e vassoi, già delle monache di S. Maria Maddalena, ora ornamento del Refugio: esse appartengono quasi tutte al Settecento.

Maestri venuti di fuori, specialmente da Urbino e da Faenza, lavorarono a Siena. Forse il migliore tra questi fu Benedetto di Giorgio, ricordato per la prima volta nel 1510, per l'ultima nel 1531.

Anche nell'Ottocento si seguitò a lavorare la ceramica: e tuttora le risorte fornaci di S. Lucia forniscono abbondanti prodotti, sia ispirati a forme e decorazioni antiche, sia di gusto attuale.

V. tavv. CXXI-CXL.

Storia. - Antichità. - L'antica Saena (anche Sena o Senae), chiamata, per distinguerla dalla Sena Gallica (l'odierna Sinigallia), Sena Etruriae, o Sena Iulia (tavola Peutingeriana), nel nome stesso tradisce l'origine quale colonia militare di Cesare o più verosimilmente dei triumviri, piuttosto che di Augusto; appartenne alla tribù Oufentina. È nominata assai di rado dagli scrittori antichi, in Plinio (Colonia Seniensis) e in Tolomeo (Σαίνα), nonché da un passo di Tacito (Hist., IV, 45) dal quale appare come sotto Vespasiano la colonia senese avesse già un corpo di magistrati suo proprio. La scarsità delle iscrizioni romane pervenuteci rende difficile delimitare il territorio della colonia; conferma invece direttamente la sua fondazione solo in epoca repubblicana il trovamento entro la cinta della città di alcune tombe e ceramiche etrusche tarde, nonché di alcune suppellettili preistoriche sporadiche.

Medioevo ed età moderna. - Le invasioni barbariche, specialmente dalla parte del mare, devono aver determinato un rapido accrescimento della città, che appunto per la sua posizione appartata e facilmente difendibile, apparve adatta come luogo di rifugio. Sulla collina più alta, che anche oggi conserva il nome di Castelvecchio, crebbe il primo nucleo cittadino, cinto da mura e sovrastante l'adiacente piano di S. Maria dove sorge la cattedrale, mentre altri castelli fortificati s'innalzavano sul poggio Malavolti e su quello di Valmontone. Così Siena divenne rapidamente una vera città. Negli atti della lite che si ebbe nel 712 fra il vescovo di Siena e quello di Arezzo per questioni di giurisdizione, si parla di una "restaurazione" del vescovato, fatta oltre 60 anni prima da Rotari; ma è probabile che si tratti invece di una fondazione, se si considera la sua modesta estensione in confronto dei finitimi e veramente antichi vescovati di Arezzo, Fiesole e Volterra. Si rileva pure come Siena, durante la dominazione longobarda, fosse governata da gastaldi, di cui il più antico a noi noto è Willerad, vivente nel 678. Con la conquista franca, l'autorità dei gastaldi passò nei conti; ma dopo il sec. X, accanto alla loro, cominciò a farsi valere l'azione anche politica dei vescovi, mentre quella dei conti veniva ristretta al solo contado. Per tutto il sec. XI si segue, attraverso i documenti, il lento accrescimento del potere vescovile, sotto la cui tutela il comune nasceva e si affermava. Il consiglio generale del popolo allarga a sua volta il proprio potere e alla fine si sostituisce al governo dei vescovi quello laico dei consoli. Li troviamo nominati per la prima volta in un atto del 1147, e restano tracce di un loro breve, del 1179, in cui sono ricordati un costituito e un consiglio: prova evidente che il comune di Siena era allora già costituito e regolato legislativamente in tutti i suoi particolari.

Sotto il governo dei consoli, durante il quale appare saltuariamente, fino dal 1151, uno Scudacollo, dominus civitatis, che forse fu semplicemente il capo di quel collegio, perché lo troviamo anche con il solo titolo di console, Siena cominciò ad allargare il suo dominio fuori delle mura, che ormai abbracciavano i tre nuclei originarî in una sola cerchia. Ma già durante il governo vescovile questa politica espansionistica aveva riportato i primi e più notevoli successi, con l'acquisto contemporaneo fatto nel 1137, forse in seguito a una guerra di cui non rimase ricordo, del castello di Staggia e della metà delle miniere di Montieri. Queste vene argentifere, che più tardi Siena tolse completamente ai vescovi di Volterra, furono la prima causa della ricchezza e potenza del nuovo comune, che poté coniare monete fino da un periodo in cui la rarità di questo mezzo di scambio ne centuplicava il valore. Intanto l'acquisto di Staggia, e la successiva spinta verso Poggibonsi e la Val d'Elsa, provocarono il primo conflitto con Firenze, composto dopo brevi avvisaglie nel 1141. Ma Siena continuò la sua espansione e già nel 1158 otteneva da Federico I un diploma, che era un'implicita conferma dei diritti del comune sui territorî conquistati. Di questo favore imperiale i Senesi profittarono per sottomettere i feudatari e le terre del contado, obbligando spesso gli abitanti a trasportare in città il loro domicilio. Nel 1180 l'arcicancelliere imperiale Cristiano di Magonza cedeva ai Senesi i diritti che l'impero aveva su S. Quirico d'Orcia, antica sede del vicario imperiale, e confermava il diritto di batter moneta, consacrando così in modo ufficiale e completo l'autonomia del comune. Più tardi l'imperatore cercò di ridurre le concessioni fatte; ma dopo che per questo, nel 1186, Siena ebbe negato l'accesso in città al re Enrico, l'imperatore rinunziò alle sue pretese tardive, e Siena continuò a sottomettere signori e castelli.

Dopo la morte di Enrico VI, Siena partecipò alla lega delle città guelfe stretta a S. Ginesio nel 1197, venendo così in rapporti di amicizia anche con Firenze. In conseguenza di ciò, e avendo i Fiorentini rinunziato a ogni ingerenza in Montepulciano e Montalcino, sui quali Siena affermava i proprî diritti, i Senesi prestarono nel 1202 il loro aiuto nella presa di Simifonte, che fin qui aveva ostacolato ogni progresso di Firenze in Val d'Elsa. Questo errore politico fu pagato caro da Siena: avendo rimesso a un arbitro la delimitazione dei proprî confini con Firenze, questi furono tracciati con tale parzialità per quest'ultima, da dare origine alle guerre che per mezzo secolo si combatterono poi fra le due città, e la Val d'Elsa fu perduta per sempre.

Intanto Siena aveva terminato di evolvere la sua costituzione: al governo dei consoli, rappresentanti delle famiglie magnatizie, si sostituisce il podestà, che compare per la prima volta nel 1199 in persona del lucchese Orlandino Malapresa. Dopo di lui, pur con qualche ritorno dei consoli, si succedono fino al 1211 podestà cittadini, dopo di che si ritorna definitivamente al podestà forestiero, in cui risiede la somma autorità politica. Nel 1202 si ebbe la prima Lira (libro delle imposte, analogo all'Estimo di Firenze), il che portò a una più esatta costituzione del Consiglio della campana, il quale aveva le funzioni di parlamento.

La pace con Firenze fu presto rotta, e i Senesi, sconfitti nel 1207 a Montalto della Berardenga, dovettero rinunziare alle pretese su Montepulciano e Montalcino. Fu però estesa, negli anni successivi, la conquista della Maremma; nel 1221 si rinnovarono le vecchie alleanze con Orvieto e Poggibonsi, e si sottomisero i conti Aldobrandeschi, Pannocchieschi e Ardengheschi; nel 1224 fu conquistata Grosseto; nel 1228 si contrasse lega con Pisa e Pistoia e nel 1229 coi fuorusciti di Montepulciano. Nonostante la sopravvenuta defezione di Orvieto, la guerra che allora si accese con Firenze fu nel complesso favorevole a Siena, a cui si era alleata anche Perugia, e terminò solo nel 1234 per intervento del pontefice Gregorio IX, che mandò a dirimere le vertenze il cardinale di Preneste. Ma anche questo lodo, pronunziato il 30 giugno 1235, fu durissimo per Siena, che si vide tra l'altro esclusa da Poggibonsi e da Montalcino.

Nel 1236, a moderare il potere assoluto del podestà e a diminuire l'influenza delle grandi famiglie, fu istituito un consiglio (poi detto Eccelso Concistoro) di ventiquattro cittadini, che prese il nome dal numero dei suoi componenti e che fu poi nel 1270 sostituito da un altro, più democratico, di trentasei. Il consiglio tenne il potere politico fino alla metà del sec. XV. Nel 1252 fu creato il Capitano del popolo come capo del collegio dei Ventiquattro; esso era forestiero e aveva il compito di vigilare i nobili, di amministrare la giustizia criminale e dirigere le compagnie militari dei terzieri della città. Al podestà rimase solo l'autorità giudiziaria e il comando degli eserciti in guerra, finché non gli fu tolta anche questa mansione che venne affidata a uno speciale capitano di guerra.

Durante il regno di Federico II, Siena fu a lui fedelissima, aiutandolo con truppe e denaro nelle sue imprese; alla sua morte si mantenne ligia ai successori, tanto da venire considerata come l'anima del partito ghibellino in Toscana. Nel 1251 accolse, facendo con essi lega, i fuorusciti di Firenze, tra cui Farinata degli Uberti, e si alleò con Pisa e Pistoia, coi Guidi e gli Ubaldini e i ghibellini di Arezzo. Dopo una prima pace conclusa nel 1254 in seguito ai successi dei Fiorentini, la guerra si riaccese dapprima contro i collegati di Firenze in Maremma e in Val di Chiana; venendo poi i Fiorentini stessi contro Siena, furono battuti il 18 maggio 1260 a S. Petronilla, a un chilometro dalla città, dalle truppe senesi unite ai cavalieri tedeschi di Manfredi. Il 4 settembre poi, in una battaglia rimasta famosa per il ricordo dantesco, l'esercito fiorentino, nonostante la sua superiorità numerica, fu sbaragliato completamente a Monteaperti in Val d'Arbia. Siena poté allora imporre a Firenze umilianti condizioni di pace e riebbe Montepulciano, Montalcino e altre terre perdute; ma non riuscì a trarre dalla vittoria vantaggi duraturi: papa Urbano IV chiamò in Italia Carlo d'Angiò a sostegno del guelfismo e sebbene nel giugno 1268, dopo la morte di Manfredi, i Senesi, uniti ai Tedeschi di Corradino di Svevia, riuscissero vittoriosi in una battaglia presso Arezzo, furono poi disfatti a loro volta sotto Colle, nel giugno 1269. Nella mischia rimase ucciso Provenzano Salvani, capo del ghibellinismo senese che con lui tramontava; Guido di Montfort, vicario di Carlo d'Angiò, instaurava allora in Siena un governo guelfo, il quale, con numerose proscrizioni e devastazioni, apriva la serie di quelle guerre di famiglie che furono poi la rovina della repubblica. Con la pace del cardinale Latino Orsini, del 1280, furono riammessi in città i ghibellini, e il governo dei Trentasei fu sostituito da quello dei Quindici, dal quale erano escluse le famiglie dei Grandi. Ma siccome al tempo della venuta di Rodolfo di Asburgo e della morte di Carlo d'Angiò, i ghibellini ordirono intrighi contro i guelfi, fu ricomposto nel 1287 un governo di Nove membri, tutti di famiglie popolari e mercantili, che salvo un breve intervallo tenne il potere fino al 1355, mantenendo una politica guelfa e l'amicizia con Firenze. Fu il miglior governo di Siena, che curò la prosperità del dominio, abbellì la città dei più insigni edifici che l'adornano e segnò il periodo di maggior fama dello Studio e del fiorire delle arti. Un primo grave colpo fu però portato nel 1309 dal fallimento della banca dei Buonsignori e dal riaccendersi delle discordie fra Tolomei e Salimbeni, mentre la venuta di Arrigo VII trascinava anche Siena in guerre di sterminio e suscitava le ribellioni dei grandi feudatarî e delle terre soggette. Nel 1318 si ebbero gravi sommosse dei macellai e dei fabbri, e poi anche dei giudici e notai; durante le guerre con Uguccione e Castruccio, Siena assisté Firenze nella lotta e nel 1326 riconobbe anch'essa una specie di alto dominio dell'Angiò, capo del guelfismo italiano. La vittoria su Lucca e Pisa fu completa; ma la guerra aveva esaurito le finanze e desolato le campagne, e a ciò si aggiunse nel 1348 una terribile pestilenza la quale uccideva in Siena circa i due terzi della popolazione (che secondo i computi più attendibili sarebbe stata di 70.000 abitanti).

Tutti questi mali, uniti al malcontento suscitato dal monopolio assoluto che i Nove avevano fatto del governo, nel quale nessuna nuova famiglia poteva essere ammessa, provocarono nel 1355 una sollevazione delle famiglie magnatizie dei Piccolomini, Tolomei, Saracini e Salimbeni, che con l'aiuto del popolo e con la connivenza dell'imperatore Carlo IV, che allora si trovava in Siena, rovesciarono il governo dei Nove, incendiandone l'archivio e saccheggiandone le case. Fu creato un governo di soli popolari, di cui facevano parte numerosi discepoli di S. Caterina, dal quale restarono esclusi i Nove e anche, dopo un primo momento in cui vi erano stati ammessi, i nobili.

Il nuovo governo, nel 1359, venne in guerra con Perugia a proposito di Montepulciano e di Cortona; la pace conclusa nel luglio assegnava a Siena l'alto dominio su Cortona, e a Perugia quello su Montepulciano. Nel 1360 fu ripreso Montalcino, che nelle passate vicende si era sottratto più volte al dominio senese. Queste continue ribellioni, di Massa, della Maremma, dei grandi feudatarî, mostrano come fosse precario il potere di Siena sul contado, dove la potenza di questi ultimi non era stata potuta infrangere, mentre le lotte tra famiglie in città indebolivano il governo e invitavano alla ribellione i sudditi malcontenti. Nel 1368, in occasione di un secondo passaggio di Carlo IV, fu costituito un nuovo governo di Quindici riformatori, di tinta popolare, composto di famiglie mai partecipi dei consigli: unico merito di questo governo fu il riordinamento dei debiti pubblici. Le compagnie di ventura del Gambacorti e dell'Acuto desolavano il territorio, ora che Siena era in guerra con Barnabò Visconti e Gregorio XI e, dopo la pace conclusa nel 1380 da Urbano VI, contro i Farnese e Viterbo; nuove pestilenze accrescevano le rovine, ma finalmente si era giunti a una conclusione vittoriosa del conflitto, quando nel 1386 una nuova sollevazione rovesciava i Riformatori, a cui succedettero in rapida serie un governo di Dieci (1386-87), di Undici (1388-98) e Dodici priori (1398-99), dai quali il partito trionfante bandiva ed escludeva gli altri, inacerbendo sempre più le inimicizie. Profittando di questi torbidi, Firenze aveva conquistato Montepulciano e altre terre; per misura di difesa quindi gli Undici si posero sotto la protezione di Gian Galeazzo Visconti, a cui nel 1399 fu data poi la signoria della città.

Morto il Visconti, Siena rimase ai successori fino al 1404. In questo anno una speciale Balia formò un nuovo governo di Dieci priori, tratti dai Monti e Ordini dei Nove, dei Riformatori e del popolo; fu fatta la pace con Firenze e anche un'alleanza con essa nel 1410 contro re Ladislao di Napoli venuto ai danni di Siena. Morto Ladislao, furono riconquistati la Maremma e i porti marittimi, occupata Sovana e i dominî di Giacomo Sforza in Val d'Orcia e si ebbe anche, a proposito di questi ultimi, qualche attrito con Braccio da Montone, signore di Perugia, che aveva delle mire su di essi. Nelle guerre tra Alfonso di Aragona e Firenze, Siena fu dapprima alleata col re, ma dopo il 1454 passò nuovamente all'alleanza fiorentina ed ebbe a soffrire delle depredazioni delle masnade di Iacopo Piccinino. In quell'anno fu nominata una nuova Balia, che divenne permanente e indipendente dal Concistoro, a differenza delle precedenti che avevano rappresentato una specie di comitato segreto di quello, e finì con l'accentrare in sé il potere politico. I tradimenti dei capitani al soldo di Siena si alternarono ora alle congiure fomentate da Antonio Petrucci. Un poco di quiete fu portata dall'intromissione di papa Pio II Piccolomini, il quale elevò anche ad arcivescovato la sede senese; ma dopo il 1464 si ebbe un continuo mutamento nel numero dei priori, corrispondente ad altrettanti mutamenti di governo. Nel 1480 i Nove e i popolari cacciarono i Riformatori e, aiutati dal duca di Calabria, accolsero nel Concistoro anche i nobili. Nel 1482 però questi ultimi furono nuovamente esclusi e, infine, nello stesso anno, anche i Nove furono messi al bando. Fra questi ultimi si trovava Pandolfo Petrucci, il quale divenne il capo dei fuorusciti e riuscì, nel 1487, a penetrare di sorpresa in Siena, dove instaurò un governo nel quale tutti gli ordini erano rappresentati. Ma in realtà, da allora in poi, egli fu il vero padrone e seppe conservare il potere nonostante l'opposizione interna e le insidie di Cesare Borgia, favorendo le arti e risollevando le condizioni dell'economia.

Ma i suoi successori non seppero consolidare questo, che era un vero principato, e nel 1523 furono cacciati, definitivamente. Per questi disordini, già da tempo Carlo V aveva mandato un suo delegato, mentre Clemente VII intrigava coi fuorusciti per dare la città ai nipoti. Un complotto fallito mosse il papa ad attaccare Siena con un esercito, che fu disfatto a Camollia nel 1526; ma crebbe la tutela imperiale, venendo stabilita in città una guarnigione spagnola. La costruzione di una cittadella provocò un'insurrezione, per la quale gli Spagnoli furono cacciati, nel 1552, mentre veniva stretta un'alleanza con la Francia e coi fuorusciti fiorentini guidati da Piero Strozzi. Scoppiò la guerra e l'assedio di Siena fu iniziato nel marzo 1554: la peste, la fame decimarono i difensori, e finalmente, dopo una difesa piena di eroismi, la città si arrese il 17 aprile 1555, quando era ridotta a soli 8000 ab. Oltre 650 famiglie si ritirarono a Montalcino, dove era lo Strozzi e dove la repubblica si sostenne fino al luglio 1559.

Contro i patti della capitolazione, fu investito del dominio senese il principe Filippo di Spagna, che succedendo al padre la cedette a Cosimo I, verso cui era debitore di grandi somme. Furono separati i porti marittimi, con cui fu creato lo stato dei Presidî. Sotto i Medici, Siena ebbe governo autonomo, con un governatore che rappresentava il sovrano, un Concistoro e una Balia riformati per gli affari di governo, e i quattro conservatori per la parte amministrativa. La rinascita del paese fu però assai lenta e solo dopo l'avvento della casa di Lorena e le leggi di Pietro Leopoldo del 1778 rifiorirono l'agricoltura e il commercio. Siena seguì le sorti del granducato, partecipò al movimento patriottico, inviò un contingente di volontari universitarî a Curtatone e, infine, fu riunita al regno d'Italia, dopo il breve governo provvisorio e il luogotenentato del principe di Carignano.

Vita musicale e palio. - Nel Medioevo si cantavano in Siena laudi (il beato Colombini da Siena è autore di una lauda riportata da padre S. Razzi nella sua raccolta del 1563), si svolgevano feste e tornei a cui prendevano parte giullari, cantori e suonatori, e venivano rappresentati ludi e misteri, che si eseguivano in principio sulle piazze e nei cimiteri e poi anche nelle chiese. Nel Cinquecento si ha notizia del Concerto di palazzo al servizio della signoria. L'antica accademia dei Filomati, che ebbe per stemma le api e un cembalo, dedicava la sua attività esclusivamente alla musica. S. Bargagli parla degli spettacoli di calendimaggio, di un Dialogo fra ninfe e pastori a 8 voci, di un Madrigale a 5 con viole, liuti e trombone. In seguito le rappresentazioni ebbero luogo per iniziativa delle accademie degl'Intronati (poi Rinnovati) e dei Rozzi. La prima opera in musica eseguita fu l'Argia di M. A. Cesti (1670). Le Veglie di Siena, che ispirarono la celebre composizione musicale del modenese O. Vecchi, consistevano in giuochi "di spirito e d'ingegno", "di scherzo e di piacevolezza", bisticci, dispute d'amore, indovinelli, con ballo canto suono e poesia, tenuti nell'Accademia degl'Intronati e poi tramandati, con lo stesso nome, in altre accademie d'Italia e in Francia.

Siena è stata sempre molto feconda di musicisti. Ricordiamo, oltre ad A. Agazzari e a Bernardino Azzolino della Ciaia, S. Chigi (1584-1633?) che fu mecenate e "superiore a ognuno del suo tempo nel cetarone" per quanto Celio Saracini "cognominato Celio del chitarrino", non dovesse essergli inferiore in valentia; Claudio Saracini detto il Palusi, nato probabilmente nell'ultimo decennio del Cinquecento, di cui s'ignora l'anno della morte, che pubblicò sei libri di musiche a 1 voce, dei quali è andato perduto il quarto, contenenti Arie e Madrigali; F. Bernardi, detto il Senesino, cantante evirato, che fu alla corte di Dresda e, scritturato da Händel, si recò poi a Londra (1720-29) dove cantò anche sotto la direzione di G. B. Bononcini, e tornò in Italia nel 1739, universalmente ammirato; G. F. Tenducci (1736-1800), anch'egli celebre sopranista, che scrisse un'opera comica, The Campaign, rappresentata a Londra, e un trattato sul canto; G. Pinsuti (Sinalunga 1829-Firenze 1888), che compose le opere Il mercante di Venezia, Mattia Corvino, Margherita e, fra l'altro, numerose romanze vocali. Sono da ricordare, inoltre, V. Fumi (lodato dal Ponchielli) autore di poemetti sinfonici; A. Feliciani, B. Draghi, D. Romani, T. Pecci, D. Pecci, A. Gregori, e, fra i librettisti, L. Santi, G. Gigli, che scrisse circa quaranta componimenti per musica, G. C. Pasquini, Livia Accarigi. F. Casuccini.

Nell'opera della Metropolitana si trovano madrigali a 6, 7, 8, 10 voci di Andrea e Giovanni Gabrieli; in quella di Provenzano esistono seicento lavori musicali e altri si trovano presso l'archivio di stato, nella Biblioteca comunale e in quella privata di F. Avanzati Bernardi.

Nel 1909 fu fondato il Quintetto senese, che per molti anni, insieme col Trio senese e col Quartetto di violoncelli, tenne viva l'attività concertistica. Per la generosa iniziativa del mecenate conte G. Chigi Saracini, nel 1923, fu fondata la Micat in vertice, organizzazione stabile di concerti; e al suo fianco funziona l'Accademia musicale Chigiana per il perfezionamento nel canto e nella musica. La scuola comunale di musica, in questi ultimi anni, ha dato vita all'orchestra comunale senese.

Nella campagna si rappresenta tuttora il Bruscello (v. App.). Anche il palio ha un interesse musicale. Quando il corteo storico (per il palio, in generale, v. palio), si muove dalla Via del Casato, i trombetti intonano la Marcia del Palio, scritta nel secolo XIX, sulla base di antichi elementi, da P. Formichi:

Ecco gli squilli del carroccio che chiude lo storico corteo:

Dopo la corsa echeggiano nei rioni i canti popolari delle contrade, con puntate satiriche e ricordi di vittorie:

Un altro canto, cosiddetto del Capitano, musicalmente affine e forse derivato da quello di Genesio, il cui interesse risiede anche in quell'improvvisa modulazione alla fine sul fa, è comunissimo e a esso si applicano, in genere, poesie d'occasione suggerite dalle vicende della corsa. Mentre rullano i tamburi delle diciassette contrade, si diffondono sulla piazza i tocchi del campanone dedicato all'Assunta patrona di Siena, detto Sunto, che, essendo incrinato, fa due note:

Dalla torre trecentesca del Mangia esse scendono a ondate sonore di due piani sulla folla policroma e sul corteo.

Istituzioni culturali e biblioteche. - L'università si affermò tra le prime in Italia; riconosciuta da un privilegio di Federico II circa il 1246, ebbe poi, dopo le prerogative concesse dalla bolla aurea di Carlo IV nel 1357, vita assai gloriosa. Oggi essa comprende le facoltà di giurisprudenza, medicina e chirurgia e la scuola di farmacia. Ha una cattedra cateriniana, istituita nel 1926 per interessamento della Società internazionale di studî cateriniani, fondata in Siena nel 1920; ha annessi i corsi invernali di cultura per gli stranieri e quelli estivi, che, iniziati nel 1917, si svolgono oggi, sotto la direzione dell'Istituto interuniversitario italiano, contemporaneamente a quelli dell'Accademia musicale Chigiana, sorta nel 1932 nel palazzo del conte G. Chigi-Saracini. Presso la facoltà di giurisprudenza sono istituiti, fin dal 1880, il circolo e il seminario giuridico, con una ricca biblioteca e con il periodico Studi senesi. Presso la facoltà di medicina continua la sua vita gloriosa la R. Accademia dei Fisiocritici, fondata nel 1691 dal senese Pirro Maria Gabbrielli. Del suo fecondo lavoro fanno testimonianza gli Atti Accademici (fin dal 1761), i musei con le ricche collezioni e l'importante biblioteca. Nel campo letterario molta rinomanza acquistò, fin dalle sue origini, la R. Accademia (già Congrega) dei Rozzi, fondata nel 1531 da dodici artigiani (continuatori dei primi comici popolari senesi) per comporre e rappresentare mascherate, farse, commedie di genere rusticale, ecc. Nel 1691 la Congrega dei Rozzi si trasformò in Accademia, e col teatro, con la musica, con frequenti manifestazioni di carattere culturale, svolse sempre e svolge tuttora un nobile compito educativo. Degna di ricordo è anche l'Accademia degli Intronati, probabile trasformazione (1525) dell'Accademia Grande, sorta ai tempi di Enea Silvio Piccolomini. Questa accademia, che nel primo periodo di vita si segnalò per un'intensa e notevole attività letteraria, si fuse nel 1654 con quella dei Filomati (fondata verso il 1580) e, dopo un inevitabile esaurimento, nel 1802 si trasformò nell'Accademia dei Rinnovati. Nel 1863, per lo studio della storia del Comune, sorgeva, con l'incoraggiamento di Niccolò Tommaseo e di Gino Capponi, la Società senese di storia patria municipale, che dal 1865 al 1869 curò la pubblicazione di un proprio Bullettino, e nel 1870 si fuse con la Sezione letteraria dell'Accademia dei Rozzi, di cui costituì la Sezione letteraria e di storia patria municipale, la quale pubblicò dal 1870 al 1879 e nel 1888 i suoi Atti e Memorie. Nel 1894 nella Sezione predetta fu nominata la Commissione senese di storia patria che promosse pregevoli pubblicazioni, e nel 1905 si costituì la Società degli amici dei monumenti. Dal 1929 tutte le iniziative culturali dirette allo studio e all'illustrazione della storia e dell'arte senese sono riunite nell'Istituto comunale di arte e di storia, fondato dal podestà marchese F. Bargagli-Petrucci, che fra l'altro attende all'edizione sistematica delle Fonti di storia senese e a una speciale Collezione di monografie di arte senese. Oltre il R. Archivio di stato, fra i più importanti d'Italia, istituito dal granduca Leopoldo I di Lorena, è da ricordare la Biblioteca comunale degli Intronati, fondata da Sallustio Bandini nel 1759, dotata di 120.000 volumi, 90.000 opuscoli, 5250 manoscritti, moltissimi dei quali pregevoli, e 820 incunabuli.

Arte della stampa. - Secondo l'opinione più diffusa, l'arte della stampa fu introdotta a Siena da Enrico di Haarlem, il quale aveva già esercitato l'arte sua a Ferrara (1477) e a Bologna (1482), e che stampò, con data 8 gennaio 1483, l'opera di Pietro degli Ubaldi, Repetitio... super Cod. de praescriptionibus. Altri bibliografi considerano come primo libro stampato in Siena l'opera di Francesco degli Accolti, Incipit lectura in titulo de vulgari et pupillari ecc., della quale però non si conoscono esemplari, e il cui stampatore è ignoto.

Enrico da Colonia (prototipografo in Siena secondo V. Scholderer e altri) pubblicò opere giuridiche di Paolo De Castro e dell'Accolti (21 luglio e 2 settembre 1484), e dal 1486 al 1489 un'altra ventina di opere quasi tutte di diritto. Dal 1491 egli si associò con Enrico di Haarlem, già a sua volta socio con Giovanni Walbeck (1488-89), e che stampò dal 1490 al 1495 almeno 23 testi giuridici. Pure nel sec. XV stampò in Siena Sigismondo Rodt, di Bitsche (due edizioni note, una del 1489, l'altra s. a.).

A differenza di altre piccole città, dove agli albori del sec. XVI ogni attività tipografica scompare, a Siena nel primo quarto del secolo seguente alcuni tipografi locali tennero viva l'arte della stampa, con la pubblicazione di graziosi libretti ornati di gustose silografie, piene di carattere, tali da far riconoscere subito la loro origine: fra questi Simone di Niccolò di Nardo, detto il Rosso, che fra il 1502 e il 1539 pubblicò una cinquantina di opere di vario argomento.

Provincia di Siena.

La provincia di Siena, una delle 9 provincie comprese nel compartimento della Toscana, si estende nella parte centrale e meridionale della regione tra i Monti del Chianti e l'Amiata, la Catena Metallifera e la Valdichiana. Essa corrisponde al territorio dell'antica repubblica di Siena, meno la provincia di Grosseto, che le fu distaccata nel 1766. L'area della provincia è di 3816 kmq.; la sua popolazione, al censimento del 1931, risultò di 260.891 ab. con un aumento rispetto al censimento del 1921 di 13.049 unità. La densità è di 68 abitanti per kmq., notevolmente inferiore alla densità media della regione (126), che alla sua volta è di poco inferiore alla media del Regno, ciò che è dovuto alla mancanza di considerevoli centri urbani. Assai notevole l'incremento della popolazione della provincia verificatosi dopo l'unificazione del Regno. Al censimento del 1861 essa era risultata di 128.388 ab., onde l'accrescimento nei 70 anni fu del 103%, mentre quello del Regno fu solo del 64%. Tale aumento è dovuto al solo incremento naturale o vegetativo per l'eccedenza dei nati sui morti non essendovi stato nella provincia movimento d'immigrazione né di emigrazione. La popolazione vive per circa la metà in centri abitati di varia importanza e per metà (49,6) sparsa per le campagne. La provincia comprende 36 comuni dei quali soltanto 7 superano i 10.000 ab. I centri abitati sono 175, ma solo 21 di essi con popolazione superiore ai 1000 ab. e di questi tranne il capoluogo nessuno raggiunge i 10.000 abitanti. La provincia di Siena è un territorio eminentemente agricolo dove i 2/3 della popolazione di età superiore ai 10 anni, e classificata come professionale, vive dell'agricoltura, praticata per 3/4, come nella generalità della Toscana, a colonia mezzadra. Dell'area totale il 94,5% (360.601 ha.) è considerata superficie agraria e forestale. Di questa per 54,8% sono terreni seminativi semplici o con piante legnose; 36,5 sono boschi, 6,5 sono pascoli permanenti; 1,4 incolto produttivo; 0,7 colture legnose specializzate e 0,1 prati permanenti. Fra le colture erbacee il frumento occupa l'81,3% dell'estensione totale e il granturco maggese il 10,1%. Largamente estesa la coltivazione della vite, che dà vini assai pregiati, particolarmente nella regione del Chianti che storicamente rientra tutta nella provincia di Siena; e così quelli di Montepulciano e il moscadelletto di Montalcino. Anche la coltivazione dell'olivo è assai estesa. I boschi hanno nella provincia una notevole estensione; essi sono rappresentati principalmente da cedui e da querceti; ma vi sono compresi anche i castagneti da frutto che ricoprono le pendici dell'Amiata sino a un'altitudine che tocca e supera i 1000 m. L'allevamento del bestiame è notevole. Si contano 190.256 bovini, 662.524 ovini, 101.485 suini e 9490 equini. Reputati i formaggi dati dal latte delle pecore allevate nella regione delle crete senesi.

Bibl.: Oltre agli studî d'arte e storia apparsi numerosi in Studi senesi, I (1884), segg.; Miscell. st. sen., I-VI (1893-1903); Bull. sen. st. patria, I-XXXVI (1894-1929); n. s., I (1930), segg.; Rass. d'arte sen., I-XIX (1905-26); Siena monumentale, I-VI (1906-11); Studi Cateriniani, I (1923), segg.; La Diana, I (1926), segg.; La Balzana, I-VII (1927-33); Bull. di st. Bernardiniani, I (1935), segg.; (v. pure Indici tripartiti d. pubbl. period. di st. sen. dal 1865 al 1901, a cura di P. Piccolomini, Siena 1912, e Indice gen. anni I-XIX d. Rass. d'arte sen., a cura di A. Vigni, ivi 1932), cfr.:

Geografia: E. Repetti, Diz. geogr. fis. stor. d. Toscana, V, Firenze 1843, p. 295 segg.; E. Micheli, Siena e il suo territorio, Siena 1862; E. Bormann, Corp. Inscr. Lat., XI, p. 332 segg.; R. Bianchi-Bandinelli, Siena. Ediz. arch. della carta d'Italia (foglio 120), Firenze 1927.

Monografie, guide e monumenti: L. M. Richter, Siena, Lipsia-Berlino 1901; A. J. Rusconi, Siena, Bergamo 1904 e 1913 (anche ed. ingl.); F. Schevill, Siena, Londra 1909; A. Pératé, Sienne, Parigi 1918; G. A. Pecci, Ristretto delle cose più notabili di Siena, Siena 1761; E. Romagnoli, Cenni stor. art. di Siena e suoi suburbi, ivi 1836, 1840, 1852; E. A. Brigidi, Nuova guida di Siena, ivi 1879 e 1922; W. Heywood, L. Olcott, Guide to Siena, ivi 1903 (2ª ed., con note di F. M. Perkins, ivi 1924); K. Chledowski, Siena, Cracovia 1904; L. Dami, Siena e le sue opere d'arte, Firenze 1915; A. Rondini, Siena e la sua provincia, Siena 1931-33; V. Lusini, Storia della basilica di S. Francesco a Siena, ivi 1894; id., Il S. Giovanni di Siena, Firenze 1901; id., La chiesa di S. Maria del Carmine in Siena, Siena 1907; id., La basilica di S. Maria dei Servi in Siena, ivi 1908; id., Il duomo di Siena, ivi 1911: id., Il palazzo Chigi Saracini in Siena, ivi 1927; F. Bandini Piccolomini, La madonna di Provenzano e le origini della sua chiesa in Siena, ivi 1895; C. Ricci, Il Palazzo Pubblico di Siena, Bergamo 1904; N. Mengozzi, Il Monte dei Paschi di Siena. Lavori artistici, Siena 1905; D. Toncelli, La casa di S. Caterina a Siena, Roma 1908; L. Sbaragli, Il Palazzo del Comune, Siena 1932; E. Micheli, Breve istoria della Galleria di belle arti di Siena, ivi 1872; P. Bacci, La R. Pinacoteca di Siena, in Bollettino d 'arte, XXVI (1932); C. Brandi, La R. Pinacoteca di Siena, Roma 1933; La sala della mostra e il museo delle tavolette dipinte della Biccherna e della Gabella nel R. Arch. di stato in Siena, Siena 1911.

Arte: Opere generali: G. Vasari, Le Vite (ed. a cura di G. Milanesi), Firenze 1878-85, voll. 9; F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno, ivi 1681-88; G. Gaye, Carteggio inedito di artisti, ivi 1839-41; G. Milanesi, Sulla st. dell'arte toscana, Siena 1862; G.B. Cavalcaselle e J. A. Crowe, History of Painting in Italy (ed. a cura Borenius e Douglas), Londra 1910-14; ed. it., Firenze 1875-98, voll. 8; B. Berenson, The Central Italian Painters of the Renaissance, Londra 1902 e 1929; A. Venturi, St. dell'arte it., Milano 1907 segg.; R. van Marle, The Development of the Italian School of Painting, L'Aia 1923 segg. (ed. it., a cura di A. Buitoni, L'Aia-Firenze 1932 segg.); B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1930 e 1932; G. Della Valle, Letere sanesi sopra le belle arti, Venezia, Roma 1782-86, voll. 3; G. Milanesi, Doc. per la st. dell'arte sen., Siena 1854-56, voll. 3; S. Borghesi, L. Banchi, Nuovi doc. per la st. dell'arte sen., ivi 1898; F. Brogi, Inventario generale degli oggetti d'arte della provincia di Siena, ivi 1897; Catalogo generale della mostra dell'antica arte sen.: aprile-maggio 1904, ivi 1904; Arte antica sen., ivi 1904, voll. 2; F. Seymour, Siena and her artists, Londra 1907; P. Rossi, I caratteri dell'arte sen., Siena 1916 (anche ed. ingl.); E. S. Horbath, Siena e il primo Rinasc. ungherese, ivi e Budapest 1925. - Architettura: Geymüller, Stegmann, Die Arch. d. Renaissance in Toscana, Monaco 1888; A. Canestrelli, L'arch. mediev. a Siena e nel suo antico territorio, in Arte antica sen., Siena 1904; F. Bargagli-Petrucci, Le fonti di Siena ed i loro acquedotti, Firenze 1906, voll. 2; A. Canestrelli, Arch. romanica nel terr. sen., in Atti Soc. it. per il progr. d. sc., 1913; G. Chierici, Architetti e architetture del '700 in Siena, in Architettura ed arti decorative, II (1922); L. Marri Martini, Costruzioni francescane in terra sen., nel vol. S. Francesco e Siena, Siena 1927; M. Salmi, L'arch. roman. in Toscana, Milano s. a. - Pittura: W. Heywood, A Pictorial Chronicle of Siena, Siena 1902 (2ª ed., 1928); W. Rothes, Die Blütezeit der sienesischen Malerei, Strasburgo 1904; E. Jacobsen, Das Trecento in der Gemäldegalerie zu Siena, ivi 1907; id., Das Quattrocento in der Gemäldegalerie zu Siena, ivi 1908; id., Sodoma und das Cinquecento in Siena, ivi 1910; B. Berenson, Essay in the Study of Sienese Painting, New York 1918; L. Gielly, Les primitifs siennois,Parigi 1926; A. Lisini, Elenco dei pittori sen. vissuti nei secoli XIII, XIV, XV, in La Diana, II-III (1927-28); E. Cecchi, Trecentisti senesi, Roma 1928; C. H. Weigelt, La pittura sen. del Trecento, Bologna 1930; B. Berenson, Quadri senza casa: il Trecento e il Quattrocento sen., in Dedalo, XI (1930-31); F. M. Perkins, Pitture senesi poco conosciute, in La Diana, V-VIII (1930-33); M. L. Gengaro, Sogno e realtà nella primitiva arte sen., ibid., VII (1932); C. H. Edgell, A History of Sienese Painting, New York 1932. - Scultura: P. Bouchard, La sculpture à Sienne, Parigi 1901; P. Schubring, Die Plastik Siena im Quattrocento, Berlino 1907; M. Salmi, La scultura romanica in Toscana, Firenze 1928. - Arti minori: L. Banchi, L'arte della seta in Siena nei secoli XV e XVI, Siena 1881; F. Bargagli-Petrucci, Le trine senesi, Firenze 1900; L. Douglas, Le maioliche di Siena, in Bull. sen. di st. patria, X (1903); V. Lusini, Dell'arte del legname avanti il suo statuto del 1426, in Arte antica sen., Siena 1904; A. Lisini, Le tavolette dipinte di Biccherna e di Gabella del R. Arch. di stato in Siena, ivi 1911; G. Chierici, Bussole sen. del '700, in Dedalo, V (1924-25); P. Bacci, Per la scultura sen. di statue in legno, in La Balzana, I (1927); P. Misciattelli, Cassoni senesi, in La Diana, IV (1929); I. Machetti, Orafi senesi, ibid., IV (1929); A. Lisini, De la pratica di comporre finestre a vetri colorati, ibid., IV (1930); P. Toesca, Monumenti e studî per la storia della miniatura ital., Milano 1930.

Storia medievale e moderna: Fonti: Cronache senesi, in Rer. Ital. Scrip., XV (2ª ed., a cura di A. Lisini e F. Iacometti), XIX, XX, XXIII; Statuti senesi, a cura di F. L. Polidori e L. Banchi, Bologna 1863-77, voll. 3; Il Constituto del comune di Siena dell'anno 1262, a cura di L. Zdekauer, Milano 1896; Il Constituto del com. di Siena volgar. nel 1309-10, a cura di A. Lisini, Siena 1903, voll. 2; Libri di Biccherna della Repubbl. di Siena, ivi 1914 segg.; Il Caleffo Vecchio del com. di Siena, a cura di G. Cecchini, ivi 1931 segg. - Opere generali: R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo de' Medici, Firenze 1830, voll. 18; O. Malavolti, Historia de' fatti e guerre de' Sanesi fino all'anno MDLV, Venezia 1599, tomi 3; G. Tommasi, Dell'histoire di Siena fino al MCCCLV, ivi 1625-26, tomi 2; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, o vero relazione delli huomini e donne illustri di Siena e suo stato, Pistoia 1649, voll. 2; G. Gigli, Diario sanese, Siena 1722, voll. 2; G. A. Pecci, St. del vescovado della città di Siena, Lucca 1748; id., Mem. storico-critiche della città di Siena, Siena 1755-60, voll. 4; L. De Angelis, Biogr. d. scrittori sen., I (A-I; solo pubbl.), ivi 1824; N. Mengozzi, Il Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, ivi 1891-1925, voll. 9; G. Rondoni, Sena Vetus o il com. di Siena dalle origini alla battaglia di Montaperti, in Riv. st. it., X (1892); L. Douglas, A History of Siena, Londra 1902, voll. 2 (trad. franc., Parigi 1914; it., Siena 1926-33); V. Lusini, Note storiche sulla topografia di Siena nel sec. XIII, nel vol. Dante e Siena, Siena 1921; G. Pardi, La popolaz. di Siena e del terr. sen. attraverso i sec., in Bull. sen. di st. patria, XXX e XXXII (1923, 1925); L. Gielly, L'Âme siennoise, Parigi 1920. - Opere particolari: A. Sozzini, Diario di cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555, in Arch. st. it., II (1842); D. Promis, Monete della Repubbl. di Siena, Torino 1868; C. Falletti-Fossati, Principali cause della caduta della Repubblica di Siena, in Atti della R. Acc. dei Fisiocratici di Siena, s. 3ª, II, Siena 1883; C. Paoli, Il libro di Montaperti, Firenze 1889; P. Rossi, Le origini di Siena: i. Siena avanti il dominio romano; 2. Siena colonia romana, Siena 1895-97; D. Zanichelli, Siena e il principato toscano, ivi 1896; L. Zdekauer, La vita privata e la vita pubblica dei Sen. nel Dugento, ivi 1896-97; C. Paoli, Siena alle fiere di Sciampagna, ivi 1898; A. Professione, Siena e le compagnie di ventura nella seconda metà del sec. XIV, Civitanova 1898; L. Zdekauer, Il mercante senese nel Dugento, Siena 1899 (2ª ed., 1925); A. Coppini, Pietro Strozzi nell'assedio di Siena, Torino 1902; B. di Montluc, L'assedio di Siena (1554-55), Firenze 1905; id., La guerra di Siena dopo l'assedio e la capitolazione (1555), ivi 1906; N. Mengozzi, Il feudo del vescovado di Siena, Siena 1911: id., Il pontefice Paolo II e i Senesi, ivi 1918; M. Chiaudano, Le compagnie bancarie senesi nel Dugento, nel vol. Studi e doc. per la st. del dir. comm. it. nel sec. XIII, Torino 1930.

Musica: R. Morrocchi, La musica in Siena, Siena 1886; L. Cellesi, st. della più antica banda musicale sen., ivi 1906; A. Bonaccorsi, Armonie e canti di Siena, in Musica d'oggi, 1926; La Diana (fasc. dedicato alla musica in Siena), III (1928); A musical centre in Siena: The Palazzo Chigi-Saracini, in The Italian Mail and Tribune (Illustrated Suppl. and Review), vol. 111, n. 3, Firenze 1928; S. Guidi, Micat in vertice, in Ospitalità italiana, IV, Milano 1929; S. A. Luciani, Opere a stampa di musicisti sen. nelle bibl. di Europa, ibid., V (1930).

Palio e folklore: A. Hercolani, Storia e costumi delle contrade di Siena, Firenze 1845; W. Heywood, Palio and Ponte, Siena 1904 (2ª ediz., 1929); H. J. Robins, In the City of the Contrade, ivi 1912; V. Grassi, Le Contrade, in La Balzana, I (1927) segg.; G. Zazzeroni, Le contrade di Siena secondo il cronista Gio. Antonio Pecci, Siena 1929; La giurisdizione territoriale delle contrade secondo il bando del 7 gennaio 1729, ivi 1930; Le contrade di Siena negli spettacoli anteriori al Palio e la Caccia de' tori del 15 agosto 1546 in una lettera di Cecchino Chartajo, ivi 1931; P. Misciattelli, D. Cambellotti, Il palio di Siena, Roma 1932; C. Belin, L'âme de Sienne et le "Palio", Roma 1934; G. Rondoni, Tradizioni popolari e leggende di un com. medieoevale e del suo contado, Firenze 1886; G. B. Corsi, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo sen., in Arch. per lo st. delle tradizioni popolari, XIV (1895); A. Marenduzzo, Veglie e trattenimenti sen. nella seconda metà del sec. XVI, Trani 1901; L. A. Rostagno, Stornelli e rispetti senesi, Siena 1908; I. Hirsch, Laut und Formenlehre des Dialekte von Siena, in Zeitsch. f. romanische Philol., IX-X; I. Dell'Era, Leggende toscane, Milano 1934.

Istituti di cultura: Memoria sopra l'origine e istituzione delle principali accademie della città di Siena, dette degl'Intronati, dei Rozzi e dei Fisiocritici, Venezia 1730; É. Cleder, Notice sur l'Académie italienne des Intronati, Bruxelles 1864; L. Moriani, Notizie sulla Università di Siena, Siena 1873; D. Pantanelli, L'Accademia dei Fisiocritici in Siena dal 1691 al 1760, ivi 1876; C. Mazzi, La Congrega dei Rozzi in Siena, Firenze 1882, voll. 2; C. Sanquirico, L'Acc. sen. dei Fisiocratici e il suo passato, Siena 1892; L. Zdekauer, Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894; D. Barduzzi, Documenti per la storia della R. Università di Siena, Siena 1900; T. Mozzani, L'Univ. degli studi di Siena dall'anno 1839-40 al 1900-01, ivi 1902; L. Petracchi Costantini, L'Acc. degli Intronati di Siena e una sua commedia, ivi 1928; S. Corti, Il pensiero filos. dei Fisiocratici, in Giorn. crit. della filos. it., 1934; L'univ. e l'istituz. culturali in Siena, Siena 1935.

Arte della stampa: G. Amati, Ricerche stor. crit. scient., V: Tip. d. sec. XV, Milano 1830, p. 629 segg.; L. Banchi, Gli annali ined. della Tip. san. compilati dal conte S. Bichi-Borghesi, in Il bibliofilo, II (1881) segg.; G. Fumagalli, Lexicon typ. it., Firenze 1905, s. v.; F. Iacometti, Il primo stampatore sen.: Simone di Niccolò di Nardo, in La Diana, I (1926); A. Lusini, Matteo Florini stampatore-calcografo del sec. XVI, ibid., VI (1931); A. Sorbelli, Enrico di Colonia, in Gutenberg-Jahrbuch, 1929, pp. 109-126; V. Scholderer, in Catalogue of Books printed in the XVth century, VII, Londra 1935, pp. lxxxi-lxxxiii e 1099-1102.

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