Sigieri di Brabante

Dizionario di filosofia (2009)

Sigieri di Brabante


Filosofo (sec. 13°). Fu il maggiore rappresentante dell’averroismo latino. Mancano notizie biografiche precise; fu forse discepolo di Alberto Magno; si sa che insegnò alla facoltà delle arti a Parigi e che fu stimato da Egidio Romano come «grande maestro in filosofia»; era già ben noto nel 1270 se di quell’anno o di poco anteriore è il Tractatus de unitate intellectus contra averroistas di Tommaso d’Aquino, che sembra diretto contro di lui. La posizione di S. si caratterizza per la sua adesione sostanziale all’interpretazione di Aristotele data da Averroè, prescindendo da ogni preoccupazione teologica: nel commentare le opere di Aristotele, S. si opponeva quindi al concordismo tomista, salvo riconoscere che le dottrine aristoteliche, necessarie secondo i propri principi (quindi in «filosofia»), non coincidevano con l’insegnamento verace della Chiesa. Tommaso cercò di insinuare il sospetto di eresia nei confronti di S., ed effettivamente questi fu citato (1276) dall’inquisitore di Francia, Simone du Val, insieme ad alcuni altri maestri come «veementemente sospetti di eresia». S., che nel 1276 aveva lasciato l’insegnamento ed era tornato in patria, sembra si recasse allora alla corte pontificia, e qui sarebbe stato ucciso da un suo servo impazzito; secondo Il fiore (XCII, 9-11) sembra che ciò accadesse a Orvieto, sotto il pontificato di Martino IV (che era Simone du Val) prima del nov. 1284. Difficile stabilire con sicurezza le opere di S. (alcune a lui attribuite dai critici sono piuttosto di altri averroisti suoi immediati continuatori, come Boezio di Dacia). S. riprende tutte le fondamentali tesi aristoteliche nell’interpretazione averroistica: necessità della derivazione del molteplice dalla causa prima attraverso le intelligenze, eternità del mondo, influenza dei cieli talché «tutto avviene necessariamente», materia principio d’individuazione per cui ogni intelligenza separata è unica nella specie, unità dell’intelletto possibile, ecc. Sul piano metodologico, S. definisce il rapporto tra filosofia e fede come distinzione tra quello che è l’insegnamento del «filosofo» (Aristotele), fondato sui suoi principi fisici, metafisici e logici, e la fede, fondata sull’insegnamento di Dio e della Chiesa: se le conclusioni del filosofo sono contrarie alla fede, la verità è dalla parte di questa, ma non potrà essere né confermata né dimostrata dal filosofo. Per quanto concerne la dottrina averroistica dell’unità dell’intelletto possibile, la posizione di S. sembra subire uno sviluppo dall’accettazione radicale di questa tesi a una dottrina (testimoniata dalle Quaestiones super tertium de anima e dalle Quaestiones de anima intellectiva) per cui l’anima umana è duplice, costituita cioè dall’intelletto unico e dalla parte vegetativo-sensitiva che è propriamente forma del corpo; motivo sviluppato dal perduto Tractatus de intellectu (risposta al De unitate intellectus contra averroistas di Tommaso d’Aquino), in cui S. sosteneva che l’anima, forma composta, può dirsi forma sostanziale, «dans esse homini»; ancora più nettamente, nel commento al Liber de causis, S. sembra abbandonare la dottrina averroistica sostenendo che l’anima razionale è forma costituente il soggetto, ma resta distinta dall’anima vegetativo-sensitiva in quanto «per sé sussiste nel suo essere, indipendente dalla materia». Nel perduto De felicitate sviluppava la dottrina averroistica della copulatio con l’intelletto agente. La fama di S. è testimoniata anche da Dante che lo pone nel cielo del Sole (Paradiso, X, 133-138), dove l’elogio di S. è formulato dallo stesso Tommaso d’Aquino.

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