SIGILLO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1999)

SIGILLO

S. Ricci
J.W. Nesbitt
F. Richard

Il termine s. da un punto di vista concettuale indica un marchio costituito da segni distintivi del suo titolare, cioè della persona fisica o morale che ha scelto tali segni come identificativi e che ne detiene il possesso e l'uso. Da un punto di vista materiale, la parola designa invece sia lo strumento per imprimere il marchio, inciso in negativo su materia dura (pietra o metallo), detto anche matrice sigillare o tipario, sia l'impronta sigillare, cioè il risultato stesso dell'apposizione di tale strumento su materia molle, come l'argilla o la cera, a rilievo e in positivo. L'impronta ottenuta su metallo (normalmente piombo, assai raramente argento, talvolta oro) è detta più comunemente bolla (v.).Di origine antichissima, che i più recenti studi archeologici fanno risalire al 7° millennio a.C., il s. venne impiegato, fin dal suo apparire, come mezzo per chiudere contenitori di vario genere e tutelare l'integrità di quanto in essi contenuto, come modo per garantire la provenienza di manufatti e merci, come segno di identificazione del suo titolare e delle sue proprietà. Con l'invenzione della scrittura e con il ricorso all'atto scritto per documentare fatti di natura economica e giuridica, il s. venne ad assumere, come naturale evoluzione delle sue primarie funzioni, il ruolo di garante dell'atto stesso, testimoniando con la propria presenza la corrispondenza tra la volontà del suo titolare e il contenuto del documento. Il Medioevo, pur ereditando la molteplicità di usi del s. antico, la sviluppò soprattutto in rapporto all'atto scritto, fino a farne lo strumento più diffuso per autenticare i documenti in gran parte dell'Europa.L'Occidente medievale conobbe essenzialmente due modi di sigillare, quello in cera e quello in metallo. La bolla, probabilmente trasmessa dal mondo ellenistico all'impero bizantino, divenne però tipica di quest'ultimo e dei territori che ne subirono l'influenza politico-culturale, e vide pertanto limitata la propria presenza - salvo qualche eccezione - a poche, prestigiose cancellerie, dislocate per lo più lungo il bacino del Mediterraneo. Il s. di cera si diffuse invece in un ambito assai più vasto, sia sotto il profilo geografico sia sotto quello sociale: la facile reperibilità, il costo contenuto, la malleabilità, e quindi la maggiore facilità d'impressione della sua materia, lo resero il più idoneo a essere adottato dalle grandi cancellerie come dai semplici privati.Il tipario usato per imprimere la cera nel periodo di transizione tra Antichità e Medioevo fu l'anello (v.) sigillare di tradizione romana, sia con l'incisione praticata direttamente sulla placca, come nel caso dell'anello d'oro ovale di Childerico, re dei Franchi Salii (m. nel 481), trovato nella tomba reale a Tournai nel 1653 e noto solo da calchi (Parigi, Bibl. Sainte-Geneviève; Oxford, Bodl. Lib.), sia con incastonata una pietra incisa, come lo zaffiro di Alarico II, re dei Visigoti (m. nel 507; Vienna, Kunsthistorisches Mus.), e l'ametista di Teodorico, re degli Ostrogoti (m. nel 526; Berna, coll. priv.). In questo secondo caso l'intaglio poteva comportare sia la parte iconografica, cioè la figura, sia quella epigrafica, la legenda, ma di frequente quest'ultima veniva invece incisa sul castone di metallo dell'anello.Nei primi secoli del Medioevo il s. dovette avere un impiego limitato per lo più all'uso privato, come semplice mezzo di chiusura per la corrispondenza e di riconoscimento del mittente, mentre solo sul documento regio assumeva implicazioni di natura giuridica; alla fine del sec. 8° la cancelleria merovingia adottò il s. come mezzo di convalida, e l'uso continuò e si rafforzò con l'epoca carolingia, quando la complessa amministrazione dell'impero si giovò sempre di più del s. del re per dare valore alla propria documentazione.A differenza della bolla metallica, che per sua natura doveva essere appesa al documento, il s. cereo altomedievale vi veniva fatto aderire, apponendolo su incisioni praticate nella parte inferiore della pergamena, ma tale sistema, effettuato con spesse masse di cera indurita e resa scura da additivi come pece e resina, venne progressivamente abbandonato come poco pratico e costoso. I s. aderenti non scomparvero del tutto e ripresero anzi vigore nel sec. 14°, seppure ridotti a un sottile strato di cera, ma già a partire dalla seconda metà del sec. 11° si preferì appendere l'impronta cerea al documento mediante una striscia di pergamena o una correggia di cuoio, alla quale si affiancarono, più tardi, fili, cordoni, nastri di fibre tessili di vario tipo e colore.Con il nuovo sistema di apposizione, che s'impose dal secondo decennio del sec. 12°, si diffuse anche l'uso di apporre sul dorso del s. una seconda impronta, detta controsigillo, più piccola della prima e impressa con una diversa matrice, quale ulteriore garanzia di autenticità contro le frequenti contraffazioni. Assai più raro del s. con controsigillo è il s. a doppia impronta, che presenta - come la bolla - due facce di eguali dimensioni, ma recanti una diversa iconografia. Fu probabilmente per la sua somiglianza con la bolla, tipica del mondo bizantino, che Edoardo il Confessore (1042-1066), emulo del modello costantinopolitano al punto di intitolarsi Anglorum basileus, ne introdusse l'uso nell'Europa occidentale, insieme a quello del s. pendente. Il regno di Edoardo coincide con il passaggio alla seconda metà del sec. 11°, che si rivela fortemente innovativo negli usi sigillografici. A tale periodo, in cui comparvero anche cere colorate con l'aggiunta di additivi (terre, ossidi, ecc.) come il minio, il cinabro e il verderame - che consentivano di ottenere una vasta gamma di rossi -, il verde e il bruno, si deve infatti un mutamento sostanziale della matrice.La rinascita carolingia aveva portato con sé il rifiorire della glittica dopo secoli di declino e il sopravvento dell'anello sigillare con gemma su quello interamente metallico. I sovrani carolingi avevano fatto ampio uso sia di intagli antichi sia di gemme coeve, che si rifacevano però a modelli stilistici antichi, come nel caso di un tipario di Ludovico il Pio (814-840), che riproduceva un'altra matrice usata dall'imperatore e costituita da un intaglio di epoca classica: del tipario, perduto, è nota l'impronta in cera apposta a un atto del 19 agosto 834 (Chaumont, Arch. dép. de la Haute-Marne, G1, 2). Vi era inciso di norma un busto maschile, rivestito dal paludamentum, posto di profilo, con il capo cinto da una corona d'alloro annodata con un nastro sulla nuca, secondo i canoni della raffigurazione imperiale romana. La ripresa nei s. di questi modelli antichi, che si rifanno alla monetazione romana del tipo con la testa di profilo, si rivelò fondamentale per la trasmissione di questo tipo, ancora pienamente in auge nei secc. 13° e 14°, alla medaglistica rinascimentale.Alla fine del sec. 11°, forse a causa dell'alto costo degli intagli a fronte di una crescente diffusione del s., gli anelli sigillari cedettero il posto a tipari del tutto differenti, non più montati ad anello, ma da portarsi appesi alla cintura o al collo tramite una catenella; se l'uso degli intagli non cessò, riprendendo anzi vigore nel sec. 13°, fu per lo più confinato ai piccoli s. personali, impiegati per la corrispondenza privata, o ai controsigilli. Le nuove matrici, fatta eccezione per qualche esemplare in legno o in osso e altri, rarissimi, in avorio, erano interamente metalliche, piatte e spesse a sufficienza da permettere un'incisione profonda. Un appiccagnolo forato, posto sul contorno della matrice, o una pinna dorsale, saldata o incernierata perpendicolarmente al dorso del tipario e anch'essa di norma forata, ne facilitavano l'apposizione sulla cera e consentivano di fissare a una catenella la matrice stessa.Un'ulteriore evoluzione nella forma di questa si ebbe all'inizio del sec. 14°, quando la matrice piatta venne affiancata e poi soppiantata da un tipario che sviluppa il dorso in un'appendice conica o piramidale, cimata normalmente da un motivo a trifoglio, con i lobi forati per il passaggio della catenella. Nelle matrici artisticamente più raffinate anche il dorso veniva decorato con l'incisione di motivi, spesso vegetali, come racemi e foglie di acanto. Per i s. a due facce si adottarono matrici apposite, composte da due elementi recanti incisi - in negativo - l'una il recto, l'altra il verso del s., dotate ognuna di due, tre o quattro lobi, quelli dell'una forati, quelli dell'altra con perno, in modo da far coincidere esattamente le due parti della matrice al momento dell'impressione della massa di cera posta tra di esse. I metalli normalmente usati per le matrici erano leghe di rame, come il bronzo - a volte dorato a fuoco - e l'ottone, più raramente il ferro, facilmente ossidabile; alle due estremità della scala gerarchica degli utilizzatori del s. si trovano da un lato il piombo, largamente impiegato dalle classi meno abbienti, e dall'altro l'oro e l'argento, rarissimo il primo in epoca medievale e appannaggio il secondo di un'assai ristretta cerchia di committenti altolocati.Così come il tipo di materiale prescelto per la matrice varia in funzione delle possibilità economiche e delle ambizioni sociali del titolare del s., altrettanto avviene per l'incisione, affidata a seconda dei casi a modesti artigiani o a grandi orafi, come per es. Guccio di Mannaia (v.), incaricato alla fine del Duecento d'incidere la matrice del Comune di Siena. La categoria dei sigillarii o factores sigillorum era infatti vasta e comprendeva al suo interno sia incisori specializzati, quasi sempre appartenenti alla corporazione degli orafi, sia artigiani fonditori che fabbricavano oggetti metallici in genere.Di questi artigiani e delle tecniche che impiegavano sono pervenute poche notizie: rari nomi di artefici di s. sono giunti per lo più grazie a registrazioni contabili delle spese sostenute per la fattura di s. regi - come per es. nel caso di Walter de Ripa, l'orafo londinese autore del s. di Enrico III d'Inghilterra (1216-1272), o degli incisori dei s. dei re d'Aragona - o di grandi comunità laiche o ecclesiastiche. La tecnica usata dovette essere dapprima quella dell'incisione a bulino, affiancata poi da quella a cera persa: dal modello in cera si ricavava uno stampo dove si colava il metallo, ottenendo per fusione la matrice, che veniva quindi rifinita al cesello. Per l'incisione diretta ci si serviva spesso di punzoni che venivano approntati per piccoli elementi ornamentali ripetitivi, motivi architettonici, testine di personaggi, contorno degli scudi e, in alcuni casi, lettere della legenda. Mentre per i committenti più ricchi si approntavano spesso delle prove, per i ceti meno abbienti i sigillarii disponevano presumibilmente di una serie di matrici preconfezionate in piombo o stagno, dove risultava già incisa un'immagine semplice, per es. un motivo floreale, con la legenda - o parte di essa - in bianco, da completare secondo le esigenze del cliente, incidendovi il suo nome o un'iniziale.I semplici privati, se non facoltosi, dovevano dunque accontentarsi non solo di matrici in metallo vile, ma anche di iconografie semplici, stilizzate ed eseguite senza accuratezza. Quanto più si saliva però nella rigida scala sociale, tanto più il s. era considerato non solo uno strumento per dare valore giuridico ai propri negozi, ma espressione di identità, modo per affermare la propria collocazione e la propria funzione in seno alla società. Ne consegue che la scelta iconografica rispondeva a logiche di appartenenza a una ben determinata categoria sociale che, in quell'iconografia, si riconosceva ed era riconosciuta.Particolarmente adatto a soddisfare tale esigenza è il tipo di s. a effigie che reca incisa l'immagine del titolare, non con l'intento di riprodurne i tratti fisionomici - solo raramente, e di norma in epoca tardomedievale, si può parlare infatti di ritratti - quanto piuttosto di esprimerne il ruolo attraverso gli attributi di dignità o di funzione o quant'altro potesse servire a rappresentarne l'identità sociale, così da far parlare di 'ritratto gerarchico'. Non a caso questo tipo fu il prediletto dai sovrani, il cui s. finisce per identificarsi con la persona stessa e per divenire parte della Staatssymbolik.Dalle rozze teste poste frontalmente, incise negli anelli sigillari merovingi, attraverso gli intagli con profili alla romana - ai quali i carolingi germanici unirono gli attributi dello scudo e della lancia, rifacendosi a modelli bizantini -, si approdò prima alla rappresentazione del sovrano a mezzo corpo e frontale, in atto di impugnare scettro e globo, come nel s. dell'imperatore Ottone I (962), quindi, con Ottone III (997), al tipo in maestà, già iconograficamente sperimentato nella miniatura di corte: l'immagine del re assiso in trono, con la testa coronata e con in mano lo scettro, il bastone di giustizia, la spada o il globo, perdurò fino all'epoca moderna come l'immagine stessa del potere sovrano, caratterizzata proprio dalla presenza dei regalia.Assai simile nella sua evoluzione è il tipo a effigie adottato dalle alte gerarchie ecclesiatiche, dove il vescovo o l'abate sono, in un primo tempo, fino al sec. 12° ca., raffigurati in busto, poi assisi come i sovrani, con le vesti liturgiche e le insegne del loro status - la mitra per i vescovi a partire dal sec. 12°, il libro o il pastorale - ovvero, più di frequente e in modo quasi esclusivo dal sec. 13°, a figura intera, in piedi e affiancati spesso, sempre dal sec. 13°, dall'arma del proprio casato e da quella del beneficio: il tutto racchiuso in una forma che da tonda si va ovalizzando, fino ad assumere la configurazione, detta 'a navetta', di un ovale appuntito, divenuta poi, di per se stessa, identificativa dei s. ecclesiastici.Un particolare tipo di effigie compare in quella caratteristica espressione del mondo feudale che sono i s. di tipo equestre, ove il titolare sottolinea la funzione guerriera della nobiltà feudale facendosi raffigurare armato, con lo scudo recante le proprie insegne araldiche, in sella a un cavallo dalla gualdrappa pure armoriata, o - più raramente - in tenuta da caccia, con il falcone sul braccio o con il corno da caccia in mano, mentre un segugio corre tra le zampe del cavallo. Questa variante venne scelta anche da alcune dame dell'alta nobiltà feudale, mentre altre scelsero il tipo assiso, ma si tratta di casi sporadici, perché di norma esse si fecero effigiare in piedi, vestite alla moda del tempo, con in mano un fiore o un uccello e ai lati della persona due piccoli scudi, uno con l'arma paterna, l'altro con quella maritale, il tutto - come nei s. ecclesiastici - racchiuso nella navetta.Il tipo con il titolare in piedi, scelto, specie nella Francia del tardo Trecento, quando si era ormai andato esaurendo il tipo equestre, anche da alcuni membri maschili dell'alta aristocrazia, non fu comunque appannaggio esclusivo di tale classe e dell'alto clero: se ne servirono infatti, anche se di rado, semplici preti e frati, mentre giureconsulti, maestri e teologi, specie nel sec. 14°, si fecero volentieri raffigurare in cattedra, in atto di leggere o di impartire lezioni agli allievi.L'effigie del titolare nei s. degli ecclesiastici finisce per ridursi spesso a uno degli elementi nel s. di tipo agiografico, dove compaiono le figure divine, o quelle di santi o di angeli, o anche scene tratte dalle Scritture o dalle vite dei santi.A partire dal sec. 13°, infatti, per far spazio a queste raffigurazioni più complesse, si usò suddividere il campo del s. in due o tre registri, mentre il titolare, di piccole dimensioni, sempre ritratto come orante, inginocchiato e con le mani giunte, veniva collocato accanto alla figura del santo protettore o della Vergine (assai rilevante è il ruolo dell'iconografia mariana nel s. medievale) o - più di frequente - nel registro inferiore, in modo da stabilire un rapporto di subordinazione gerarchica al sacro e da distinguere differenti livelli di realtà.Essenziale a questa scansione dello spazio è il ricorso all'elemento architettonico, che nel corso del Duecento si fa sempre più presente: il semplice archetto che sovrasta i protagonisti diviene un complesso baldacchino cuspidato o si allunga a formare una nicchia, e la nicchia trilobata diviene una nicchia tripartita; mentre nei tabernacoli il passaggio dall'arco a tutto sesto a quello a sesto acuto permette di cogliere la transizione dal Romanico al Gotico, le architetture si moltiplicano, si fanno sempre più complesse e protagoniste, alloggiano al loro interno, accanto ai principali, una serie di personaggi minori, fino ad arrivare, in alcuni esemplari del Trecento, a una completa saturazione dello spazio. Questo fenomeno non si riscontra solo nei s. di tipo agiografico, ma anche in taluni s. del tipo di maestà e del tipo stante, dove la figura viene a inscriversi entro una elaborata cornice architettonica, arricchita a volte con elementi decorativi - spesso araldici -, che nello stesso periodo compaiono anche sul fondo del campo dei s. di tipo equestre.Il tipo agiografico non è esclusivo dei s. ecclesiastici, in quanto l'iconografia religiosa venne scelta spesso anche dai laici, singoli individui e comunità. Le città, per le quali il s. simbolizzava una raggiunta capacità ad agire come persone morali e quindi un riconoscimento sul piano giuridico e politico, fecero a volte ricorso alla figura del santo patrono, ma utilizzarono anche altri tipi, soprattutto quello monumentale o topografico, che, attraverso la cinta muraria, una porta fortificata, uno specifico monumento o la visione di un insieme di edifici, evoca con grande forza la natura stessa della città. Il tipo monumentale, che oscilla tra le raffigurazioni puramente simboliche, quelle più o meno fortemente idealizzate e quelle realistiche, consente interessanti considerazioni sulla rappresentazione topografica nel Medioevo e offre a volte importanti testimonianze datate sulle modifiche subite da un edificio.In alcuni casi le città scelsero invece un'immagine che alludesse alla loro attività predominante - come per es. nel caso di Parigi, rappresentata sul s. da una nave, a sottolineare la sua funzione di porto fluviale -, secondo un uso che era peculiare dei s. delle potenti corporazioni d'arti e mestieri.Se i vari tipi iconografici sono di norma collegati a ben determinate categorie di titolari, il tipo araldico può essere definito trasversale a tutte le classi sociali: la possibilità di far uso di insegne araldiche non era infatti esclusiva dei nobili e nel Medioevo chiunque poteva servirsene. Nata come elemento di identificazione dei guerrieri in battaglia, l'araldica (v.) offre le sue prime testimonianze proprio nei s. di tipo equestre della prima metà del sec.12°, ed elementi di tipo araldico compaiono in quasi tutte le tipologie accanto alla figura principale, precisandone ulteriormente l'identità.Ben presto - già nella seconda metà del sec. 12° - l'arme divenne protagonista del campo, racchiusa o meno entro uno scudo, che a partire dalla seconda metà del Duecento viene accompagnato da elementi esterni, come l'elmo con il cimiero e i supporti, mentre a volte è la forma stessa del s. a essere a scudo.Un'altra tipologia che tende all'identificazione del titolare è infine quella parlante, in cui l'immagine evoca il nome del possessore del tipario - come per es. nel caso del carro per i Carraresi, signori di Padova - mentre quella c.d. di fantasia, che comprende elementi vegetali, animali, reali o fantastici, e oggetti che non hanno un rapporto diretto o emblematico con il titolare, è frutto più che altro di una scelta dettata dal gusto o dalla moda.Qualunque sia l'immagine che il s. reca incisa, il forte vincolo che lega una tipologia iconografica a una categoria di titolari fece sì che tale tipologia si diffondesse in tutto l'Occidente medievale, sia pure con varianti formali e cronologiche.Lo studio comparato di questi piccoli manufatti, esattamente databili grazie ai documenti ai quali sono apposti e sensibili recettori degli influssi che giungevano loro dalle arti applicate, dalla miniatura, dalla scultura e dall'architettura, permette così di cogliere non solo l'evoluzione geo-cronologica del vestiario, dei regalia, degli oggetti della vita quotidiana, delle architetture, dei mezzi di trasporto e degli emblemi araldici, ma anche di stili e tendenze artistiche, dei quali i s., viaggiando insieme ai loro documenti da un capo all'altro dell'Europa, sono stati spesso interpreti e testimoni, a volte persino veicolo d'introduzione.

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Area bizantina

Nel mondo bizantino, il termine adoperato per indicare il s. era normalmente sphraghís, sebbene potesse essere impiegato anche il termine búlla, corrispondente al latino bulla. Così come accadeva nel mondo antico, anche in epoca bizantina i s. di cera venivano apposti per mezzo di anelli che recavano sul castone un'iscrizione rovesciata o per mezzo di stampi di forma conica o piramidale. Questi stampi sembrano essere derivati da modelli persiani; nella prima epoca bizantina essi erano generalmente realizzati in pietra, mentre nei secoli successivi erano normalmente in metallo. Il motivo inciso sulla faccia destinata allo stampo poteva essere un'iscrizione che implorava l'aiuto divino per il possessore dell'oggetto, oppure un'immagine con il busto della Vergine o di un santo. Poiché i s. conici o piramidali sono generalmente caratterizzati dalla presenza di un appiccagnolo, essi venivano portati appesi al collo con una catenella. Inoltre, dato che i s. potevano essere utilizzati in modo appropriato soltanto con sostanze malleabili, quali la cera o l'argilla, ne consegue che anche questi materiali facessero parte del corredo del s. e che essi venissero in genere utilizzati per sigillare coperchi di cofanetti o bauli.D'altra parte i s. conici potevano essere utilizzati, come quelli ad anello, per sigillare una lettera. In epoca mediobizantina le lettere venivano piegate e tenute ben strette da una cordicella: l'applicazione di un s. di cera alla cordicella comportava che la lettera potesse essere aperta soltanto dal destinatario rompendo il sigillo. Già negli anni settanta del sec. 11° nella cancelleria imperiale venivano utilizzati dei s. per convalidare alcuni tipi di decreti imperiali: l'imperatore sigillava in cera quando scriveva alla madre, alla sposa o al figlio.L'attrezzatura necessaria per sigillare in cera era leggera e quindi facilmente trasportabile: lo svantaggio maggiore consisteva nel fatto che un s. di cera (o d'argilla) era friabile e proprio per ovviare a questo inconveniente nel mondo romano (forse già in età flavia) era stato introdotto l'uso del s. in piombo.Si possono distinguere due tipi di s. plumbei romani, il primo dei quali è costituito dai s. a un'unica faccia, dove cioè l'iscrizione o l'immagine sono impressi su un solo lato del tondello; è possibile che i tondelli di piombo utilizzati nella produzione di tali s. venissero riscaldati e ricevessero quindi l'impronta di un anello o di uno stampo. Normalmente, i s. a una faccia recavano l'impronta dei busti imperiali, sebbene fossero comuni anche rappresentazioni delle divinità.I s. a un'unica faccia continuarono a essere utilizzati fino alla metà del sec. 6°, quando vennero sostituiti dai s. plumbei, impressi sia sul dritto sia sul rovescio, che avevano cominciato a diffondersi nel 4° secolo. Il primo passo in questo sistema di sigillatura consisteva nella fusione di un tondello di piombo munito di un canale interno nel quale doveva essere inserita una cordicella tramite la quale il tondello fosse fermamente legato e, se necessario, sospeso. Il secondo passo richiedeva l'acquisizione di un bullotérion, uno strumento in ferro fuso in due parti in forma di una sorta di pinza dotata di una lunga impugnatura e terminante in una coppia di cilindri con la faccia inferiore recante l'incisione. Se si desiderava utilizzare un s. di piombo per proteggere la riservatezza della lettera, questa doveva essere piegata e legata con una cordicella, le cui estremità erano infilate all'interno del canale del s., che veniva posto tra i due cilindri di un bullotérion. Quando l'impugnatura dello strumento veniva stretta con forza, i cilindri comprimevano il canale, unendo insieme s. e spago; così facendo, per aprire la lettera era necessario tagliare la cordicella.Un s. di piombo poteva essere utilizzato anche per autenticare una firma: in tal caso all'estremità inferiore del documento venivano praticati dei fori attraverso i quali veniva fatta passare una cordicella che veniva quindi annodata e le cui estremità erano fissate con il sigillo. I bullotéria conservati sono pochissimi: alcuni esemplari si trovano a Parigi (BN), a Sofia (Nat. istoricheski muz.) e a Cambridge (MA; Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.).Almeno dal sec. 9° gli imperatori adottarono la pratica di sigillare in oro: i s. d'oro imperiali erano apposti a lettere diplomatiche o ad atti ufficiali, come le assegnazioni di terre. Inizialmente i s. d'oro venivano realizzati a partire da tondelli pieni, mentre in seguito, come per es. nei s. di Alessio I Comneno (1081-1118), essi furono costituiti da due dischi separati uniti insieme, in qualche caso con una saldatura. I s. di epoca paleologa, come quelli di Giovanni VIII (1425-1448), erano composti di due sottili foglie d'oro tenute insieme da cera. Il peso di una bolla aurea apposta su una corrispondenza con un ecclesiastico o con un potentato straniero variava secondo precisi dettami di etichetta diplomatica: il califfo di Baghdad e il sultano d'Egitto ricevevano bolle di peso equivalente a quattro solidi aurei bizantini; il re d'Armenia e i patriarchi di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme meritavano di ricevere una bolla del peso di tre solidi; ancora più in basso nella scala gerarchica si trovavano i re di Georgia e i dogi di Venezia, cui erano destinate bolle del peso di due solidi, e infine il papa di Roma, che meritava bolle di peso equivalente a quello di un solido. Di norma, la decorazione delle bolle auree corrispondeva alle rappresentazioni e alle iscrizioni delle monete del medesimo metallo.Nel corso dei secc. 13° e 14° vennero prodotti, in misura limitata, da parte dei despoti di Epiro e Morea, dei s. d'argento, come quello fatto realizzare nel 1251 dal despota epirota Michele II Angelo Ducas Comneno (Dubrovnik, arch. di Stato; Oikonomides, 1985, p. 6, fig. 9).In genere i s. di piombo avevano un diametro che variava tra mm 15 e mm 40, ma normalmente la misura oscillava tra mm 20 e mm 30. I s. plumbei erano utilizzati da tutti i componenti della società: imperatore, clero, funzionari pubblici, commercianti e donne. Il disegno e la decorazione erano materia di scelta personale, ma all'interno di un determinato periodo si possono comunque distinguere categorie ben definite. Nei secc. 6° e 7° si preferirono in genere s. aniconici; ben attestati sono i s. con iscrizioni su entrambe le facce, in cui generalmente compariva su un lato il nome del possessore e sull'altro il suo titolo; talvolta il nome era preceduto da un'invocazione alla Vergine. Una seconda tipologia era quella dei s. monogrammatici, analoghi ai precedenti, ma con il nome e talvolta anche il titolo espressi in forma di monogramma. Nel sec. 6° venivano impiegate due varietà di monogrammi, quello a blocco e quello cruciforme: il primo consiste in una grande lettera centrale integrata da altre lettere lungo i suoi lati e alla sua estremità superiore; il secondo è incentrato sul disegno di una croce con lettere sospese al braccio orizzontale e lettere poste alle estremità superiore e inferiore del braccio verticale. Il monogramma cruciforme appare per la prima volta su s. di piombo dopo il quarto decennio del sec. 6° e divenne predominante nel secolo successivo.Un'altra tipologia non figurativa che godette di grande popolarità fu quella del s. il cui monogramma costituiva un'invocazione. In questo al dritto compariva una croce monogrammatica da sciogliersi come Θεοτόϰε βοήθει ('Madre di Dio aiutami'), ma in alternativa anche Κύϱιε βοήθει ('Signore aiutami') oppure Χϱιστὲ βοήθει ('Cristo aiutami'); spesso l'invocazione si estendeva con la frase τιῶ σιῶ δούλιω ('tuo servo') nei quattro angoli del monogramma, dando vita al tipo c.d. a monogramma iscritto. Sul rovescio compaiono nome e titolo del proprietario, generalmente in forma di iscrizione lineare. I s. con monogrammi iscritti costituiscono uno sviluppo successivo e risalgono in genere all'8° e al 9° secolo.Una tipologia iconica che godette di particolare favore è quella del s. con la raffigurazione di un'aquila, che poteva assumere significati sia soteriologici sia cristologici. Essa veniva raffigurata in genere sul dritto, in posizione eretta, con la testa volta a destra e le ali sollevate; tra le ali si potevano trovare una stella a sei od otto punte, un monogramma cruciforme di invocazione, oppure il nome del proprietario del s. in forma monogrammatica; questa tipologia fu in voga dalla metà circa del 6° fino alla metà dell'8° secolo.Sebbene i Bizantini commissionassero bullotéria con raffigurazioni iconiche, essi tendevano a usare soltanto una ristretta gamma di immagini. La raffigurazione più comune era quella della Vergine, a mezza figura o stante: nel caso della raffigurazione a busto, essa è rappresentata con un medaglione di Cristo sul petto, oppure mentre tiene il Bambino sul braccio sinistro. S. di epoca successiva, a iniziare dal sec. 7°, rappresentano generalmente la Vergine in posizione stante, che tiene Cristo sul braccio sinistro. Nei secc. 8° e 9°, ai lati dell'immagine mariana si trovano generalmente due monogrammi con un'invocazione.Altri soggetti figurativi che godettero di particolare favore furono le rappresentazioni di arcangeli e di santi militari; questi ultimi erano spesso raffigurati in posizione stante, mentre affrontano e colpiscono un serpente con l'estremità di una lunga croce. Tra gli altri soggetti vi sono raffigurazioni di apostoli, santi vescovi e martiri e animali, quali leoni e cavalli; tende invece a essere evitata la raffigurazione di Cristo adulto.In definitiva, nella prima epoca bizantina si preferirono per lo più motivi che raffiguravano la parola scritta. L'evoluzione generale dei motivi dei s. può essere meglio apprezzata se si prendono in considerazione le statistiche desumibili dal catalogo dei s. protobizantini (Zacos, Vegleris, 1972). La parte principale, a esclusione dei s. imperiali e di quelli a essi correlati, consiste di un insieme di ca. duemiladuecento s., di cui meno di cinquecento hanno un carattere iconico.L'identificazione dei santi raffigurati può costituire un problema. Talvolta la figura del santo è accompagnata da un titulus che lo identifica, come per es. nel caso di un s. della fine del sec. 7° o degli inizi dell'8° (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Zacos, Vegleris, 1972, nr. 1240) a nome di Giovanni, arcivescovo di Nicopoli (Grecia occidentale): sul dritto compare una santa che reca la croce del martirio, ma che non potrebbe essere distinta dalla moltitudine delle martiri se non fosse per l'iscrizione sulla colonna che la indica come s. Anastasia, che secondo la tradizione popolare proteggeva dai veleni. Generalmente le figure di sante erano accompagnate da un'iscrizione, forse per evitare ogni possibile confusione con l'immagine della Vergine; meno frequente è invece l'iscrizione identificativa nel caso dei santi e in special modo dei santi militari. Ci si può chiedere se ci fosse una relazione di omonimia tra il santo rappresentato e il proprietario del s.; in linea generale tale relazione non sembra doversi istituire, ma risulta difficile trarre conclusioni definitive dai pochi elementi disponibili.I possibili ulteriori sviluppi nell'iconografia dei s. vennero bloccati dall'avvento dell'iconoclastia nell'8° secolo. Sotto gli imperatori iconoclasti l'uso delle immagini di Cristo, della Vergine e dei santi era proibito e la decorazione dei s. si limitava a croci o a monogrammi cruciformi di invocazione. Un buon esempio è costituito dal s. del patriarca iconoclasta di Costantinopoli Antonio I Kassymatas (821-837): il dritto è ornato da un monogramma cruciforme che si può sciogliere in Κύϱιε βοήθει, mentre in ciascuno dei quattro angoli compare una piccola croce; il rovescio reca l'iscrizione con il nome di Antonio vescovo di Costantinopoli. Sei anni dopo la morte del patriarca Antonio ebbe termine l'iconoclastia e ciò dovette determinare un mutamento anche nell'iconografia dei s., come dimostra la bolla del patriarca Metodio I (843-847), dove nel dritto compare la raffigurazione della Vergine stante, rivolta verso destra, con il Bambino sul braccio sinistro, mentre il rovescio presenta un'iscrizione che definisce Metodio vescovo di Costantinopoli, servo dei servi di Dio.La diffusione dei nuovi tipi iconografici fu però assai lenta e la decorazione della maggior parte dei s. prodotti tra l'850 e il 950 consiste in una croce su gradini circondata da un'iscrizione circolare contenente un'invocazione. Talvolta la croce è priva di ornamentazione, ma nel sec. 10° essa venne spesso rappresentata con viticci che nascono dalla base. Quando veniva utilizzata un'immagine si trattava spesso della Vergine, una santa figura dalla quale il devoto poteva sentirsi protetto, dal momento che era la stessa figura che si trovava sui s. del patriarca e dei vescovi.Intorno alla metà del sec. 10° si verificò un sensibile mutamento. Il conservatorismo figurativo dell'epoca precedente lasciò il passo a un entusiasmo nei confronti della decorazione figurativa e non solo si osserva una maggiore frequenza nell'uso delle figure, ma anche un ampliamento del loro repertorio. La maggior parte delle immagini è ancora costituita dalla figura della Vergine con il Bambino: dalla fine dell'iconoclastia al 930 ca. essa viene rappresentata senza alcuna iscrizione identificativa; dopo quella data viene abitualmente accompagnata dalla dicitura Μήτηϱ Θεοῦ ('Madre di Dio') e dopo il 975 ca. la presenza di questa iscrizione appare normativa.Con l'ampliarsi della gamma di santi personaggi scelti per essere rappresentati sui s., dopo il 930 divenne consuetudine che essi fossero identificati da iscrizioni verticali disposte in due colonne accanto alla figura oppure dal nome che compare nelle parole di apertura dell'invocazione (per es. "῾Ο ἅγιοϚ ᾽ΙωάννηϚ βοήθει ", 'San Giovanni aiutami'). Ne consegue che, a differenza di quanto accadeva nella prima età bizantina, è possibile accertare l'identità dei martiri, dei santi vescovi e dei santi militari e si è quindi nella condizione di identificare anche i santi meno noti, come s. Giacinto, s. Probo o s. Taraco, e di studiare la diffusione del culto di un santo in un determinato periodo.Le scene religiose sono estremamente rare nel periodo protobizantino e non comuni in quello mediobizantino, forse a causa del virtuosismo tecnico richiesto all'artigiano per incidere a rovescio e sul ferro una rappresentazione completa su una matrice relativamente piccola. Ciò nonostante, tra le bolle dei secc. 11° e 12° si trova una serie di scene religiose, tra cui l'Annunciazione, la Crocifissione, l'Anastasi e la Presentazione di Maria al Tempio.Uno degli aspetti più interessanti dei s. del sec. 10° è la relativamente breve fioritura di un'iconografia profana. Un piccolo gruppo di s. risalenti al sec. 10° o all'inizio dell'11° reca infatti raffigurazioni - busti di profilo, la sfinge, pegaso - che hanno le loro radici nell'Antichità e che vennero forse ispirate da gemme o monete antiche.Per quanto riguarda infine i s. di epoca successiva, è possibile trarre delle conclusioni generali a proposito dei loro aspetti tipologici nei secc. 11° e 12°, epoca a cui risale un gran numero di esemplari conservati, mentre assai più difficile risulta l'analisi di quelli successivi al 1200, di cui non restano che pochi esempi.Oltre che per proteggere il contenuto della corrispondenza e per conferire validità ad atti ufficiali, i s. potevano essere utilizzati anche per assicurare l'integrità di contenitori per il trasporto di merci, come nel caso dei s. datati dei kommerkiárioi (ufficiali doganali), la cui funzione è attestata dal fatto che molti di essi hanno un lato privo di impressione che mostra le tracce del contatto a caldo con la tela da imballaggio. Tali s., che dal tardo sec. 7° recano le date d'indizione, venivano apposti dagli ufficiali doganali a dimostrazione che erano state pagate le imposte dovute per la mercanzia in transito.Una categoria speciale di s. è inoltre costituita dallo sphraghídion, 'piccolo sigillo'. Il termine fa riferimento a oggetti analoghi ai s., anch'essi realizzati con un bullotérion e utilizzati come gettoni. In alcuni casi essi venivano distribuiti ai poveri, che potevano utilizzarli per ottenere in cambio del cibo oppure un accesso alle terme. Tra i più antichi si può notare un s. anonimo che reca nell'iscrizione un passo tratto da Pro. 19, 17 ("῾Ο ἐλεῶν πτωχόν δανείζει Θειῶ ", 'Chi fa la carità a un povero fa un prestito al Signore'). Talvolta essi venivano distribuiti nel corso dei banchetti imperiali e coloro che li ricevevano davano in cambio del denaro.Per le iscrizioni sui s., in epoca protobizantina vennero utilizzati sia l'alfabeto greco sia quello latino. In genere i s. con le iscrizioni latine tendono a essere datati entro il sec. 6°, ma è stato ipotizzato che l'uso dell'alfabeto latino sia comparso con la riconquista bizantina dell'Italia e sia terminato all'inizio dell'8° secolo. Iscrizioni in lingue semitiche e in armeno compaiono su un piccolo gruppo di s. che risalgono all'epoca successiva alla riconquista bizantina di Antiochia (969) e all'incorporazione nell'impero di popolazioni non di lingua greca. Un buon esempio è costituito da un s. del sec. 11° conservato a Parigi (BN, Coll. Seyrig, nr. 395): sul dritto esso presenta un busto di s. Giorgio e sul rovescio una legenda cufica che identifica il proprietario dell'oggetto con Naṣr ibn Musharraf, un capitano arabo che era al servizio dell'impero bizantino.Fino al sec. 11° le iscrizioni tendono ad avere un carattere eminentemente pratico: oltre alle consuete invocazioni, nella maggior parte dei casi esse specificano semplicemente il nome e i titoli del proprietario del sigillo. Tuttavia nei secc. 11° e 12° si sviluppò la moda delle legende in metrica: tali iscrizioni, generalmente espresse in versi di dodici o quindici sillabe, possono contenere il nome e il titolo del proprietario, ma possono anche essere anonime e recitare, per es., "Dalla scrittura puoi sapere il nome di colui che scrive". In alcuni s. anonimi il verso è molto più elaborato, come nel caso di una bolla del sec. 13° dove una legenda metrica sul rovescio fa riferimento al dritto e alla sua immagine, una Vergine raffigurata come orante: "῾Απλοῦσα χεῖϱαϚ ἐιϚ ἐπίσϰεψιν ϰόσμου σϰέπην ϰἀμοῦ, Πάναγε, πϱαϰτέοιϚ δίδου " 'Allo stesso modo in cui tu sollevi le mani per proteggere il mondo, o Purissima, proteggi le mie azioni' (Oikonomides, 1995).

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Islam

La parola khatm (radice araba khtm) significa 'apporre il s. a un documento o a uno scritto', anche con il significato di 'conclusione' (ikhtitām, khātima): il profeta Maometto è colui che appone il s. finale alla profezia (khātim al-anbiyā).Nell'immaginario islamico il s. per eccellenza è quello del re Salomone (khātim Sulaymān), che simboleggia insieme potere e bellezza, poiché Salomone è padrone dell'universo e del sapere (King Salomon's Seal, 1995); esso funge dunque da modello per ogni sovrano musulmano e possedere il suo s. significa eguagliarne il potere. L'Arabia dell'epoca del profeta sembra avere conosciuto l'uso del s. (khātim), indissociabile dallo scritto di cui autentica l'autore.I musulmani, pur avendo adottato in alcuni casi, a seguito delle prime conquiste, l'uso bizantino del s. di piombo, vennero a contatto anche con le consuetudini dell'Iran sasanide, dove l'uso del s. (in lingua pahlavi, muhr) era noto da lungo tempo. Derivanti dai s. cilindrici babilonesi, i muhr sasanidi, con figure o iscrizioni, servivano a contrassegnare - imprimendo l'immagine su di un'argilla speciale - gli oggetti posseduti o tassati. Destinati a essere incastonati su anelli o portati appesi al collo, essi rappresentano spesso documenti storici di grande importanza - sotto il profilo prosopografico, onomastico o anche religioso - per la conoscenza dell'amministrazione o delle gerarchie sasanidi.Durante il periodo sasanide sui s. predominavano le formule religiose mazdee e le sentenze morali. Per il successivo periodo islamico non si riscontra una cesura netta in questo uso, in quanto sui s. si trovano invocazioni a Dio, talvolta a Maometto o ad ῾Alī oppure i s. sono a contenuto sapienziale. Mas῾ūdī (sec. 10°) nel Kitāb al-tanbīh fornisce le formule di s. omayyadi e della prima epoca abbaside. Anche altri autori li ricordano, ma le diverse fonti non sono concordi. In effetti la datazione dei timbri islamici anteriori al sec. 14° - la maggior parte dei quali proviene dal Vicino Oriente - è complessa. Essi sono frequentemente in caratteri cufici e nella maggior parte dei casi non recano che il nome (ism) del proprietario; sono di forma ovale o rettangolare, più raramente esagonale od ottagonale. L'iscrizione è talvolta accompagnata da una stella, più raramente da una figura animale. Sembra che i primi s. musulmani recassero solo una figura animale e che successivamente vi siano state impresse delle iscrizioni, frequentemente bilingui (greco-arabo oppure pahlavi-arabo).D'altro canto non sembra che la conquista araba abbia repentinamente modificato un'antica e ben consolidata prassi amministrativa: le ex province bizantine continuarono a essere caratterizzate dalle procedure burocratiche di tradizione bizantina, con l'impiego di documenti su pergamena o papiro, dotati di bolle. I territori ereditati dall'impero sasanide avevano a loro volta proprie tradizioni specifiche; l'uso del muhr, solitamente impresso sull'argilla, era assai diffuso per autenticare o firmare documenti o lettere - cui veniva appeso con un cordoncino, come in Occidente -, come pure per chiudere un plico o anche per sigillare una porta. L'influenza esercitata dalle pratiche sasanidi sulle cancellerie arabe del califfato, soprattutto a Baghdad, fu sicuramente rilevante; inoltre molti dei membri delle segreterie erano originari delle province iraniche.L'uso della carta avrebbe avuto inizio in ambito palatino a partire dalla fine dell'impero sasanide. In ogni caso, dopo la battaglia di Talās, il suo impiego si diffuse in tutto il mondo musulmano e la si ritrova nelle principali città dell'Oriente e dell'Egitto a partire dagli anni intorno all'800. Non è invece noto da quale data la cancelleria dei califfi, che adottò molto precocemente la carta, sostituì il s. attaccato al documento con l'impronta del s. in inchiostro nero o rosso, mescolato con saliva, apposta direttamente sul documento (timbro).In epoca abbaside, un dīwān al-khatam ('ufficio del s.') aveva il compito di apporre il s. califfale sui documenti; l'effettivo controllo esercitato da questo dīwān, che deteneva grandi poteri, consentì progressivamente ai visir di consolidare il proprio status. Nell'impero dei Selgiuqidi il muṣrīf di ogni provincia era incaricato di esercitare un controllo su tutto quello che concerneva i s.: oltre i sovrani, infatti, altri personaggi importanti potevano possedere un s. personale per autenticare un atto, firmare un documento o semplicemente contrassegnare ciò che era di loro proprietà; tale pratica continuò anche in seguito, per es. nell'Egitto mamelucco, dove si trovano anche numerosi s. di waqf ('fondazioni religiose').Nel mondo iranico la parola muhr, da cui il turco mühür, equivalente dell'arabo khatam, indica in senso stretto il s., un pezzo di pietra dura (per es. corniola, sardonica, calcedonio, agata), di vetro o di metallo sul quale sono incisi, a rovescio, un motto o un simbolo. Sul muhr possono essere intagliati un nome, una sentenza in arabo o in persiano, un'invocazione religiosa, un breve poemetto o un enigma. Le scritte sono talvolta accompagnate da una data, normalmente espressa secondo il calendario dell'Egira, ma anche - soprattutto nell'India dell'epoca moghul, a partire dal sec. 16° - computata a partire dall'avvento al trono, o julūs, del sovrano regnante. La data è riferita al momento dell'assunzione della carica da parte del proprietario del s., sottolineando così la funzione del s. stesso, emblema del potere.Tradizionalmente la decifrazione del motto intagliato sul s. ha inizio nella linea inferiore e procede dal basso verso l'alto. Il nome del proprietario è solitamente preceduto dalla formula al-῾abd ('lo schiavo') o al-faqīr ('il povero') o anche dalla parola persiana banda ('schiavo'). In altri casi esso è incluso in un testo poetico o in una formula religiosa: il sultano Ibrāhīm di Bijapur, in India, fece iscrivere sul proprio s. un versetto del Corano (II, 129), dove si fa riferimento ad Abramo.Un'altra parola persiana, nagīn, indica in modo specifico la pietra incastonata nell'anello, più spesso in argento che non in oro, o montata su altro tipo di gioiello, e può designare il s. reale. Il poeta Firdūsī (sec. 10°-11°) se ne serve in più di un verso del poema epico Shāhnāma, ricordando s. in ambra; parla inoltre di un personaggio che "cerca tanto il s. (nagīn) che la corona (kulāh)" (Dihkhudā, 1970), che ambisce cioè a poter disporre del potere regale. Questo tipo di formula stereotipata si ritrova in molti poeti persiani: nel sec. 13° il poeta Sa῾dī Shīrāzī, scrisse nella sua Kulliyāt : "la pietra del s. (nagīn) ha quale proprietà, o uomo fortunato, di avere presa sulla cera ma non sulla dura roccia (sang-i sakht)"; il che indica come ai Persiani non fosse ignoto l'uso di imprimere sulla cera.L'invasione della Persia da parte dei Mongoli nel sec. 13°, cui si accompagnò una riforma dell'amministrazione e della cancelleria, non determinò una diminuzione dell'importanza del s. o del timbro nell'amministrazione. I Cinesi utilizzavano sui documenti s. impressi in rosso. Gli imperatori mongoli possedevano grandi s. rettangolari analoghi a quelli cinesi, ma sui quali il loro nome era scritto in lingua mongola. Un s. di questo tipo venne utilizzato dal sultano Aḥmad Jalayir su un rescritto (ḥukm) del 773 a.E./1372 (Parigi, BN, Suppl. persan 1630), ma il cufico sostituisce il mongolo, di cui ricorda la grafia.All'inizio del sec. 13° fece la sua comparsa (Richard, 1982) un s., apposto con inchiostro nero, per contrassegnare i volumi della biblioteca fondata a Tabriz dal visir ilkhanide Rashīd al-Dīn: il timbro rettangolare reca in caratteri cufici la scritta waqf-i kitabkhāna-yi rashīdiyya. Non è tuttavia chiaro se si tratti di un'innovazione ispirata a pratiche in uso nell'Estremo Oriente o se questo genere di timbri da biblioteca esistesse già in precedenza nel mondo musulmano; gli esempi divennero comunque più frequenti nei decenni successivi e i timbri apposti sui manoscritti sono molto numerosi a partire dal sec. 15°, anche se solo pochi di essi recano espliciti riferimenti di appartenenza a una fondazione religiosa.

Bibl.:

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Letteratura critica. - J. von Hammer-Purgstall, Abhandlung über die Siegel der Araber, Perser und Türken, Wien 1849; H. Papazian, Persidskie Dokumenty Matenadarana [Documenti persiani del Matenadaran], I-II, Erevan 1956-1968; I. Hakki Uzunçarşili, Topkapı Sarayı Müzesi mühürler seksiyoni rehberi [Guida alla sezione dei s. del museo del Topkapı Sarayı], Istanbul 1959; M. Ashraf, A Concise Descriptive Catalogue of the Persian Manuscripts in the Salar Jung Museum and Library, Hyderabad 1965-1988; ῾A.A. Dihkhudā, s.v. Nagīn [S.], in Lughatnāma [Dizionario enciclopedico], CLXII, Teheran 1970, pp. 727-728; M.T. Dānishpazhuh, Fihrist-i nuskhahā-yi khaṭṭī-yi Āstāna-yi Qum [Catalogo dei manoscritti della biblioteca di Qum], Qum [1976]; S.S. Venkataramaiah, M. Ziauddin Ahmes, Mughal Archives, I, Durbar Papers, Hyderabad 1977; L. Fekete, G. Hazai, Einführung in die Persische Paläographie. 101 Persische Dokumente, Budapest 1977; J. Allan, D. Sourdel, s.v. Khātam [s.], in Enc. Islam2, IV, 1978, pp. 1133-1137; P. Gignoux, Catalogue des sceaux, camées et bulles sassanides de la Bibliothèque Nationale et du Musée du Louvre, II, Les sceaux et bulles inscrits, Paris 1978; S. Umur, Osmanlı padişah tuğraları [Le tuğra dei sovrani ottomani], Istanbul 1980; Mughal Documents Catalogue of Aurangzeb's Reign, I-III, Hyderabad 1980-1991; L. Kalus, Catalogue des cachets, bulles et talismans islamiques, Paris 1981; L. Kalus, P. Gignoux, Les formules des sceaux sassanides et islamiques: continuité ou mutation?, Studia Iranica 11, 1982, pp. 123-153; F. Richard, Muhr-i kitābkhāna-yi Rashīd al-Dīn Fażlullāh Hamadānī? [Un s. della biblioteca di Rashīd al-Dīn Fażlullāh Hamadānī?], Āyanda 8, 1982, 6, pp. 343-346; G. Lowry, M.C. Beach, An Annotated and Illustrated Checklist of the Vever Collection, Washington 1988, pp. 395-397; J. Deny, K.A. Nizami, s.v. Muhr [s.], in Enc. Islam2, VII, 1993, pp. 471-473; King Salomon's Seal, a cura di R. Milstein, Jerusalem 1995; J. Seyller, The Inspection and Valuation of Manuscripts in the Imperial Mughal Library, Artibus Asiae 57, 1997, pp. 243-349.

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