FIORILLO, Silvio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FIORILLO, Silvio

Giovanna Checchi

Nato a Capua (vicino a Caserta) verso il 1565, fu uno dei tanti comici-drammaturghi del primo Seicento. Infatti oltre a interpretare il personaggio di Capitan Matamoros (Ammazzamori), un guerrafondaio spagnolo spaccone quanto vigliacco, decise di diffondere e tramandare la sua arte attraverso la pubblicazione delle opere che normalmente metteva in scena. In ventotto anni, dal 1604 al 1632, il F. pubblicò in varie città almeno sette opere appartenenti a generi letterari completamente diversi. Le sue velleità letterarie lo spinsero infatti a cimentarsi sia nell'egloga pastorale sia nel sonetto, nel soggetto - di ispirazione ariostesca come nella commedia.

Le sue opere, delle quali esistono anche numerose riedizioni, sono: L'amor giusto. Egloga pastorale, in napoletana, e toscana lingua, Napoli 1604; La ghirlanda. Egloga, in napoletana, e toscana lingua, ibid. 1608; Li tre capitani vanagloriosi. Comedia capricciosa de strani amorosi avvenimenti, ibid. 1621; La cortesia di Leone, e di Ruggiero con la morte di Rodomonte..., Milano 1624; Il mondo conquistato, ibid. 1627; L'Ariodante tradito e morte di Polinesso da Rinaldo Paladino..., Pavia 1627; La Lucilla costante con le ridicolose disfide e prodezze di Policinella … Milano 1632.

Senza dubbio la sua opera più importante è quella pubblicata per ultima, La Lucilla costante. In essa compare per la prima volta il personaggio di Pulcinella (o meglio ancora "Policinella", secondo l'espressione dialettale arcaica), che sarebbe diventato l'emblema stesso del teatro napoletano. Ed è proprio grazie a questo "debutto" drammaturgico della celebre maschera che buona parte della storiografia si è limitata a tramandare il nome del F. come quello di un "inventore" geniale, o meglio ancora di un "padre" fortunato. Di fatto il F. fu soprattutto nella vita un padre orgoglioso; e due dei suoi figli, ricalcando le orme paterne, diventarono comici di successo: Giovan Battista, nei panni del napoletano Scaramuzza, e Tiberio, che in arte si fece chiamare Scaramouche (palese francesizzazione dello Scaramuzza fraterno), tanto per non allontanarsi dal contesto artistico familiare.

Il F., pur rimanendo in ambito teatrale italiano, si fece conoscere un po' ovunque. Infatti, nonostante che il suo repertorio comico fosse più che altro d'ambito napoletanospagnolo, riscosse sempre successo in tutte le città che visitò, indipendentemente dalle tradizioni dialettali locali. Le prime notizie riguardanti la sua attività risalgono al 1589, quando è documentato proprio a Napoli insieme ad altri comici.

Del F. non si hanno più notizie fino al 1594 quando a Milano si presentò la compagnia degli Uniti con una formazione nuova, ampliata rispetto alla precedente, nella quale compare un certo Silvio, identificato dal Sanesi con il Fiorillo.

La prima prova dell'identificazione del F. con il suo inseparabile personaggio spagnolo risale al 1599. È del 20 novembre una lettera indirizzata al duca di Mantova, firmata: "Silvio Fiorillo in arte il Capitano Mattamoros comico". Da allora in poi fu sempre identificato con il Capitano Matamoros, nonostante che il suo repertorio di maschere fosse molto più ampio. Da questa lettera, pubblicata da D'Ancona assieme ad un'altra dell'11 maggio 1621, come pure da altre due del 1619, trascritte da Checchi, si apprende che il F. fu addirittura uno dei comici più cari ai Gonzaga, duchi di Mantova e celebri mecenati teatrali.

Oltre ad avere un rapporto privilegiato con nobili committenti, il F. ebbe modo di lavorare, non sempre serenamente, con i più celebri comici dell'epoca: gli Andreini, P.M. Cecchini, Tristano e Drusiano Martinelli, Flaminio Scala. Per l'esattezza recitò con almeno quattro compagnie: con gli Uniti (forse già nel 1594 a Milano e sicuramente nel 1614 a Firenze), con gli Accesi (nel 1605 a Torino, nel 1614 a Firenze e a Genova, nel 1615 di nuovo a Firenze, nel 1620 nel Modenese, nel 1623 ancora a Firenze e nella stagione 1624-25 a Venezia), con i Confidenti (probabilmente nel 1619 a Mantova) e con gli Affezionati (nel 1623 a Venezia, nel 1633 a Firenze, nel 1634 ancora a Firenze e a Bologna).

Le recite del 1634 sono le ultime documentate del F., ed è probabile che sia morto poco dopo questa data.

Dal 1634 in poi dei F. non rimangono altro che alcune riedizioni, sicuramente postume. Infatti nel 1640 venne di nuovo pubblicata, questa volta a Macerata, la commedia Li tre capitani vanagloriosi. Altre due edizioni dell'egloga La ghirlanda furono ristampate a Napoli, rispettivamente nel 1644 e nel 1652.

È possibile che il F., finalizzando gli scritti alla rappresentazione scenica, abbia deciso di cimentarsi in generi tanto diversi per ampliare il proprio repertorio artistico, così da renderlo adatto ad ogni occasione. Mentre infatti le tirate in versi, come Il mondo conquistato, sono monologhi che poteva recitare immediatamente su richiesta, senza l'intervento di altri attori, la messinscena delle egloghe, dei soggetti ariosteschi e delle commedie presupponeva invece la presenza di una compagnia teatrale.

La produzione letteraria del F. presenta almeno tre caratteristiche ben evidenziate: la quasi assoluta mancanza di didascalie e di indicazioni scenotemiche, il Leitmotiv dell'"amor costante" e la ricercata osmosi tra elementi del teatro erudito e altri caratteristici della commedia dell'arte. Per quanto riguarda l'asciuttezza formale del F., accantonata soltanto nella scena del duello tra Pulcinella e il Capitan Matamoros ne La Lucilla costante (V, 12), in cui compare qualche rapida annotazione, va detto che è riconducibile alla sua personale posizione professionale. Il F., infatti, per quanto è possibile sapere, non fu mai capocomico di una compagnia, ma anzi ebbe la fortuna di recitare sempre in formazioni diverse. Le sue opere, quindi, non presentando limitanti annotazioni registiche, potevano essere liberamente adattate alle più diverse situazioni e interpretazioni.

Per quanto riguarda il tema dell'"amor costante", che caratterizza l'intera produzione letteraria, bisogna dire che nel corso degli anni subisce un profondo cambiamento. Mentre infatti nelle opere giovanili è descritto come un sentimento sacrosanto, granitico e inviolabile, nell'ultima commedia, La Lucilla costante del 1632, subisce una sorprendente svalutazione. Con questa inaspettata inversione di rotta il F., ormai anziano e probabilmente ansioso di comporre il suo testamento spirituale, sembra volerci dire che l'"amor costante", proprio per quel suo intrinseco aspetto angelicato della fedeltà assoluta, non puo essere vissuto nella vita di tutti i giorni. È un sentimento puro, inossidabile, consono alle storie d'amore dei cavalieri senza macchia come Orlando, Uone e Ruggiero, ma non è credibile calato nell'atmosfera quotidiana, carriale e intrigante della commedia.

Per la compresenza di riecheggiamenti classici del teatro erudito e freschi riferimenti all'universo artistico della commedia dell'arte, l'autore nell'egloga pastorale L'amor giusto del 1604 inserisce, tra ninfe e divinità mitologiche della portata di Diana e Cupido, il napoletano Cola. Costui, anche se stavolta indossa i panni consunti e stracciati di un pastore, è una delle maschere del teatro napoletano. E sotto certi aspetti anche il pastore napoletano Fiorillo, dal nome che è una divertente autocitazione, compare in entrambe le egloghe pastorali con caratteristiche di tipo fisso. Ma la commistione di elementi eterogenei è ancora più evidente nelle due commedie. Il richiamo alla letteratura drammaturgica cinquecentesca è evidenziato non tanto dalla struttura, scandita in cinque atti, quanto dalla tipologia scelta per le figure dei vecchi e degli innamorati. Infatti il F. dà ai suoi personaggi dei nomi classici che non possono ricordare né nomi d'arte di comici coevi, né vere e proprie maschere già esistenti. Ecco quindi che il vecchio non si chiamerà Pantalone, quanto piuttosto Andolfo o Alberto. Gli innamorati, di conseguenza, non saranno certamente Orsola, Valeria e Lelio, quanto piuttosto Lucrezia, Lucilla e Cosimo. Anche questa scelta potrebbe essere letta come un ulteriore desiderio di neutralità del drammaturgo. Il F. scriveva per il piacere di tramandare le sue opere ai posteri, non certo perché fossero l'esatta testimonianza di come recitava una compagnia precisata. Le sue opere dovevano essere indipendenti da tutto e da tutti, ed essere così neutrali da non diventare appannaggio esclusivo di una sola compagnia. Comunque non è certamente casuale la scelta "classica" nei confronti dei ruoli dei vecchi e degli innamorati. C'è da chiedersi quanto queste parti potessero interessare un comico come il F., così arguto, così raffinato, per esempio, nel calibrare i tempi delle battute comiche. Non dobbiamo dimenticare infatti che egli, come pure i suoi due figli Giovan Battista e Tiberio, ha sempre recitato nei panni del capitano, non certo in quelli dell'innamorato o del vecchio, in parti, cioè, nelle quali poteva sfoggiare i suoi giochi verbali e le sue battute esilaranti basate su incomprensioni a catena. È proprio grazie a tali giochi linguistici che il Capitan Matamoros e Pulcinella appaiono come personaggi strani, se non addirittura "straniati" e quindi, in ultima analisi, emarginati. Forse non è un caso che il F. li abbia messi a confronto una sola volta, ne La Lucilla costante.

Li tre capitani vanagloriosi (1621), che riecheggia nel titolo alcuni scenari seicenteschi incentrati sulle azioni sceniche di un terzetto (Li tre matti, Li tre schiavi, I tre ladri scoperti, e così via) è un omaggio del F. al personaggio del soldato millantatore. Ia commedia, strutturata in cinque atti, è interpretata da quattordici attori, tre donne e undici uomini, di cui due recitano in spagnolo e tre in napoletano. La diversità dei linguaggi, che è già di per sé una complicazione, sommata ai travestimenti di alcuni personaggi che recitano sotto falso nome, dà luogo ad una narrazione estremamente complessa.

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