BOCCANEGRA, Simone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BOCCANEGRA, Simone

Giovanna Balbi

Appartenente a cospicua famiglia genovese di origine popolare, nacque da Iacopo di Lanfranco e da Ginevra Saraceni, figlia di Egidio signore di Rezenasco in Toscana, all'inizio del sec. XIV, pare nel 1301. Ricchi e attivi commercianti, i Boccanegra avevano raggiunto il potere con il fratello del nonno del B., Guglielmo, capitano del popolo dal 1257 al 1262. È probabile che il giovane Simone, chiamato anche Simonino o Simoncino, abbia seguito la tradizione familiare dedicandosi al commercio e alla mercatura. Tutti gli storici genovesi concordano infatti nell'affermare che non aveva rivestito alcun incarico pubblico prima del 1339, quando a furor di popolo fu eletto primo doge di Genova.

Gli anni che avevano preceduto quest'atto rivoluzionario erano stati caratterizzati da grande instabilità politica e sociale a causa delle lotte interne e delle guerre esterne: dopo la lunga signoria dei guelfi e di Roberto d'Angiò, nel 1335 i ghibellini avevano riconquistato il potere eleggendo due capitani del popolo, i quali, impotenti a resistere all'opposizione dei nobili guelfi e alla pressione dei Catalani sul mare, assunsero gradatamente i pieni poteri e persero definitivamente l'appoggio popolare quando si arrogarono l'elezione dell'abate del popolo, in passato scelto dal popolo stesso.

Così quando il 23 sett. 1339 si procedette all'elezione del nuovo abate, i popolari designarono il B., il quale però rifiutò la nomina con il pretesto che egli non apparteneva a famiglia plebea e quindi non poteva ricoprire tale carica. Di fronte al suo rifiuto la folla, sobillata forse da alcuni suoi amici, lo acclamò doge a vita, e questa volta il B. non esitò ad accettare la nuova dignità che il giorno successivo venne confermata anche dal popolo riunito in parlamento.

L'introduzione in Genova del dogato, che nel nome si richiamava all'istituzione veneziana, corrispondeva perfettamente alla contemporanea trasformazione del regime comunale in signoria, in atto ovunque nell'Italia centrosettentrionale. Il nuovo doge assunse i poteri detenuti fino ad allora dai capitani del popolo. Fu istituito inoltre un consiglio di quindici membri scelti fra i popolari, detto degli Anziani, mentre l'amministrazione della giustizia rimase affidata a un podestà forestiero. Tre abati del popolo rappresentavano gli interessi degli abitanti delle tre valli genovesi. Nello stesso tempo i guelfi furono esclusi dalle cariche pubbliche, mentre ai nobili fu proibito l'accesso al dogato.

Il compito che si presentava al doge, in un momento in cui le finanze erano esauste, le gabelle quasi tutte ipotecate in favore dei creditori, i commerci ostacolati dalle scorrerie corsare e i territori della Repubblica in mano ai ribelli, non era dei più facili. Ma il B. dette subito prova di grande fermezza. Assunto il comando delle forze militari e delle fortezze riuscì, ancora nel corso del suo primo anno di dogato, a sottomettere i feudatari ribelli e a recuperare i possedimenti genovesi sulle due Riviere e nell'Oltregiogo. Tuttavia la sua tendenza ad accentrare sempre di più nelle proprie mani il potere, distribuendo gli incarichi più importanti tra i suoi congiunti, gli alienò presto non poche simpatie anche tra i popolari e provocò già nel 1339 le prime congiure, che tuttavia riuscì a dominare facilmente.

Una volta consolidato il potere all'interno, il B. si preoccupò di formare una buona flotta per far fronte alle continue scorrerie dei nobili, i quali, scacciati dalle loro terre, si erano dati alla pirateria e ostacolavano i commerci soprattutto con la Provenza, da dove arrivava il frumento per Genova, vittima di una grande carestia nel 1340. Per questa impresa cercò l'aiuto di Pisa, l'antica rivale di Genova, con la quale il 24 giugno 1341 prolungò la pace già esistente per altri venticinque anni. Riuscì a mantenere buoni rapporti anche con quasi tutti gli altri Stati della penisola. Nei confronti del papato tenne un'atteggiamento di deferenza e subito dopo la sua elezione a doge ne informò con una solenne ambasceria Benedetto XII ad Avignone. Accettò di buon grado anche la richiesta di Clemente VI di far partecipare navi genovesi a una crociata contro i Turchi. Al re di Castiglia, Alfonso XI, in guerra con il sultano del Marocco Abū l-Ḥasan, nel 1341 inviò venti galee al comando del fratello Egidio il quale, nominato ammiraglio della flotta castigliana, inflisse nel marzo 1342 una grave sconfitta a quella marocchina che assediava Algeciras.

Ma il B. si acquistò meriti particolari nel tentativo di rafforzare la stabilità e la potenza delle colonie genovesi in Oriente. Nel 1341 stabilì di emettere un prestito forzoso per sostenere le spese necessarie alla difesa delle colonie in Crimea gravemente minacciate dai Turchi. Sempre nello stesso anno, dopo lunghe trattative, poté stipulare un accordo, particolarmente favorevole per Genova, con Anna di Savoia, vedova dell'imperatore d'Oriente Andronico III e reggente per il figlio Giovanni V. A partire dal 1342, poi, unì le forze genovesi a quelle veneziane per combattere i Tartari di Gianibek, imperatore del Kipčak, che già nel 1342 avevano assalito i commercianti genovesi e veneziani di Tana, e nel 1344 posero l'assedio a Caffa, la più importante colonia genovese sul Mar Nero. Ma, con l'aiuto dei Veneziani, i Genovesi costrinsero i Tartari a ritirarsi e il B. poté così ricevere in Genova un inviato dell'imperatore Gianibek venuto a chiedere la pace. A conclusione di questa sua intensa attività in favore delle colonie genovesi sul Mar Nero il B. fece raccogliere in un unico corpo, conosciuto con il nome di Liber Gazariae, tutte le leggi per la tutela del commercio e della navigazione in quel mare. Come ultimo episodio della politica coloniale del B. va ricordata la partecipazione di Genova alla lega, conclusa nel 1344 con Venezia e con Clemente VI, contro Omarbeg, il potente emiro di Aydin, al quale i crociati, al comando del genovese Martino Zaccaria, poterono sottrarre Smirne.

Nonostante questi brillanti successi di politica estera, il dominio del B. ebbe fine nel 1344.

I nobili, che non avevano mai desistito dall'ostacolarlo, avevano trovato alleati anche in molti popolari, che gli rimproverarono il governo sempre più assoluto e lo sperpero del denaro pubblico. Infatti per pagare i mercenari assoldati allo scopo di reprimere i frequenti attacchi dei fuorusciti, ma soprattutto per far fronte alle spese della corte fastosa della quale si circondava, il B. si era visto

costretto ad imporre tasse sempre più gravose, colpendo soprattutto i Comuni e le località che gli si erano mostrati ostili. Oltre a uno stipendio annuo superiore a 5.000 lire di genovini, percepiva altre somme per la manutenzione dei due palazzi a sua disposizione, per le spese di rappresentanza, per il mantenimento dei suoi falconi da caccia, di un leopardo e di altri animali, cosicché le spese per il doge rappresentavano una voce assai alta nel bilancio della Repubblica.

Perduto l'appoggio dei popolari, il B. all'inizio del dicembre 1344 tentò un accordo con i nobili fuorusciti, promettendo di riammetterli al governo della Repubblica. Ma l'accordo non fu raggiunto, poiché il B. si rifiutò di allontanare dalla città i mercenari al suo servizio.

Dopo questo insuccesso, il 23 dic. 1344 il B. convocò il popolo a parlamento e, dopo aver ricordato le proprie benemerenze verso la città e il suo operato, abbandonò spontaneamente il potere, imbarcandosi alcuni giorni dopo alla volta di Pisa, con più di 100.000 fiorini d'oro secondo il racconto di Giovanni Villani. Vari motivi spinsero il doge a scegliere Pisa come suo rifugio: l'origine toscana della madre, le buone relazioni da lui tenute con la città e soprattutto la presenza del fratello Niccolò come capitano del popolo in quel Comune.

A Pisa il B. rimase per vari anni. È probabile che egli abbia continuato a interessarsi alle vicende politiche della sua città natale, ma solo nel 1353, quando Genova, bloccata per mare dai Veneziani e dagli Aragonesi e per terra dai fuorusciti aiutati da Giovanni Visconti, si affidò all'arcivescovo milanese, il B. uscì dal suo riserbo. Pare infatti che dal suo esilio abbia sostenuto i tentativi per dare la signoria di Genova al Visconti. Secondo il cronista milanese Pietro Azario avrebbe offerto all'arcivescovo, tramite il suo amico Giovanni Mondella, tesoriere del Visconti, il suo appoggio per la conquista di Genova, ottenendone in cambio ingenti somme di danaro, con le quali pagò alcuni debiti contratti all'epoca del dogato.

I cronisti genovesi invece ignorano questi rapporti del B. con il nuovo signore di Genova. Riferiscono che, solo nel 1356, i successori dell'arcivescovo Giovanni, conoscendo il malcontento genovese nei loro riguardi, inviarono a Genova il B., in quel momento mantenuto in ostaggio a Milano, nell'estremo tentativo di riconquistarsi

il favore della città; ma appena rientrato in Genova, il B. si unì ai popolari e contribuì con la sua presenza ad incoraggiare la rivolta contro il dominio visconteo. Il presidio milanese, fu cacciato dalla città il 14 novembre e il giorno seguente il B. fu acclamato doge per la seconda volta.

Il suo secondo dogato fu caratterizzato come il primo da una politica antinobiliare; i nobili infatti furono esclusi, ora, non solo dalle cariche pubbliche, ma anche dal comando delle navi commerciali e da guerra. Dopo la sua elezione dovette inoltre ridurre all'obbedienza le principali città della Riviera occidentale che, rimaste fedeli ai Visconti, non riconoscevano il nuovo governo instaurato in Genova.

L'antagonismo con i Visconti, contro i quali alla fine dello stesso 1356 il B. si alleò con Giovanni II Paleologo marchese del Monferrato, rimaneva del resto una costante del suo dogato. L'8 giugno 1358 sottoscrisse il trattato di pace con i signori di Milano voluto da Carlo IV (dal quale, in cambio dell'appoggio dato alla politica italiana dell'imperatore, fu anche nominato vicario imperiale e ammiraglio dell'Impero) e il 22 agosto dello stesso anno firmò l'accordo per combattere le compagnie di ventura. Ma già nel 1360 si schierò nuovamente a fianco del papa contro i Visconti nella questione di Bologna.

Nel suo atteggiamento antivisconteo alle ragioni politiche si univano risentimenti e motivi di inimicizia familiare: il B. aveva dato in sposa la propria figlia Maddalena a Luchinetto Visconti, figlio di Luchino e di Isabella Fieschi, costretto a fuggire dal Milanese insieme con la madre per l'ostilità dei congiunti Galeazzo e Barnabò, che lo consideravano un impostore e non riconoscevano le sue pretese sull'eredità paterna, nonostante l'appoggio dato a Luchinetto dal papa e dal suocero.

Proprio al genero e al fratello Bartolomeo il B. affidò nel 1362 il comando delle forze genovesi inviate nell'Oltregiogo, dove si dovevano unire alla compagnia di ventura dell'inglese Alberto Sterz assoldata dagli avversari dei Visconti. La spedizione non ottenne però i risultati sperati: dopo aver devastato il Tortonese e fatto razzie, al sopraggiungere della cattiva stagione, le truppe fecero ritorno a Genova senza aver tentato la conquista di Milano, come era nelle intenzioni dei coalizzati, e non erano neanche riuscite a riconquistare tutti i territori dell'Oltregiogo occupati dai Milanesi.

Maggior successo ebbe invece la politica del B. nei confronti della Corsica dove, per merito suo, i Genovesi, che prima occupavano solo alcune basi commerciali e pochi castelli, iniziarono una penetrazione in tutto il territorio sostituendosi ai Pisani ed agli Aragonesi. Nel 1358 infatti i Corsi, dopo aver organizzato una ribellione antifeudale, chiesero aiuti contro i nobili al B., che inviò il proprio fratello Giovanni come governatore dell'isola. Agli isolani fu permesso di organizzarsi in un governo di tipo comunale, pur rimanendo l'isola sotto la sovranità genovese.

Per appianare i contrasti insorti con Pietro IV d'Aragona, soprattutto a causa dell'occupazione genovese della Corsica, il doge si rimise all'arbitrato del marchese del Monferrato, il quale, nel marzo del 1360, dopo circa un anno di trattative, pose termine alla vertenza tra Genova e l'Aragona.

Anche con Venezia, nonostante che in Oriente continuasse la rivalità commerciale tra le due repubbliche, il doge cercò di appianare ogni divergenza e soprattutto di unire in una lega le forze genovesi e veneziane contro il pericolo turco: la morte gli impedì di portare a termine questo grandioso progetto che aveva l'appoggio dell'imperatore d'Oriente e del papa.

Per far fronte a questa vasta attività sul piano internazionale e per fronteggiare i nobili ribelli, il B. fu costretto a ricorrere frequentemente a prestiti forzosi tra i cittadini, indebitando in loro favore tutte le gabelle e le entrate dello Stato. Ben presto, mentre la nobiltà non desisteva dal ricorrere ad ogni mezzo per eliminarlo, il popolo cominciò a rinfacciargli gli stessi difetti del primo dogato: la estrema durezza nel reprimere ogni opposizione, l'avidità, il nepotismo, le spese eccessive. Nonostante che il doge, avuto sentore del malumore popolare, avesse allontanato dalla cittá anche Leonardo Montaldo, il suo più prezioso consigliere, sospettandolo di tramare contro di lui, nell'ottobre e nel novembre 1362 due congiure, ordite contro di lui proprio dai popolari, dimostrano come ormai il governo del B. volgesse al termine.

Il B. morì improvvisamente il 14 marzo 1363 dopo aver partecipato, il giorno precedente, a un banchetto in onore del re di Cipro, Pietro di Lusignano, in casa del genovese Pietro Marocello. Appare così comprensibile l'ipotesi, avanzata dai contemporanei, che il B. fosse stato avvelenato.

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