MARTINI, Simone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTINI, Simone.

Michela Becchis

– Non si conoscono con certezza il luogo e l’anno di nascita del M., che comunque deve essere collocata entro il penultimo decennio del XIII secolo (Pierini, pp. 22 s.; Leone de Castris, 2003, p. 36). La vita e l’attività pittorica del M. sono di fatto ricostruibili solo attraverso il percorso tracciato dai documenti e dalle opere a partire dal 1315, anno del completamento della Maestà affrescata nella sala del Mappamondo del palazzo pubblico di Siena (Pierini, p. 246).

Erronea appare l’affermazione di Vasari (p. 559) che lo dice figlio del pittore Memmo di Filippuccio sulla base dell’epitaffio, posteriore tuttavia al secolo XIV, letto sulla tomba del M. in S. Francesco a Siena, secondo il quale il pittore sarebbe morto all’età di sessant’anni. Relativamente al luogo di nascita, se la tradizione lo ricordava come figlio di un Martino abitante a Siena nel «popolo» di S. Egidio, più argomentata è l’ipotesi di Carli (1962, pp. 93 s. n. 5), secondo cui il M. sarebbe stato figlio sì di un Martino senese, ma documentato dal 1274 a San Gimignano in qualità di artigiano esperto nel preparare l’arriccio per gli affreschi, in rapporto con la bottega di Memmo di Filippuccio.

Per ricostruire gli avvii dell’attività del giovane M. fino alla Maestà bisogna affidarsi ad alcune opere che la critica ritiene, non sempre concordemente, precedenti. La formazione del pittore, anche accettando l’ipotesi di una sua nascita a San Gimignano, dovette svolgersi comunque a Siena, di certo nell’orbita della bottega di Duccio di Buoninsegna e in stretto contatto con le botteghe orafe presenti in città (Leone de Castris, 2003, pp. 24-34).

Controversa per la critica è la fase stilistica in cui il giovane pittore entrò in diretto contatto con Duccio, prima in ogni caso dell’esecuzione da parte di quest’ultimo della grande Maestà per il duomo, fra il 1308 e il 1311, dato che il M. dimostrava di aver raggiunto una piena maturità artistica se dava l’avvio al lavoro per il palazzo pubblico. Proprio in quest’opera peraltro si riscontrano richiami e vere e proprie citazioni tolte dalla pittura del più anziano maestro, ma tutte legate a una fase duccesca entro gli ultimi anni del XIII secolo. Questo forte legame con Duccio emerge in modo netto anche in due opere attribuite al M., collocabili entro i primissimi anni del Trecento: una Madonna col Bambino (Siena, Pinacoteca nazionale, n. 583), a lungo e significativamente ascritta a Duccio e alla sua bottega, ma dopo un attento restauro restituita definitivamente agli esordi del M. (Chelazzi-Dini, 1983-84), e il guasto lacerto di affresco ritrovato nell’oratorio di S. Lorenzo in Ponte a San Gimignano, inserito in un più tardo affresco di Cenni di Francesco di ser Cenni, in cui se da un lato la Madonna si apparenta strettamente con quella di Duccio conservata nella Pinacoteca nazionale di Perugia, dall’altro emerge già il rapporto con l’attività locale di Memmo di Filippuccio (Carli, 1963, pp. 80-83; Previtali, p. 18; Bagnoli, 1999, pp. 141 s.). A queste due opere bisogna associare una Madonna dei Raccomandati (Siena, Pinacoteca nazionale) proveniente da S. Bartolomeo a Vertine (Gaiole in Chianti) perché appartiene allo stesso torno di anni delle due opere precedenti, forse di poco più avanti nel tempo, e mostra una ancor più spiccata adesione ai modi di Memmo, tanto da aver fatto supporre un intervento, accanto al M., dei giovani figli di quello (Bagnoli, 1985, pp. 43-46). La critica quasi unanimemente è infatti concorde nel ritenere che nella bottega dei Memmi, dove avrebbe maturato anche rapporti di parentela con la famiglia, il M. dovette svolgere una fase fondamentale del suo apprendistato già interessato a una concretezza plastica che solo la precoce esperienza giottesca di Memmo poteva offrirgli.

Continuando il tentativo di ricomporre il catalogo del M. fino alla Maestà di Siena, gli sono state attribuite recentemente una bella ma rovinata Maestà (Napoli, Museo di Capodimonte) da accostarsi alla Madonna senese n. 583, anche se di vigore plastico più netto (Leone de Castris, 2003, pp. 56 s.), e una guasta Madonna col Bambino (Berlino, Gemäldegalerie) ascrivibile al 1315 circa (Boskovits, 1990, p. 601).

A pochi mesi dalla solenne posa della Maestà di Duccio sull’altare maggiore del duomo di Siena, nel 1311, il Comune dovette decidere di affidare al M. l’esecuzione dell’affresco di soggetto analogo nel palazzo pubblico. I documenti relativi (Pierini, p. 246), uniti alle iscrizioni che corrono sotto la grande rappresentazione in cui si trovano anche la data e la firma del M., evidenziano l’esecuzione da parte di un pittore non certo alle sue prime prove, ma ancor più il prestigio della committenza.

La Maestà del M., infatti, rispetto a quella del duomo fu ancor più caricata di valenze politico-ideologiche e valori civici. Dal 1260 la città era consacrata alla Vergine, come si legge nel sigillo cittadino inserito nella fascia decorativa in basso; ed essa insieme con il Bambino (il cui cartiglio recita «Diligite iustitiam qui iudicatis terram») diventa qui garante sacra e terrena della politica di giustizia, di equilibrio, di difesa dei deboli posta a fondamento del governo dei Nove. Il suo monito risuona con chiarezza negli endecasillabi scritti nei gradini del trono riferibili, secondo i risultati dell’ultimo restauro, alcuni alla prima fase di esecuzione dell’opera, altri al «racconciamento» che lo stesso M. avrebbe dovuto fare più tardi (Cronaca maggiore…, pp. 371-373; Bagnoli, 1999, pp. 82-93). La Madonna e il Bambino sono rappresentati al centro di una corte di trenta figure fra arcangeli, angeli e santi; tra questi, in ginocchio, i quattro protettori della città messi in chiara posizione di intercessione e testimonianza. Tutte le figure sono riunite sotto un elegante baldacchino, sorretto da alcuni santi, la cui pregiatissima stoffa, riprodotta con stupefacente mimesi, reca gli emblemi della città, le insegne antiche della Francia e quelle di casa d’Angiò, in modo che la fede guelfa fosse chiarissima. La cornice, decorata con raffinate volute di cardi, che inquadra questa corte, rafforza ancor più l’intento di «manifesto» politico dell’opera con gli stemmi e i sigilli della città, lo stemma del capitano del Popolo, la moneta cittadina, le virtù cardinali e teologali, i patriarchi, i profeti, i dottori della Chiesa tutti chiamati a testimoniare la giustizia di quel regime politico. Ma al di là della efficacia ideologica dell’opera, ciò che deve essere rilevato sono le sue grandi novità tecniche e formali; la straordinaria modernità e complessità stilistica la rendono uno dei prodotti più alti del gotico italiano. Si ravvisa una conoscenza profonda di tutta la cultura figurativa prodotta fin lì: dal «Maestro Oltremontano» di Assisi, alle miniature, le sculture, gli avori e soprattutto alle oreficerie, di cui il M. mostra di conoscere bene tutti gli aspetti tecnici più raffinati. Egli impiega per primo, anzi inventa, punzoni e stampini per imprimere motivi ornamentali sull’intonaco, per raggiungere il medesimo effetto di granitura che si ottiene con quelli sui metalli. L’accentuato polimaterismo lo porta a usare inserti di vetro églomisé, carta vera per libri e cartigli, a utilizzare la foglia d’oro, lamine dorate per conferire setosità alle stoffe e a impiegare un magnifico cristallo di rocca per il fermaglio del manto della Madonna. Che il M., o certo la sua bottega, fosse in grado di produrre oggetti di oreficeria si apprende anche da un più tardo documento del maggio 1333 in cui il M. viene pagato «pro uno pedistallo crucis et aliis rebus quas fecit pro ornamento altaris dominorum novem» (Milanesi, 1854, p. 218).

La Maestà senese nell’infinita varietà stilistica e tecnica mostra anche un’altra importante componente dell’arte del M.: il confronto e la valutazione dell’arte di Giotto. Ciò obbliga a legare per prossimità cronologica quest’opera all’unico importante ciclo di affreschi compiuti dal M., e cioè alla cappella di S. Martino eseguita nella basilica inferiore di Assisi, la prima sul lato sinistro della navata. La decorazione fu attribuita al M., dopo gli errori di Vasari, da S. Ranghiasci (in Fea, p. 11) già dalla fine del Settecento; e da allora l’autografia non è più stata oggetto di dubbio. Diverso il problema della datazione che ha subito oscillazioni tra l’attività giovanile del M. (Cavalcaselle - Crowe, pp. 55 s.) e quella tarda, avanti la partenza per Avignone (Gosche, p. 44).

La proposta di datare l’opera in anni compresi fra il 1312 e il 1317, oggi accolta senza riserve, si deve a Bologna (1968, pp. 2-7, e I pittori…, 1969, pp. 150-159). Gli affreschi e le vetrate furono commissionati dal cardinale francescano Gentile da Montefiore di cui sono presenti gli stemmi e uno splendido ritratto in ginocchio davanti al santo titolare. Il cardinale fu un abile diplomatico che, su incarico di Clemente V, svolse nel 1308 importanti incarichi d’intermediazione in Ungheria fra i rami angioini ungherese e napoletano. Rientrato in Italia nel 1311, sempre su incarico del pontefice avrebbe dovuto trasferire ad Avignone il tesoro papale rimasto ad Assisi. L’impresa non fu conclusa in quanto il cardinale morì a Lucca nel 1312. Quello stesso anno, però, questi aveva donato alla basilica la consistente somma di 600 fiorini d’oro «per una capella che fa fare» (Nessi, p. 246 n. 819). Il documento è stato oggetto di varie interpretazioni, poiché per alcuni si riferiva alla costruzione della cappella e non alla decorazione (Martindale, pp. 21-25), oppure a entrambe (Hoch, pp. 141-146). Tuttavia importanti ricerche, anche archivistiche, condotte sulle vetrate (Marchini, pp. 89-92) hanno assodato che le cappelle laterali furono aperte sul finire del Duecento e che quindi la somma è da riferirsi alla decorazione. Il ciclo dedicato a s. Martino di Tours si svolge sulle pareti della cappella dal basso verso l’alto e racconta in modo particolareggiato tutta la vicenda del santo cavaliere accompagnata dalla rappresentazione, negli sguanci delle finestre, di altri santi cavalieri, vescovi, eremiti e fondatori di ordini (Leone de Castris, 2003, pp. 347 s.). Anche le splendide vetrate sono probabilmente riferibili al M. che dovette realizzarne i cartoni e forse segnano la prima parte dell’intera impresa, anche se parte della critica le vuole riferire al giottesco Maestro di Figline (L. Bellosi, in Un pittore…, 1980, pp. 12-14) con cui tuttavia il M. mostra alcune tangenze. Il rapporto con Giotto, ma anche con i giotteschi della basilica inferiore negli affreschi, diventa molto più importante e originale, non solo nella distribuzione degli affreschi stessi all’interno del locale, ma anche negli scorci architettonici, negli spazi delle rappresentazioni, nei profili prospettici, nel senso plastico delle forme reinterpretato dal M. nelle parti più antiche della Maestà così vicina agli affreschi della cappella, da creare un corpus cronologico compatto (Leone de Castris, 1989, pp. 12 s.). Il tutto con una varietà ritrattistica e una ricerca naturalistica che risulta affatto originale rispetto al modello (Della Valle, p. 93). Nel sottarco di ingresso, forse dipinto sopra una preesistenza (Tintori - Fehm, p. 177), sono affrescate figure intere di santi fra cui è importante ricordare quelli disposti a sinistra, cari alla casa d’Angiò: Ludovico d’Angiò, già santo, quindi dopo l’aprile del 1317 anno della sua canonizzazione, con s. Luigi di Francia e s. Elisabetta d’Ungheria. Come dimostrano gli attacchi degli intonaci, questa dovette essere l’ultima parte eseguita del lavoro. Si apre qui la questione del legame del M. con la famiglia reale napoletana (Bologna, 1988, p. 248) per cui intorno agli anni 1318-19 dovette anche eseguire ad affresco cinque santi a mezza figura (andati perduti) per una cappella di S. Ludovico sempre nella basilica inferiore nel transetto destro (Leone de Castris, 2003, pp. 130-136).

Al suo ruolo di pittore angioino va senz’altro collegata l’esecuzione della grande tavola con il S. Ludovico di Tolosa proveniente da S. Lorenzo Maggiore a Napoli (Napoli, Museo di Capodimonte), firmata dal M. ai lati degli stemmi della casata ed eseguita con ogni probabilità a ridosso della canonizzazione del secondogenito di Carlo II.

Il santo è rappresentato in trono, dotato di elegantissimi paramenti vescovili da cui spunta il saio francescano, nell’atto di incoronare il fratello Roberto, raffigurato di profilo in uno dei più stringenti ritratti della pittura medievale. La rinuncia al suo diritto di successione è sottolineata dalla «incorruttibile» corona che gli viene posta in capo da una coppia di angeli. Nella predella sono narrati fatti della vita del giovane santo. La sua adesione alle istanze dei francescani spirituali fu motivo di forti tensioni tra la Curia e la casa regnante napoletana tanto che la canonizzazione arrivò vent’anni dopo la sua morte. La tavola risulta quindi essere il frutto figurativo di una raffinata politica di mediazione e promozione della casata che attraverso il consueto lusso della pittura del M. si concentra più sugli aspetti legati alla umiltà del nobile santo che su quelli della povertà (Bologna, Povertà…, 1969). Sulla scia degli esperimenti compiuti nella Maestà, il M. mise in campo la capacità di inserire materiali preziosi di varia natura tra cui spicca il vetro églomisé, finemente decorato che ferma il piviale, la mitra ornata di perle e placche smaltate, le pietre preziose che dovevano ornare i bordi delle vesti, l’uso di punzoni appositamente creati e dell’argento in foglia (Causa, pp. 33-38). Se, infine, nella predella i calibrati spazi, la convergenza delle linee di fuga, la pienezza delle figure parlano ancora un vagliato linguaggio giottesco, la figura del santo indica il volgersi del M. verso la cultura lineare e cortese del più maturo gotico internazionale (Aceto, pp. 53-55).

A questa fase dell’attività del M. vanno ricollegate anche due piccole tavole: la prima, una piccola pace con una Madonna con Bambino (collezione privata), la cui esecuzione sembra tuttavia più riconducibile all’attività di bottega (Chelazzi-Dini, 1985); la seconda, una Crocifissione (Firenze, Museo Horne), che può con maggiore certezza ricondursi alla mano stessa del M. in virtù di buoni riscontri con particolari della Maestà (Bellosi, 1977, pp. 17-20).

Nel decennio compreso fra il 1316 e il 1327 il M. dovette cominciare a creare una bottega numerosa, ben organizzata e di elevata qualità, e concentrare l’attività su un genere che proprio a Siena aveva trovato il centro di elaborazione a partire da Duccio: il polittico. Il M. ne dovette eseguire circa una decina, alcuni scomparsi, altri ricostruiti, non sempre con facilità e unanimità, dalla critica, altri ancora visibili nella loro quasi interezza. Il più antico sembra essere il pentittico eseguito per la chiesa di S. Agostino a San Gimignano che con buona probabilità doveva trovarsi al di sotto della tomba del beato Bartolo realizzata nel 1317 da Tino di Camaino (Kreytenberg, pp. 21-24). Il polittico doveva essere stato composto, secondo la ricostruzione più accettabile e confermata dagli esami derivati dal restauro (Gordon, p. 771), da pannelli laterali ora smembrati – un S. Michele Arcangelo, un S. Agostino, un S. Gimignano (Cambridge, Fitzwilliam Museum) e una S. Caterina (Firenze, collezione privata) – e dal pannello centrale con la Madonna col Bambino (Colonia, Wallraf-Richartz Museum). Oltre alla forma ancora severa della carpenteria, anche le figure degli angeli nelle cuspidi e i tratti somatici dei santi mostrano, nel loro sostanziale ricordo di Duccio, l’appartenenza dell’opera a una fase ancora molto prossima alla Maestà; tuttavia nella Madonna e ancor più nel Bambino, coperto da un disinvolto panneggio, si coglie senza difficoltà lo svolgimento più raffinato e sinuoso che le ricerche del M. avevano preso proprio negli anni finali del secondo decennio del secolo. Ricerche, che in un certo senso culminarono nel polittico firmato eseguito per l’importante convento domenicano di S. Caterina a Pisa (Pisa, Museo nazionale di S. Matteo), vera macchina da altare composta da sette pannelli ognuno dei quali reca, sopra la figura principale, altre due figure più piccole sormontate a loro volta da una cuspide, mentre nella predella si snoda una teoria di santi ai lati del centrale Cristo in Pietà.

L’opera è legata a una serie di fonti e documenti che la datano con precisione a un anno, il 1320, e a un committente, il priore Tommaso da Prato (Cannon, pp. 69-74) nel periodo cruciale per l’Ordine, che sarebbe culminato con la canonizzazione di Tommaso nel 1323, ma nel polittico già raffigurato con l’aureola. Ancora una volta il M. dispiega tutte le sue capacità per rendere rutilante e fastoso un preciso e dettagliato programma iconografico, in questo caso celebrativo dell’Ordine domenicano; si potrebbe definire quest’opera come l’esaltazione della parola scritta: le tavole di Mosè, i cartigli, le lettere di s. Paolo, i libri aperti, chiusi, segnati da un dito costituiscono un visibile filo interpretativo che riluce in una ricerca cromatica infinita e preziosissima.

Sempre al M. sono stati attribuiti i cartoni per i mosaici delle conche absidali del duomo di Pisa, Annunciazione e Assunzione della Vergine (Bellosi, 1992, pp. 15-23), realizzati durante un più che probabile soggiorno pisano, il quale dovette avere luogo tra il 1315 e il 1318. In questi anni il M. dovette però risiedere sostanzialmente a Siena, dov’è attestato come fideiussore del proprio «terzo» (Pierini, p. 246) e dove avviò una bottega con Lippo e Tederigo Memmi, figli di Memmo di Filippuccio, già attivi nella bottega paterna. La critica non è ancora riuscita a sciogliere in modo soddisfacente il nodo non solo relativo al rapporto di collaborazione fra i tre pittori, ma anche quello dell’eventuale confluenza di una bottega nell’altra, fatti che però dovettero di certo verificarsi (Polzer, 1981, pp. 579 s.; Leone de Castris, 2003, pp. 172-188). I rapporti dovettero divenire ancora più stringenti quando nell’autunno del 1324 le due famiglie si unirono con il matrimonio fra il M. e Giovanna, altra figlia di Memmo di Filippuccio (Pierini, p. 247).

Al 1321 risalgono i documenti senesi relativi al cospicuo pagamento effettuato al M. e ai suoi aiutanti per il parziale rifacimento della Maestà (Bagnoli, 1999, pp. 85-88). Nello stesso anno i Nove, evidentemente soddisfatti per il lavoro che stava svolgendo, commissionarono al M. un Crocifisso (perduto) per la loro cappella privata, probabilmente a fresco, quindi non identificabile nel Crocifisso conservato a San Casciano Val di Pesa (S. Maria sul Prato) delicato, patetico e totalmente aggiornato sull’iconografia giottesca (De Nicola, 1916). Nel 1323 gli furono commissionati un affresco per la loggia di palazzo pubblico e un S. Cristoforo con lo stemma del podestà per la sala della Biccherna (Pierini, p. 47).

A partire dal terzo decennio del secolo il M. eseguì tre polittici per Orvieto, città posta sotto l’influenza, non solo artistica, di Siena; secondo la critica furono tutti conclusi entro il 1326.

Databile attorno al 1321, per vicinanza stilistica con opere di chiara derivazione duccesca, la prima opera orvietana potrebbe essere un polittico, oggi conservato a Boston (Isabella Stewart Gardner Museum), proveniente dalla chiesa servita della città (Fredericksen, pp. 592-597). Intorno al 1323 dovette essere realizzato il polittico per S. Domenico (Orvieto, Museo dell’Opera del duomo), che presenta una data mutila, che rimanda ai primi decenni del secolo. Il terzo polittico, solo in parte conservato, è smembrato tra diversi musei: la Madonna col Bambino a Orvieto (Museo dell’Opera del duomo), una S. Caterina a Ottawa (National Gallery of Canada) e quattro piccoli tondi con Profeti ad Avignone (Musée du Petit-Palais: Martindale, pp. 29-31). A questo torno di tempo risale un piccolo, prezioso polittico dall’inusuale forma rettangolare, forse un altarolo portatile, smembrato tra vari musei: Madonna col Bambino, s. Ansano, s. Andrea (New York, Metropolitan Museum, Collezione Lehman); S. Pietro (Madrid, Museo de arte Thyssen-Bornemisza); S. Luca (Malibu, CA, J.P. Getty Museum), forse riferibile a un documento del 1326 relativo a un’opera fatta per il capitano del Popolo (Boskovits, 1974, pp. 373 s.; Christiansen).

Intorno al terzo decennio del secolo il rapporto tra il Comune e gli Ordini mendicanti presenti a Siena divenne molto saldo; e i Nove sostennero la creazione e l’esaltazione di santi e beati originari della città o del contado. Nacque forse così, intorno al 1324, la committenza per la pala del Beato Agostino Novello, figlio di padre senese, ma nato in Sicilia e soltanto morto a Siena.

La pala, a seguito di accese polemiche attributive, fu riportata all’attenzione della critica da Carli (1943) e fu poi oggetto di attenta rivalutazione in particolare per l’abilità del M. nel coniugare un’elevata capacità narrativa nel presentare fatti noti a tutta la cittadinanza (Seidel, 1988), con un naturalismo elegante, molto ricercato e tuttavia di piana lettura.

Nel 1327, quando Carlo d’Angiò duca di Calabria giunse a Siena con la moglie di ritorno da Firenze, il Comune fece dono alla coppia di due stendardi di grandi dimensioni dipinti dal M. che furono pagati una ingente somma (Pierini, p. 248). Al seguito del duca di Calabria, o subito dopo, giunse a Siena Filippo di Sangineto (Fuda), alto dignitario della corte angioina, che dovette commissionare al pittore una tavola con S. Ladislao (Altomonte, Museo di S. Maria della Consolazione: Polzer, 1980).

È datato 1330 il famoso e disputato affresco con Guidoriccio da Fogliano, realizzato nella sala del Mappamondo del palazzo pubblico di Siena.

Capitano di ventura al servizio di Siena, cui si deve tra l’altro l’assedio della rocca di Montemassi nel 1328, raffigurato nell’affresco del M. (Cronaca maggiore…, p. 496), Guidoriccio aveva riportato una serie di vittorie in terra toscana aumentando con castelli e indennizzi i beni del Comune. L’usanza di riprodurre a futura memoria castelli conquistati all’interno del palazzo pubblico è attestata non solo da resti di affreschi ancora visibili nella stessa sala del Mappamondo, ma anche da documenti dei primi anni del XIV secolo. Due pagamenti in particolare riguardano direttamente il M.: il primo, del 1330, è relativo alla realizzazione di vedute dei castelli, Montemassi e Sassoforte; il secondo, del 1331, venne corrisposto per una ricognizione in loco di altri tre castelli che si sarebbero dovuti dipingere nel modo più riconoscibile possibile (Seidel, 1982). Fatta eccezione per la parte in alto a sinistra, frutto di un successivo restauro, l’affresco del M. mostra tutti i segni dello stile e delle tecniche martiniani: dall’uso della foglia di stagno dorato per conferire sericità ai tessuti, all’utilizzo di punzoni per trasformare le superfici, al naturalismo attento nella rappresentazione del paesaggio, alla grande capacità ritrattistica evidente nella raffigurazione del condottiero. Tuttavia l’opera è stata posta al centro di un’accalorata disputa di disconoscimento di paternità (Moran - Mallory, 2000) che non si è del tutto risolta.

Tra il 1330 e il 1333 lavorò a un altro importante incarico: l’esecuzione del trittico per il primo dei quattro altari laterali del duomo senese dedicati ai santi protettori della città, che il M. firmò insieme con Lippo Memmi datandolo 1333.

Il dipinto (Firenze, Galleria degli Uffizi) ha al centro la celebre Annunciazione e nei due laterali S. Ansano e forse S. Margherita. Sono molti i documenti conservati preso l’Archivio dell’Opera del duomo relativi a questo dipinto che descrivono un lavoro lungo, impegnativo e minuziosamente curato dagli autori fin nel più piccolo particolare di doratura per l’importantissima carpenteria (Marcucci, p. 149; Pierini, p. 250). Con questa tavola il M. riepiloga il suo percorso figurativo creando un doppio registro stilistico in cui la ricerca mimetica si concentra intorno agli oggetti e ai particolari, lasciando che le figure e gli spazi assumano un segno invece tutto mentale. Nonostante questa sia l’opera che si considera una sorta di congedo del M. da Siena, in quegli anni egli continuò il suo lavoro per la città decorando, con opere oggi perdute, ma a lungo rimaste esemplari nella cultura cittadina e più volte ricordate da eruditi locali, due porte di città e compiendo con Pietro e Ambrogio Lorenzetti i celebri affreschi perduti con le Storie di Maria per la facciata dell’ospedale di S. Maria della Scala che avrebbero codificato l’iconografia mariana per un lungo tratto dell’arte senese (Leone de Castris, 2003, pp. 286-291).

Dibattuta è la datazione dell’altarolo Orsini, oggi smembrato (Angelo annunciante, Annunciata, Crocifissione, Deposizione dalla Croce: Anversa, Museo delle belle arti; Andata al Calvario: Parigi, Musée du Louvre; Seppellimento di Cristo: Berlino, Gemäldegalerie), che per la maggior parte degli studiosi è da riferire già al periodo avignonese avendo come committente il cardinale Napoleone Orsini. Tuttavia il forte clima di pathos dell’opera se da un lato si allaccia alle propensioni religiose del committente, dall’altro stilisticamente sembra essere più vicino a una fase ancora tutta senese dell’artista lasciando così aperti ancora troppi interrogativi perché possa risolversi l’opera entro la fine della carriera del M. (Pierini, pp. 212-227).

Benché la presenza del M. ad Avignone abbia lasciato fondamentali conseguenze nell’arte europea per molti decenni, sono rimaste pochissime opere del periodo e il silenzio dei documenti. Egli dovette essere già nella sede della Curia intorno al 1336, forse al seguito proprio del cardinale Orsini e dei suoi familiares attestati a Siena ancora alla fine del 1335. La città francese viveva i fermenti internazionali della cultura di corte, ma non sembra che il M. abbia mai ottenuto committenze papali, rimanendo sempre entro un circuito interno al gruppo dei cardinali italiani. Anche F. Petrarca, l’amico del periodo francese che gli commissionò i ritratti di Laura e il frontespizio delle sue opere virgiliane (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambrosiano, A.79 inf.: Vergilius cum notis Petrarcae) e che gli dedicò due sonetti (Petrarca, p. 124), era cappellano di Giovanni Colonna, uno dei più autorevoli rappresentanti italiani presso la Curia papale.

I ritratti di Laura, come indica Petrarca stesso, dovettero essere miniature e furono tra le prime opere che il M. eseguì in quel periodo. L’elaborazione del ritratto come genere è dovuta proprio alla fase avignonese del M. che sempre si era cimentato nella rappresentazione veridica del volto umano: notissimo dovette essere, ma perduto, il ritratto del vecchio cardinale Orsini da lui compiuto tra la fine del 1341 e l’inizio del 1342, anno di morte del cardinale e di cui Petrarca fornisce un’attenta descrizione (Brink, Francesco Petrarca…, 1977, pp. 6 s.). Nel 1338 il letterato aretino tornò in possesso del codice virgiliano che gli era stato trafugato e decise allora di impreziosirlo commissionando all’amico il frontespizio; ma non si può stabilire se questo desiderio fu subito messo in opera o il lavoro fu compiuto più tardi (Id., S. M.…, 1977). L’opera, famosissima, presenta un impianto iconografico di levatura ormai umanistica e un dispiegarsi di capacità tecnica che è la vera firma dell’autore: la pellicola pittorica varia di spessore utilizzando anche la cromia della pergamena, il fondo è approntato con tinte diverse e sono utilizzati al pari penna, acquerello e tempera (Tosatti).

A quanto è dato sapere l’opera principale realizzata dal M. per la città di Avignone dovette essere la decorazione dell’atrio della cattedrale di Notre-Dame-des-Dômes. Gli affreschi rimasti, oggi staccati, sono in deposito presso il Musée du Palais des Papes: il Redentore benedicente del timpano del portale, Angeli in volo dei pennacchi, la Madonna dell’Umiltà della lunetta sottostante, che è anche il prototipo di questa rappresentazione iconografica (Meiss, pp. 207-245). Su una delle due pareti d’ingresso doveva trovarsi un S. Giorgio e il drago, noto attraverso un anonimo disegno del XVII secolo (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 4426), e che dovette godere di enorme fortuna.

Gli affreschi, ormai rovinatissimi, furono staccati tra il 1960 e il 1963; e fu allora che emersero le magnifiche sinopie e gli studi preparatori che risultarono essere di straordinario interesse non solo in relazione all’arte del M., ma a tutta la pittura a fresco del periodo (Enaud; Castelnuovo, pp. 177-187). Il committente di quegli affreschi risultò essere, dopo l’attento esame degli stemmi ritrovati accanto a una iscrizione, Iacopo Stefaneschi, già committente di Giotto (De Nicola, p. 339).

Fra le ultime opere del M. si ricorda una piccola Sacra Famiglia (Liverpool, Walker Art Gallery) eseguita ad Avignone nel 1342, come attestano data e firma apposte sulla tavola (Denny). Quest’opera va stilisticamente associata a una piccola Annunciazione smembrata tra Washington (National Gallery of art: S. Gabriele) e San Pietroburgo (Ermitage: Vergine) che davvero sembra un prezioso oggetto di oreficeria essendo l’oro della tavola tutto lavorato a «sgraffito» e a punzone. Le linee sinuosissime di queste due opere non nascondono un’attenta indagine psicologica nella narrazione dell’evento e nell’introspezione dei personaggi.

Se nel maggio del 1344 il M. era ancora vivo, facendosi tramite di un pagamento dell’ospedale di S. Maria della Scala alla Curia, il 30 giugno egli risulta morto poiché la Gabella di Siena registra le disposizioni testamentarie (Pierini, p. 251).

Ad Avignone il M. dovette lasciare una bottega che, forse diretta dal più giovane fratello Donato, avrebbe continuato a offrire alla committenza prodotti di alta qualità; Siena dovette invece risentire dell’assenza del M., benché i fratelli Lorenzetti indirizzassero la pittura verso altre innovative ricerche. Importanti dovettero essere i tributi offerti alla memoria del M. dalla sua città e la sua vedova dovette continuare a godere a lungo degli onori ricordando nel 1347 il marito con la donazione alla chiesa di S. Domenico di un calice e di un messale, prezioso atto di omaggio a un Ordine che era stato uno dei committenti più fedeli dell’arte del «civico» Martini.

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