SINDACALISMO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

SINDACALISMO

Bruno Ugolini

(XXXI, p. 830; App. II, II, p. 831; III, II, p. 747; IV, III, p. 333)

Il movimento sindacale italiano, nelle sue espressioni maggiormente rappresentative (CGIL, CISL e UIL), ha conosciuto negli anni Ottanta, dopo i tumultuosi successi degli anni Settanta, una fase di riflessione, di declino, di riassestamento, per poi porre, negli anni Novanta, le premesse di un rilancio. Gli anni Ottanta, in particolare, hanno coinciso con grandi processi di ristrutturazione produttiva che hanno investito i principali gruppi industriali del paese e hanno accompagnato una significativa frammentazione del mercato del lavoro. I sindacati sono stati protagonisti di un assai difficile e tormentato passaggio da un ruolo di conquista di poteri e diritti nei luoghi di lavoro a un ruolo di ''soggetto politico'', promotore di grandi accordi nazionali concordati con governi e associazioni imprenditoriali. L'ambizione ad assumere tale accresciuto ruolo ha comportato un venir meno dell'iniziativa sindacale sui temi dell'organizzazione del lavoro e, sovente, un allentamento dei rapporti con il mondo del lavoro in senso lato. Ha pesato nel percorso intrapreso da CGIL, CISL e UIL anche la difficoltà a difendere la propria autonomia dall'ingerenza delle forze politiche di governo e di opposizione.

La data di nascita del sindacato ''soggetto politico'' può essere fatta risalire al marzo 1978, quando si svolse a Roma, in una sala dell'Eur, un'assemblea di delegati e dirigenti delle tre Confederazioni, aperta da una relazione di L. Macario, segretario generale della CISL. Tale assemblea varò una scelta − battezzata poi ''politica dell'Eur'' − fondata sull'accettazione della moderazione salariale in cambio di una nuova politica economica governativa.

Tale scelta (103 astenuti e 12 voti contrari su 1457 delegati) venne contrastata e interpretata anche in modo contrapposto. Infatti da molti dirigenti fu equiparata a una ''politica dei sacrifici'', offerta dal mondo del lavoro anche per agevolare l'avvicinamento dell'allora Partito comunista all'area di governo; per altri invece essa rappresentava una consapevole scelta di austerità finalizzata a profonde trasformazioni sociali. Un colpo a questo disegno sindacale venne, comunque, pochi giorni dopo quella stessa riunione all'Eur, dalla tragica strage di via Fani, con il rapimento di A. Moro e il suo assassinio, circa due mesi dopo. I sindacati, rispetto al fenomeno del terrorismo delle Brigate Rosse, assunsero un atteggiamento di maggior chiarezza e fermezza, anche nei luoghi di lavoro, soprattutto dopo lo shock derivato dall'assassinio, a opera dello stesso gruppo terroristico, del delegato sindacale all'Italsider di Genova, G. Rossa (24 gennaio 1979). Il terrorismo si mescolava tuttavia in qualche modo alle tensioni sociali dell'epoca, tanto da far compiere a qualche osservatore un'insostenibile equazione tra impegno sindacale e ricorso alle armi da parte di gruppi di estremisti.

L'avvio del declino sindacale si ebbe con lo sciopero dei 35 giorni alla FIAT nell'autunno 1980: la FIAT annunciò di voler procedere a 15.000 licenziamenti e i sindacati dei metalmeccanici − riuniti allora in un organismo unitario, la Federazione nazionale metalmeccanici − proclamarono uno sciopero a oltranza, giungendo a minacciare l'occupazione delle fabbriche automobilistiche. Le adesioni all'iniziativa sindacale, protrattasi appunto per 35 giorni, via via scemarono, fino a che non ebbe luogo una marcia (con il sostegno ufficioso della direzione della stessa FIAT) di molte migliaia di impiegati e capi-officina che chiedevano la ripresa del lavoro. Questa, che fu detta la ''marcia dei quarantamila'', agì come elemento di pressione sugli stessi vertici sindacali confederali, tanto che le trattative vennero precipitosamente concluse con un accordo che sanciva la cassa integrazione per 24.000 lavoratori. Le assemblee chiamate a discutere l'intesa mostrarono chiaramente che essa era vissuta come una sconfitta storica. La vertenza FIAT determinò un'assai ampia discussione sugli errori commessi: l'esaurirsi di un autonomo progetto sindacale a fronte della crisi industriale; la scarsa percezione dei problemi reali della crisi stessa; l'adozione di forme di lotta insostenibili nei tempi lunghi; la debole rappresentatività dei sindacati nei confronti di settori di lavoratori (i ''colletti bianchi'') emergenti rispetto all'operaio-massa, considerato ormai come una figura in estinzione; la disattenzione nei confronti di fenomeni ''collaborativi'' e non solo ''antagonistici'' tra gli stessi strati operai, come aveva indicato un'indagine del CESPE (un istituto di studi di emanazione comunista).

Iniziò così, per il movimento sindacale, una fase di discussioni, anche aspre, sulle strategie da seguire. La CISL di P. Carniti tentò di far valere una propria egemonia culturale: erano sue − o comunque apparivano sue − le proposte di un ''fondo di solidarietà'' (concordato in un primo tempo anche con la CGIL) per agevolare gli investimenti nel Mezzogiorno, e quelle di dare vita a un grande ''scambio politico'' tra sindacati, governo e imprenditori. Tale scambio avrebbe dovuto riguardare da una parte la crescita dell'occupazione e la riduzione degli orari ("lavorare meno, lavorare tutti"), dall'altra la riduzione del peso delle indicizzazioni salariali (scala mobile) viste anche come fattore inflazionistico. I tentativi della CGIL portati avanti dal segretario generale L. Lama col contributo del segretario confederale B. Trentin, come quelli tesi a introdurre nelle fabbriche ''piani di impresa'', per avviare una codeterminazione aziendale, o come quelli rivolti a dare vita a una vera e propria riforma del salario, finirono con il cadere nel vuoto. La UIL di G. Benvenuto, dal canto suo, assumeva un ruolo di cerniera, caratterizzandosi, soprattutto, per la strategia denominata ''il sindacato dei cittadini'': un sindacato chiamato, in sostanza, a difendere gli interessi dei lavoratori non solo nelle fabbriche e negli uffici, ma anche di fronte alle diverse difficoltà della vita quotidiana, per es. in rapporto ai servizi pubblici o al fisco.

Ebbe inizio in quegli anni una lunga sequela di guerre e guerricciole attorno alla scala mobile, vista da molti imprenditori come una specie di totem, sepolto il quale si sarebbero risolti tutti i mali dell'economia o, perlomeno, si sarebbe abbassato di gran lunga il costo del lavoro, nonché allentata la corsa inflazionistica. Nei sindacati, con eguale e contrapposta determinazione, molti dirigenti (soprattutto nella CGIL sostenuti da un'agguerrita base) erano uniti attorno allo slogan "la scala mobile non si tocca", finendo col dare a quell'istituto salariale lo stesso valore simbolico di unico baluardo della difesa dei livelli salariali. Eppure proprio la scala mobile, da un'altra consistente parte del mondo sindacale, era considerata un nocivo fattore di appiattimento salariale e un ostacolo allo stesso rinnovamento della rappresentanza dei sindacati, bisognosa, dunque, di una radicale riforma.

La prima mossa sulla scala mobile fu eseguita, comunque, il 9 gennaio 1980, dalla Confindustria, che richiese un intervento specifico sul meccanismo, onde attenuarne gli effetti. Le diverse proposte di CGIL, CISL e UIL non riuscirono a definire, come testimoniò nel marzo 1981 un convegno dei tre sindacati a Montecatini, una strategia. La CISL di Carniti lanciò una proposta di predeterminazione − con possibile risarcimento salariale a fine anno − dei punti di scala mobile (la proposta era stata elaborata dall'economista E. Tarantelli, in seguito ucciso in un attentato delle Brigate Rosse). In quei mesi l'inflazione, sotto il governo Spadolini, raggiungeva quota 21%, e la pressione per un controllo dei salari era molto forte. La CGIL alla fine si dichiarò disposta ad accettare un contenimento dei punti di scala mobile sotto il tetto del 16%, ma tale disponibilità non fu considerata sufficiente e la Confindustria, presieduta da V. Merloni, nel giugno 1982 passò direttamente alla disdetta dell'accordo relativo al meccanismo di protezione dei salari dal carovita.

Intanto si facevano sempre più fitte le polemiche tra la maggioranza della CGIL (ove la corrente socialista cercava di assumere una linea di mediazione) da una parte e CISL e UIL dall'altra. Lo stesso Partito comunista non lesinava le sue critiche alle scelte di dirigenti sindacali di area socialista o democratico-cristiana, accusati di vedere solo nel costo del lavoro il fattore determinante dell'inflazione. Quella della sinistra appariva una posizione difensiva incapace di tradursi in posizione propositiva e unitaria. Le polemiche trovavano un'eco sulle piazze con i fischi a Benvenuto (marzo 1982 a Roma) e ad A. Marianetti, il vicesegretario della CGIL (gennaio 1983 a Bologna). Erano le prime avvisaglie di una serie di contestazioni più o meno vivaci.

Il 1983 fu l'anno del primo grande maxi-accordo triangolare, con la regia del ministro del Lavoro V. Scotti (governo Fanfani). L'intesa, siglata nella notte del 22 gennaio, prevedeva una riduzione del 15% della scala mobile, una riduzione di 40 ore scaglionate degli orari di lavoro, una riduzione della pressione fiscale, un impegno a controllare le tariffe. L'accordo era il primo esempio di ''concertazione'' tra parti sociali diverse e il governo, ma apriva una lunghissima disputa sia sulla sua applicazione (in relazione al pagamento o meno dei decimali di ogni punto di scala mobile) sia sulle sue conseguenze sul piano istituzionale (con accuse di neo-corporativismo e d'istituzionalizzazione dei sindacati). Ma questo era solo l'assaggio di polemiche ben più aspre. La scala mobile continuava infatti a essere il bersaglio preferito degli imprenditori e anche di numerosi economisti.

Sotto l'egida del primo governo a presidenza socialista in Italia, il governo Craxi, venne varato nel febbraio 1984, con l'accordo di CISL e UIL, il cosiddetto ''decreto di San Valentino'', che tagliava tre punti di scala mobile e per tre mesi bloccava prezzi e tariffe, nonché uno scatto dell'equo canone previsto per le case in affitto. La maggioranza della CGIL − composta da comunisti e dalla cosiddetta ''terza componente'', in gran parte allievi di V. Foa, uno dei padri del s. italiano − era contraria al decreto. La contrapposizione fu durissima e comportò il naufragio di quella Federazione CGIL-CISL-UIL che aveva cercato di supplire al fallimento dell'unità sindacale organica perseguita negli anni Settanta. Il 24 marzo 1984 ebbe luogo a Roma, per la prima volta nel dopoguerra, una manifestazione sindacale appoggiata dalla sola maggioranza (comunisti e terza componente) della CGIL, innescata dal cosiddetto ''movimento degli autoconvocati'', contro il decreto del governo Craxi. Tutti i tentativi successivamente messi in atto da diverse parti (CGIL compresa) per impedire che l'opposizione al decreto venisse tradotta, per volontà del PCI, in un referendum popolare, non ebbero esito. Il referendum si tenne il 9 giugno 1985; il 45,7% dei votanti si espresse per il sì e il 54% per il no. I rapporti tra CGIL da un lato e CISL-UIL dall'altro avevano nel frattempo sfiorato il rischio di una spaccatura verticale, anche a causa del proposito, attribuito a Carniti e a C. Martelli (PSI), di dar vita a una sorta di ''sindacato democratico'' escludendo i comunisti della CGIL. L'operazione non andò in porto anche per l'opposizione dei socialisti della CGIL stessa. Unico elemento positivo di questa fase può essere considerata la stipula (dicembre 1984) del cosiddetto ''protocollo IRI'', teso a stabilire nuovi diritti d'informazione per i sindacati nelle aziende e che costituì un passo avanti verso relazioni sindacali moderne. L'esito di quel referendum, favorevole al decreto Craxi, non fece che confermare le convinzioni della Confindustria. Il nuovo presidente, L. Lucchini, il 10 giugno 1985 fu protagonista della seconda disdetta dell'accordo sul meccanismo di contingenza.

Nel 1985 Carniti abbandonò la segreteria della CISL, lasciando il posto a un dirigente più ''politico'', F. Marini, che veniva affiancato dai vice E. Crea e M. Colombo (dell'area carnitiana). La gestione di Marini tese a temperare le spinte estreme delle teorie carnitiane sulla concertazione, sullo scambio politico e sulla stessa riduzione degli orari, facendo in qualche modo rientrare la CISL − pur mantenendo la tradizionale autonomia dell'organizzazione − in un alveo di collaborazione con la Democrazia cristiana e il mondo cattolico in generale. L'anno successivo ci fu un ricambio, anche nella CGIL, con le dimissioni di Lama, che da 15 anni era segretario generale (28 febbraio 1986). La scelta del successore cadde su A. Pizzinato, segretario della CGIL lombarda, ex operaio della Borletti di Milano. In quella fase in cui il movimento sindacale sembrava scosso da spinte disgregatrici, Pizzinato si espose in un generoso tentativo di ''rifondazione'' del proprio sindacato. La crisi sindacale era resa evidente dalla nascita dei COBAS, organismi di base, particolarmente attivi nel mondo della scuola, che rifiutavano l'adesione a una qualsiasi delle tre Confederazioni. In un altro settore, le ferrovie, i macchinisti, quasi tutti iscritti alla CGIL, diedero vita a una loro organizzazione separata. Altri fenomeni di dissociazione dal s. confederale vennero registrati in settori non dell'industria, ma dei servizi pubblici, come tra gli aeroportuali di Fiumicino, tra i portuali di Genova, tra gli ospedalieri. Questo intrecciarsi di tensioni sociali in gangli delicati dello stato rese necessari altresì prima un codice di autoregolamentazione degli scioperi nei pubblici servizi, poi una vera e propria legge.

La nascita di organismi para-sindacali come i COBAS, pur con le loro caratteristiche spesso corporative, aprì nel movimento sindacale una discussione sulla rappresentanza. Specie nella CGIL c'era chi insisteva sulla necessità di far partecipare anche questi organismi alle trattative, e a questa soluzione si giunse in alcuni casi, come in quello delle ferrovie, con i macchinisti. La contrapposizione, che si protrasse poi nel tempo, era in sostanza tra un modello di sindacato incentrato − secondo la concezione della CISL − sulla figura dell'iscritto, e un altro modello − quello CGIL − più attento all'insieme dei lavoratori: cioè si trattava della contrapposizione tra la democrazia di organizzazione (il potere degli iscritti protagonisti dei congressi, sedi deputate alle scelte strategiche e all'elezione dei gruppi dirigenti) e la democrazia di mandato (con un ruolo decisivo affidato ai lavoratori anche non iscritti, essendo gli iscritti una minoranza, sia nelle trattative, sia nell'approvazione di piattaforme e degli accordi).

Questo contrasto fece in qualche modo da sfondo, nel 1988, a un accordo separato concluso in una vertenza alla FIAT da CISL e UIL, senza la partecipazione della CGIL. Uno dei punti dell'accordo riguardava la possibilità di incrementi salariali collegati all'andamento degli utili di bilancio. L'introduzione di questa novità non piacque alla CGIL che comunque voleva promuovere una consultazione dei lavoratori interessati. La vicenda si protrasse per alcune settimane finché il 18 luglio la situazione non precipitò, con l'intesa separata. La CGIL venne accusata, in sostanza, d'irresolutezza, e il caso finì con l'aggravare una situazione interna molto delicata. La leadership di Pizzinato fu infatti posta in discussione. Il 29 novembre dello stesso anno venne eletto segretario generale B. Trentin, un leader carismatico chiamato a risollevare le sorti del principale sindacato italiano e a costruire un nuovo gruppo dirigente. Le idee di Trentin (sindacato dei diritti e della solidarietà) vennero esposte, dopo qualche mese, nella conferenza di programma di Chianciano (aprile 1989).

Gli anni Novanta furono gli anni dei grandi accordi di concertazione tra sindacati, imprenditori e i governi guidati prima da G. Amato e poi da C.A. Ciampi. Il 20 giugno 1990 la Confindustria ricorse nuovamente allo strumento della disdetta dell'accordo sulla scala mobile, rifiutando ogni ipotesi di rinnovo contrattuale se non collegata alla risoluzione del meccanismo che tutelava i salari dal carovita. Il 20 giugno 1991 veniva aperta la trattativa triangolare.

La CISL nel frattempo (23 marzo 1991) aveva registrato un mutamento ai vertici, con l'elezione a segretario generale di S. D'Antoni, affiancato da R. Morese, considerato dell'area carnitiana (mentre aveva preferito ritirarsi Crea, già candidato alla successione di Marini, e lo stesso Marini era stato scelto come ministro del Lavoro nell'ultimo governo Andreotti). Il segretario generale della UIL, Benvenuto, un anno dopo (18 febbraio 1992), lasciava il posto a P. Larizza quale leader della UIL, per diventare direttore generale al ministero delle Finanze, su sollecitazione del ministro R. Formica. La CGIL, nel frattempo, sotto la guida di Trentin, era riuscita, col congresso di Rimini del 23 ottobre 1991, a mantenere la propria unità attorno a un ''programma fondamentale'', malgrado le ripercussioni suscitate al suo interno dalla trasformazione del PCI in PDS e dalla nascita di Rifondazione comunista. Le mozioni finali di quel congresso avevano delineato però una maggioranza (84%) e una minoranza, raccolta attorno a F. Bertinotti, la corrente ''Essere sindacato''. Il consolidamento delle diverse realtà sindacali italiane e una loro certa normalizzazione avevano avuto anche prestigiose proiezioni a livello internazionale, con l'elezione di un italiano, E. Friso, alla carica di segretario generale della CISL internazionale (dove era confluita anche la CGIL) nel congresso svoltosi a Caracas il 24 marzo 1992. La stessa cosa avveniva a Bruxelles con l'elezione di E. Gabaglio a segretario generale della Confederazione europea dei sindacati.

La maxi-trattativa, aperta il 20 giugno 1991, aveva una prima conclusione transitoria il 10 dicembre 1991. L'accordo vero e proprio, fonte di durissime polemiche, venne siglato però il 31 luglio 1992, con la regia del governo presieduto dal socialista Amato: l'intesa prevedeva la rinuncia alla scala mobile e il rinvio a un nuovo sistema contrattuale per la difesa dei salari, il controllo dei prezzi e delle tariffe, il blocco degli aspetti retributivi della contrattazione aziendale e 20.000 lire mensili una tantum ai lavoratori dipendenti.

Questa conclusione, conseguenza anche delle divisioni fra sindacati in materia di scala mobile, aprì aspre tensioni nella CGIL, e Trentin, subito dopo aver firmato l'accordo, annunciò le proprie dimissioni. L'assenso del principale sindacato italiano era stato dato in considerazione delle gravi condizioni economiche del paese (la recessione, la fragilità della lira sui mercati internazionali), ma rimanevano i dissensi sui contenuti dell'accordo stesso, sul quale era stato impossibile procedere a una consultazione dei lavoratori interessati; gli stessi organismi dirigenti della CGIL non avevano conferito un mandato a firmare quelle condizioni. I problemi della CGIL derivavano, inoltre, dalla mancata compattezza del gruppo dirigente, in cui, malgrado l'annunciato scioglimento delle correnti, permaneva una dialettica spesso di tipo partitico. Una lunga discussione fra gli organismi dirigenti, dedicata anche alla necessità di sconfiggere il ''male oscuro'' delle correnti, portava poi Trentin a ritirare le dimissioni, ma, a testimonianza dello stato d'animo di alcuni settori della base sindacale, il successivo 22 settembre, nel corso di una manifestazione a Firenze, egli fu duramente contestato con il lancio di bulloni. La stessa cosa capitava a D'Antoni a Milano. I fenomeni di piazza trovavano una traduzione organizzativa nella nascita del movimento dei cosiddetti ''consigli autoconvocati'' promossi dal consiglio unitario di fabbrica del Corriere della Sera (poi allargatisi ad altre aree produttive), appoggiati, in una prima fase, dalla maggioranza della CGIL, ma visti con grande ostilità da CISL e UIL, che li giudicavano solo espressione del massimalismo comunista.

Un passo importante compiuto dai sindacati in quel periodo, anche per contrastare ogni possibile contaminazione con lo scandalo cosiddetto di ''Tangentopoli'', fu la decisione di far uscire i rappresentanti sindacali dai consigli di amministrazione degli enti previdenziali ENPDEP, ENPDEL, INADEL, come premessa all'uscita da altri numerosi enti pubblici. Questa scelta fu poi discussa nei congressi di CISL e UIL svoltisi nel 1993, che furono però dominati, in larga misura, dai temi relativi all'obiettivo dell'unità sindacale organica. Una proposta di fusione delle tre centrali sindacali, avanzata da D'Antoni, aveva trovato un'eco assai debole nella UIL. Il segretario Larizza aveva infatti preferito individuare, come premessa all'unità sindacale, la possibilità di assegnare al sindacato un ruolo promotore dell'aggregazione tra le forze politiche riformiste (socialisti, Alleanza democratica, repubblicani, ecc.). La CGIL, con Trentin (nella conferenza di organizzazione del 9 novembre) aveva delineato, a sua volta, alcune condizioni precise, atte a costruire una vera unità sindacale organica. La prima di queste riguardava la necessità di rendere gli stessi lavoratori iscritti protagonisti della costruzione del nuovo sindacato unitario.

Il 1993 fu anche l'anno del secondo grande accordo triangolare tra sindacati, imprenditori e il governo presieduto questa volta da Ciampi. L'intesa venne raggiunta il 3 luglio, ma la firma venne apposta solo il 23 luglio, questa volta dopo una consultazione tra i lavoratori, che registrò il 67,21% di voti favorevoli, il 26,71% contrari, il 6,02% astenuti. Tra i punti principali dell'accordo c'era la definizione di un nuovo sistema contrattuale (per supplire all'assenza di scala mobile), la possibilità di eleggere rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro e una serie di impegni di politica economica (in particolare sul tema dell'occupazione e della formazione).

Il 1993 era stato infatti contrassegnato da grandi lotte sindacali sull'emergenza-occupazione (alcune con risvolti drammatici, come all'Enichem di Crotone) e da un'aspra vertenza con la FIAT che aveva visto emergere un comportamento differenziato da parte della CGIL, giunta fino al punto di far saltare le trattative per ottenere ulteriori garanzie produttive. La stessa CGIL, nel frattempo, andava incontro a nuovi mutamenti nei gruppi dirigenti: il leader della corrente di minoranza, Bertinotti, il 13 gennaio 1994 annunciava le proprie dimissioni in vista dell'elezione a segretario di Rifondazione comunista; O. Del Turco, segretario generale aggiunto della CGIL, aveva lasciato nel frattempo il sindacato (sostituito da G. Epifani) per andare a occupare la carica di segretario del PSI. Trentin, infine, il 29 giugno passava la mano a S. Cofferati, la cui candidatura era stata votata a maggioranza da una consultazione interna. Trentin lasciava una CGIL più unita, con una strategia rinnovata, ma anche in una situazione politico-economica delicata.

La vittoria alle elezioni politiche (27-28 marzo 1994) di uno schieramento di centro-destra, capeggiato da S. Berlusconi, aveva infatti aperto anche nei sindacati alcune differenziazioni, con una CISL e una UIL più disponibili al dialogo. La svolta politica vedeva anche riemergere il s. autonomo, mentre si apriva un nuovo spazio per la CISNAL, tradizionalmente vicina al MSI (entrato nel 1994 al governo nelle file di Alleanza nazionale), fenomeno che spingeva le tre confederazioni tradizionali (con qualche perplessità da parte della UIL) ad annunciare una prossima fase costituente per l'unità sindacale organica.

Bibl.: G.A. Bianchi, Storia dei sindacati in Italia, Roma 1984; M. Mascini, M. Ricci, La via del consenso, ivi 1984; Id., La grande sfida, ivi 1985; Id., Lo scambio alla prova, ivi 1985; Id., La cruna del referendum, ivi 1987; Id., Dai decimali ai Cobas, ivi 1988; R. Filippini, Fiat: l'accordo della discordia, Milano 1988; M. Mascini, M. Ricci, Lavori in corso, Roma 1991; A. Accornero, La parabola del sindacato, Bologna 1992; S. Turone, Storia del sindacato in Italia, Roma-Bari 1992; R. Mania, A. Orioli, L'accordo di San Tommaso, ivi 1993; B. Trentin, Lavoro e libertà nell'Italia che cambia, ivi 1994.

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