Sindacato

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

Sindacato

Gino Giugni

Introduzione

Sindacato e sindacalismo sono essenzialmente un prodotto della storia. Nessuna definizione basata sulla conoscenza a priori potrebbe spiegare le ragioni per cui un'aggregazione coalizzante di interessi economici ha potuto acquistare un'identità specifica e differenziale e acquisire un senso linguistico riconosciuto e riconoscibile. L'autotutela di soggetti attivi nei ruoli socioeconomici, in effetti, è fenomeno non ignoto neppure nell'antichità. E, come è ben risaputo, le organizzazioni dei produttori conobbero una fase altamente evoluta nel basso Medioevo, fino a costituire una delle strutture portanti nelle attività industriali e commerciali. Esse tuttavia non assunsero mai la designazione di 'sindacati', anche se dal punto di vista linguistico portarono il segno di esperienze affini. Questo può dirsi per le Trade Unions delle origini (v. Commons e altri, 1918), associazioni di artigiani via via evolutesi in unioni di mestiere, per i syndicats (termine che in origine indicava l'assistenza in giudizio, e successivamente si estende al gruppo di interessi organizzati: v. Reynaud, 1975), per le Gewerkschaften, per i gremios come in America Latina vengono spesso indicati i sindacati. Pur nella varietà dei termini - che in fondo, in misura superiore, si riflette anche nell'uso di una parola analoga come 'sciopero' e di quelle equivalenti, ancor più segnate da origini autoctone - l'omogeneità dei designati non è altro che il riflesso di un fenomeno che, anche se con sfasature temporali, si afferma e si consolida quasi dovunque dalla seconda metà del XIX secolo.

È il dato storico, pertanto, che attribuisce a questa varia terminologia un significato omogeneo. Ma il dato storico di riferimento altro non è a sua volta che l'esperienza del lavoro operaio e, solo più tardi, quella degli impiegati o 'colletti bianchi', fino a comprendere tutta l'area del lavoro dipendente o subordinato. Diversamente, l'aggregazione sociale degli imprenditori - e a fianco a essa, ma in molti casi prima di essa, quella del lavoro autonomo, self-employed e privo di collaboratori subordinati - segue linee di sviluppo diverse, che talora trovano il referente nel termine 'sindacale', mentre altre volte si identificano in modi diversi e volutamente inconfondibili (associazioni di imprenditori, patronats e così via).

Nel linguaggio del diritto del lavoro, anche internazionale, si afferma una designazione simmetrica, per la quale è sindacato la stessa controparte, e cioè l'organizzazione dei datori di lavoro: si veda, in proposito, oltre ai numerosi documenti internazionali, lo stesso art. 39 della Costituzione italiana.

Dal punto di osservazione prescelto emerge inoltre come il lavoro operaio, man mano che assume valore di massa, distinguendosi dal lavoro domestico, artigianale e di campagna, si identifichi soprattutto con quello risultante dalla concentrazione dei mezzi di produzione e del lavoro nella manifattura, e dalla conseguente formazione di una solidarietà di interessi percepiti come comuni. Il tutto, naturalmente, ha sullo sfondo il dato di origine, che è costituito dalla rivoluzione industriale. Ai margini di questo nucleo duro si formano a loro volta nuclei di solidarietà collettiva, portatori eventuali di analoghe capacità di antagonismo: sotto tale luce il sindacalismo del lavoro autonomo, ma soprattutto quello contadino, può assumere tratti imponenti.

L'antagonismo degli interessi appare così come l'humus che fertilizza l'esperienza del sindacato. A esso, per un uso linguistico ormai consolidato in vari ambienti di ricerca, si è convenuto di attribuire la designazione di 'conflitto industriale' (v. Dahrendorf, 1959), anche se e dove il conflitto sia stato preceduto da manifestazioni di analoga natura in altri settori, come in quello, più antico, dell'agricoltura, o sia seguito e fiorito in aree di sviluppo sindacale più recente, come quelle terziarie. L'antagonismo degli interessi organizzati rientra in vari capitoli delle scienze sociali: da quello dell'economia, dove il conflitto si polarizza sui rapporti di proprietà (Karl Marx), a quello della sociologia sotto la specie del conflitto di autorità (v. Dahrendorf, 1959), a quello del diritto, che ha visto la rigogliosa fioritura del diritto del lavoro (v. soprattutto Kahn-Freund, 1977).

Le origini

Prodotto dell'industrialismo, il fenomeno sindacale appare nello scenario storico in tempi diversi, pur se abbastanza ravvicinati. Le origini, non quelle remote o anticipatorie, bensì quelle segnate da indizi di significativa rilevanza, vengono normalmente individuate nei primi decenni del XIX secolo in Inghilterra, dove erano nettamente più avanzati lo sviluppo dell'industria organizzata in forma manifatturiera e quello, coevo, della classe operaia. Una delle conseguenze più visibili è data dallo stesso processo legislativo: già nel 1824 il Parlamento effettuò un primo, moderato intervento di liberalizzazione rispetto al preesistente apparato repressivo, con il Combination of workmen act (v. Wedderburn, 1986³). Seguirono nei vari paesi, anche se a ritmo più lento, altri interventi legislativi di graduale liberalizzazione. Agli inizi l'unionismo appare in genere fortemente intrecciato con forme di solidarismo mutualistico (v. Webb e Webb, 1897). In Italia l'unionismo decollò in un forte intreccio con il movimento cooperativo soprattutto di origine agricola: la fase di esplosione organizzativa che ebbe luogo nei due decenni antecedenti la grande guerra si svolse all'insegna del motto: Resistenza (cioè lotta rivendicativa), mutualità, cooperazione (v. Zangheri, 1997). Dal canto suo il movimento sindacale inglese, di cui è giocoforza far ulteriore menzione in ragione del primato detenuto per lungo tempo, tendeva già a consolidarsi nella seconda metà del XIX secolo, e a formare un fitto reticolo di contrattazione collettiva (v. Webb e Webb, 1897) che diventerà anzi una delle strutture portanti della democrazia britannica (v. Laski, 1950), anche se fortemente indebolita, a distanza di vari decenni, dall'avvento del lungo regime conservatore.

È all'inizio del XX secolo infine che, in contiguità di tempo con altri paesi tra i quali l'Italia, nasce il Trade Unions Congress, e cioè la confederazione generale, un modello che, pur nella varietà di sistemi, avrà una diffusione generale.Il decollo industriale è anche alla base della formazione del movimento sindacale nordamericano, sebbene appaia più tardivo (ne fa tuttavia menzione già Tocqueville) e si sviluppi tra enormi difficoltà ambientali: l'ostilità delle classi proprietarie, piccole e grandi, l'opposizione del ceto politico, la cultura della frontiera e la turbinosa mobilità sociale, la resistenza del sistema giuridico e del ceto giudiziario (v. Commons e altri, 1918). È solo con il New Deal e con la legislazione da esso introdotta (v. Barenberg, 1993), nonché con il decennio a esso successivo, che il sindacalismo americano acquisterà un ruolo anche politico di primissimo piano, che peraltro solo due decenni dopo avrebbe ceduto il passo a un clamoroso declino tuttora in atto.

Nei paesi eurocontinentali le vicende del sindacato appariranno alterne. La linea di sviluppo in atto in Italia, ma soprattutto in Germania sotto la spinta della socialdemocrazia, verrà spezzata dall'avvento delle dittature; ma nel periodo successivo in ambedue i paesi si avrà una lunga fase di prosperità, protrattasi fino a oggi. Il sindacalismo in Francia presenterà invece una ininterrotta continuità, sebbene a basso livello di potenza organizzativa e di influenza politica.

È nelle democrazie scandinave invece che si registra, a partire dagli anni della 'grande depressione', una dirompente crescita che si intreccerà in modo pressoché continuativo con una lunga stabilità politica e con una rapida formazione del Welfare State, avvenuta sotto la guida socialdemocratica. Tra i paesi ad alta industrializzazione appare notevole, dopo la seconda guerra mondiale e sotto l'influenza del New Deal, lo sviluppo del sindacato in Giappone, pur nel quadro di un orientamento culturale di tipo collaborativo nei confronti dell'impresa, e in ispecie di quella di grandi dimensioni. Un caso del tutto peculiare, fuori dal contesto dei paesi ad alta industrializzazione, è costituito dall'Argentina, dove, in circostanze politiche affatto particolari, si afferma un forte movimento sindacale, con caratteristiche 'protette' in sede politica e legislativa, ma comunque con un solido radicamento sociale.

3. I modelli di sindacalismo

Adottando ora una prospettiva strutturale sincronica, il sindacato ci appare costruito su tre modelli, di cui il secondo è il più ricorrente.

1. Il modello di antagonismo al sistema, il più frequente alle origini, oggi costretto in un'area molto ridotta in Europa, è ancora ricorrente nei paesi in via di sviluppo. L'orientamento teso ad accettare il sistema dell'economia capitalistica è già presente fin dalle origini nell'ambito americano e, nei comportamenti, in quello britannico, e in genere nei paesi ad alta industrializzazione, anche se associato con spinte ideali verso alternative di sistema. Lo stesso antagonismo ideale d'altronde si stempera via via in una prassi compositiva dominata dalla contrattazione, e, di pari passo, in un riformismo politico che conduce all'accettazione anche formale dell'economia di mercato. Un caso tipico, fino alla caduta del Muro di Berlino, fu quello della componente comunista del sindacalismo italiano, gradatamente ma pienamente inseritasi nella prassi compromissoria contrattuale, fino a immedesimarsi nei valori e nella dottrina relativi pur restando fedele, nei principî, all'obiettivo finale della 'fuoruscita dal capitalismo' (v. Proposta..., 1977).

Tale sdoppiamento dei fini, quelli immediati e quelli a lungo termine, emerge via via, ancorché in modo meno netto, nei movimenti sindacali che, come quello francese o quello spagnolo, appaiono più in sintonia con le vicende del comunismo internazionale. Ma se, più in generale, lo sdoppiamento dei fini si presenta allo stadio iniziale della storia dei movimenti sindacali di impronta socialdemocratica o confessionale, nella seconda metà del XX secolo l'area degli obiettivi finali appare sempre più ridotta a un ideale, oggetto di omaggio verbale e di funzioni rituali.Alla fine del secolo apparirebbe sufficiente uno sguardo agli Atti della Confederazione Internazionale dei Sindacati dei Lavoratori - un'associazione molto composita, e anche molto poco influente sui comportamenti nazionali - per rendersi conto del fatto che il crollo del comunismo ha sgomberato l'intero campo. Le sole eccezioni sono costituite dai pochi movimenti sindacali integrati nei regimi comunisti sopravvissuti. Al contrario, l'antagonismo si mantiene elevato, anche se ridotto allo stadio clandestino o quasi, dove il sistema economico è connivente con regimi politici autoritari: ed è quanto è avvenuto, specie negli anni settanta e ottanta, nelle dittature militari sudamericane, e avviene oggi nei rigogliosi regimi repressivi asiatici.

2. Nettamente prevalente è il modello conflittuale. Esso si esprime nella forma del conflitto di autorità (v. Dahrendorf, 1959), che può anche contenere, come parte rispetto alla totalità del fenomeno e della sua rappresentazione, la contestazione del sistema, anche se più verbale che reale. Il conflitto di autorità è profondamente radicato nell'esperienza relazionale della vita di lavoro. Esso può coinvolgere tutti i livelli: partendo dal basso, nelle sedi dove si svolgono anche le più elementari forme di vita di relazione da cui possono nascere forme capillari di resistenza, spontanea ovvero organizzata, fino ai vari livelli dell'organizzazione produttiva e, in estensione orizzontale, nelle comunità territoriali, fino alla sede statuale. Sotto tale aspetto potrà, in contraddizione solo apparente, porsi all'origine di forme di cogestione o concertazione, ciascuna al suo proprio livello, fondate peraltro sulla potenzialità, anche se non sull'attualità o effettività del conflitto.

3. Un terzo modello, ma forse e in prevalente misura, allo stato ipotetico, è quello partecipativo. Esso ha radici consolidate, ma quasi integralmente di origine ideologica, derivate da influenze confessionali. Inoltre, può presentare coincidenze o sovrapposizioni con le ideologie della collaborazione di classe e con l'esperienza fattane nell'ambito degli Stati corporativi, dove tuttavia la realtà conflittuale esisteva allo stato latente o negli interstizi delle strutture formali, pur costruite sul principio collaborativo. Il sindacalismo partecipativo è invece un fenomeno tardo-industriale. La tipologia dell'organizzazione del lavoro, superato o ridotto a ristretto ambito il modello tayloristico (v. Piore e Sabel, 1984), suggerisce politiche mirate all'integrazione collaborativa, che attenua l'antagonismo conflittuale facendo emergere invece aree di contatto sociale (lavoro di gruppo, dissoluzione della gerarchia, perseguimento della 'qualità totale': v. Barenberg, 1994) e/o di convergenza di interessi (salario collegato alla produttività o redditività, superamento del salario, partecipazione agli utili o al capitale: v. Weitzman, 1984).

4. I modelli organizzativi

L'identità del sindacato può essere rilevata in vario modo. Il modo più diretto è quello derivato dalla scelta del modello organizzativo, ma non perché esso risponda a un criterio più elementare: al contrario, nell'esperienza del sindacato, il modo di organizzarsi appare determinato da una serie complessa di fattori che si basano su scelte ideologiche, di dottrina, di struttura economica e giuridica. In esso, in altre parole, si riflette la realtà vivente del sindacato.

La scelta di questo punto di vista fornisce un'ampia gamma di alternative: il sindacato di mestiere (craft unionism); il sindacato industriale; il sindacato professionale o, secondo una terminologia più rispondente, occupational; il sindacato generale; il sindacato aziendale. Si tratta di termini a volte ripresi dall'inglese e non sempre riconducibili con esattezza all'uso italiano.Il sindacalismo di mestiere trae origine dall'esperienza dei paesi a più avanzato e antico sviluppo industriale, ed è proprio infatti dell'Inghilterra e degli Stati Uniti. Ne sono esempi, tra i più antichi, i sindacati che organizzarono i vari mestieri dell'industria tipografica, e che furono tra gli antesignani anche perché, a differenza di molti altri, avevano la piena padronanza dell'alfabeto e pertanto dei vari strumenti di comunicazione e di propaganda. Tra i carpenters (falegnami) americani o i vari mestieri della stampa in Inghilterra o i cappellai o i tipografi italiani si inseriva perciò una gamma amplissima e articolata di organizzazioni, che costituì il nucleo forte della prima fase del sindacalismo, tuttora operante specie in aree di più radicata tradizione, come nel Regno Unito.

Il sindacalismo di mestiere fa leva sulla solidarietà di interessi quale si forma, in modo quasi naturale, nel posto di lavoro e nella collocazione sul mercato del lavoro stesso. Esso infatti, secondo una tesi sviluppata già nei primi decenni di riflessione teorica (v. Perlman, 1928), è costruito in termini di difesa della propria posizione nel mercato e ha come destinatario la manodopera in possesso di cognizioni e di pratica del mestiere. Tipico del sindacato di mestiere è il forte senso di appartenenza, che si esprime attraverso simboli, tradizioni e folklore in parte di antica origine - il compagnonnage - e in denominazioni come le 'fratellanze' o le 'logge': la stessa massoneria presenta, alle origini, radici di appartenenza professionale. Da questo punto di vista la solidarietà sindacale, espressa in questi contenuti e con queste forme, appartiene più alla natura della Gemeinschaft, o della comunità, che non a quella della Gesellschaft, vale a dire dell'associazione per il semplice perseguimento, anche transitorio, di uno scopo comune.

L'aspetto caratterizzante del sindacato di mestiere consiste perciò nella sua percezione di essere una comunità partecipativa incentrata sulla autodifesa del posto di lavoro: quella che il più autorevole interprete di questa realtà definì come job consciousness (v. Perlman, 1928). È facile da intendere come, fin dalle sue origini, la job consciousness conducesse all'adozione di pratiche restrittive, in parte derivate dalle antiche pratiche di acquisizione di un mestiere attraverso lunghi periodi di apprendistato non retribuito.

Il sindacalismo industriale risponde a un criterio storicamente più avanzato nel tempo. Esso riflette su larga scala l'avvento di una forma di organizzazione del lavoro ispirata al metodo tayloristico e legata alla produzione di massa. E, soprattutto, il sindacalismo industriale è quello che, aprendo la porta a tutti gli strati della manodopera, allarga le sue file al lavoro non specializzato e crea un mercato del lavoro unificato: ed è questa infatti la discriminante innovativa, che segna anche una profonda trasformazione dell'esperienza sindacale. La produzione di massa, in altre parole, genera un sindacalismo di massa. Ma anche questa affermazione non va intesa in senso assoluto, perché potrebbe condurre a una sopravvalutazione del dato strutturale. Lo sviluppo del sindacalismo industriale, infatti, venne anche influenzato dalla diffusione di forme di solidarismo, in larga parte generate dalle appartenenze politiche, prime tra tutte naturalmente quelle di impronta socialista.

E infatti molte organizzazioni industriali come quelle dei metallurgici o dei meccanici assumono presto identità che vanno ben oltre i confini dei singoli mestieri: possono essere ricordate la IG Metall in Germania o la FIOM in Italia, o i vari esempi di amalgamation tra crafts diversi in Gran Bretagna, che danno vita a un sindacalismo a impronta classista o tendenzialmente tale.L'affermazione di questi centri di solidarietà avviene in molti casi senza profonde lacerazioni, quasi come un processo naturale di espansione. Dove invece il conflitto assume caratteri tali da provocare una profonda divaricazione è negli Stati Uniti degli anni trenta. È in questo paese infatti che il contrasto tra il più tradizionale modello del sindacato di mestiere e quello, in larga parte innovativo, del sindacato industriale conduce a una vera e propria scissione tra la vecchia American Federation of Labor, che intende rimanere negli argini dei mestieri, e il Congress of Industrial Organizations, scissione avvenuta nel 1935 e ricomposta venti anni dopo nella Confederazione unitaria che porta appunto il nome delle due sigle (AFLCIO) e che opera ormai in un contesto misto, dove vede anzi la prevalenza del modello più moderno.Il sindacato professionale o, con terminologia di uso più recente, quello occupazionale, è in ultima analisi un contenitore analogo a quello del craft: solo che in luogo dell'operaio di mestiere organizza ceti professionali.

A questa categoria appartengono perciò i sindacati degli impiegati, solo molto raramente integrati con quelli operai, come eccezionalmente avviene in Italia, più frequentemente associati su base orizzontale (così in Svezia o in Austria, oppure in Italia prima e durante il fascismo) o infine organizzati in simmetria con l'organizzazione operaia, ma separatamente da essa. Analoga caratteristica è quella delle sempre più diffuse unioni di categorie di medio o alto livello professionale: dalle varie professioni presenti nel settore terziario, tra le quali la potente Federazione francese dell'insegnamento, fino alle organizzazioni 'orizzontali' che attraversano tutte le aree produttive, ma limitatamente a una o più specialità. Meritano menzione, naturalmente, i sindacati dei 'quadri' o quelli degli impiegati superiori o dei dirigenti, o le varie organizzazioni professionali operanti nel settore pubblico, o infine i sindacati delle categorie emergenti (piloti) o con radici tradizionali (ferrovieri di macchina). Trattasi di un campo in piena espansione che cresce in concomitanza con l'espansione del terziario, anche se a ritmi notevolmente diseguali. Va comunque tenuto presente che è questa l'area dove lo sviluppo organizzativo e il proselitismo in molti casi riescono a compensare le diminuzioni numeriche proprie dell'area più tradizionale.

Il sindacato generale è in realtà un sindacato intercategoriale, che porta peraltro il segno di un'origine da o una preferenza per una o più categorie specifiche. Si tratta di un fenomeno tipico dei paesi anglosassoni: rientrano in esso i Teamsters americani, organizzazione tra le più forti, che partiva dall'area degli addetti ai trasporti su strada, ma si estese largamente nei settori terziari e acquistò una cattiva fama per effetto di collusioni con la malavita, ormai peraltro del tutto recise. In Gran Bretagna la Transport and General Workers' Union era e permane aperta a un'ampia gamma di attività. E, sia pure con radici molto diverse, si può affermare che appartengono al modello del sindacato generale anche quelli, tipici dei paesi latini, delle Camere o delle Bourses del lavoro. E infine, sempre ragionando in termini di simmetria geometrica e sia pure con una certa forzatura, appartengono all'area del sindacalismo generale le confederazioni generali, conosciute pressoché dovunque, anche se con funzioni variabili: da quelle di puro coordinamento, come negli Stati Uniti e in misura maggiore nel Regno Unito, fino alle confederazioni dei paesi latini, fortemente centralizzate ma a loro volta coesistenti in una relazione di concorrenza politica o anche confessionale (Olanda). Il pluralismo sindacale, pur essendo foriero di profonde influenze sui contenuti e sull'azione dei sindacati, dal punto di vista della struttura organizzativa si risolve in gran parte in una riproduzione di modelli omogenei tra loro.

L'ultimo tra i modelli organizzativi qui presi in considerazione è quello del sindacato aziendale. Esso ha un posto nella storia dei movimenti sindacali più come rappresentativo di una fase di sviluppo che non come un sistema attestato. Il sindacato aziendale infatti fa la sua apparizione nelle prime fasi della storia dei vari sindacati, ma la tendenza che si afferma molto presto è verso l'accorpamento in unità operanti che passano i confini aziendali. Il consolidamento del modello può avvenire in due direzioni alternative. La prima è quella di una sfida antagonista al sindacato extra-aziendale, sia esso di mestiere sia industriale. È il caso delle company unions, o sindacati 'gialli', conniventi con la direzione - in una distinzione che può essere in effetti molto permeabile -, che ebbero uno sviluppo particolare negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, tanto da indurre il legislatore, durante il New Deal, a introdurre un divieto legale. Esso vige tuttora ed è consolidato da un'esplicita condanna da parte delle normative internazionali sul lavoro. Diverso è il caso della struttura sindacale aziendale esclusiva, che può presentare radici forti come in Giappone o essere comunque indotta dalle politiche adottate da grandi imprese, segnatamente da quelle a dimensioni sovranazionali, specie se operanti in siti isolati: è quanto è avvenuto in molti paesi dell'America Latina, tra i quali il Brasile. Costituisce poi un ulteriore dato di complicazione l'accavallarsi di questa struttura rappresentativa con quella, di portata di gran lunga più generale, delle rappresentanze elettive (v. sotto).

L'esistenza di un canale di rappresentanza diverso, anche se non necessariamente alternativo al sindacato, appare così frequente da essere ritenuta un dato normale (v. Rogers e Streeck, 1995). Così è nella maggior parte dei paesi eurocontinentali, mentre il single channel domina nelle aree anglosassoni, e in particolare nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Il canale della rappresentanza diretta si forma in genere attraverso elezioni aperte a tutti e regolate per legge (Germania) oppure per via contrattuale (Italia). Talvolta la rappresentanza ha caratteri misti, elettorale e di designazione sindacale (Italia). Le ragioni di questo dualismo non sono riducibili a una sola. Nella fase iniziale dell'esperienza sindacale, la rappresentanza diretta nacque per una esigenza di normale sviluppo. Ma, a determinare la formazione della doppia rappresentanza concorse il pluralismo sindacale, con la conseguente utilità di ritrovare nel luogo di lavoro un'aggregazione in grado di gestire la funzione quotidiana della rappresentanza dei lavoratori. E certamente fu lo stesso pluralismo a porre in essere un deficit di rappresentanza da parte del sindacato, che venne compensato dalla rappresentanza elettiva. Nel complesso, comunque, si può affermare che, nei vari paesi, risulta abbastanza stabilizzato un equilibrio tra i due canali, fondato principalmente sulla devoluzione della funzione contrattuale ai sindacati e di quella di gestione alla rappresentanza diretta. L'equilibrio è risultato meglio tarato dove, come in Germania, la tradizione dei Betriebsräte, fortemente radicata fin dai tempi di Weimar, a partire dal periodo postnazista ha tratto beneficio dalla condizione di unità sindacale, per cui la distinzione tra i due canali è risultata di fatto come una divisione di compiti di natura prevalentemente funzionale. La rappresentanza diretta è conosciuta, nell'esperienza italiana, come consiglio di fabbrica e, oggi, come rappresentanza sindacale unitaria (RSU), che peraltro svolge funzioni in larga parte coincidenti con quelle del sindacato in senso proprio, anche se non ne ripete la struttura e le competenze.

5. I modelli di azione

I modelli di azione del sindacato sono strettamente coniugabili con i modelli di organizzazione prima esaminati, ma assumono naturalmente identità proprie. Tali identità sono riconducibili a:

a) i mezzi di azione diretta;

b) la contrattazione;

c) l'azione politica e di gruppo di pressione;

d) la concertazione o scambio politico.

A. L'azione diretta è stata fin dalle origini una delle espressioni più originali dell'esperienza sindacale, tanto che venne posta la domanda se fosse nato prima il sindacato o l'azione diretta, e in particolare lo sciopero (v. Kahn-Freund, 1954). In effetti, lo sciopero e, con esso, le altre forme di resistenza collettiva furono e restano tuttora gli strumenti per eccellenza della formazione di identità collettive. Nel loro consolidarsi essi diedero e tuttora danno luogo alla formazione di organizzazioni di resistenza, quali possono manifestarsi episodicamente o in contesti di solidarismi allo stato nascente, fino a dar vita alla formazione di stabili strutture organizzative; nelle forme più clamorose, la formazione di organizzazioni di resistenza può addirittura segnare un trapasso di regime: il caso più famoso fu, nel 1980, la nascita del sindacato Solidarność.

La libertà di sciopero d'altronde, oggetto dovunque di legislazioni repressive, si affermò all'incrocio tra i due secoli come una forma espansiva dell'idea stessa di libertà, quasi un'affermazione di dovuta coerenza con i principî del liberalismo politico. Non fu peraltro una conquista facile: l'affermazione del principio si trovò a contrastare severamente con gli interessi delle classi dominanti, per cui questa forma di libertà incontrò forti opposizioni, anche in contraddizione con gli stessi principî ispiratori del costituzionalismo liberale. Infatti, la libertà di sciopero venne pienamente riconosciuta in Germania solo dopo la 'grande guerra', e incontrò dure resistenze negli Stati Uniti fino agli anni del New Deal. A sua volta, il divieto dell'azione diretta fu il primo a comparire quasi immediatamente all'affermarsi delle dittature di impianto fascista o comunista.L'impiego dell'azione diretta come mezzo di pressione è effetto della percezione di uno squilibrio sociale, e d'altronde la stessa tipologia dell'azione diretta può non esaurirsi nello sciopero, anche se questo è il mezzo più frequente e caratterizzante. L'azione sindacale, che talvolta scavalca lo stesso sindacato, si articola variamente: dalle varie forme di sciopero, alcune delle quali di incerta legittimazione anche a fronte del riconoscimento giuridico del relativo diritto, fino al boicottaggio delle merci e all'occupazione del luogo di lavoro, mentre d'altro canto la parte antagonista dispone di un mezzo che può essere di attacco o di difesa, la serrata, non ammessa però da tutti gli ordinamenti. In ogni caso, anche in quest'ultimo, l'azione è collettiva: persino nel caso della serrata del singolo imprenditore, essa è collettiva dal lato della controparte.

B. Strumento ancor più tipico dell'esperienza sindacale è comunque il contratto collettivo. Sia pure con estensione e profondità variabili, l'impiego di tale strumento presenta un carattere pressoché universale; e anzi, anche nei regimi esclusi dall'area delle libertà sindacali compare quasi sempre un riconoscimento del contratto collettivo, se non altro come strumento di decentramento della normazione statale. Il contratto collettivo, che può essere regolato in modo più o meno intenso dalla legge - tra le rare eccezioni, il Regno Unito e, in parte, l'Italia (v. Giugni, 1986) -, viene stipulato normalmente tra sindacati e imprenditori, singoli o associati, e presenta una tipologia molto varia, fortemente condizionata dalle esperienze nazionali, risultando rarissimo l'impiego di tale strumento sul piano sovranazionale (Trattato di Maastricht, 1992). L'ampiezza e la penetrazione capillare del fenomeno sono ormai tali che esso può essere qualificato come una delle strutture portanti delle costituzioni materiali, mentre il suo porsi in modi reiterati e a cadenze prevedibili rende plausibile la costruzione a 'sistema' (v. Dunlop, 1958).

I contratti si distinguono anzitutto per le materie trattate, per le aree di riferimento, per i livelli e per gli effetti. Riguardo alle materie, va ricordato che il fenomeno contrattuale ha le sue radici, fin dagli inizi, nel salario, strettamente collegato a sua volta con l'orario e la durata del lavoro: lo stesso nome del contratto collettivo si afferma dopo designazioni (concordato di tariffa, Tarifvertrag, wage agreement) riferite soprattutto al salario. In seguito i contratti assumono gradatamente contenuti sempre più complessi, fino a configurarsi come veri e propri codici di categoria. A essi si aggiungono clausole dirette a regolare le relazioni tra le parti (clausole di pace, procedure per la contrattazione, strutture collaborative di vario tipo), il cui sviluppo, accentuatosi negli ultimi tempi, ha contribuito a configurare la contrattazione come un'organizzazione dei rapporti sociali di natura particolarmente complessa.

Le aree di riferimento o di copertura, indicate anche come 'unità contrattuali', riflettono, a loro volta, in larga misura il modello organizzativo del sindacato (v. cap. 4). Al sindacato di mestiere o occupazionale corrisponde il contratto di mestiere, anche se frequente è la combinazione di più unità che trattano congiuntamente. Il sindacato industriale genera naturalmente il contratto di unità industriale, che peraltro può coesistere con unità di mestiere o occupazionali minori: così avviene, per esempio, nelle ferrovie italiane. I livelli di contrattazione, a loro volta, vengono identificati in relazione territoriale oppure, ed è un aspetto di particolare importanza nella struttura del sistema, in relazione alla natura dell'unità organizzativa (impresa o azienda) o a divisioni di essa.

La distribuzione delle competenze in ragione dei livelli è uno degli aspetti più caratterizzanti per i vari sistemi nazionali: contrattazione nazionale, territoriale, aziendale, di reparto possono escludersi fra loro, o combinarsi e integrarsi reciprocamente. Quest'ultimo è il modello prevalente in Europa, pur con tonalità molto diverse, mentre negli Stati Uniti ha sempre prevalso il modello aziendale.Quanto infine agli effetti del contratto collettivo, essi si collocano nell'intricato quadro della disciplina legale. La linea di tendenza che risulterebbe prevalere, secondo quest'ultima, sarebbe quella dell'efficacia aperta alle sole imprese e ai lavoratori aderenti alle organizzazioni stipulanti, ma è non meno frequente la generalizzazione degli effetti con adeguati meccanismi giuridici (quali la recezione in legge o equivalente). Nella logica propria delle relazioni sindacali, infatti, la rete di solidarietà naturale che si stringe intorno ai lavoratori induce tendenzialmente a un'applicazione generale.

C. L'azione politica e di gruppo di pressione. Fin dalle origini il movimento sindacale si è trovato coinvolto, in via diretta o in via indiretta, nell'agone politico. La lotta per l'esistenza e il riconoscimento legale e quella per il suffragio universale condussero a forme di convergenza o di affiancamento, anche quando non erano il prodotto di una predeterminata e permanente scelta politica. La famosa sentenza sul caso Taff Vale del 1901 spinse le Trade Unions a darsi una rappresentanza nel Parlamento, dalla quale, poco più tardi, sarebbe nato il Labour Party.

Nell'insieme, i modelli di comportamento del sindacato in rapporto all'azione politica si assestarono su quattro schemi, per quanto attiene, naturalmente, ai soli paesi con regimi di libertà sindacale.

1. Il modello del business unionism o, come viene con ampia approssimazione definito, tradeunionista. Esso - e l'esempio più importante viene dagli Stati Uniti - esclude totalmente il rapporto organico con i partiti politici, adottando il criterio di alleanze elettorali mobili, anche se orientate, sebbene con fasi alterne, a favore del partito democratico. Il principio è: reward your friends, punish your enemies.

2. Il modello laburista, formatosi in modo empirico, come si è detto, in Gran Bretagna, ma diffuso, anche se con notevoli varianti, nei paesi del Commonwealth. Tuttavia, specie nel paese di origine, il modello si compattò fino a una integrazione organica del sindacato nel partito, che solo negli ultimi anni ha cominciato a rendersi più elastica.

3. Sensibilmente diverso, invece, appare il modello di rapporti tra sindacato e partiti 'di classe', in origine di forte integrazione ma poi attenuato, fino a che, nel 1907, il Partito socialdemocratico tedesco, allora un vero e proprio partito guida, proclamò l'eguaglianza dei diritti tra partito, operante sul piano politico, e sindacato, soggetto proprio della cosiddetta azione economica. La dottrina leninista della 'cinghia di trasmissione' introdusse una forte alterazione di tale divisione di compiti, ma venne gradatamente abbandonata anche dai maggiori partiti comunisti operanti nell'Occidente, e in particolare da quello italiano. Il pluralismo sindacale, dove si affermò, a sua volta rifiutò il rapporto di stabile alleanza tra partito socialista e sindacato, ma nello stesso tempo indusse alla formazione di collateralismi con altri partiti, e in particolare con quelli di ispirazione cristiana.

4. Una semplice menzione è sufficiente per il sindacalismo rivoluzionario, che ebbe una grande influenza soprattutto nei paesi mediterranei, ma che appare ormai pressoché scomparso. In sede dottrinale, il sindacalismo rivoluzionario trasse ispirazione soprattutto dall'opera di Georges Sorel (v., 1906) e da una nutrita dottrina, fiorita soprattutto all'inizio del XX secolo, ma notevole fu la sua influenza nelle lotte operaie e nel mondo agricolo. Esso tendeva naturalmente a privilegiare il conflitto e, quantomeno nelle sue forme più coerenti, a impedire o ostacolare la composizione dello stesso, ritenendo l'azione del sindacato medesimo come una preparazione rivoluzionaria, che lo stesso Sorel teorizzò nell'idea, a sfondo utopistico, dello sciopero generale.L'azione come gruppo di pressione si svolge soprattutto nei confronti degli organi pubblici, locali o nazionali, e oggi, in misura considerevole, nei confronti delle organizzazioni internazionali, ma specialmente di quelle comunitarie. L'intervento del sindacato come lobby riveste una particolare importanza in quanto sostituisce il ruolo che altrove è proprio dei partiti fiancheggiatori.

D. La concertazione o scambio politico verrà descritta in seguito (v. cap. 6). Essa ha trovato un'applicazione sistematica in paesi minori, come l'Austria e, in modo meno sistematico, in Spagna e in Italia. È evidente che la strategia della concertazione pone il sindacato al più alto livello di partecipazione alle decisioni politiche e, proprio per ciò, presenta un volto bivalente, potendo anche apparire come una chiamata di corresponsabilità a cui non sempre il sindacato, o parte di esso, o i suoi nuclei più militanti sono o sono stati disponibili.

6. Le dottrine

L'esame delle dottrine sul sindacalismo deve essere condotto non attraverso un confronto tra ideologie, bensì impiegando la dottrina come strumento di interpretazione della realtà. Da questo punto di vista è possibile sviluppare una sobria classificazione, fondata appunto sulle dottrine che di volta in volta sono state o sono impiegate ad assolvere questo compito.

I 'classici'. La prima interpretazione scientifica del sindacalismo è stata quella elaborata in chiave di dottrina economica da Sidney e Beatrice Webb. Il sindacalismo, nel quadro teorico delineato da tali autori, viene costruito sull'accertata necessità di contenere la pressione del mercato del lavoro (the higgling of the market) sull'anello più debole della catena competitiva.

La concorrenza nel mercato del lavoro si presenta frammentata, atomizzata e costretta in un circuito che tende inevitabilmente al ribasso. Il fattore di equilibrio è la risultante dell'intervento di tre linee di azione costituite da:

a) la restrizione degli accessi (the restriction of number), che è la forma più antica di resistenza, propria delle organizzazioni di mestiere, dove la restrizione viene praticata soprattutto attraverso tecniche ferree di regolazione dell'apprendistato;

b) la regola comune (the common rule), per cui il mercato è aperto a tutti, ma tutti devono sottoporsi a pari condizioni di lavoro e retributive: in sostanza, è il metodo che si affermerà soprattutto attraverso la contrattazione collettiva e che conserva a tutt'oggi la sua vitalità;

c) l'intervento legislativo (the legal enactment), che impone a tutti la regola comune, tenuto conto anche del fatto che nel Regno Unito i contratti di lavoro non avevano e in parte non hanno tuttora efficacia giuridica. In conclusione, va dato atto che la dottrina dei coniugi Webb (v., 1897), costruita sulle solide basi di una ricerca storica ed empirica sulle pratiche dell'unionismo, ha creato le fondamenta per la conoscenza dell'organizzazione e dell'azione sindacale e in particolare della prassi della contrattazione collettiva.

La 'scuola del Wisconsin'. Alimentata dalle forti personalità di John R. Commons (v. Commons e altri, 1918) e di Selig Perlman (v., 1928), operò anch'essa nei primi decenni del secolo. Il campo di osservazione e di invenzione teorica apparve radicato soprattutto nell'esperienza nordamericana, fortemente atipica rispetto a quelle europee. La dottrina di questa scuola interpretò in modo esatto le ragioni del sindacalismo di mestiere, già quando individuò l'origine dell'unionismo non nell'industrialismo incipiente, bensì nella costrizione di un mercato del lavoro sottoposto alla pressione del capitalismo mercantile e preindustriale. La solidarietà appariva pertanto fin dagli inizi imperniata non sulla classe o su obiettivi di trasformazione sociale, bensì sulla 'coscienza della scarsità' e sulla conseguente resistenza collettiva ispirata dalla job consciousness (v. cap. 4).

Il sindacato americano, correntemente definito come business unionism, o 'sindacalismo del pane e burro', si plasma secondo questo modello, che mantiene la sua continuità anche a fronte della rivoluzione determinata dall'ascesa del sindacalismo industriale. Le sue radici presentano caratteri di autoctonia, seppure intrecciati in varia misura con l'influenza esercitata dagli intellettuali e con le aspirazioni rivoluzionarie o riformiste da questi immesse nel mondo del lavoro anche attraverso l'immigrazione; esso è stato peraltro capace di una decisiva resistenza a fronte dei reiterati tentativi di convogliare l'esperienza sindacale sul piano della più ampia solidarietà di impronta laburista o socialista. Come negli autori prima menzionati, e negli Stati Uniti in misura anche maggiore, il baricentro dell'azione sindacale si pone prevalentemente nella contrattazione collettiva, tenuto anche conto dell'ostilità, storicamente comprovata, del sistema politico americano per un riformismo sociale attuato per via legislativa.

Gli autori di ispirazione marxista. Le loro opere appartengono al contesto dei classici, anche se meno netta, rispetto agli autori prima menzionati, è la linea di demarcazione tra letteratura scientifica e letteratura militante. Tre grandi filoni fanno capo anzitutto, naturalmente, all'opera di Marx ed Engels, dove l'azione sindacale è peraltro percepita come propedeutica a quella politica, nei suoi aspetti di palingenesi rivoluzionaria. Non va comunque trascurato il grande apporto alle scienze sociali, costituito dall'analisi delle condizioni della classe operaia in Inghilterra (v. Marx, 1867-1894), analisi che fu in un certo senso preparatoria all'incipiente resistenza sindacale. Gli sviluppi della dottrina marxista vengono dunque registrati in tre aree: la prima, propria dell'anarcosindacalismo, generò, come sopra ricordato (v. cap. 5), un movimento di grande impatto nei primi decenni del secolo e venne fortemente influenzata da scrittori di grande rilievo (v. Sorel, 1906; v. Leone, 1910²; v. Labriola, 1926), non sempre risultati estranei, per incroci paradossali, a influenze delle dottrine fasciste; la seconda, attraverso l'impianto leninista, condusse alla condanna ex cathedra del sindacalismo rivendicativo (v. Lenin, 1902); la terza, di cui fu protagonista il socialismo della Seconda Internazionale, si rispecchiò nel modo più efficace nell'opera, anch'essa militante ma rimasta minoritaria, di Eduard Bernstein (v., 1899), mentre invece il parallelo riformismo della scuola fabiana, di cui erano stati parte attiva gli stessi Webb, esercitò una immediata e profonda influenza.

Gli economisti. La riflessione sull'esperienza sindacale si approfondisce naturalmente nei decenni successivi, e riceve un'impronta duratura dalle dottrine contemporanee. Tra queste ultime, una posizione di rilievo acquista una ricerca avviata, da autori di prevalente formazione economica, presso alcune prestigiose sedi universitarie americane. L'opera conclusiva, scritta da quattro autori (v. Kerr e altri, 1960), si presenta come una summa conoscitiva costruita su un ambizioso obiettivo di sintesi orientato in senso universalistico e in parte almeno metastorico. Il fenomeno sindacale è inquadrato nell'ambito di una teoria generale delle relazioni industriali, il cui oggetto viene isolato e identificato nella rete delle regole (web of rules) che convogliano l'azione dei tre attori, management, sindacato, governo. Esse operano in un quadro di relazioni capaci di autosviluppo, pur essendo assoggettate alle costrizioni individuate dagli autori nella tecnologia, nel contesto economico e di mercato, nella distribuzione del potere. Il fattore differenziale viene comunque identificato nella presenza, combinata o alternativa, di cinque diverse élites dominanti: feudale, coloniale, fascista, democratica occidentale, comunista. In questo quadro concettuale le relazioni industriali - e in esse, naturalmente, il sindacato - rivelano una innata tendenza a uniformarsi. Segno di questa tendenza è la teoria del declino dello sciopero (v. Ross e Hartmann, 1960), che tuttavia negli anni sessanta avrebbe finito per ricevere una smentita clamorosa. La teoria dei quattro autori fu coeva di un'opera, pubblicata da uno di essi (v. Dunlop, 1958), che ottenne un notevole successo soprattutto come referente di un modello di ricerca largamente impiegato.La scuola di Oxford. La ricerca più feconda, dopo la fase iniziale di impronta americana, si trasferisce nella 'scuola di Oxford' con forti influenze dalla e nella London school of economics, già culla del fabianismo.

La scuola di Oxford (v. Clegg e altri, 1980) può essere considerata come la sede più influente dell'orientamento ispirato al pluralismo istituzionale e a quello che fu definito laissez faire collettivo, ed esprime in larga misura il clima dei decenni postbellici, caratterizzati dalla piena occupazione e, ma soprattutto nel suo principale referente geografico, da una accentuata conflittualità prevalentemente di tipo unionista. Procedendo oltre i limiti teorici degli Webb, che avevano indicato la legislazione come sbocco finale dell'azione del sindacato, gli autori ora in esame, sulla scorta dell'esperienza britannica, propongono la contrattazione come modello tipico, destinato peraltro a esercitare una profonda influenza ben oltre i confini geografici di tale esperienza.

Una forte influenza ebbe anche - e un forte impulso ricevette - negli anni sessanta l'elaborazione del rapporto della Royal Commission che prese il nome da lord Donovan, che costituì una base anche teorica in cui trovarono assestamento i dati concreti dell'esperienza sindacale di tale paese.Il sindacato appare principalmente come agente del mercato del lavoro, che opera attraverso lo strumento della contrattazione, controllando in forma tendenzialmente monopolistica l'offerta di lavoro. In questo le parti sociali assumono una funzione di 'legislatore' privato, ma alla base della loro azione si pone il conflitto industriale, da cui, a guisa di output, scaturisce la posizione delle regole (v. Clegg, 1979).

I sociologi. Pur non approfondendo in modo specifico il tema del sindacato e dell'azione sindacale, l'opera di Dahrendorf (v., 1959, tr. it., pp. 430 ss.; v. Bendix e Lipset, 1968) ha esercitato una profonda influenza, nel momento in cui ha individuato la radice del conflitto industriale nel rapporto di autorità in luogo di quello di classe. Questa infatti prescinde dalla fonte di investitura dell'autorità stessa, si tratti della proprietà privata, dello Stato, ovvero del management o di altra fonte. Il punto essenziale è il conflitto di interessi, che, nella veste di conflitto industriale, costituisce a sua volta il principale fattore genetico del sindacato, la cui azione tende poi ad articolarsi in varie forme; tra i meccanismi di democrazia industriale l'autore osserva con particolare interesse quelli della cogestione in Germania. La teoria di Dahrendorf ha dato come esito principale la separazione del conflitto industriale dall'idea del conflitto di classe, e ha localizzato il primo in un ambito specifico e proprio, generando quindi ciò che è stato definito come 'isolamento istituzionale del conflitto'.

Le dottrine pluralistiche e conflittualistiche furono sottoposte a una dura prova quando, sul finire degli anni sessanta, riemersero sia la dottrina marxista, sia l'antagonismo di classe anche nell'ambito sindacale. Queste tendenze furono interpretate da Pizzorno, che, sulla base di una rigorosa ricerca sull'autunno caldo italiano (v. Pizzorno e altri, 1978), giunse a conclusioni teoriche di rilievo. La reviviscenza conflittuale, dopo la profezia risultata sbagliata del progressivo declino del conflitto, derivava secondo Pizzorno dalla formazione, specialmente in Italia, in condizioni di piena occupazione e con notevole ritardo storico, di un nuovo strato di manodopera a bassa qualificazione, che fornì una forte spinta verso la politicizzazione dell'azione sindacale. È in tale contesto che si affermarono le nuove identità collettive, di cui l'analisi di Pizzorno ha offerto una importante analisi. E con le nuove identità collettive si affermano orientamenti egualitaristici e domande di controllo sull'organizzazione del lavoro. In questo il sindacato appare impegnato in un rapporto con la base, che si prospetta come una riserva di militanza per il sindacato stesso.

Pur a fronte di condizioni ormai sensibilmente modificate, le conclusioni di Pizzorno hanno fornito ulteriori e feconde chiavi interpretative per il fenomeno sindacale. In particolare, esse sono state sviluppate da Crouch (v. Crouch e Pizzorno, 1977), il quale elabora la teoria dei 'cicli di militanza' che supera largamente i limiti dell'osservazione condotta sugli anni della contestazione ed estende il reperimento delle nuove identità collettive ben oltre le aree del lavoro industriale, per investire il pubblico impiego e parti del terziario, anche nelle componenti in genere identificate come 'corporative'.

Lo scambio politico. Una più recente dottrina, anch'essa fondata sull'osservazione empirica, inquadra l'esperienza sindacale nell'ambito del modello neocorporativo o dello 'scambio politico' (v. Schmitter, 1992; v. Tarantelli, 1986). Questa dottrina trae alimento dalle esperienze di politica dei redditi compiute negli anni settanta sotto la pressione della crisi petrolifera e del conseguente esaurimento della fase di crescita che aveva dominato gli anni postbellici. In essa sindacati, imprenditori e governo definiscono obiettivi comuni che formano materia dello scambio, e principalmente stabilità dei salari e dei redditi da lavoro in contropartita con occupazione e politiche sociali. La strategia neocorporativa conduce a una forte valorizzazione del sindacato e della sua funzione rappresentativa. Il sindacato diviene agente o soggetto politico, pur con un comportamento contrassegnato in genere da una forte autonomia rispetto ai soggetti politici, governo, parlamento e partiti. Ma tale scelta pone naturalmente gravi problemi di rapporto con la base e con la militanza. In questo senso, più che una dottrina del dover essere o comunque una teorizzazione di stabili linee di tendenza, il neocorporativismo, che assume aspetti vari nei diversi paesi, presenta anche, salvo alcune eccezioni localizzate soprattutto in paesi di dimensioni minori e con una forte coesione sociale, un notevole grado di instabilità. Esso presenta un'immagine del sindacato come organizzazione che, avendo come presupposto una solida democrazia parlamentare, la integra con forme più o meno accentuate di partnership sociale, sebbene molto raramente calate nella forma istituzionale.

Il sindacato partecipativo. Le più recenti tendenze dell'esperienza sindacale, che tuttora possiamo considerare in formazione e certamente non consolidate da una dottrina compatta, emergono soprattutto dai grandi mutamenti in corso nell'organizzazione del lavoro e del mercato e sono indotte dal superamento delle forme di produzione di massa e di organizzazione parcellizzata, che erano state determinanti nella evoluzione del sindacalismo a partire dal periodo fra le due guerre. La specializzazione flessibile, la lean production, il lavoro di gruppo, tutto prelude a forme di partecipazione che già sul terreno dell'organizzazione del lavoro possono avere forte incidenza sui comportamenti dei lavoratori e, in via mediata, sulle loro organizzazioni. Il nuovo modo di produzione può porre in essere, come in effetti avviene, una sfida ai comportamenti tradizionali del sindacato, e può addirittura minarne le basi, oppure indurlo a cercare vie nuove capaci di interpretare le nuove domande. È un'area tutta problematica, sovente inquinata da improvvisazioni meramente verbali. La stessa terminologia 'partecipativa' risulta nell'insieme poco espressiva, perché il tema, in realtà, appartiene già al XXI secolo, e non è in questa sede, non dedicata ai futuribili, che può essere adeguatamente preso in considerazione.E, procedendo oltre, la crescente utilizzazione di forme salariali a partecipazione ha anch'essa una bivalenza, apparendo pienamente integrabile nella prassi della contrattazione collettiva, oppure orientabile allo scopo di liberare la direzione dalla pressione antagonista del sindacato.

(V. anche Lavoro; Operai; Sciopero e serrata).

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