Sistemi giuridici comparati

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Sistemi giuridici comparati

Giovanni Bognetti

Sistemi giuridici e grandi modelli

Gli ordinamenti giuridici consistono in gruppi organizzati di soggetti umani i quali, per realizzare fini che coltivano in comune, si danno apposite norme di condotta, munite di sanzioni, nonché regole relative ai metodi per l'eventuale rinnovamento delle norme e alle tecniche per la loro applicazione. L'esistenza di un ordinamento è poi legata a un certo grado di effettiva osservanza delle sue norme da parte dei consociati. Non bisogna però pensare che le norme, una volta poste, vivano come entità ideali, aventi un loro preciso contenuto, in una sfera separata dai concreti comportamenti dei singoli soggetti. Una concezione non mitologica del diritto deve riconoscere che le norme esistono solo come momenti strumentali nel pensiero e negli atti particolari di coloro che si avvalgono di formule precettizie - generali o specifiche - per influire sulla condotta propria o altrui, orientandola in questa o quella direzione; e che pertanto il contenuto e le implicazioni di tali formule, essendo dipendenti dalle intenzioni degli operatori che le utilizzano - a tutti i possibili livelli - possono, nell'apparente costanza letterale esterna dei segni, variare talvolta di molto nel corso delle operazioni d'utilizzo. Ciò spiega perché, da un lato, il 'diritto vivente' di un ordinamento - cioè l'insieme delle norme effettivamente osservate e applicate all'interno del gruppo - contenga più o meno sempre una certa quantità di elementi normativi tra loro conflittuali, a scapito della coerenza organica dell'insieme; e spiega anche, dall'altro lato, perché, nel corso del tempo, il diritto di un ordinamento non si rinnovi mai solo per le vie prescritte formalmente dalle regole che l'ordinamento ha adottate all'uopo, bensì anche (e spesso soprattutto) attraverso la ridefinizione dei significati delle formule da parte dei loro fruitori e la surrettizia addizione di formule nuove. In definitiva, guardato realisticamente alla luce della sua evoluzione storica concreta, il diritto di un ordinamento appare come un grande ghiacciaio che è sempre in movimento, lento o rapido a seconda dei casi, ma mai in semplice conformità a regole prefissate di sviluppo. Tuttavia, se lo sviluppo del diritto di un ordinamento non segue rigide regole prefissate, l'analisi storica mette in luce che per lo più, nel flusso delle variazioni normative intervenute in un certo arco di tempo (che può essere più o meno ampio), taluni elementi si mantengono costanti, quasi inalterati. Si tratta di solito di principî generali, che stanno in immediata o pressoché immediata relazione con i fini fondamentali per i quali l'ordinamento è sorto, o che comunque al momento persegue. Rispetto a essi le norme più specifiche - quelle soggette a più rapida variazione - assumono l'aspetto di componenti ausiliarie, che integrano i principî per venir incontro ai mutevoli bisogni dettati di volta in volta dalle circostanze. I principî generali stabili incorporano valori di fondo, essenziali, in un dato periodo storico, per l'ordinamento; e quei valori appaiono governare direttamente o indirettamente tutta l'evoluzione del diritto nel periodo in questione: quella che si realizza per via di rinnovi formali delle norme e quella che passa per la trasformazione informale dei significati delle formule.

Ora, sono questi principî stabili - che riguarderanno di massima sia l'ordine da imporre in generale alle condotte dei consociati sia i metodi per la produzione di nuove norme e le tecniche di applicazione - ciò che conferisce unità sistematica al diritto di un ordinamento preso nella sua realtà di fenomeno storico in permanente evoluzione. Sono essi a determinare la caratteristica individualità di quel diritto: a definire i tratti particolari (il 'volto' o, se si vuole, lo 'spirito') del suo sistema (ove il termine 'sistema' si riferisce all'organica continuità che nel quadro storico lega, attorno a certi valori, masse complesse di componenti normative più o meno vivacemente mobili nel corso del tempo).

La comparazione giuridica è una branca della scienza storica del diritto che mette a raffronto ordinamenti giuridici distinti al fine di rilevare tra essi identità e simiglianze, ovvero diversità e divergenze. La comparazione può assumere a oggetto segmenti singoli e minuti dell'esperienza storico-giuridica degli ordinamenti (per esempio: norme specifiche, esaminate in isolamento da tutte le altre). Si parlerà allora di microcomparazione. Ma può rivolgere la sua analisi anche a complessi istituti giuridici e a settori interi del diritto, confrontando i principî che li informano (per esempio: i principî che regolano, in distinti ordinamenti, il processo penale o quello civile). Si designa di solito tale tipo di analisi col nome di macrocomparazione.

Massima aspirazione del giurista macrocomparatista è quella di mettere a raffronto addirittura i sistemi come tali degli ordinamenti giuridici in generale (nel senso che abbiamo attribuito al termine 'sistema'); e di ricavare dal raffronto l'individuazione di parentele da un lato e di opposizioni dall'altro tra i vari sistemi, così da poter costruire un certo numero di grandi modelli in cui collocare, a scopo classificatorio, i singoli ordinamenti affini. I grandi modelli, ovviamente, sono destinati, costruiti in tal modo, a offrire un'immagine di principî strutturali capaci di trovar riscontro nei sistemi degli ordinamenti considerati affini: principî, pertanto, ancor più astratti e generali rispetto a quelli che in questi ultimi definiscono il 'volto' o lo 'spirito' specifico del loro sistema.

Sulla strada dell'individuazione di grandi modelli sistematici, i giuristi comparatisti hanno talvolta ceduto a una pericolosa tentazione: definire una serie limitata di modelli capace di racchiudere dentro di sé tutta la molteplice varietà dei sistemi giuridici che la storia dell'uomo ha prodotto e magari potrà produrre, spingendo all'uopo lo sguardo, quanto al passato, fino al limite dell'uomo primitivo e della preistoria (ove tra l'altro il fenomeno giuridico inevitabilmente si confonde nell'indistinto di esperienze umane non ancora internamente differenziate). Sembra che esplorazioni scientifiche di questo genere, se merita siano compiute, meglio appartengano alla competenza di cultori di altre scienze sociali.Viceversa, spetta indubbiamente al giurista comparatista il compito di individuare i principali modelli entro cui si situano i sistemi giuridici di quegli importanti ordinamenti contemporanei a finalità politiche che sono gli Stati. La determinazione del tipo generale di sistema al quale possono riportarsi i diritti degli Stati oggi esistenti ha di certo ricadute pratiche di grande rilevanza. L' individuazione dell'appartenenza a un tipo facilita lo studio nei particolari dei diritti stranieri, la conoscenza dei quali è necessaria, ad avvocati e consiglieri economici, nel mondo dei traffici internazionali attualmente in forte espansione. Giova anche ai giuristi nazionali che vogliono avvalersi di nozioni comparatistiche per migliorare la formulazione o l'interpretazione di norme di questo o quel ramo del loro diritto. Ma la definizione dei grandi modelli a cui si conformano i sistemi giuridici degli odierni Stati ha soprattutto importanza sotto un profilo culturale generale. Essa aiuta a capire le fondamentali scelte di valori che, nel campo dell'organizzazione giuridica della vita della comunità, i popoli hanno compiute. Si tratta di un aspetto non certo secondario della loro complessiva storia civile.

La definizione tradizionale dei grandi modelli e la sua insufficienza

Esiste una definizione in certo senso classica dei grandi modelli giuridici degli ordinamenti statali contemporanei, la quale risale al giurista francese David.Secondo questa definizione si sono dati, nel XX secolo, quattro principali tipi o 'famiglie' di diritti tra quelli in vigore presso gli Stati esercitanti la sovranità sui diversi popoli e territori del nostro pianeta.

La prima 'famiglia' comprende innanzitutto gli ordinamenti statali che hanno la loro collocazione geografica nell'Europa continentale (occidentale) e condividono la caratteristica comune di derivare, nel loro nucleo centrale, dall'antico diritto romano recepito in quell'area a partire dal Medioevo. I principî cardinali di quel diritto sono stati in buona parte conservati, sia pur attraverso grandi trasformazioni, e sono stati di solito riversati, con larghe varianti, in codici. Si suole chiamare i sistemi giuridici di questi ordinamenti 'sistemi di civil law', con nome suggerito da studiosi inglesi in funzione di contrasto col diritto del loro paese. Nella famiglia dei sistemi originari di civil law si sogliono distinguere una sottofamiglia latina (Francia, Italia, Spagna, Portogallo) da una sottofamiglia germanico-nordica (Germania, Paesi Scandinavi, ecc.). Il modello di civil law, attraverso le più varie vicende, ha trovato via via accoglimento anche in paesi quali Scozia (in parte), Turchia, Giappone, Québec, Sudafrica, nonché in tutti gli ordinamenti del continente sudamericano.

La seconda grande 'famiglia' è quella dei sistemi di common law. Vi appartengono gli ordinamenti che si rifanno ai principî giuridici nati nell'Inghilterra medievale e poi progressivamente trasformati e arricchiti nell'ambito di quell'ordinamento nel corso dei secoli. Operano secondo il modello di common law, oggi, non solo l'ordinamento della Gran Bretagna, ma anche quello degli Stati Uniti d'America, del Canada anglofono, dell'Australia, della Nuova Zelanda: tutti questi sistemi ovviamente presentano, nel quadro comune del modello, varianti proprie di notevole consistenza. Hanno recepito il modello di common law, sebbene solo in parte, anche grandi paesi asiatici quali l'India.Il XX secolo ha visto l'affermarsi - forse solo temporaneo - di un terzo modello nel sistema cosiddetto del 'diritto sovietico': un modello ispirato ai dettami dell'ideologia marxista e fondato su rigorosi principî di completo collettivismo statalistico. Il sistema sovietico o socialista è stato a lungo in vigore nell'URSS (finché questa non si sciolse), nei paesi dell'Est europeo, in Cina.Un quarto modello può ravvisarsi nei sistemi degli Stati che abbracciano la religione islamica (gli Stati arabi, taluni Stati asiatici, ecc.). In questi ordinamenti v'è una parte del diritto che consta dei principî immutabili prescritti dal Corano (la sharī'a). Allo Stato è concesso di dettar norme a sua discrezione solo negli spazi lasciati liberi dalla normativa coranica.Inoltre, si danno sistemi giuridici operanti nell'Africa subsahariana sulla base per lo più di credenze religiose locali e primitive, non ben riducibili a un solo modello o comunque a modelli precisi.

Questa, approssimativamente, la definizione classica e tuttora spesso corrente dei grandi modelli giuridici contemporanei. Essa è stata ripetutamente criticata, per diverse ragioni e da diversi punti di vista. In gran parte si tratta di critiche fondate, ma forse in nessuna d'esse sono stati adeguatamente posti in luce i veri motivi per cui, al di là degli elementi validi che pur sono in essa presenti, tale definizione-classificazione finisce per essere insoddisfacente e persino fuorviante.

In primo luogo, nel distinguere i quattro modelli mettendoli l'uno accanto all'altro su uno stesso piano, la classificazione non sottolinea il fatto importantissimo che il terzo e il quarto modello si contrappongono tra loro e con i primi due perché si informano a principî - relativi tanto al diritto regolante i rapporti tra i singoli quanto al diritto disciplinante i poteri delle autorità che presiedono al governo e all'evoluzione dell'ordinamento - i quali posseggono una loro precisa individualità antitetica a quella degli altri modelli; mentre tra i primi due modelli - i sistemi di civil law e di common law - quella antitesi di principî, e di sottostanti valori, assolutamente non esiste.In effetti, la contrapposizione tradizionale tra sistemi di civil law e di common law - tuttora spessissimo evocata come fondamentale non solo da profani, ma da giuristi supposti esperti - oggi in larga misura non è proprio più giustificata. Le norme dei vari rami del diritto sostanziale sono agli effetti pratici molto spesso identiche o quasi identiche nei sistemi dell'uno e dell'altro tipo. I principî delle libertà e dei diritti fondamentali della persona - intesi nel senso della tradizione occidentale - vi sono universalmente proclamati. Lo stesso vale per i principî della rappresentatività e democraticità dei governi. L'affermazione che il diritto dei sistemi di civil law sarebbe di produzione 'legislativa' (codici più leggi speciali) mentre quello dei sistemi di common law sarebbe di (almeno prevalente) produzione 'giurisprudenziale' (consuetudine popolare interpretata e poi liberamente sviluppata dalle corti) non fu mai, su un piano realistico, del tutto vera, ed è al presente del tutto inadeguata; anche nei paesi di common law il rinnovamento del diritto avviene oggi soprattutto attraverso interventi di leggi (statutes) e di regolamenti governativi e amministrativi (regulations), non diversamente da quanto accade per lo più nei paesi di civil law. Neppure interamente vera, anche riguardo al passato, è l'affermazione che nei sistemi di common law non esisterebbero norme regolanti diversamente le attività dei privati e quelle delle autorità esecutive e amministrative; mentre gli ordinamenti civil poggerebbero da sempre sulla distinzione diritto privato/diritto pubblico. Attualmente, comunque, la negazione dell'esistenza di un distinto diritto amministrativo, di corposissime dimensioni, nei sistemi di common law, è smentita in maniera flagrante da fatti incontrovertibili: vi sono ormai forti analogie, anche sotto questo profilo, tra gli ordinamenti dei due tipi.In origine, cioè in epoca medievale e protomoderna, le differenze tra la common law dell'ordinamento inglese e il diritto dei paesi europei di tradizione romanistica poterono essere, per molti rispetti, notevoli.

Ma poi è sopravvenuta la 'modernità' che, benché per strade complicate e diverse, ha prodotto un ravvicinamento formidabile tra i sistemi di civil e di common law. Vi ha concorso dapprima l'avvento dell'istituzione 'Stato' e poi, in progressione, il trionfo del costituzionalismo liberale e di quello democratico: fenomeni generatori di riflessi decisivi in tutti i rami del diritto, inclusi, in prima fila, quelli concernenti i rapporti tra i privati. Alla fine del XX secolo due sono le principali caratteristiche dei sistemi di common law che in maniera più o meno uniforme li differenziano da quelli dell'altro modello. La common law conserva, ereditato dai tempi passati, un suo peculiare patrimonio terminologico-concettuale che serve - nel linguaggio delle leggi, della giurisprudenza e della dottrina - a inquadrare e ad esprimere anche i contenuti nuovi e nuovissimi delle normative del diritto contemporaneo (trespass è per esempio termine che risale al Medioevo, ma ancora si usa per indicare - senza preciso riscontro nella sistematica di civil law, che conosce altra nomenclatura - un certo tipo di illecito extracontrattuale; ciò vale pressappoco anche, in materia di contratti, per il concetto di consideration; e via dicendo). Inoltre, il precedente giurisprudenziale proveniente dai vertici del giudiziario possiede una forza di vincolo formale per gli altri giudici che manca in genere alle sentenze delle corti supreme degli ordinamenti di civil law. Ma anche in questi ultimi la pronuncia della Cassazione ha di solito un valore persuasivo non irrilevante per le corti inferiori. La maggiore conseguenza di questa divaricazione si verifica dunque probabilmente a livello di trasmissione didattica del diritto - e in particolare negli insegnamenti universitari: si impara il diritto, per paesi di common law, studiando soprattutto sentenze e non testi legislativi. Si tratta - se si vuole - di due differenze importanti di cui tener conto nella classificazione degli ordinamenti. Ma ci si può chiedere seriamente se esse da sole permettano di contrapporre come 'famiglie' di sistemi distinti ordinamenti che per tantissimi altri rispetti abbracciano principî molto simili e talvolta addirittura combacianti. Ciò almeno se si prende sul serio il concetto - che sopra abbiamo spiegato - di 'sistema'.

Sotto questo profilo, un secondo grosso difetto appare in realtà insito nella definizione tradizionale dei modelli. Parlando di sistemi di civil e di common law essa, quantunque avverta che i principî dell'uno e dell'altro modello hanno subito profonde modificazioni col passare del tempo, insinua implicitamente che vi sia una sostanziale continuità, prevalente sui cambiamenti, tra il diritto dell'Europa medievale romanista e quello delle attuali nazioni latine e germaniche che adottano codici, da un lato e, dall'altro lato, tra il diritto dell'Inghilterra del XIII secolo e quello delle nazioni anglofone del XX. L'idea che si possa parlare di un sistema unico con riferimento rispettivo a quei diritti succedutisi in sequenza storica, ma in realtà distanziati tra loro, molto più che dai secoli, da valori e principî ispiratori grandemente diversi, dimostra una strana soggezione culturale a indirizzi che privilegiano il puro formalismo giuridico e vorrebbero isolare il diritto dagli andamenti complessivi della storia sociale; ed è un'idea inaccettabile. La continuità col passato di un certo patrimonio terminologico-concettuale o di alcune tecniche del ragionamento giuridico conta, ma non più che tanto, nel determinare il 'volto' o lo 'spirito' del sistema giuridico di un ordinamento. Altri sono i fattori decisivi nell'identificazione di quello spirito in un dato periodo storico; e bisogna avere il coraggio di dire con chiarezza che il sistema attuale - negli ordinamenti sia di cosiddetta civil law sia di cosiddetta common law - è tutt'altra cosa dal sistema che prevaleva nelle rispettive aree geografiche secoli or sono; e che gli elementi di affinità attuali tra gli ordinamenti dell'una e dell'altra tradizionale denominazione sono totalmente preponderanti - anche e proprio da un punto di vista rigorosamente giuridico - agli effetti di un'intelligente identificazione e classificazione di modelli. La critica ora esposta induce a ipotizzare che, in contrapposizione ai modelli del 'diritto sovietico' e del 'sistema islamico', si debba configurare, nelle prospettive storiche del XX secolo, un modello unitario di 'sistema giuridico occidentale'. Un modello il quale scavalchi l'antiquata distinzione dei tipi civil law e common law, pur senza negare, a certi limitati effetti, che la distinzione possa essere ancora utilizzata. Un modello che non esclude - ovviamente - l'esistenza di sottomodelli o sottofamiglie nel suo seno. Da molte parti si è giustamente posto in rilievo che, sul continente europeo, la tradizione giuridica francese e quella tedesca sono state e sono tuttora distinte. Altrettanto distinta è, in certa maniera, la tradizione giuridica del continente sudamericano rispetto alla matrice prevalente da cui deriva, quella europeo-latina. E del tutto distinta dall'esperienza inglese, da cui a suo tempo si staccò, deve considerarsi la grande, originale esperienza degli Stati Uniti. Sono tutti sistemi particolari la cui attuale, autonoma individualità non potrebbe ragionevolmente negarsi. Come non dovrebbe ignorarsi che per un breve periodo, nel corpo di ordinamenti che appartenevano a pieno titolo al modello generale occidentale, si affermarono sistemi cosiddetti 'autoritari' o 'totalitari', che a volte in parte, a volte in misura schiacciante, ripudiavano aspetti fondamentali di quel modello.

Rimane in ogni caso l'ipotesi del modello generale occidentale, comprendente in sé sottomodelli o sottofamiglie. A tratteggiarne rapidamente la genesi storica e i lineamenti strettamente essenziali sono dedicati i tre capitoli che seguono.

Il pluralismo medievale in Europa

Il punto di partenza è costituito dalla situazione giuridica dell'Europa medievale.Dopo il 1000, sia sul continente sia nell'Inghilterra conquistata dai Normanni, la società si reggeva secondo un modello che possiamo chiamare feudale. In questo modello l'insieme del potere politico di comando e di coercizione risultava ripartito su un asse verticale tra una pluralità di soggetti: imperatore, principi, feudatari maggiori e minori, enti ecclesiastici immuni, comunità locali. Ciascuno di questi soggetti esercitava, sul territorio e sulla cerchia di persone di sua competenza, una certa sfera di poteri; gli altri poteri spettando, su quello stesso territorio e su quella stessa cerchia, ad altre autorità solo formalmente superiori o inferiori. Qualche principe (i re di Francia e di Inghilterra) non riconosceva sopra di sé alcun potere dell'imperatore; alla Chiesa universale (cattolica) era attribuito in esclusiva il governo delle materie spirituali (la cui area si estendeva però al di là della religione in senso stretto, includendo la materia dei matrimoni e dei testamenti). In larga misura, in questo quadro, la quota di potere di imperio assegnata ai vari soggetti si legava al possesso di beni fondiari, di terre: colui che aveva diritto a percepire frutti e utili dalle terre aveva anche talune potestà pubbliche in rapporto alle cose e alle persone che vi si trovavano. In altre parole, potere politico e potere economico andavano, di massima, giuridicamente congiunti. In tutta Europa le popolazioni regolavano i loro rapporti interpersonali quotidiani in base ai diritti tradizionali delle diverse stirpi a cui appartenevano o a diritti consuetudinari locali; le autorità feudali, nell'amministrare la giustizia e nel dettare regole di condotta nuove, tenevano conto di questo vincolo delle popolazioni ai loro abituali, rispettivi diritti.Le vicende storiche successive sancirono sviluppi distinti per l'Europa continentale e per l'Inghilterra.

Sul continente, il pluralismo delle autorità politiche abilitate a dettar regole e a rendere giustizia si ridusse, nel periodo che va fino al Rinascimento, ma non di molto. La loro attività normativa produsse tuttavia una relativa uniformazione del diritto nelle aree di loro giurisdizione. Ciò che però influì maggiormente sull'evoluzione in questo senso degli ordinamenti giuridici fu l'adozione pratica dell'antico diritto romano - conosciuto attraverso la riscoperta dei testi del Corpus iuris giustinianeo - come diritto sussidiario - e in vari casi prevalente. Il diritto romano insegnato con passione in molte università del continente, fu considerato la legge naturale del rinato Impero d'Occidente e in ogni caso espressione di principî eterni di giustizia. Servì a giudici e ad altre autorità per integrare, ma anche correggere e via via comprimere e talvolta soppiantare, nel regolamento concreto dei rapporti sociali, i diritti particolari e le legislazioni locali del pluralismo medievale. Divenne, per molte parti dell'Europa continentale - anche se non per tutte - un diritto 'comune', da utilizzare in supplenza dei diritti speciali, dotati di validità territorialmente circoscritta.

L'antico diritto romano, per la verità, muoveva da un'impostazione radicalmente antitetica a quella del modello feudale. Fin dalle sue origini esso aveva tenuto nettamente separata la proprietà dei beni, spettante ai privati, dalla somma delle potestà di imperio, spettante alla collettività nel suo insieme e da esercitarsi solo da magistrati da questa appositamente deputati. Di qui la distinzione fondamentale tra diritto privato (il corpo di norme relative alla condotta dei singoli e ai loro beni) e diritto pubblico (il corpo di norme relative alle magistrature). Per di più, il concetto che i Romani avevano del diritto di proprietà (il dominium dei quiriti) repugnava all'idea, propria invece della mentalità giuridica dei Germani e conforme alla logica del modello feudale, secondo cui è normale che, rispetto a un bene importante, come le terre, i diritti di sfruttamento venissero divisi tra più persone (e congiunti con pubbliche funzioni).

Queste e altre caratteristiche del diritto romano avrebbero dovuto renderlo difficilmente applicabile in un contesto in cui l'impianto delle istituzioni si ispirava a idee completamente difformi. Ma il fascino e la superiorità culturale di quell'antico sistema e la straordinaria capacità manipolativa dei suoi interpreti medievali (i 'glossatori' e i 'commentatori') compirono il miracolo. Il diritto romano piantò le sue radici perfino in Germania, ove fu ufficialmente 'recepito' come 'diritto comune' nel 1495. Si trattava naturalmente di un diritto in molti punti modificato rispetto a quello originario e adattato ai bisogni del nuovo ambiente. Esso comunque contribuì a sua volta a modificare via via l'ambiente, rialzandone di molto la qualità e avviandolo a futuri destini 'moderni'.

In Inghilterra l'uniformazione nazionale del diritto non passò attraverso il diritto romano, riplasmato da professori universitari, bensì attraverso un altro 'diritto comune' (la common law), elaborato dalle corti centrali di una monarchia che in molte materie seppe ben presto imporsi alla concorrenza dei signori feudali. Non è che il diritto romano (come quello canonico, padrone delle anime dei fedeli) non esercitasse qualche influenza. Essa è visibile in opere come quella, per esempio, del giurista Bracton. Ma la recezione come tale fu respinta e i testi del Corpus iuris non offrirono mai principî giuridici direttamente applicabili per la soluzione delle controversie. Le corti del re, giudicando su ordini introduttivi del procedimento (writs) concessi in rapporto a tipi di cause via via sempre più estesi, sottrassero progressivamente materie di contenzioso alle autorità inferiori e al diritto da esse applicato, e costruirono un tessuto normativo idoneo a soddisfare su tutto il territorio del regno al tempo stesso le inerzie consuetudinarie dell'ambiente, le attese di una certa giustizia nuova e i bisogni di un ordine uniforme. Si trattava di un tessuto rozzo, al confronto delle regole raffinate di un diritto romano filtrato, nell'antichità, da secoli di matura esperienza giuridica. Le decisioni delle corti centrali definivano tutt'insieme i diritti dei possessori dei fondi e le loro funzioni pubbliche (donde l'assenza di una distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, che nel linguaggio giuridico inglese non penetrò mai, pure in seguito quando possesso e funzioni si separarono). Le corti badarono - oltre che a dirimere liti circa proprietà e possesso delle terre e connesse funzioni - soprattutto a prevedere rimedi in casi in cui il danno cagionato a persone e cose meritava una reazione e un risarcimento (definizione dei casi di tort), cominciarono a tener vincolati, in qualche caso particolare, gli autori di promesse (dando avvio a un diritto dei contratti in germe), e via dicendo.

Nel XIII secolo si pose termine al potere della giustizia regia di emanare a discrezione nuovi writs. La common law si sarebbe forse congelata su posizioni di inaccettabile immobilità arcaica se non fossero sopravvenuti tre strumenti che ne permisero il continuo, ulteriore aggiornamento. Le corti applicarono per analogia a casi nuovi i writs consolidati, in tal modo ampliandone la portata e facendone nascere prodotti normativi sostanzialmente nuovi. Il Parlamento (composto di due camere, rappresentative della divisione in ceti della comunità) prese, con l'assenso del re, a emanare atti normativi (statutes) in numero maggiore che in passato, capaci di correggere la common law definita dalle corti. Fino a buona parte del Cinquecento - bisogna ricordare - tali atti normativi, non meno della giurisprudenza delle corti regie, venivano ritenuti meramente 'dichiarativi' di un diritto costituente il patrimonio giuridico, fondamentale e immodificabile, della nazione. D'altro canto, più tardi, si riconobbe al re - attraverso l'opera di un organo speciale, la Corte di cancelleria - il potere di concedere, in considerazione di speciali motivi di equità (equity), rimedi che la common law tradizionale non conosceva. Si formò così ben presto un complesso di norme di equity che si posero al fianco di quelle della common law in senso stretto, attenuandone il non più giustificabile rigore.

Lo Stato moderno e il grande modello ottocentesco liberale

Il superamento definitivo del pluralismo medievale si ebbe solo col sorgere, tra il XV e XVII secolo, dello 'Stato' nel senso moderno della parola. La figura dello Stato nacque quando si realizzò in misura quasi integrale la 'depoliticizzazione' della società civile: cioè il riassorbimento nelle mani del principe delle funzioni di imperio che prima erano state distribuite tra varie autorità inferiori in seno alla comunità (mentre l'autorità imperiale, che stava al di sopra, finì esautorata). La società civile rimase ancora, per lo più, divisa per ceti, ma i veri poteri di comando confluirono tutti, alla fine, nelle mani di un solo sovrano, che prese ad esercitarli con l'ausilio di una burocrazia specializzata.

La concentrazione delle funzioni di imperio nelle mani del sovrano fu massima e quasi totale sul continente: ivi si formò il tipo dello 'Stato assoluto', per il quale, al termine di un lungo processo, le precedenti autorità feudali furono letteralmente spogliate di ogni potere politico e ridotte a un'aristocrazia dotata sì di privilegi, ma soltanto di natura strettamente economica e sociale. In Inghilterra, la 'depoliticizzazione' della società civile non fu sostanzialmente inferiore; ma alla quasi intera scomparsa di poteri territorialmente decentrati fece riscontro una viva resistenza della società civile a lasciare che il principe esercitasse senza controlli, dal centro, la sovranità (il che era divenuto la regola, invece, sul continente). Una resistenza che dopo dure lotte condusse a un compromesso sapiente (1688), in base al quale fu ribadito che solo una rappresentanza elitistica della società civile (il già ricordato Parlamento composto di una camera aristocratica e di una camera eletta da una cerchia borghese ristretta) avrebbe fatto norme capaci di correggere la common law, mentre il re, da solo, nell'esercizio dell'azione amministrativa, avrebbe dovuto rispettare le leggi fatte col suo assenso dal Parlamento nonché la common law fissata in piena indipendenza dalle corti (restando escluso il controverso potere regolamentare del re di derogare, con ordinanza, alle norme degli statutes e della common law).

La depoliticizzazione della società civile significò, in pratica, una grande liberazione dei singoli soggetti da soffocanti vincoli e controlli imposti da un fitto numero di sovrastanti autorità. Lo Stato moderno risponde alla spinta dell'ideologia individualistica affermatasi con il Rinascimento e la Riforma: l'individuo, tenuto ormai a obbedire al comando di una sola autorità, di riflesso guadagna in autonomia. Questa maggiore autonomia aprì la strada alla trasformazione in senso borghese della società civile. E il diritto - sia al di qui sia al di là della Manica - gradualmente provvide a secondare quella trasformazione, approntando istituti e regole più idonei, specie in campo economico, a tutelare e a dar forza alle iniziative dei singoli - cioè all'essenza delle aspettative borghesi. Questa evoluzione del diritto avvenne a opera di un legislatore statale centrale ormai ben persuaso - anche al di là della Manica - di potere e dovere creare, dall'alto della sua autorità ormai unica, un nuovo diritto, adatto ai tempi nuovi. Ma vi concorse poderosamente anche l'opera di giuristi (soprattutto sul continente) e di giudici (soprattutto in Inghilterra) che preparò, integrò e persino tenne il luogo in non pochi casi, più o meno surrettiziamente, del lavoro del legislatore (che sul continente fu, fino alla Rivoluzione francese, il principe; in Inghilterra, dopo il 1688, il Parlamento).

A ogni modo, l'ideologia individualistica ricevette la definitiva consacrazione culturale solo con il XVIII secolo, il quale ne completò e perfezionò sotto tutti i rispetti la teoria e così facilitò il trionfo sistematico e capillare che essa riuscì a conseguire nel XIX secolo presso tutti i maggiori ordinamenti d'Europa e in quello degli Stati Uniti.

Ora, se si considerano comparativamente i sistemi giuridici di quegli ordinamenti ottocenteschi, si scorge in effetti che essi tendono (quantunque con intensità e con riuscite diverse) a plasmarsi secondo un grande modello comune che possiamo definire liberale. L'aggettivo spetta di pieno diritto al modello perché al suo fondamento sta l'idea ispiratrice che il sistema giuridico debba costruirsi tutto in funzione della massima autonomia, in tutti i campi, dell'individuo. Questa idea si sviluppa e si realizza in primo luogo sul terreno del diritto dei rapporti tra i privati, così negli ordinamenti di civil come in quelli di common law (sebbene solo nei primi si usi parlare in proposito di un vero 'diritto privato', ora del resto molto più facilmente distinguibile dal 'pubblico' perché del tutto 'depoliticizzato' e liberalizzato). Ma l'idea condiziona in modo poderoso anche l'organizzazione dei poteri pubblici chiamati a fare e a rinnovare il diritto e ad applicarlo: organizzazione che viene adesso strutturata in maniera da rendere minima l'ingerenza dello Stato attraverso interventi discrezionali nel gioco delle operazioni di una società civile composta da individui autonomi e ormai lasciata completamente a sé (e qui i paesi di lingua anglosassone si distinguono per aver aperto la strada alle limitazioni dei poteri del sovrano con l'esempio del compromesso del 1688, e in genere per un più spiccato e rigoroso atteggiamento contrario all'interventismo statale).

Dinanzi alla legge civile e penale scompaiono dappertutto i privilegi di ceto, nonché le correlative esenzioni tributarie; mentre in genere l'eguaglianza giuridica formale di tutti i soggetti viene riconosciuta, con l'eliminazione di antiche discriminanti odiose (come quella a danno delle capacità giuridiche degli ebrei).

All'individuo la legge (o una common law reinterpretata da corti liberali o corretta da statutes) garantisce, sia nei confronti dei terzi privati sia soprattutto nei confronti della pubblica amministrazione, ampie sfere di libertà nel settore della vita più strettamente personale (libertà fisica della persona; di domicilio; di riunione; di associazione) e nel settore della vita lato sensu culturale (libertà religiosa; di stampa; di insegnamento; di discussione politica). Si ammettono limiti a queste libertà ma solo marginali e solo in funzione della tutela di valori quali la moralità e l'ordine pubblico. Negli ordinamenti di common law il processo penale - impostato su uno schema 'accusatorio' - offre maggiori garanzie di difesa all'imputato che non il processo nei paesi di civil law, che però sovente applicano un diritto penale sostanziale meno severo e adesso hanno di molto temperato i tradizionali privilegi dell'accusa nel loro schema 'inquisitorio', di origine romanistica. Nel processo civile - ove le parti hanno la libera disposizione dei loro diritti e l'onere di difenderli - si tende dappertutto a eliminare o almeno a ridurre formalismi eccessivi (e negli ordinamenti di common law si cancellano finalmente le forms of action discendenti dai medievali writs e la radicale divisione - a vari effetti prima rilevante - di norme di common law in senso stretto e norme di equity).Nel vasto settore dell'economia il modello liberale crea letteralmente, con i suoi principî giuridici e connessi istituti, il mercato come realtà che informa di sé - in tutti i suoi reparti e in tutti i suoi angoli - il settore stesso. La produzione e la distribuzione della ricchezza vengono affidate per intero - o quasi - alla sola spontanea operosità dei privati, la quale si avvale, all'uopo, di quattro strumenti giuridici cardinali: la libertà di iniziativa economica; la libertà di lavoro; la proprietà privata (sottratta, riguardo a tutti i beni ai quali essa può estendersi, a vincoli che rendano difficile la libera disponibilità e circolazione dei beni); la libertà di contratto. In conformità a questa impostazione, sia sul continente europeo sia in Inghilterra, vengono aboliti i diritti di uso civico sulle terre. L'istituto della proprietà e diritti analoghi vengono ridefiniti in modo da rendere più agevole la loro fruibilità (sul continente si parla addirittura di un ritorno alla proprietà quiritaria, diritto 'assoluto'). L'istituto del fedecommesso viene o abrogato o ridimensionato. In molti ordinamenti sono eliminate le esistenti 'mani morte'. Là dove non fossero già scomparse, le corporazioni di mestiere, con i loro poteri di controllo restrittivo sull'accesso a molte attività, vengono disciolte e anche penalmente vietate. Il contratto di lavoro viene regolato come libero incontro della volontà delle parti - singolo lavoratore e singolo datore di lavoro -, le quali ne determinano in piena autonomia - salvi limiti marginali - tutti i contenuti. Cadono quasi tutte le precedenti concessioni statali in monopolio a imprese private della produzione di certi beni o servizi: l'iniziativa degli imprenditori può dispiegarsi adesso - sia in Europa sia in America - per lo più in tutti i campi in cui essa desideri impegnarsi. E così su entrambe le sponde dell'Atlantico, per facilitarne lo slancio, a partire dalla prima metà dell'Ottocento e via via nel corso del secolo, la costituzione di società commerciali a responsabilità limitata diventa libera, nel rispetto di regole generali, senza più bisogno di autorizzazioni da rilasciarsi volta per volta con legge speciale. Viene modernizzato dappertutto il diritto delle obbligazioni e dei contratti (specie quelli di natura commerciale), concedendo più spazio al ruolo della volontà delle parti e meno al rigore inutile delle forme. Infine cadono dappertutto le determinazioni di autorità dei prezzi dei beni e dei servizi (salvo il caso di servizi gestiti in situazioni di monopolio naturale o di eccezionale interesse pubblico). Si capisce come, nel quadro complessivo di queste strutture giuridiche, la 'legge' che gli economisti chiamano 'della domanda e dell'offerta' diventi il criterio di fatto sovrano per l'allocazione delle risorse, l'orientamento della produzione, la fissazione dei prezzi dei prodotti, la retribuzione dei fattori produttivi, la ripartizione dei profitti.

Nel modello liberale la stabilità e certezza del diritto, che garantisce agli individui le libertà e gli istituti di autonomia che abbiamo ricordati, è un valore fondamentale. Nel modello diventa perciò indispensabile conferire massima chiarezza e semplicità al tessuto normativo che pone le garanzie e rendere rare e limitate le innovazioni delle norme realizzate per qualsiasi via. Negli ordinamenti di tradizione romanistica ciò si ottiene mediante l'adozione di codici, i quali sostituiscono la massa farraginosa della normazione precedente, che proveniva da varie fonti, e in un numero ristretto di articoli incorporano sistematicamente i principî dell'ideologia individualistica (il Codice civile francese è del 1804; quello austriaco del 1811; quello italiano del 1865; quello tedesco - frutto di una maturazione dottrinale prolungata e magistrale - del 1900). La legislazione speciale, che integra e marginalmente può correggere i codici, viene riguardata spesso con sospetto e in genere consigliata soltanto quando vere, gravi esigenze la impongano. Nei paesi di common law non si fa ricorso ai codici, ma quasi gli stessi risultati si ottengono per un'altra strada. Le corti, nell'interpretare la common law da esse stesse elaborata attraverso i secoli e gli statutes che l'avevano via via corretta e integrata, avevano sempre adoperato metodi che consentivano loro di far evolvere, con notevole discrezionalità, il diritto. Nel XIX secolo, sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti (che avevano importato la common law dal paese d'origine fin dall'epoca coloniale), l'insieme del sistema normativo, prodotto delle letture evolutive della giurisprudenza e degli interventi riformatori della recente legislazione, presentava ormai un volto decisamente liberale. A questo punto le corti di entrambi gli ordinamenti scelgono di attenersi a metodi interpretativi per quanto possibile restrittivi e conservatori, irrigidendo il principio, pur da tempo da esse accolto, dello stare decisis (in Inghilterra l'obbligo della aderenza ai precedenti giudiziali da parte delle corti diviene assoluto, estendendosi allo stesso organo di vertice - i law lords - rispetto alle sue pronunce passate). In questa maniera, la common law, nello stato in cui in quel momento si trovava, svolge quella stessa funzione di corpo organico e stabile di principî giuridici liberali che sul continente europeo viene svolta dai codici: anche perché le giurisprudenze anglosassoni sono d'accordo nel ritenere che ogni nuovo statute che deroghi alla common law debba sempre interpretarsi come legge eccezionale, cioè in senso restrittivo.Nell'organizzazione dei poteri pubblici, al di là delle pur molte e profonde differenze, i maggiori ordinamenti su entrambe le sponde dell'Atlantico accolgono una serie di principî comuni.Seguendo la logica insita nel compromesso inglese del 1688 e sviluppandone le implicazioni, gli ordinamenti adottano uno schema montesquieuano di divisione dei poteri. Questo schema esige, in primo luogo, che la normazione che innova sul sistema esistente sia fatta per legge a opera di organi uno dei quali almeno sia rappresentativo della società civile per via di elezione. Il parlamento, nel cui seno sono decisive le scelte di quell'organo, diviene così dappertutto il 'centro' nel quadro dei poteri statali. La legge, fatta dal parlamento (lo statute nei paesi di common law), diventa quasi l'unica fonte capace di rinnovare il diritto e la macchinosità delle procedure per la sua approvazione assicura che il flusso della legislazione sia lento e limitato.

Nella divisione dei poteri all'esecutivo spetta l'azione amministrativa, la quale è soggetta al rispetto della legge e, tranne che nel campo della politica estera, dovrebbe godere di circoscritti poteri discrezionali.Il terzo potere, il giudiziario, è indipendente dagli altri due e deve applicare imparzialmente, nel decidere le liti, le norme esistenti del sistema, senza apportarvi variazioni. È chiaro che la giurisprudenza continua come in passato a determinare, col suo lavoro, sviluppi nel corpo del diritto 'vivente' (anche nei paesi di civil law i principî organici dei codici non riescono a rendere puramente 'meccanica' e scevra di apporti creativi l'opera applicativa dei giudici). Ma gli sviluppi giurisprudenziali del diritto dovrebbero essere contenuti al massimo, per non pregiudicare il valore della certezza giuridica; e di fatto, in molti casi, ora lo sono più che in passato.Un'adeguata tutela dei diritti dei soggetti richiede, tra l'altro, il controllo giurisdizionale della legittimità dell'azione amministrativa. A questo controllo provvedono, nei paesi di common law, i giudici ordinari; nei paesi di civil law, dopo varie incertezze, giudici speciali amministrativi. Nei paesi del primo tipo i danni cagionati dall'atto amministrativo illegittimo devono essere risarciti dal funzionario autore dell'atto; lo Stato non risponde. Nei paesi del secondo tipo la responsabilità finisce invece per gravare sulle casse dell'ente pubblico.

Dappertutto si vorrebbe che il sistema tributario si informasse al principio della stretta proporzionalità del prelievo rispetto al reddito posseduto, non ammettendosi che lo Stato abbia compiti e poteri 'ridistributivi' nei confronti della distribuzione della ricchezza realizzata dal mercato. Di rado - bisogna dire - i sistemi tributari di fatto si adeguano al principio, mentre più frequente è il rispetto di quell'altro principio del modello liberale secondo cui il bilancio dello Stato deve stare in pareggio. In parallelo gli Stati bene gestiti onorano di regola i due cardini di una ideale 'costituzione monetaria' liberale: stabile 'parità' della moneta cartacea rispetto all'oro; convertibilità libera della cartamoneta in oro - cardini che garantiscono da rischi di manipolazione della moneta da parte di autorità politiche, con pregiudizio per la stessa correttezza dei rapporti economici.

L'attuale modello unitario occidentale (il diritto della democrazia con fini sociali)

Abbiamo indugiato nella descrizione del modello giuridico liberale perché da esso deriva, per diretta modificazione di determinati tratti, il modello che informa unitariamente i sistemi giuridici dei pur diversi ordinamenti contemporanei di impronta occidentale. L'essenza di questa modificazione può riassumersi in una proposizione sola: il nuovo modello, rispetto a quello liberale, è il prodotto di un ritorno del controllo della politica sulla società civile, con la conseguente netta diminuzione dell'autonomia giuridica di quest'ultima. Non è che la 'ripoliticizzazione' del sistema giuridico sia avvenuta riproducendo schemi di tipo medievale (benché qualche marginale attribuzione di funzioni pubbliche a soggetti di per sé privati si sia pure data). Ma i poteri politici (magari in articolazioni che diventano sempre più pluralistiche, anche per via di larghi e profondi inserimenti in organizzazioni internazionali) hanno ripreso a intromettersi, con frequenza e intensità, nelle operazioni della società civile, al fine di condizionarne gli sviluppi e di correggerli.

L'autonomia giuridica degli individui non è tramontata del tutto come valore fondamentale (anzi, in certe direzioni è stata persino potenziata) ma, nel complesso, essa ha subito forti limitazioni da parte di ordinamenti che dicono di perseguire fini di migliore equilibrio economico e di maggiore equità. Dal punto di vista delle cause politiche e sociali, il superamento del modello liberale si deve tutt'insieme, probabilmente, alla completa industrializzazione dei processi produttivi, al desiderio di sicurezza di grandi masse pervenute al benessere, all'avvento dappertutto del suffragio universale. In sostanza, il nuovo modello può considerarsi emanazione di democrazie che intendono parzialmente dirigere la società e il mercato (senza abolirlo) per fini che si sogliono chiamare complessivamente sociali.

I campi in cui i sistemi giuridici hanno in genere aperto ulteriori spazi di libertà alle scelte degli individui sono quelli della vita intima, delle relazioni personali e della cultura. Limiti pur conservati in passato (come quelli della moralità e dell'ordine pubblico) sono scomparsi o sono fortemente receduti. Esemplari in proposito la generale cancellazione dell'indissolubilità del matrimonio - il divorzio facile - e il riconoscimento del diritto della donna all'interruzione volontaria della gravidanza. La propaganda di opinioni radicalmente eterodosse ed eversive è - oggi - più libera che in passato. Lo stesso si dica per le pubblicazioni che potrebbero offendere il buon costume (limite in pratica di fatto quasi abrogato). Ma in tutti gli altri campi gli ordinamenti adottano regole che circoscrivono maggiormente le autonomie individuali.Il principio dell'eguaglianza formale viene attuato, nei sistemi giuridici, fino alle sue estreme implicazioni. Sono eliminate le ultime distinzioni fondate su razza e sesso (nel diritto di famiglia la 'patria potestà' diventa la 'potestà genitoriale'). Ma gli Stati si impegnano adesso anche nella realizzazione della cosiddetta 'eguaglianza sostanziale'. Ciò non significa esatta parificazione coattiva di tutte le posizioni economiche (quantunque una certa spinta alla diminuzione delle distanze che la dinamica del mercato crea si possa constatare nel principio universalmente accolto della 'progressività' della imposizione tributaria); significa invece trattamento privilegiato dei gruppi sociali deboli, cui vanno non soltanto aiuti di genere finanziario, ma anche normative speciali di supporto. Codeste normative entrano in potenziale conflitto col principio dell'eguaglianza formale davanti alla legge e creano problemi di composizione del conflitto difficili da risolversi. Nella misura in cui vincolano anche le attività dei privati - per meglio avvantaggiare la posizione dei deboli - esse incidono pure sulle loro libertà.Più in generale, le libertà economiche del modello liberale subiscono restrizioni in svariate direzioni.

Crescono in quantità notevolissima le normative stabilenti autorizzazioni statali per l'esercizio di attività di lavoro autonomo e imprenditoriali e regole per lo sviluppo di quelle attività. Attraverso il sistema delle autorizzazioni rispunta di fatto un certo protezionismo di tipo corporativo a vantaggio di chi già opera nel settore. Si danno aree della produzione e del commercio in cui l'intervento pubblico - implicante determinazione autoritaria di quote, di qualità delle merci o dei servizi, di prezzi - assume profili marcatamente dirigistici: aree che si estendono ben al di là di quelle poche in cui il controllo pubblico già esisteva in epoca liberale. Esempio tipico, in quasi tutti gli ordinamenti, di questa espansione di un certo dirigismo statale è l'area dell'agricoltura: il ramo debole, più o meno in tutti gli ordinamenti, dell'economia moderna industrializzata.

La crescita delle innumeri normative testé menzionate ha fatto nascere in tutti gli ordinamenti una branca del diritto nuova, o pressoché nuova: il diritto amministrativo, coltivato ormai da un ramo della dottrina altrettanto nuovo e autonomo (senza che a questa regola o tendenza facciano eccezione gli ordinamenti di common law).

Un altro ramo nuovo del diritto, sorto nel modello giuridico delle democrazie del XX secolo, è quello del lavoro. Il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro non è più lasciato alla definizione libera del contratto concluso individualmente tra le parti. Molti aspetti del rapporto sono regolati ora da leggi speciali, intese a tutelare la parte debole (e così, in vari ordinamenti, è fissato d'autorità il salario minimo, l'orario massimo giornaliero di lavoro, ecc.). In aggiunta alle leggi, il contratto individuale è soggetto alle regole dettate dai contratti collettivi. Questi ultimi non sono contratti stipulati in base ai tradizionali principî privatistici del mandato e della rappresentanza, ma sono conclusi da soggetti tuttora privati (i sindacati dei lavoratori e, dall'altra parte, l'imprenditore o, più spesso, le organizzazioni datoriali) cui però l'ordinamento conferisce poteri o immunità speciali. In quasi tutti gli ordinamenti, per una via o per un'altra, al contratto collettivo il diritto riconosce, ufficialmente, date certe condizioni, la capacità di regolare rapporti anche tra soggetti che non avevano conferito un mandato in tal senso a chi ha concluso il contratto (lavoratori non iscritti al sindacato stipulante; imprenditori non appartenenti all'organizzazione che ha negoziato). Talvolta (in Gran Bretagna per esempio) il medesimo risultato pratico di imporre regole per accordi tra privati anche a soggetti estranei all'accordo si ottiene rendendo immuni da responsabilità civili i sindacati che con lo sciopero costringono gli imprenditori ad assumere lavoratori solo a certe condizioni.

Del resto, la società civile dell'epoca liberale, operante in autonomia sulla base di poche e stabili norme giuridiche, è complessivamente scomparsa. Il sistema normativo è ormai dappertutto costituito da masse enormi di regole in via di costante, rapido rinnovamento, per effetto di leggi, decreti e ordinanze che ogni giorno le autorità pubbliche sfornano in numero elevatissimo. Nei paesi di civil law il ruolo centrale dei codici è in pratica venuto meno; sempre maggiore rilevanza, come norma per gli affari quotidiani, assume l'onnipresente legislazione speciale. Si parla di un'avanzata 'età della decodificazione'. Non diverso è peraltro il destino dei classici principî giurisprudenziali nei paesi di common law. Anche lì, la legislazione speciale ha sommerso ogni settore dell'ordinamento. Le controversie, nove volte su dieci, si decidono in base a statutes o a regulations (contenenti disposizioni minute, che peraltro mutano di giorno in giorno) e non più col richiamo ad antichi principî generali, fissati nelle sentenze.Sul fronte dell'organizzazione dei poteri pubblici il mutamento non è stato meno notevole. Nel quadro della divisione dei poteri, la posizione dominante è stata occupata, per lo più, dal vecchio esecutivo, che meglio potrebbe ormai denominarsi 'potere governante'. Al fine di dar ordine al continuo flusso del rinnovamento normativo e di garantire le compatibilità finanziarie è esso che di solito pianifica la legislazione. I parlamenti si limitano spesso a dar forma di legge ai progetti approntati dall'esecutivo. D'altronde, la massa della normazione da emanarsi in continuità è tale che essa non può più transitare tutta dai parlamenti. In ogni paese occidentale - e sia pur con qualche diversità - si riscontra il fenomeno della 'delegazione legislativa': il potere di fare regole viene trasferito per molte materie, almeno quanto ai dettagli, dai parlamenti all'esecutivo e a organi della pubblica amministrazione. Quest'ultima si è dappertutto dilatata moltissimo nel XX secolo: gli impiegati pubblici rappresentano ormai una quota assai alta dell'intera forza lavoro di un paese. L'incidenza dell'azione amministrativa è diventata così grande, nelle faccende ordinarie e straordinarie della società, che si è ritenuto necessario imporle precise regole procedurali di garanzia (cosiddetta 'giudizializzazione' dell'azione amministrativa). In genere il controllo giurisdizionale dell'azione amministrativa, in aggiunta ai meccanismi di garanzia interni all'azione, si è, almeno sul piano normativo, allargato e intensificato. Anche nei paesi di common law il risarcimento dei danni cagionati dall'atto amministrativo illegittimo ormai viene di regola pagato dallo Stato.

Lo Stato si è fatto, qua e là, anche imprenditore. Ma esso, per ciò che concerne gli interventi diretti, si è impegnato soprattutto a fornire opere e servizi di natura 'sociale' in misure e dimensioni che l'epoca liberale assolutamente non conosceva. Fanno oggi capo allo Stato (o comunque a istituzioni ed enti pubblici) imponenti servizi di pubblica istruzione, di previdenza, di assistenza sanitaria più o meno generalizzata. La nuova coscienza collettiva spesso concepisce questi servizi come oggetto di 'diritti fondamentali sociali': diritti spettanti ai cittadini al pari delle fondamentali libertà civili e politiche (e come queste talvolta solennemente enunciati e garantiti in carte costituzionali). Non stupisce allora il fatto che i bilanci degli Stati contemporanei assorbano dal 35 al 50% e oltre del Prodotto Interno Lordo (PIL) del paese, di contro al 10-15% che era tipico degli Stati liberali. Né può stupire che alla regola dei bilanci in pareggio si sia ora sostituita la politica del più o meno pronunciato deficit spending e che la moneta sia stata sganciata dall'oro, affidandosi alle Banche centrali il compito di impedire che la sostanzialmente inevitabile lievitazione dei prezzi si trasformi in catastrofica inflazione.

Nel quadro della nuova divisione dei poteri il giudiziario non ha perduto di importanza: anzi. Parrebbe che la sua opera di sviluppo del diritto dovesse riuscire compressa e ridotta dalla massa di minuta normazione proveniente dai poteri politici dello Stato. Ma non è così, perché la stessa molteplicità delle norme e la velocità del loro rinnovamento impongono un lavoro di ricucitura e adattamento da compiersi in sede di applicazione. Inoltre, quasi tutti gli Stati si sono adesso muniti di costituzioni scritte e 'rigide' (cioè modificabili solo con procedure speciali) e molti Stati hanno istituito corti costituzionali dotate di un potere che nell'Ottocento solo la Corte Suprema degli Stati Uniti possedeva (ossia la facoltà di annullare leggi ordinarie in contrasto con la costituzione). Ciò ha dato ai giudici la possibilità di partecipare in modo incisivo alla funzione di guida e indirizzo dell'ordinamento: per mezzo di pronunce che, appoggiate alla lettura discrezionale delle generiche ed elastiche clausole della costituzione, vincolano gli stessi supremi poteri politici.

Due osservazioni conclusive.Nel processo di allontanamento dal modello liberale alcuni ordinamenti sono andati più innanzi, altri meno; alcuni hanno accentuato la presenza nel loro seno degli elementi di controllo pubblicistico che abbiamo menzionati, altri, pur partecipando al processo, hanno cercato di salvaguardare per quanto possibile l'autonomia della società civile, contenendo l'espandersi dello Stato. Dentro il quadro unitario del modello democratico dello Stato contemporaneo che abbiamo delineato è perciò ragionevole distinguere due sottomodelli: quello degli ordinamenti più 'socialmente' avanzati (che potremmo chiamare 'socialdemocratici') e quello degli ordinamenti tuttora più legati al mercato (che potremmo chiamare 'neoliberali'). Al primo gruppo appartengono in genere gli ordinamenti europei (incluso quello britannico, nonostante qualche correzione di indirizzo effettuata dopo il 1978). A capo del secondo gruppo vi sono gli Stati Uniti. Naturalmente la tendenza socialdemocratica o quella neoliberale non prevale in ciascun ordinamento sotto tutti i rispetti e in tutti i rami del diritto; l'ascrizione all'uno o all'altro gruppo si giustifica in base ad approssimativi calcoli di prevalenza complessiva. Può forse contare a ogni modo, come indizio decisivo, la circostanza che negli ordinamenti europei il livello della spesa pubblica abbia dappertutto raggiunto il 50% del PIL, mentre si sia arrestato al 35% negli Stati Uniti (nonché in Svizzera).

Alla divisione nelle sottofamiglie socialdemocratica e neoliberale della grande famiglia del modello unitario occidentale del XX secolo si possono, come è ovvio, affiancare altre suddivisioni, che non mirano magari a contrapporre gli ordinamenti sotto il profilo dei loro sistemi giuridici considerati nella loro intera e organica unità, bensì sotto qualche profilo particolare. In questa prospettiva, possiamo tuttora sottodistinguere ordinamenti di civil e di common law per i tratti peculiari che si sono notati sopra (diversità negli apparati terminologico-concettuali che li contraddistinguono e per un aspetto nell'ordine delle fonti, con riflessi sulle tecniche del ragionamento giuridico e sui modi di apprendimento del diritto). Possiamo contrapporre, nell'ambito degli ordinamenti civil, quelli che hanno preso a lungo a modello per i loro codici e la loro legislazione gli esempi francesi (in genere i paesi neolatini e tra essi l'Italia; inoltre l'Egitto, la Turchia) a quelli che si sono attenuti prevalentemente agli esempi tedeschi (Giappone); quelli che seguono nella dottrina lo 'stile concettualistico' insegnato dalla Germania (l'Italia) a quelli che preferiscono lo 'stile esegetico' della Francia. Tra gli ordinamenti di common law è ragionevole distinguere quelli che possiedono una costituzione formale e il sindacato giudiziale di costituzionalità (per esempio, Stati Uniti, Australia, Canada) da quelli che non conoscono né l'una né l'altro (Gran Bretagna). E via dicendo.

Altri grandi modelli contemporanei

Non è questa la sede per una compiuta descrizione degli altri maggiori modelli giuridici che hanno tenuto il campo nel XX secolo in contrapposizione a quello occidentale.

Basti qui dire che il modello 'sovietico', o del 'diritto socialista', ruotava attorno alla proprietà statale di tutti i mezzi di produzione e a una pianificazione centrale di tutte le attività produttive e distributive della ricchezza. Nell'organizzazione dei poteri pubblici era rigettata qualunque idea di divisione orizzontale dei poteri, ritenuta (giustamente) di pretto stampo 'borghese'. Gli organi direttivi dello Stato erano strutturati secondo un criterio della 'dimensione e unità del potere' che avrebbe dovuto renderli tutti responsabili davanti a una base popolare. In realtà, dietro alle vuote forme stava la sostanza del partito unico comunista, solo vero detentore d'ogni potere, esso stesso organizzato centralisticamente, con al vertice un dittatore. Inesistenti le libertà civili e politiche della tradizione occidentale.

Nell'Unione Sovietica il linguaggio tecnico in cui si esprimevano formalmente le norme giuridiche era quello tralatizio del diritto romano, importato precedentemente in Russia dalla Germania (e in parte dalla Francia). Non occorre dire che la cosa aveva rilievo solo agli effetti di una superficiale 'cronaca' di diritto comparato, nulla contando a quelli dell'individuazione del vero 'volto' o 'spirito' del sistema.

Nei paesi dell'Est europeo, ove si impose dopo la seconda guerra mondiale il modello del diritto socialista, fu tollerata l'esistenza di marginali figure di proprietà privata delle terre o, in luogo della proprietà statale, quella collettiva dei lavoratori delle imprese (Iugoslavia).

Il modello socialista è scomparso, per collasso, dalla Russia e dall'Est europeo dopo il 1989. Sembra sopravvivere a Cuba e nella popolatissima Cina, nazione grande e importante. In Cina, peraltro, negli anni novanta pare essersi affermata una combinazione di Stato sotto controllo di un partito unico e di economia aperta largamente alla proprietà e all'iniziativa imprenditoriale private: una combinazione che in tempi andati i marxisti avrebbero definita 'fascismo'. Riguardo ai due maggiori paesi dell'Estremo Oriente - Giappone e Cina - occorre ricordare che l'importazione di modelli stranieri, intervenuta in diverse ondate e con diversi contenuti a partire dalla seconda metà del XIX secolo, sembra non aver del tutto sradicato i modelli di convivenza sociale tradizionalmente esistenti in passato nei rispettivi ordinamenti. Il Giappone, prima del suo aprirsi alle influenze occidentali (1853-1867), era una comunità fortemente gerarchizzata e, là dove non valeva il comando coattivo del superiore gerarchico, propensa a regolare le controversie sulla base di consuetudini munite di mere (sebbene forti) sanzioni di riprovazione sociale (i giri). Seguì un periodo di rapide codificazioni di tipo europeo-continentale, che coprivano tutti i campi del diritto - prima su modelli francesi, poi su modelli tedeschi - con una organizzazione dello Stato basata, formalmente, sui classici parametri della divisione dei poteri. A questa europeizzazione dell'ordinamento giapponese si sovrappose dopo la seconda guerra mondiale una costituzione di netta ispirazione americana, con ovvi riflessi anche sulle sfere normative inferiori. Ma tutto questo pur profondissimo rinnovamento delle strutture del sistema giuridico del Giappone non ha cancellato una propensione di quel paese ad affidarsi più sovente che nei paesi occidentali, in caso di liti, alla prassi del compromesso extragiudiziale; una prassi probabilmente ricollegabile alla logica e alla persistente influenza degli antichi giri.

La Cina fu dominata per oltre un millennio da una pervadente cultura confuciana la quale, in nome dell'armonia cosmica e di un ideale di superiore sapienza, scoraggiava di principio, nelle masse, la tendenza a far valere in contenzioso i propri presunti diritti. Si preferiva risolvere i contrasti attraverso accordi fondati su principî di ragione non codificabili, interpretati dai 'mandarini' (il li). Norme penali amministrative, anche severe (il fa), si davano peraltro a protezione di talune fondamentali strutture sociali, come la soggezione all'imperatore, la supremazia del capofamiglia nell'ambito della medesima, le violazioni più gravi della proprietà e della convivenza pacifica, ecc. Col XX secolo sopravvennero anche in Cina codificazioni di tipo occidentale-borghese (sia pur con meno sistematicità che in Giappone), e in seguito si impose la radicale rivoluzione del comunismo. Questo, nel suo periodo maoista, spinse il potere arbitrario del partito unico anche al di là dei limiti raggiunti dall'ordinamento sovietico, e sconvolse da cima a fondo le esistenti strutture giuridiche e sociali del paese. Oggi, come si è detto, fermo restando il monopolio del partito sul potere politico, in economia si danno aperture crescenti a favore dell'iniziativa privata, e in genere l'ordinamento va assumendo caratteri più vicini a quelli dei sistemi dell'Occidente. Ma permangono aree di controllo statale sulla società civile non immaginabili nei paesi occidentali (come nel caso della politica duramente restrittiva della natalità), mentre al di là della regola dettata dallo Stato valgono ancora, per quanto è dato sapere, residui dell'antica mentalità compromissoria confuciana e la tenace tendenza a subordinare la donna all'interno della famiglia.

Un quinto della popolazione mondiale professa la fede religiosa islamica. Il Corano detta regole anche per il giusto comporsi delle relazioni sociali, vincolanti per i fedeli e dotate di valore eterno: in materia di rapporti tra religione e politica, di famiglia, di successioni, di diritti patrimoniali, ecc. (con nette divergenze, in vari punti, dalle norme giuridiche occidentali attualmente prevalenti). Allo sviluppo e all'adattamento di queste regole di origine religiosa (il cosiddetto fiqh, radicato nella sharī'a, ossia in espressi precetti del Corano) ha provveduto nei secoli l'interpretazione dei dottori. La dottrina ha svolto un ruolo essenziale nella storia del diritto islamico, fornendo diverse interpretazioni delle normative coraniche (sciita, sunnita, e, nel seno di quest'ultima, scuola hanafita, malichita, ecc.). Il fiqh, negli ordinamenti che dichiarano di fondarsi sulla religione islamica, è diritto immediatamente in vigore, applicabile e applicato dai giudici (i quali un tempo erano meri delegati della suprema autorità religiosa e avevano il nome di qādī). I musulmani formano un'unica comunità religiosa; ma ammettono di essere politicamente governati da autorità, anche laiche, diverse (e oggi essi si trovano ripartiti in unità statali distinte quali la Turchia, l'Egitto, l'Iran, l'Iraq, l'Algeria, la Tunisia, il Marocco, l'Arabia Saudita e così via). Le autorità politiche - quali che esse siano: l'Islam non è pregiudizialmente favorevole ad alcun particolare regime, monarchico o repubblicano - possono emanare regole per il migliore governo dei loro sudditi e queste regole (siyāsa) vanno obbedite da tutti i buoni musulmani. Ma esse - almeno in quanto applicate ai fedeli dell'Islam - non debbono contraddire alle regole immodificabili della sharī'a, perdendo altrimenti di forza vincolante. Di fatto, in paesi a prevalente popolazione musulmana, è accaduto che lo Stato abbia talvolta adottato leggi non conformi al diritto coranico incontrando scarsa o nessuna resistenza. La Turchia (con Kemāl Atatürk) e l'Egitto hanno addirittura 'laicizzato' per intero e largamente 'occidentalizzato', con successo, il loro ordinamento. Ma di recente tentativi di occidentalizzare diritto e società hanno suscitato invece reazioni violentissime in popolazioni legate profondamente al loro credo islamico. Ne sono esempi il caso dell'Iran (ove lo shāh che voleva modernizzare il paese fu cacciato) e quello attuale dell'Algeria (ove una maggioranza di 'fondamentalisti' non intende a nessun costo piegarsi alle riforme volute da un'élite occidentalizzante).

Le principali regole coraniche contrastanti con quelle dell'odierno Occidente sono, all'incirca, le seguenti. All'Islam è fatto obbligo di estendere su tutta la terra, se occorre anche con la forza, la fede nel Dio proclamato nel Corano. La guerra santa (gihād) nei confronti degli infedeli è dunque lecita e anzi, in certe condizioni, dovuta. Convivere pacificamente con gli infedeli - in molte circostanze una necessità - assume dunque l'aspetto, tendenzialmente, di una tregua più o meno temporanea. Nei territori controllati da un potere politico islamico il culto di religioni monoteistiche come quella ebraica e quella cristiana può essere tollerato, ma non sono tollerati altri culti di infedeli, le manifestazioni di ateismo, nonché, in genere, le espressioni di opinioni e comportamenti offensivi della vera fede. Nei suddetti territori la pienezza della capacità giuridica e d'agire deve spettare solo ai musulmani, agli infedeli compete uno status di (variabile) inferiorità. Nella famiglia il capo è l'uomo, che ha diritto di avere contemporaneamente sino a quattro mogli (più eventuali concubine), e ha il privilegio del ripudio. La donna occupa sotto molti rispetti una posizione subordinata, addolcita dal diritto a un'equa protezione. Le figlie possono ereditare, sul patrimonio dei genitori, una quota non superiore alla metà di quella dei figli. La testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo e la penalità da versare per la morte o la lesione della donna è anch'essa dimidiata. Taluni contratti sono vietati (il prestito contro interesse, l'assicurazione, l'affitto dei suoli, ecc.). Il Corano contempla anche, per vari casi, precise prescrizioni di pene particolarmente gravi: la morte, la mutilazione, la fustigazione, il bando (applicabili tra l'altro anche a reati quali l'apostasia dell'Islam, il consumo di bevande alcoliche, le relazioni extraconiugali), pene talvolta commutabili in sanzioni pecuniarie a vantaggio degli offesi (col consenso di costoro).

L'interpretazione dottrinale ha già in passato escogitato maniere per aggirare la rigidezza di alcune delle regole testé menzionate (che del resto nella storia medievale dell'Occidente cristiano non mancavano qua e là di alcuni, addirittura precisi paralleli). Attualmente, poi, vi è chi auspicherebbe una lettura radicalmente innovatrice della sharī'a. Ma questo movimento di riformismo religioso non sembra avere molto successo, e la distanza tra mentalità giuridica sharitica e mentalità democratica moderna appare destinata, almeno per ora, a rimanere.

Riflessi a livello internazionale e prospettive per il futuro

La forza di attrazione e di penetrazione del modello giuridico occidentale ai nostri giorni appare per certi rispetti irresistibile. La alimentano soprattutto il successo trionfale della tecnologia di cui l'Occidente dispone e la capacità dimostrata dal sistema economico capitalistico di produrre sviluppo.

Non solo un paese dopo l'altro adotta, al suo interno, in crescente progressione, forme giuridiche per l'organizzazione della società e dei poteri pubblici simili a quelle delle maggiori democrazie occidentali contemporanee. A livello internazionale si sottoscrivono, da parte della gran maggioranza degli Stati della terra, convenzioni che consacrano i diritti civili, politici e sociali della persona nonché istituzioni democratiche che il modello occidentale ritiene indispensabili. È vero che la lettera sovente ambigua di quelle convenzioni ha consentito la firma di Stati che davano a esse significato diverso da quello inteso dagli occidentali. Ma nel corso del tempo l'interpretazione desiderata da questi ultimi tende a prevalere. E nella logica del diritto occidentale si collocano pure le molteplici convenzioni di natura commerciale stipulate da un secolo a questa parte da Stati di tutto il mondo.

Le prospettive del futuro presentano tuttavia elementi di incertezza.

Il modello che abbiamo descritto è oggi 'diritto vivente' nei maggiori e più noti ordinamenti dell'Occidente, perché in quei paesi esistono condizioni culturali, economiche e politiche che rendono possibile una effettiva e stabile attuazione del modello. È dubbio che quelle condizioni esistano in molti paesi della terra che pure sulla carta hanno fatto, o faranno, proprio tale modello.

Inoltre, l'utile caduta di molte barriere commerciali tra Stati e la conseguente 'globalizzazione' dell'economia fanno ritenere ad alcuni che ormai gli Stati abbiano perso la capacità di imporsi, da sovrani, alle decisioni e ai movimenti delle grandi forze economiche private che operano al disopra dei confini nazionali. La concorrenza universale, poi, renderebbe insostenibili gli impegni più gravosi di carattere 'sociale' che gli Stati occidentali hanno assunto a partire dalla fine dell'Ottocento. Se le cose stessero realmente così, il processo di 'ripoliticizzazione' dei sistemi giuridici a cui il nostro secolo ha assistito in Occidente avrebbe i giorni contati e saremmo alla vigilia di un ritorno delle grandi libertà economiche liberali.

Si tratta però di previsioni del tutto opinabili e forse il futuro ci riserva, a livello mondiale, l'esperienza di qualche modello giuridico affatto nuovo, del quale oggi non possiamo neppure vagamente anticipare le linee. Se per esempio il lavoro cessasse di essere un fondamentale fattore per la produzione - e la distribuzione - della ricchezza (come potrebbe avvenire con la totale robotizzazione dei processi produttivi), gli uomini probabilmente dovrebbero abbandonare una buona parte delle regole giuridiche in base alle quali al presente risultano organizzate le loro società. (V. anche Comparativo, metodo; Costituzionalismo; Costituzioni; Diritto; Giurisprudenza; Lavoro: diritto; Legislazione e codificazione; Magistratura; Ordinamenti giudiziari e professioni giuridiche; Processo; Proprietà: diritto; Sistemi politici comparati; Stato).

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