SOCIALDEMOCRAZIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIALDEMOCRAZIA

Leonardo Rapone

(XXXI, p. 987)

Esistono due diversi usi del termine s., che designa sia determinati movimenti o partiti politici, sia una specifica teoria e prassi politica. Nell'accezione partitica la s. s'identifica con le organizzazioni denominatesi socialdemocratiche. Nella s. come categoria politica rientrano invece, per l'ispirazione e i contenuti della loro azione reale, anche partiti altrimenti denominati: l'ampiezza d'applicazione del concetto politico di s. può essere dunque soggetta a giudizi diversi, secondo i fattori considerati costitutivi dell'identità socialdemocratica. Si deve ammettere, tuttavia, che proprio perché ha carattere di categoria formatasi attraverso l'interpretazione e la comparazione dei fenomeni politici, il concetto di s. non implica un solo modello politico, ma è compatibile con varie esperienze pratiche, entro un campo di riferimenti comuni.

L'avvento della socialdemocrazia. - Quando, negli ultimi decenni dell'Ottocento, diversi partiti che intendevano organizzare politicamente il proletariato industriale iniziarono a denominarsi socialdemocratici (il primo fu quello tedesco, fondato nel 1869), l'espressione s. aveva un contenuto politico vago e generico, limitandosi a rappresentare la volontà di andare oltre la pura democrazia politica, verso una democrazia sociale caratterizzata dall'attuazione di idealità socialiste variamente intese. Malgrado il prevalente richiamo al marxismo, nei partiti socialdemocratici coesistevano concezioni ideologiche e politiche talvolta anche fortemente in contrasto, e in questa situazione al termine s. non corrispondeva ancora una determinata visione degli scopi della politica socialista (v. socialismo, XXXI, p. 990; App. II, ii, p. 848). Vero è però che attraverso queste lotte ideologiche, con lo sviluppo di tendenze riformiste nei partiti d'ispirazione socialista, si posero le premesse di quelle che più tardi furono identificate come politiche propriamente socialdemocratiche. La gradualità degli obiettivi, la valorizzazione delle conquiste parziali, la ricerca del consenso con mezzi legali, l'adesione alle regole della democrazia − tutti elementi costitutivi del riformismo socialista nell'età della Seconda Internazionale a cavallo tra Ottocento e Novecento −, sono infatti un prerequisito di qualsiasi strategia socialdemocratica.

Tra il riformismo socialista d'inizio Novecento e le successive politiche socialdemocratiche intercorrono però due notevoli differenze. Innanzitutto la diversa estensione dell'impegno riformatore, che si esplicava allora soprattutto nel campo della redistribuzione del reddito, mentre nel caso della s. in senso proprio avrà applicazione anche sul versante del controllo del ciclo economico e dello sviluppo. In secondo luogo il cambiamento d'orizzonte delle politiche di riforma: mentre il primo socialismo riformista (con l'eccezione del "revisionismo" di E. Bernstein in Germania, che più anticipa taluni caratteri della moderna s.) ha ancora lo sguardo rivolto al futuro, all'obiettivo della gestione sociale dell'economia, con l'avvento della s. in senso proprio il fulcro della politica costruttiva delle forze socialiste si sposterà nel presente e le riforme saranno viste non più come tappe di avvicinamento a una meta finale, ma come elementi costitutivi dell'opera di realizzazione del socialismo. Insomma: perché dal riformismo socialista potesse germinare davvero la s. era necessario un nuovo concetto sia delle riforme sia del socialismo.

Fu dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia che la nozione di s. iniziò a caricarsi di significato e a individuare una particolare impostazione della politica socialista, quella dei partiti operai che non erano disposti ad attribuire valore normativo all'esperienza russa e a riconoscersi nella precettistica leninista. La decisione dei bolscevichi di mutare il nome del loro partito da socialdemocratico in comunista (1918) fu l'evento simbolico di questa evoluzione concettuale e, con la sua carica di rottura verso ciò che la s. rappresentava, contribuì a dare sostanza politica a quella che fino allora era stata soltanto una delle possibili denominazioni dei partiti che si richiamavano al socialismo. Dopo questa svolta, tuttavia, l'identità della s. si trovò fondata più su una negazione − il rifiuto del comunismo e del modello sovietico − che su un'ideologia e una strategia comuni: per tutto il periodo fra le due guerre la s. costituì una realtà articolata e poliedrica, in cui convivevano ispirazioni teoriche e realizzazioni pratiche eterogenee e nazionalmente differenziate. A ciò si aggiunse la diversità dei destini politici dei maggiori partiti socialisti: alcuni travolti dall'avvento di regimi totalitari (Italia, Germania, Austria); altri cimentatisi senza particolare successo alla guida del governo dei rispettivi paesi (Regno Unito, Francia, Belgio); altri ancora divenuti invece egemoni sulla scena politica nazionale (Danimarca, Norvegia, Svezia).

In questa molteplicità di esperienze è però possibile seguire la progressiva affermazione dei caratteri politici destinati col tempo a costituire la sintesi socialdemocratica e a dotare finalmente il nome di s. di un significato positivo sufficientemente definito. Il processo si svolse lungo tre direttrici. In primo luogo s'impose l'indissolubilità del nesso tra qualsiasi progetto di carattere socialista e la democrazia politica, intesa non solo come via al potere, ma come principio organizzatore di ogni futuro assetto della società. In secondo luogo nei partiti socialisti ottenne crescenti riconoscimenti il principio della coalizione con altre forze politiche per lo svolgimento dei compiti di governo e si manifestò la tendenza a una modificazione delle tattiche e dei linguaggi, in modo da rendere possibile la rappresentanza non solo di particolari interessi di classe ma di più vaste correnti popolari. Infine il socialismo sentì il bisogno d'individuare criteri direttivi per una politica economica di breve e medio periodo che consentisse di operare all'interno del mercato senza soggiacere all'automatismo dei suoi meccanismi spontanei. Quest'ultimo fu il banco di prova più arduo, perché implicava la rinuncia, almeno tacita, all'idea che il fine economico del socialismo fosse la collettivizzazione dei mezzi di produzione e l'edificazione di una società altra e diversa da quella basata sul mercato. Alla fine della prima guerra mondiale l'obiettivo della socializzazione dell'economia, sia pure al termine di un lungo periodo di transizione, campeggiava ancora nei programmi dei partiti socialisti, che però, allora come più tardi negli anni Venti, non riuscirono a compiere alcun progresso in quella direzione e furono perciò indotti a riflettere sulle possibilità di riforma e di democratizzazione dell'economia senza passare preliminarmente attraverso il mutamento del regime proprietario. La spinta decisiva a questa elaborazione venne dalla grande crisi economica degli anni Trenta, quando la necessità di rimedi d'immediata efficacia alla stasi del ciclo produttivo e alla disoccupazione di massa divenne impellente, mentre le tecniche per il trattamento della congiuntura suggerite dall'ortodossia liberale si rivelavano inadeguate alla gravità del momento. Dopo che i partiti socialisti che per primi si erano trovati ad affrontare la crisi da una posizione di governo (Germania 1928-30, Regno Unito 1929-31) erano andati incontro a fallimenti che avevano palesato i vuoti della loro cultura economica, giunse l'ora delle soluzioni innovative. Quella di maggior successo fu la politica anticrisi della s. svedese, che nel 1932 iniziò un'esperienza di governo prolungatasi ininterrottamente fino al 1976. La novità svedese consistette nel deliberato impiego delle risorse finanziarie dello stato, anche attraverso deficit di bilancio, per l'attuazione di vasti programmi di lavori pubblici destinati a ridurre la disoccupazione e a suscitare la ripresa degli investimenti e del mercato, con una funzione compensatoria rispetto all'inazione dei soggetti economici privati. Questo fu il primo e più completo esempio di applicazione delle tecniche economiche anticongiunturali poi definite keynesiane, che in Svezia avevano una fonte d'ispirazione autonoma nell'elaborazione della Scuola economica di Stoccolma (soprattutto di G. Myrdal) e in alcuni contributi del pensiero socialdemocratico. In particolare E. Wigforss aveva dimostrato la necessità dell'intervento dello stato per alzare il livello della domanda e sopperire all'incapacità del mercato di assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi. N. Karleby e O. Undén, a loro volta, in base all'assunto secondo cui il diritto di proprietà non costituisce un'entità unica e indivisibile, ma è formato da un complesso di diritti che possono essere esercitati in relazione all'oggetto del possesso, impostarono quella che diverso tempo dopo, negli anni Sessanta, è stata definita la teoria del socialismo funzionale, la quale sostiene che ognuna delle funzioni in cui si articola la proprietà può essere singolarmente avocata o regolata dallo stato per raggiungere finalità socialiste, senza necessità di far ricorso a una socializzazione integrale. Esperienze in parte simili a quella svedese furono realizzate in Danimarca e in Norvegia, e iniziò così a delinearsi quel ''modello scandinavo'' che tanta parte ha avuto nella storia della socialdemocrazia. La conseguenza delle innovazioni teorico-politiche degli anni Trenta, attraverso cui si posero le basi della s. contemporanea, fu che il socialismo cominciò a presentarsi come un problema non più tanto di proprietà quanto di controllo e di gestione del processo economico. Il compromesso con lo sviluppo capitalistico in seno a un'economia mista si avviò a diventare l'orizzonte delle politiche socialdemocratiche, alle quali il keynesismo fornì la più valida giustificazione teorica dell'intervento pubblico a sostegno della domanda e dell'occupazione.

Dalla seconda guerra mondiale a Bad Godesberg. - Nel quindicennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale i nuovi caratteri della s. si consolidarono e si diffusero in gran parte dell'Europa occidentale, anche se non vi fu uniformità tra le diverse esperienze nazionali. A una questione fondamentale però − quella dell'atteggiamento nei confronti del mercato e del rapporto fra potere pubblico e iniziativa economica privata − i partiti socialisti che andavano definendosi in senso socialdemocratico finirono tutti per dare risposte che andavano verso la separazione del concetto di socialismo da quello di socializzazione, secondo la linea indicata dal rinnovamento teorico e politico che si era verificato negli anni Trenta.

All'inizio del periodo postbellico il laburismo inglese parve scegliere una via diversa da quella della s. svedese, dato che la creazione di un settore economico pubblico, con il passaggio allo stato di industrie e servizi di primaria importanza, fu parte notevole, accanto allo sviluppo del Welfare State, dell'opera dei governi presieduti da C.R. Attlee (1945-51); in Svezia, invece, i socialdemocratici puntarono sull'attribuzione allo stato di poteri di controllo che consentissero d'indirizzare il mercato verso obiettivi definiti in sede politica, limitando non la proprietà privata, ma le sue prerogative. Tuttavia anche le nazionalizzazioni laburiste furono qualcosa di diverso dalla socializzazione dell'economia immaginata dai socialdemocratici nel precedente dopoguerra. Il loro ambito ideologico e culturale era costituito non tanto dal marxismo, con il suo intento di "espropriazione degli espropriatori" e di superamento del capitalismo, quanto dalle dottrine dell'intervento pubblico e dell'economia programmata fiorite durante la crisi degli anni Trenta; le nazionalizzazioni nascevano perciò da un'ispirazione efficientistica e razionalizzatrice e vanno considerate non come parte di un progetto di transizione al socialismo, alla vecchia maniera, ma come uno dei modi in cui si manifestava la dimensione nuova, politica e non finalistica, del socialismo: la ricerca di un equilibrio fra stato e mercato, fra potere politico e potere economico, per promuovere la crescita produttiva e il benessere sociale. Fra la concezione svedese delle funzioni economiche dello stato e quella laburista, fu comunque la prima a fornire la traccia su cui si compì la riconversione della s. europea, con una forte accelerazione negli anni Cinquanta.

Il mutamento della costituzione ideale e politica dei partiti socialisti va messo in relazione soprattutto con la crescita sostenuta, a partire dagli anni del Piano Marshall (1948-52), delle economie occidentali, da cui derivò un diffuso ottimismo sulle possibilità di sviluppo del sistema di mercato e sulla funzione stabilizzatrice delle tecniche anticicliche keynesiane. I partiti socialisti rinunciarono in gran parte nei loro programmi alle forme più accentuate di dirigismo economico (nazionalizzazioni o economia di piano), a cui si erano ancora mostrati inclini nei primi tempi del dopoguerra, tanto più che le dinamiche della guerra fredda (che causarono in genere un inasprimento dell'ostilità della s. verso il comunismo) contribuivano ad avvicinarli ai principi economici della tradizione liberale e ad allontanarli da quanto poteva evocare l'immagine del socialismo di stato e della pianificazione autoritaria. Un sistema economico con un limitato settore pubblico e per il resto imperniato sull'iniziativa privata, ma in cui andavano separandosi le funzioni di proprietà e di gestione delle imprese (la cosiddetta ''rivoluzione manageriale'') ed era accolto il principio dell'intervento pubblico nella determinazione del volume della domanda e dell'occupazione, pareva governabile con le politiche monetarie e di bilancio e riformabile grazie agli effetti redistributivi delle politiche fiscali e dei progressi del welfare state (v. anche in questa Appendice). Sul piano teorico la manifestazione più esplicita del revisionismo ideologico si ebbe nel Regno Unito, con il libro di A. Crosland, The future of socialism (pubblicato nel 1956), in cui si manifestava la più ampia fiducia nella possibilità, attraverso l'azione di governo, di correggere gli squilibri e le irrazionalità dello sviluppo capitalistico, di scongiurare interruzioni della crescita produttiva, e anche d'influire sulla ripartizione dei redditi: così riformato, il capitalismo sarebbe stato una cornice idonea alla realizzazione dei valori umanistici e degli ideali di giustizia e di progresso sociale propri del socialismo.

Sul piano politico gli sviluppi più importanti si registrarono nel Regno Unito, in Austria e in Germania. Tra i laburisti inglesi, dopo i governi Attlee, si aprì un serrato dibattito sulla validità delle nazionalizzazioni per il conseguimento dell'efficienza produttiva e dei fini sociali del partito. La nuova leadership di H. Gaitskell si mostrò assai cauta sull'opportunità d'incentrare anche in futuro i programmi di governo sull'estensione della proprietà pubblica, anche se la proposta di eliminare dallo statuto del partito la clausola relativa all'appropriazione collettiva dei mezzi di produzione non ebbe successo. In Austria l'aspetto notevole fu che il processo di revisione trasformò profondamente proprio quello tra i movimenti socialdemocratici che negli anni fra le due guerre più aveva cercato di tenersi a distanza dal riformismo e di sperimentare la possibilità di una sintesi di socialismo democratico e rivoluzionario fondata su una compatta base ideologica (il cosiddetto austromarxismo). Il superamento di queste posizioni avvenne rapidamente a partire dal 1945, quando per i socialisti austriaci s'iniziò un'esperienza di governi di coalizione che durò ininterrotta fino al 1966: tracce di radicalismo − l'aspirazione a una società senza classi, l'autorappresentazione del socialismo democratico come terza via tra capitalismo e comunismo − si conservarono nel nuovo programma del partito (1958), senza però che ne risentisse una pratica di governo saldamente basata sul principio della coesistenza con il mercato e del compromesso sociale con le forze economiche private.

Il momento culminante di queste trasformazioni fu il congresso tenuto nella cittadina tedesca di Bad Godesberg dal Partito socialdemocratico tedesco (1959), in cui il più antico dei partiti socialdemocratici, per decenni consideratosi l'interprete più autentico della dottrina di Marx contro i revisionisti di destra e di sinistra, si diede un nuovo programma, appositamente concepito dai suoi autori (da ricordare soprattutto W. Eichler) per segnare il distacco dalla tradizione marxista: l'impressione causata dall'evento fu tale che "Bad Godesberg" è divenuto il termine eponimo per indicare globalmente l'evoluzione dei partiti socialdemocratici da partiti classisti e anticapitalisti in partiti popolari, acquisiti ai valori dell'imprenditorialità e della libera iniziativa economica. In effetti la peculiarità del testo di Bad Godesberg non sta tanto nelle sue singole enunciazioni, a quel punto già non più particolarmente originali − dall'abbandono delle socializzazioni alla preminenza accordata ai temi della distribuzione del reddito e del controllo sul potere economico, dalla formulazione di un programma di liberazione in nome dei diritti della persona umana alla definizione non teleologica del socialismo come compito ininterrotto −, quanto nel suo carattere di summa, di sistemazione degli elementi che venivano costituendo la nuova identità della s. e che si erano progressivamente imposti nell'esperienza di quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa settentrionale e occidentale (le sole eccezioni restavano il Partito socialista francese e quello italiano, il primo dei quali era ancora legato a una retorica classista e massimalista senza ormai più nessi con la politica effettiva, mentre il secondo cominciava appena ad aprirsi a una problematica riformista).

La lunghissima durata del potere socialdemocratico in Svezia consente di guardare a questa esperienza come alla manifestazione più compiuta e organica delle politiche socialdemocratiche scaturite dal processo di revisione degli anni Trenta-Cinquanta. La caratteristica del caso svedese sta nella particolare traduzione pratica del principio dell'influenza sociale su un processo economico governato dalle regole del mercato. Se il sistema economico svedese è rimasto fondamentalmente capitalistico, allo stato si è però deliberatamente assegnato il compito non solo di concorrere a definirne le priorità, prima fra tutte la piena occupazione, ma di compensare per quanto possibile l'effetto dei principi del mercato. A questa funzione è stato destinato in particolare il sistema di sicurezza sociale costruito negli anni Quaranta-Cinquanta, notevole non solo per la sua ampiezza, ma anche per il suo inquadramento ideologico. Nella prospettiva della s. svedese le prestazioni dello stato sociale dovevano infatti tendere, per qualità ed estensione, non solo ad assicurare una protezione ai redditi più bassi, ma a porre sotto l'egida dello stato un'ampia sfera dell'esistenza umana, sottraendola ai rapporti mercantili con il loro corollario di competizione individualistica e di differenziazione sociale, così da rinsaldare i legami di solidarietà all'interno del mondo del lavoro e da mettere su un piede di uguaglianza l'insieme dei cittadini. Dall'attuazione di questa idea dello stato sociale è derivata una combinazione originale di stato e mercato, definita dalla scienza politica "capitalismo del welfare", che va al di là degli orizzonti del keynesismo, proprio in quanto il settore pubblico, oltre a sostenere lo sviluppo, ha assunto una funzione di contrasto, sul piano dei valori, e di neutralizzazione, sul piano pratico, delle forze operanti nell'ambito capitalistico. Va pure notato come la s. svedese abbia conservato nel suo disegno politico e nella sua dottrina il senso di una progressione storica di obiettivi, espressa dalla sequenza di democrazia politica, democrazia sociale e democrazia economica: una sequenza sostanzialmente inversa a quella preconizzata dal socialismo classico, che poneva l'emancipazione economica alla base del processo di liberazione sociale e politica, ma che è indicativa della volontà di considerare la fase della democrazia sociale, cioè la combinazione di pieno impiego e welfare, come storicamente corrispondente a un equilibrio dei rapporti tra le classi suscettibile di mutamenti a seguito di un accresciuto potere di mobilitazione del movimento operaio.

La socialdemocrazia come forza e forma di governo. - Sotto il profilo della partecipazione al potere, gli anni Sessanta e Settanta sono stati l'epoca aurea della s., grazie soprattutto al suo affermarsi come forza di governo nel Regno Unito (governi presieduti da J.H. Wilson, 1964-70 e 1974-76, e da J. Callaghan, 1976-79) e in Germania (prima come partner di una grande coalizione, 1966-69, poi con i governi di W. Brandt, 1969-74, e H. Schmidt, 1974-82), per non dire della prosecuzione delle esperienze scandinave e della posizione di forza raggiunta dalla s. austriaca con i governi dell'"era Kreisky'' (1970-83). La lunga crescita economica del dopoguerra aveva suscitato attese di benessere e favorito mutamenti di cultura e di mentalità che vennero a trovarsi in sintonia con la prospettiva riformista di un impiego socialmente equilibrato del potenziale produttivo e tecnologico delle moderne società industriali: si posero così le premesse per la rottura degli equilibri politici conservatori su cui lo sviluppo aveva fino allora poggiato. Nel corso dell'opera di governo delle s. iniziarono però anche a palesarsi difficoltà di applicazione degli schemi definiti nella precedente fase revisionistica. La nuova identità socialdemocratica si basava sul presupposto che il problema della crescita produttiva non richiedesse soluzioni specifiche da parte dei socialisti e che all'iniziativa pubblica spettasse d'intervenire sul dinamismo autopropulsivo delle forze di mercato per correggerne gli squilibri e orientarlo verso fini sociali. Il mantenimento di alti tassi di sviluppo era essenziale per il successo di questa impostazione. La s. raggiunse invece l'apice della forza politica nello stesso momento in cui le economie occidentali si avvicinavano di nuovo a una fase di turbolenze e di depressione: inizialmente soprattutto nel Regno Unito, poi, dopo lo shock petrolifero del 1973, in tutti i paesi, essa fu chiamata a misurarsi con il governo non più dello sviluppo, ma della crisi, e a cercare soluzioni che non potevano essere trovate nel modello "Bad Godesberg", con il suo ottimismo industrialista e la sua concezione lineare del progresso, tanto più che, come terapia anticrisi, il keynesismo si rivelava troppo oneroso per i bilanci statali e inadatto a fronteggiare la contemporanea presenza di fenomeni recessivi e inflazionistici.

In questa nuova situazione la s. manifestò due diverse tendenze. Da un lato essa avvertì su di sé la responsabilità di ridare efficienza e competitività al sistema produttivo, di ristabilire condizioni propizie alla redditività dell'investimento privato, anche a costo di subordinare temi tradizionali del suo riformismo a nuove priorità, come la ricostituzione dei margini di profitto, la stabilità monetaria o il contenimento delle spese statali. Queste scelte, la cui efficacia sul piano del rilancio economico fu diseguale (modesta nel caso dei governi laburisti britannici, notevolissima invece in Germania occidentale durante l'''era Schmidt'', tanto che la s. tedesca poté proporsi a esempio sul piano internazionale come artefice del Modell Deutschland), incisero profondamente sulla soggettività socialdemocratica: la s. fu indotta dall'emergenza produttiva e finanziaria a impostare la competizione politica più sul piano dell'efficienza e della capacità di gestione che su quello ideale e programmatico; il successo politico venne misurato più con il metro delle grandezze economiche che con quello del rapporto tra sviluppo ed equità sociale; il distacco dal marxismo fu inteso come premessa all'emancipazione da ogni vincolo ideologico o teoria critica della società. Restò così in subordine l'aspirazione, pur presente nel revisionismo degli anni Cinquanta, a identificare la s. con un nucleo di valori fondamentali, distintivi di uno specifico progetto di riforma della società: il passaggio della s. tedesca da Brandt a Schmidt fu il simbolo del superamento pragmatico di Bad Godesberg.

Da un altro lato, però, in seno alla s. ripresero anche forza indirizzi politici radicali, che talvolta − come nel caso del programma laburista britannico del 1973 − rimasero allo stadio di enunciazioni di principio, limitandosi a rivelare un divario acuto tra orientamenti di partito e azione di governo, mentre in altri casi diedero luogo a una laboriosa ricerca di nuovi campi su cui condurre nel concreto l'iniziativa riformatrice. L'esempio più significativo al riguardo fu offerto dalla s. svedese, al cui interno sin dagli anni Sessanta si era avviata una riflessione sulle diseguaglianze non colmate dalle politiche redistributive e di welfare e sui limiti di un intervento pubblico che, attuandosi a lato del mercato, lasciava alle decisioni del capitale privato la determinazione delle linee e dei criteri dello sviluppo. Ne derivò uno spostamento dell'azione di governo prima verso l'ambito della democrazia industriale, con un rafforzamento del potere contrattuale del sindacato nelle imprese e un ampliamento del campo delle materie soggette a negoziato, poi verso l'obiettivo della democrazia economica, intesa come partecipazione della collettività alle scelte sulla destinazione dei profitti e sugli investimenti.

Il piano più ardito fu quello elaborato da R. Meidner (1976), che prevedeva la creazione di ''fondi dei salariati'', amministrati dal sindacato, a cui le imprese avrebbero dovuto trasferire annualmente un ammontare di azioni, appositamente emesse, in proporzione ai profitti conseguiti: nel giro di qualche decennio, secondo il ritmo del processo di accumulazione, i fondi avrebbero potuto acquisire posizioni di controllo nelle maggiori industrie del paese. In forme diverse dalla socializzazione o dalla nazionalizzazione, l'obiettivo di un mutamento dell'assetto proprietario tornava così al centro della strategia della s. svedese. Presentato dal suo autore come ''terza via'' tra economia di mercato e collettivismo, il piano Meidner, di fronte all'opposizione degli ambienti industriali, subì però negli anni successivi un progressivo ridimensionamento, e ne fu infine realizzata (1984) una versione attenuata, che ha imposto un limite alle partecipazioni azionarie dei fondi, i quali, persa la funzione di redistribuzione della proprietà, si sono configurati prevalentemente come strumento di partecipazione sindacale alle decisioni d'investimento. Per il fatto di essere stato concepito nell'ambito del movimento socialista svedese, che vantava la più lunga pratica di governo, il piano Meidner, malgrado le difficoltà di attuazione, valse a dimostrare come nella s. rimanesse allo stato latente una spinta verso mete di trasformazione assai più avanzate di quelle conseguite nel quadro dei compromessi keynesiani. Non a caso proprio nella seconda metà degli anni Settanta nell'ambito della scienza politica si sviluppò un filone di studi in aperto dissenso sia con le analisi che assimilavano i partiti socialdemocratici al paradigma, proposto da O. Kirchheimer, del partito pigliatutto, caratterizzato da indifferentismo ideologico ed eclettismo programmatico, sia con la riproposta, in forme teoricamente raffinate (L. Panitch, A. Przeworski), della tesi radicale sui limiti invalicabili del riformismo. Tra i nuovi modelli interpretativi che furono allora suggeriti, particolare interesse suscitò quello elaborato da W. Korpi, che individuava nelle risorse di potere accumulate dal movimento operaio attraverso decenni di politiche riformatrici il fattore che, anziché all'integrazione nei meccanismi sociali esistenti, poteva condurre verso mutamenti alla base del sistema economico.

Un fattore comune alle diverse esperienze socialdemocratiche di gestione del potere fu l'adozione di una specifica forma di governo, nella quale la determinazione e l'attuazione di importanti scelte di politica economica e sociale sono state demandate, istituzionalmente o di fatto, alla contrattazione diretta tra le parti sociali e tra queste e lo stato: si tratta di quel modello di formazione delle decisioni politiche definito neocorporativo che proprio la s. ha portato al suo sviluppo più compiuto. Essa infatti, scelta la via del compromesso con il mercato, ha avuto bisogno sia di raggiungere un modus vivendi con il capitale privato, rendendolo compartecipe di decisioni fondamentali per l'esercizio dell'attività economica, sia di evitare un inasprimento dei conflitti sociali che potesse compromettere la continuità delle funzioni produttive. Nello stesso tempo i governi socialdemocratici, in virtù sia dei legami ideali e strutturali con il mondo del lavoro sia della possibilità di garantire contropartite in termini di riforme e welfare (il meccanismo dello scambio politico), hanno avuto le migliori chances per ottenere dai sindacati quella moderazione dei comportamenti rivendicativi essenziale al funzionamento del ''triangolo neocorporativo'' (sindacati, industria, governo). Anche in questo campo la s. svedese ha assolto una funzione di battistrada, con i pionieristici accordi di base di Saltsjöbaden del 1938, che dettarono le regole dello svolgimento delle relazioni industriali; tuttavia è in Austria, con la messa in opera dopo la seconda guerra mondiale della Sozialpartnerschaft, che si è attuato lo schema più complesso e perfezionato di concertazione tra interessi organizzati e di coinvolgimento di questi ultimi nel processo decisionale pubblico.

La possibilità di coordinare il comportamento delle parti sociali e di renderlo compatibile con gli obiettivi dell'azione di governo ha ovunque contribuito in modo essenziale al successo delle politiche socialdemocratiche. Al contrario là dove, come nel Regno Unito, negli anni Sessanta e Settanta la gravità della situazione economica e l'esiguità degli spazi di mediazione non hanno permesso il consolidamento di una prassi neocorporativa e di un rapporto fiduciario tra governi laburisti e Trade Unions, ciò ha compromesso l'efficienza e la stabilità del potere della socialdemocrazia. La natura dei rapporti tra governi a guida socialdemocratica e movimento sindacale si è rivelata dunque un fattore decisivo. Si deve tener conto, infatti, che sebbene la s. si sia scrollata di dosso l'immagine di partito strettamente classista, il lavoro salariato è rimasto il nucleo portante della sua base sociale e del suo elettorato. Non solo, ma in tutti i paesi in cui i partiti socialisti hanno assunto forma di s. si registra la presenza di un sindacato unitario, largamente rappresentativo, storicamente unito al partito socialista da legami privilegiati, più o meno formalizzati. Ciò significa che la s. ha avuto accesso al potere come mandataria innanzitutto di particolari interessi sociali e che i suoi risultati politici sono dipesi dalla capacità di contemperare la ricerca del compromesso con le forze economiche dominanti e l'eventuale moderazione programmatica con il mantenimento della rappresentanza di questi interessi e del consenso del mondo del lavoro, espresso attraverso l'organizzazione sindacale. Il meccanismo già ricordato dello scambio politico è stato il perno di questo schema di relazioni tra governo e parti sociali, e questo non solo nelle fasi di crescita economica, quando lo scambio tra attenuazione del conflitto distributivo e sviluppo del welfare state si è imposto senza particolari difficoltà e ha conferito ai paesi a guida socialdemocratica la loro caratteristica immagine di isole di pace sociale (ma di una pace sociale consentita non dalla smobilitazione dell'organizzazione operaia, bensì dalla sua capacità di far pesare la propria forza altrimenti che con la conflittualità sindacale). Ancora dopo la crisi del 1973 i governi socialdemocratici, tranne quello britannico, hanno generalmente potuto far fronte all'emergenza economica senza compromettere i legami con la loro base sociale (anche dove, come in Germania, l'iniziale tensione riformatrice più si era appannata), assicurando al sindacato la difesa dell'occupazione e degli standard di sicurezza sociale, in cambio di un impegno alla moderazione salariale nel quadro della lotta all'inflazione. Alla lunga, però, i mutamenti verificatisi nell'economia internazionale hanno esaurito le risorse della forma di governo socialdemocratica. Sul finire degli anni Settanta le possibilità di scambio politico tra governi e sindacati si sono fatte ovunque più aleatorie, e qui sta una delle cause del successivo declino politico della socialdemocrazia.

La crisi della socialdemocrazia. - Alla fine degli anni Settanta la s. è entrata in una crisi di cui tuttora non s'intravedono gli sbocchi. Dei partiti socialdemocratici classici, alcuni, a causa di tendenze elettorali negative, o sono stati respinti all'opposizione (Regno Unito dal 1979, Repubblica Federale di Germania e Danimarca dal 1982, ma la s. danese è tornata nel 1993 alla guida di una coalizione) o non hanno più potuto governare con l'autorevolezza di prima (Austria); altri (Norvegia, Svezia) hanno alternato governo e opposizione, avendo comunque perso la posizione dominante occupata per decenni. La crisi ha rivelato la vulnerabilità della s. rispetto a una duplice sfida che le è stata mossa sul piano intellettuale: da un lato dalla ripresa in forze di ideologie liberistiche e individualistiche, dall'altro dalla comparsa di un nuovo radicalismo, ispirato a valori post-materialistici, estranei alla cultura tradizionale del movimento operaio. Alle difficoltà strutturali del welfare state, messe a nudo da una congiuntura internazionale che impedisce di ricorrere come in passato a politiche economiche espansive e al finanziamento pubblico delle politiche sociali, si è aggiunta la sua delegittimazione ideale da parte di un ethos capitalistico aggressivo, determinato ad affermare la supremazia dell'iniziativa privata e a liberarla dai vincoli della regolamentazione statale e della solidarietà sociale. I processi di ammodernamento tecnologico nel campo della produzione industriale hanno inoltre modificato i mercati del lavoro, creando gravi problemi occupazionali, ridimensionando la funzione sociale della classe operaia e quindi indebolendo sia la forza contrattuale dei sindacati sia uno dei pilastri su cui aveva fino allora poggiato la politica socialdemocratica. La ragione prima della crisi della s. sta dunque nella divaricazione apertasi tra efficienza e modernizzazione economica da un lato, sicurezza ed equità sociale dall'altro.

La diffusione, soprattutto tra i giovani, di una cultura critica nei riguardi dell'industrialismo e del progresso tecnologico in nome di una nuova etica ambientale ha messo in discussione, d'altro canto, un postulato classico di ogni teoria dell'azione politica del movimento operaio, cioè il nesso tra sviluppo delle forze produttive ed emancipazione sociale. La s. ha così perso consensi sia verso il centro dello schieramento politico sia verso i movimenti ''verdi'' dell'alternativa ecologista. La sua capacità di unire attorno a sé maggioranze sociali e politiche in grado di rivendicare e svolgere funzioni di governo si è notevolmente ridotta. Nei paesi in cui ha conservato malgrado tutto responsabilità di potere si è trovata nell'impossibilità di tener fede alla sua tradizione di governo, ha dovuto porre mano anch'essa alla riduzione dello stato sociale e non è più riuscita come in passato a prospettare al sindacato valide alternative alla conflittualità sociale. A osservatori e studiosi la s. è così apparsa un fenomeno politico in esaurimento, svuotato di senso in parte dai suoi stessi successi nella diffusione del benessere, in parte dal declino cui è andato incontro il principio redistributivo, non solo per difetto di risorse, ma anche per il rafforzamento nelle società avanzate di spinte contrarie a ulteriori sviluppi egualitari e assistenzialistici e rivolte invece all'affermazione delle energie individuali: la metafora della "fine del consenso socialdemocratico", coniata sin dal 1978 da R. Dahrendorf, è divenuta così un topos del dibattito politico e politologico.

Non che siano mancati i tentativi di rinnovamento, ma essi sono risultati poco convincenti e, soprattutto, è mancata loro la verifica del successo politico. In Svezia, sulla scia del piano Meidner, si è battuta dopo il 1982 la strada di una parziale socializzazione degli investimenti, il che non ha impedito uno scadimento delle prestazioni economiche e un inasprimento delle tensioni sociali, costati alla s. un nuovo allontanamento dal potere dal 1991 al 1994. Nel Regno Unito la ricerca del nuovo ha addirittura rischiato di produrre esiti catastrofici, allorché il Partito laburista, passato sotto il controllo della sinistra di M. Foot, ha assunto posizioni di radicalismo statalista e anticapitalistico e ha subito per questo una scissione, con la nascita (1981) di un partito espressamente denominatosi socialdemocratico, che, se non ha poi avuto fortuna, inizialmente parve però insidiare, alleato ai liberali, la posizione dei laburisti in un sistema bipartitico come quello britannico. Seguì una delle più gravi sconfitte elettorali della storia del laburismo (1983), prima di un nuovo assestamento, sotto la guida di N. Kinnock e più tardi di J. Smith, sulle più tradizionali basi del riformismo moderato e del socialismo di mercato.

I propositi di revisione teorico-politica più originali sono stati quelli dei socialdemocratici tedeschi. Con una netta sterzata rispetto agli anni di Schmidt essi hanno ripreso a cimentarsi sul terreno delle opzioni di principio e, avvertendo l'esigenza non tanto di rimettere in discussione la revisione degli anni Cinquanta quanto di adeguare il loro apparato concettuale alle trasformazioni nel frattempo sopravvenute e alla percezione di problemi nuovi, hanno elaborato un nuovo programma fondamentale, sostitutivo di quello di Bad Godesberg. La peculiarità di questo documento, approvato dal congresso di Berlino del 1989, consiste nel tentativo di accordare le tematiche riformiste tradizionali in tema di benessere, sicurezza sociale e occupazione con le istanze critiche nei confronti della concezione industriale del progresso di cui è portatrice la cultura verde e alternativa. L'ecologia è presentata come "la base di un operare economico responsabile" e la protezione dell'ambiente è inclusa nel concetto di "solidarietà sociale". Si accoglie il principio che "non tutta la crescita è progresso", pur affermandosi che l'innovazione tecnologica "è irrinunciabile per ogni economia dinamica": la sintesi è costituita dall'obiettivo di una crescita selettiva e qualitativa, in relazione alla quale vengono anche ridefinite le finalità del governo dell'economia e del controllo del mercato. Il programma, che si sofferma con forza anche sugli squilibri tra il Nord e il Sud del mondo, rivela una disposizione ideologica globalmente assai più critica rispetto a Bad Godesberg nei confronti del capitalismo, la cui riforma è dichiarata "insufficiente", mentre si afferma la necessità di "un nuovo ordine economico e sociale" (e "la dottrina marxista della storia" torna a essere annoverata tra le fonti intellettuali del partito). Concepito in funzione della situazione politica nella Germania occidentale, e in particolare della possibilità di una ricomposizione tra movimento operaio tradizionale e nuovi movimenti, il programma di Berlino è risultato però obiettivamente oscurato dalla repentina riunificazione tedesca, e nella nuova situazione, caratterizzata da tutt'altro genere di problemi, è finora mancata la possibilità di saggiarne l'efficacia ai fini dell'affermazione di un nuovo modello socialdemocratico di governo.

Al declino della funzione di governo della s. classica ha corrisposto negli anni Ottanta l'ascesa dei partiti socialisti dell'Europa latina e mediterranea (talvolta accomunati nella definizione di ''socialismo meridionale'') a posizioni di potere mai prima raggiunte. Questi partiti rappresentano un socialismo rimasto a lungo estraneo alla vicenda propriamente socialdemocratica o per autonoma scelta ideologica (nel caso dei socialisti francesi e italiani) o per la particolare situazione dei paesi di appartenenza, soggetti a regimi autoritari (Grecia, Portogallo, Spagna). Un generale processo di revisione delle preesistenti tradizioni ideali e politiche ha però preceduto o accompagnato il loro avvento alla guida del governo (Francia e Grecia 1981, Spagna 1982, Italia e Portogallo 1983), e anch'essi hanno finito per richiamarsi all'esempio delle s. centro-settentrionali, e hanno abbracciato il riformismo come idea regolatrice, sebbene nella concreta prassi di governo ne abbiano poi interpretato in prevalenza la variante pragmatista e stabilizzatrice. I socialismi meridionali, avvicinatisi alla cultura politica del socialismo democratico in una fase assai difficile dell'economia internazionale, non hanno infatti potuto giovarsi, a differenza della s. classica, di un'intensa crescita produttiva per ripartirne i benefici e promuovere iniziative di welfare, e si sono soprattutto preoccupati di creare condizioni idonee alla ripresa dell'investimento privato e all'affermazione sul mercato internazionale. L'esempio più significativo è quello del socialismo francese, giunto al potere con un programma di nazionalizzazioni, di espansione dei consumi e di redistribuzione del reddito e presto costretto, sotto la pressione della crisi economica, a piegarsi alle necessità del mercato e a imboccare la via del rigore. È comunque opinione prevalente degli studiosi di scienza politica che al socialismo meridionale difettino pur sempre alcuni elementi costitutivi della s. in senso proprio, la quale, come si è visto, non è solo un corpo di principi, ma anche una particolare forma di organizzazione e di governo. I partiti socialisti meridionali sono prevalentemente partiti di opinione e non hanno le caratteristiche del partito di massa, radicato nel mondo del lavoro, intimamente collegato a un potente e strutturato movimento sindacale, come nel caso della s. classica. Il Partito socialista italiano, in particolare, non ha mai neppure avuto un seguito elettorale comparabile a quelli che hanno fatto la fortuna politica della s. (e, restando all'Italia, il discorso vale a fortiori per l'ancor più piccolo partito che sin dal 1947 affermò di volersi porre sulla via del riformismo e che nel 1951 si denominò Partito socialista democratico italiano). Di conseguenza il modello neocorporativo di governo, imperniato sul rapporto contrattuale tra esecutivo e sindacato, è rimasto fuori della portata del socialismo meridionale; le stesse politiche di rigore da esso sovente attuate si differenziano da quelle a cui i partiti centro-settentrionali sono pur ricorsi, perché sono state frutto di iniziative autonome dei governi, non di un patto con il lavoro organizzato; non hanno quindi avuto contropartite e a volte hanno anzi imposto costi sociali, soprattutto in termini di disoccupazione, senza riscontro nell'esperienza della s. classica. Questi partiti sono stati perciò, secondo i tempi e le situazioni, i partiti della transizione alla democrazia, della modernizzazione produttiva, del risanamento economico, della prosperità finanziaria, ma non hanno realizzato la sintesi di cultura politica, di tecnica di governo e di concreto movimento sociale che è peculiare della s. centro e nord-europea. Anche la crisi che di recente ha colpito i socialismi meridionali (alla fine del 1994 solo quello spagnolo e quello greco erano ancora al potere, ma il primo era anch'esso in declino, mentre l'altro era tornato al governo nel 1993 dopo un quadriennio di opposizione) ha caratteri particolari rispetto a quella delle s.: più che dall'impasse strutturale delle politiche riformiste o dalla difficoltà di costruire alleanze sociali attorno alla tradizionale base sociale della s., essa nasce dal rigetto da parte di consistenti settori della società di uno stile di governo spesso scaduto a mera gestione del potere, a socialist clientelism, senza solidi riferimenti ideali e coerenze programmatiche.

Gli avvenimenti del 1989 nell'Europa orientale hanno segnato un nuovo sviluppo nella crisi della s. che non è riuscita a trarre benefici politici immediati dalla crisi del comunismo; la forza di attrazione del suo messaggio ideale ha anzi risentito negativamente del fallimento comunista, come se esso investisse anche ogni altra tradizione germinata dalla radice del socialismo ottocentesco. Nei paesi dell'Est i ricostituiti partiti socialdemocratici hanno ottenuto modestissimi risultati elettorali, penalizzati dalla tendenza a identificare la democrazia con il liberismo economico e a diffidare di ogni interferenza dei poteri pubblici nelle relazioni economiche e sociali. Gli sviluppi più recenti parrebbero poi suggerire che ad avere più chances di espandersi sulla sinistra della scena politica non sono i socialdemocratici della prima ora, ma quelli ''del giorno dopo'', cioè i partiti ex comunisti convertitisi al pluralismo politico ed economico. Nell'Europa occidentale si è posto l'interrogativo se, dopo la fine del socialismo di stato all'Est, il termine socialismo, pur tenendo conto della sua evoluzione semantica, possa ancora rappresentare l'insegna di una politica di progresso sociale. In seno alla s. tedesca si è affacciata l'ipotesi che l'espressione "democrazia sociale" sia più idonea a definire le prospettive reali dei partiti socialdemocratici, e al riguardo è anche significativo che il Partito comunista italiano, all'atto di separarsi dalla sua tradizione dopo aver percorso un cammino che già lo aveva avvicinato alla famiglia socialdemocratica, abbia scelto una denominazione (Partito democratico della sinistra) che prescinde dal riferimento al socialismo o alla socialdemocrazia. In Francia l'ex premier M. Rocard ha proposto di fatto un'uscita dalla tradizione socialista, auspicando un grande rimescolamento delle famiglie politiche dal centro alla sinistra, un big bang che porti alla formazione di un nuovo blocco progressista adeguato a una società in cui la condizione del lavoro salariato non è più il centro delle contraddizioni sociali.

In effetti dalla metà degli anni Settanta si è assistito a un processo di decomposizione della base sociale della socialdemocrazia. La s. ha avuto successo finché ha potuto promuovere gli interessi dei salariati e nello stesso tempo presentarsi come un partito i cui legami con la classe operaia non solo non erano di ostacolo alla crescita economica, ma anzi garantivano che, di fronte a un governo amico, il movimento organizzato dei lavoratori si sentisse corresponsabile dello sviluppo. Sono nate così le vaste alleanze sociali che hanno fatto la forza della socialdemocrazia. Le cose sono mutate dacché la s. ha visto ridursi la consistenza e l'identità di classe del proprio principale gruppo sociale di riferimento, mentre in una nuova epoca dell'economia internazionale andavano moltiplicandosi le occasioni di conflitto tra gli interessi sociali deboli e quelle che apparivano le esigenze di risanamento e di sviluppo delle economie di mercato. Né l'accentuazione del pragmatismo né la svolta verso un nuovo radicalismo si sono rivelate nell'immediato soluzioni vincenti. Sembra ora affermarsi nel socialismo democratico una maggiore sensibilità per le diseguaglianze e gli squilibri che nascono e si manifestano fuori dall'ambito delle relazioni economiche, così da creare le condizioni di nuove alleanze sociali nella prospettiva di un'espansione della democrazia, con la quale s'identificherebbe senza più residui l'obiettivo di un nuovo ordine sociale. Ma difficilmente la s. potrà attingere una nuova fase di espansione se non offrirà anche soluzioni al problema dei vincoli economici, che siano in linea con i suoi valori fondamentali, consentendole però nello stesso tempo di tornare a presentarsi come partito dello sviluppo.

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