SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

Gianni Statera

Le origini. - Le origini di quel settore specialistico dell'analisi sociologica che si dice s. della c. si delineano, nel Novecento, nella seconda metà degli anni Venti, a seguito dell'impetuosa diffusione della radio. Con il nuovo mezzo era possibile veicolare in tempo reale notizie, comunicati commerciali, messaggi rassicuranti o destabilizzanti, raggiungendo masse crescenti di popolazione. Negli Stati Uniti, dove più capillare era la diffusione del mezzo e più estesa su un immenso territorio la massa degli ascoltatori, ciò favorì lo sviluppo di una professione − quella dei comunicatori- e, in seguito, di un rigoglioso filone di ricerca scientifica volto ad analizzare i modi e la misura della persuasione, gli effetti sociali della comunicazione, i caratteri e le peculiarità del flusso comunicativo dal mezzo all'individuo e ai diversi gruppi sociali.

L'''illuminismo applicato'' proprio della cultura nordamericana (Dahrendorf 1963) fece sì che nella comunicazione istantanea, resa possibile dalla radio, s'individuassero, da un lato, potenzialità immediatamente sfruttabili in chiave economica e politica e, dall'altro, lo strumento per formare un'opinione pubblica informata e consapevole, atto a dischiudere al mondo un nuovo orizzonte di democrazia. Con riguardo al primo punto, la cultura nordamericana sviluppò, soprattutto negli anni Trenta, una sterminata letteratura, basata soprattutto su indagini empiriche, relativa all'efficacia diretta e all'influenza sociale complessiva dei messaggi pubblicitari o propagandistici; con riguardo al secondo punto, ci fu chi, echeggiando le preoccupazioni di larga parte della cultura europea, mise in guardia dai rischi della manipolazione delle coscienze resa possibile da un uso spregiudicato dei mass media. Senonché, mentre in Europa questa diffusa preoccupazione si manifestava nella cosiddetta ''letteratura della crisi'', di cui è massimo rappresentante, negli anni Trenta, lo spagnolo J. Ortega y Gasset (1930), in America anche i più preoccupati per l'avvenire della democrazia in un mondo in cui la mobilitazione delle masse poteva essere strumentalizzata attraverso un'insidiosa propaganda sceglievano di fare ricerca empirica. In altre parole, mentre Ortega denunciava il rischio di una mobilitazione delle masse in senso irrazionalistico, H. Lasswell, scienziato politico nordamericano, che sarà poi riconosciuto come ''padre fondatore'' della communication research, si dedicava, fin dal 1927, a svelare i meccanismi più sottili della propaganda politica attraverso la tecnica dell'analisi del contenuto.

Per comune riconoscimento, dunque, è a Lasswell − la cui prima opera rilevante (Propaganda technique in the world war, 1927) è uno studio sistematico delle tecniche di comunicazione propagandistica dei francesi, degli inglesi, degli americani e dei tedeschi durante la prima guerra mondiale − che si deve la primogenitura della s. della c., meglio nota nel mondo anglosassone come communication research. È a Lasswell che si devono infatti la definizione dell'ambito della disciplina, esprimibile nella formula "chi dice cosa, a chi, con quali effetti", la sua precoce operatività empirica, l'affinamento di una sua centrale tecnica di rilevazione (l'analisi del contenuto dei messaggi).

Nei primi anni Trenta, peraltro, iniziò la propria attività anche C. Hovland, studioso di formazione psicologica, interessato alla valutazione sperimentale dell'efficacia dei messaggi persuasori, dalla cui scuola emergerà, negli anni Cinquanta, la cosiddetta ''nuova retorica scientifica'', cioè un insieme sistematico di indicazioni volte a massimizzare l'impatto della comunicazione sui soggetti a essa esposti in dipendenza sia della struttura linguistico-formale che dei contenuti della comunicazione stessa. Nella seconda metà degli anni Trenta cominciano infine a operare nel campo della communication research anche lo piscologo sociale K. Lewin e il sociologo P. Lazarsfeld. A Lewin, e ai numerosi seguaci della sua scuola, interessava fondamentalmente individuare la rete di canali comunicativi all'interno dei piccoli gruppi, nonché ponderare gli effetti delle norme e dei condizionamenti del gruppo sul comportamento e le reazioni alla comunicazione ricevuta, da parte dei singoli soggetti. A Lazarsfeld e alla sua scuola, infine, interessava il processo della comunicazione e della (eventuale) persuasione nel suo complesso. E ciò con riguardo sia all'orientamento elettorale sia al comportamento di consumo.

Tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, le quattro scuole che avevano caratterizzato la prima fase, quella pioneristica, della communication research giunsero a maturazione.

Lasswell e i suoi collaboratori pubblicarono il monumentale Language of politics: studies in quantitative semantics (a cura di H. Lasswell e N. Leites, 1949; trad. it., 1979) individuando definite e univoche correlazioni fra i caratteri formali e sostanziali degli slogan coniati annualmente in occasione della festa del 1° maggio in Unione Sovietica, da un lato, e la situazione economica e sociopolitica, nonché le linee di condotta della leadership sovietica, dall'altro. Si sviluppò così la teoria del ''mito politico'', che, secondo Lasswell, assume particolari connotazioni nella società di massa in cui il consenso si fa sempre più cruciale per la leadership; i tratti del messaggio che essa trasmette − sostiene Lasswell − esigono una peculiare attenzione perché, per far breccia sulle masse, è necessario fare leva su valori, esigenze, bisogni vissuti come centrali ancorché sublimati nel ''mito politico''.

Lewin e Hovland, da parte loro, gettarono le basi rispettivamente della teoria della dissonanza cognitiva e della nuova retorica scientifica. La teoria della dissonanza cognitiva, successivamente elaborata e messa a punto da L. Festinger (1963), si riferisce al comportamento degli individui − che in generale sono avvezzi ad agire in conformità con ciò che conoscono e in cui credono − in particolari situazioni nelle quali si manifesta un'evidente dissonanza fra talune azioni abituali, da un lato, e convinzioni possedute, dall'altro. Tali situazioni sono particolarmente rilevanti in rapporto al processo della persuasione, perché il soggetto tende normalmente a operare in modo da eliminare, o almeno ridurre, la dissonanza. Di conseguenza, sarà disponibile al mutamento d'opinione o di comportamento (che pure, in condizioni normali, è un fatto alquanto raro), e quindi sarà particolarmente ricettivo a comunicazioni persuasorie concernenti la materia in rapporto alla quale si è prodotta la dissonanza. In concreto, può accadere che, poiché molti sono convinti che bisognerebbe lavarsi i denti tre volte al giorno mentre, di fatto, se li lavano solo una volta al giorno, un largo pubblico potrebbe essere influenzato abbastanza prontamente da una comunicazione che suggerisse l'uso di un dentifricio talmente attivo nel tempo da consentire di lavarsi i denti una sola volta al giorno con la garanzia della più completa igiene orale. Questo esempio, enunciato da Festinger, è evidentemente riferito all'ambito della pubblicità; ma la tendenza alla riduzione della dissonanza è ravvisabile anche con riguardo al comportamento elettorale, all'interazione familiare o nel gruppo dei pari (colleghi di lavoro, amici); essa è inoltre più forte quanto più il cambiamento è coerente con la subcultura del gruppo stesso.

Quanto alla nuova retorica scientifica, essa si sviluppò consistentemente nel periodo bellico, allorché il governo statunitense commissionò centinaia di studi e ricerche sul morale dei soldati, sulla loro motivazione al combattimento, sull'accettazione o rifiuto di messaggi volti ad accentuare la motivazione stessa. Si trovò allora che le comunicazioni che avevano presentato un solo punto di vista su un argomento controverso sono più efficaci presso chi è già favorevole al punto di vista prescelto, mentre i messaggi non unilaterali tendono a rivelarsi più efficaci presso chi è inizialmente ostile al punto di vista che il messaggio stesso intende suggerire. Si riuscì anche a mostrare convincentemente che il ricordo degli elementi di fatto, in base ai quali si è cambiata un'opinione, si affievolisce col tempo; ma il cambiamento dell'opinione iniziale si rafforza con il tempo soprattutto se esso è conforme alla subcultura del gruppo di appartenenza (Hovland e altri 1949). Si delinea qui una prima significativa convergenza fra la scuola di Hovland, originariamente orientata in senso rigidamente behaviorista, e quella di Lewin, di orientamento gestaltico: sia Hovland che Lewin giungono a segnalare la centralità che, nel processo comunicativo, specie con riguardo alla persuasione, assume il sostegno sociale relativamente al cambiamento d'opinione e, conseguentemente, di modalità comportamentali.

La quarta scuola, infine, quella strettamente sociologica di Lazarsfeld, si sviluppò impetuosamente prima realizzando indagini sistematiche su due campagne elettorali (1944 e 1954), poi attraverso l'inizio di un ventennale sodalizio con uno dei massimi sociologi teorici, R. Merton, che resta uno stabile punto di riferimento per la teoria sociale contemporanea, nonché per settori specializzati dell'indagine sociologica come la sociologia della scienza, la criminologia e, appunto, la s. della comunicazione. Già nello studio sulla campagna presidenziale americana del 1940, Lazarsfeld e i suoi collaboratori (1944) giunsero a delineare le peculiarità di quella che si sarebbe poi detta ''legge dell'esposizione selettiva'', per cui, in breve, soggetti già orientati a votare repubblicano o democratico si espongono prevalentemente a fonti emittenti messaggi in ipotesi coerenti con il loro orientamento allo scopo di veder rafforzata la propria idea, di acquisire argomenti a sostegno di quel voto, di arricchire il proprio bagaglio di informazioni a sostegno della scelta già fatta. Certo, il 25% degli intervistati aveva cambiato opinione; ma ciò era accaduto dall'''indecisione'' all'opzione per uno dei due candidati; solo nel 5% dei casi si era potuta rintracciare una vera e propria ''conversione'' ascrivibile al complesso delle comunicazioni (via mass media, via rapporti interpersonali o familiari) sviluppatesi durante la campagna. La successiva ricerca sulla campagna del 1948 non solo confermò pienamente i risultati della prima, ma consentì anche di delineare la ''legge della memorizzazione selettiva'' e quella della ''decodificazione selettiva'' dei messaggi veicolati dai media. Si delinearono, inoltre, i fenomeni dell'''effetto boomerang'' − già segnalato da Cooper e Jahoda (1947) allorché trovarono che filmati volti a superare il pregiudizio razziale venivano decodificati in senso razzista da chi in tale direzione era già orientato (Merton 1949) − e della centralità delle relazioni interpersonali nel processo della persuasione innescato dai mass media, sia pure presso una ridotta minoranza dei soggetti del campione esaminato.

Il flusso a due fasi della comunicazione. - Quando, all'inizio degli anni Cinquanta, E. Katz e P. Lazarsfeld intrapresero la complessa ricerca sull'influenza personale nel flusso della comunicazione di massa (1955), era ormai maturata, fra gli studiosi, la consapevolezza che la grande paura nei confronti dei mass media come potenti strumenti di persuasione di massa fosse sostanzialmente infondata. Centinaia di ricerche, piccole e grandi, hanno poi mostrato in modo convincente che, almeno in una società pluralistica come quella americana, l'immagine dei mass media come un pauroso Moloch in grado di piegare gli indifesi soggetti componenti la massa alla volontà di demagoghi senza scrupoli o a quella di spregiudicati manipolatori delle coscienze per indurre a comportamenti irrazionali, è un'immagine tutt'altro che realistica. I messaggi commerciali, quelli di tipo politico-ideologico, gli stessi messaggi ''sociali'' (contro il pregiudizio, in favore della solidarietà, della tolleranza, dell'educazione civica) ''passano'' − per così dire − solo in particolari circostanze, mentre in generale scorrono via nel crescente rumore della comunicazione di massa, ovvero sono decodificati nel modo più congruente con le opinioni già intrattenute, talvolta addirittura rovesciati dal pubblico che li decodifica. Insomma, l'approccio ''apocalittico'' alla comunicazione di massa sembra essere conseguenza delle laceranti esperienze di intellettuali europei che vissero l'ascesa del totalitarismo nazista, favorita da una propaganda tanto più efficace quanto più il sistema si chiudeva a ogni forma di pluralismo, piuttosto che coerente enunciazione teorica dei differenziati effetti sociali dei mass media in generale. Peraltro, proprio Katz e Lazarsfeld accomunano la visione ''apocalittica'' e quella ''integrata'', che nell'avvento della comunicazione di massa vede i prodromi di una nuova era di democrazia partecipata, precisando che "le due indicate concezioni della funzione dei mass media sembrano opposte; ma si può mostrare che esse non sono irriducibilmente tali. Infatti, coloro che hanno visto nei mass media una nuova alba di democrazia e coloro che invece vi hanno visto lo strumento di un disegno diabolico avevano in realtà la stessa immagine del processo della comunicazione di massa. Essi muovevano in primo luogo dall'immagine di una massa atomizzata di milioni di lettori, ascoltatori e spettatori pronti a ricevere il messaggio. In secondo luogo, immaginavano ogni messaggio come uno stimolo diretto e potente, tale da produrre un'immediata risposta. In breve, i mass media venivano considerati come un nuovo tipo di forza unificatrice, una sorta di sistema nervoso semplice che si estende a toccare ogni occhio e ogni orecchio in una società caratterizzata da scarsità di relazioni interpersonali e da un'organizzazione sociale amorfa" (Katz e Lazarsfeld 1955; trad. it., p. 4).

In realtà, il processo della comunicazione di massa si rivela assai complesso, articolato, ricco di mediazioni. Anzitutto, come già emerso dalle ricerche sulle campagne elettorali del 1940 e del 1948, un ruolo cruciale, di relais, è svolto al suo interno da alcune figure che assolvono un particolare ruolo di leadership; non si tratta però di leaders verticali, gerarchicamente collocati in una posizione elevata, ma piuttosto di leaders d'opinione, la cui leadership è riconosciuta proprio perché si tratta di pari, i quali meglio degli altri interpretano la subcultura di un gruppo. In Personal influence (1955), Katz e Lazarsfeld enunciarono in forma sistematica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui il messaggio è veicolato dal mezzo al leader d'opinione e da questi, una volta decodificato in coerenza con la subcultura del gruppo, riproposto ai ''seguaci'', per poi delineare un complesso disegno di ricerca sul campo inteso a confermare la teoria stessa.

Il progetto dell'indagine prevedeva che s'intervistasse un campione rappresentativo estratto in una città ''media'' degli Stati Uniti per individuare i soggetti influenti in tre diversi campi in cui si effettuano scelte di consumo (oggetti di consumo domestico, moda, film) e in un campo in cui s'intrattengono opinioni (gli affari pubblici). Ciò sottintendeva, evidentemente, che gli autori ritenevano applicabile la loro teoria sia con riguardo ai comportamenti di consumo che con riferimento alle opinioni politiche. Il soggetto intervistato poteva indicare sia una o più persone, sia, direttamente, questo o quel mezzo di comunicazione di massa. Le persone influenti così individuate (i leaders d'opinione) furono a loro volta intervistate per testare l'ipotesi di una loro maggiore esposizione ai mass media. I risultati della ricerca confermarono largamente la teoria e fornirono una serie di ulteriori indicazioni circa le caratteristiche dei leaders d'opinione nei diversi campi (ragazze giovani nel campo della moda; donne sposate con figli nel campo dei beni domestici; mariti, parenti di sesso maschile o colleghi di lavoro più anziani nel campo degli affari pubblici) e il peso (in verità assai modesto) dell'influenza diretta dei mass media nelle scelte e, soprattutto, nella formazione delle opinioni politiche. Non solo: gli autori riuscirono convincentemente a mostrare come la struttura e la subcultura di gruppo esercitasse una forte influenza, mediando i messaggi veicolati dai mass media in analogia con quanto accadeva nei reparti delle aziende (industriali) studiate da E. Mayo (1945) con riguardo al rapporto fra comunicazioni della direzione aziendale e ricezione di esse da parte dei gruppi di lavoratori in merito al rendimento e alla produttività. Riusciva in sostanza confermata l'idea originariamente espressa da Lewin, secondo cui ogni gruppo costruisce la propria ''realtà sociale'' alla quale adegua gli inputs esterni.

La teoria del flusso a due fasi ha costituito il paradigma dominante nella s. della c. per oltre vent'anni. Ancor oggi, peraltro, essa sembra tenere come quadro di riferimento generale per dare conto della difficoltà della persuasione a opera dei media e della relativa minore difficoltà di persuadere se il messaggio è strutturato in modo da poter essere bene accolto entro la subcultura di una definita fascia di pubblico (target). Tale teoria, come è evidente, accoglie suggestioni proprie della scuola di Lewin e di quella di Hovland e, in qualche misura, anche di Lasswell. Inoltre, si pone a un livello di generalità tale da poter inglobare la teoria della dissonanza cognitiva e la cosiddetta ''retorica scientifica''. I suoi stessi critici (Greenberg e Parker 1964; Van Den Ban 1969) ne hanno suggerito piuttosto affinamenti e revisioni che non il completo superamento.

Fra coloro, poi, che soprattutto in Europa hanno ritenuto di sottoporre a conferma empirica teorie a più limitato livello d'astrazione, molti sono giunti a risultati non incompatibili con la teoria del flusso a due fasi. In particolare, gli inglesi Blumler e McQuail (1968), nella prima sistematica indagine svolta in Europa sugli effetti della televisione sul comportamento elettorale, sono giunti a individuare una definita correlazione fra lo scarso interesse per i temi della campagna elettorale e l'esposizione alla televisione da un lato, e la scelta di votare, alle elezioni del 1964, per il Partito liberale dall'altro. In altre parole, il messaggio politico veicolato dalla televisione ebbe, in quella circostanza, una significativa efficacia, ma solo fra quei soggetti molto esposti alla televisione che non erano già orientati. Peraltro, gli autori riconoscono che il ruolo dei leaders d'opinione fu consistente, specie nel passaggio da un orientamento filoconservatore a uno proliberale.

Gli effetti sociali dei mass media. - Nel caso delle elezioni britanniche del 1964, che segnarono per il Partito liberale un grande successo dopo un quarto di secolo di eclisse, si può parlare di consistenti effetti sociali della comunicazione televisiva. Lo stesso sistema politico, infatti, subì − sia pure per una sola legislatura − una profonda trasformazione con l'acquisizione da parte di un terzo partito nazionale di una centralità parlamentare che sconvolgeva il classico modello bipartitico inglese. Una forte corrente d'opinione pro-liberale si diffuse nel paese sollecitando un cambiamento che portasse profonde novità nel sistema inglese. Di fatto, il sistema bipartitico tenne e l'onda neo-liberale fu ridimensionata. Ma è interessante ricordare che più di un esponente conservatore e anche diversi laburisti ebbero a dolersi per il fatto che i mass media avessero ''risuscitato'' una forza politica la cui stessa presenza in Parlamento metteva in pericolo la stabilità del sistema.

In realtà, sul fatto che i messaggi veicolati dai mass media possano avere rilevanti effetti sociopolitici, non c'è discussione. Quello che i sociologi della comunicazione discutono è invece se e in quale modo possano essere accertati effetti sociali di lungo periodo sui modelli di comportamento, sugli stili di vita, sui modi di sentire e di pensare del pubblico, in particolare di quello televisivo. Ci si è domandati, fra l'altro, quali effetti sociali siano ascrivibili alla programmazione evasiva, con risposte che hanno oscillato fra quella di Lazarsfeld e Merton (1948; trad. it., 1969), secondo cui i messaggi evasivi darebbero luogo a una "disfunzione sociale narcotizzante", e quella, più rassicurante, di J.T. Klapper (1960; trad. it., 1964), secondo cui "il materiale d'evasione tende con tutta probabilità a riconvalidare l'apatia sociale dell'apatico, ma non spegne il sacro fuoco di chi è socialmente attivo" (p. 244). Si tratta di risposte nel complesso vaghe, la cui genericità si spiega con l'estrema difficoltà di condurre ricerche sul campo che siano in grado di fornire elementi empirici a sostegno di teorie a elevato livello d'astrazione sugli effetti dei mass media in generale. Non a caso, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la ricerca si è orientata al tentativo di rispondere a quesiti più specifici e circoscritti. Si è così potuto accertare che l'introduzione della radio, e soprattutto della televisione in zone rurali o isolate contribuisce a sconvolgere gerarchie di status consolidate da secoli (Katz 1963; Acquaviva e Eisermann 1982); che i programmi televisivi violenti possono avere, in definite circostanze, effetti di stimolo dell'aggressività adolescenziale e infantile (Comstock e altri 1978); che tra gli effetti della prolungata esposizione dei bambini alla televisione c'è da un lato l'acquisizione di una precoce maturità cognitiva, dall'altro la formazione di una peculiare subcultura preadolescenziale (Statera, Bentivegna, Morcellini 1990). I sociologi della comunicazione sono quindi in grado, negli anni Novanta, di rispondere con soddisfacente precisione a domande circa gli effetti in senso modernizzante dell'introduzione della televisione in aree sottosviluppate del pianeta; sono in grado di affermare che esiste una definita relazione fra esposizione a programmi televisivi violenti e comportamenti infantili (e talvolta adolescenziali) di tipo aggressivo, a meno che le scene di violenza non siano manifestamente ritualizzate, come nei film western o nelle stesse fiabe; possono descrivere e persino prevedere, con accettabile margine di approssimazione, le reazioni di diverse fasce di pubblico a programmi televisivi di diverso genere, e anche a tipi diversi di spot pubblicitari.

Ciò non sostiene l'idea del global village o ''villaggio globale'' (McLuhan 1964), ma piuttosto quella di tanti diversi villaggi e diversi pubblici che decodificano in modi diversi, se non opposti, lo stesso messaggio, reagendo spesso con atteggiamenti e comportamenti differenziati. Peraltro, non c'è dubbio che, sotto un altro punto di vista, la televisione (i cui programmi sono sempre più omogenei nei diversi paesi) induca anche omogeneità. Ma ciò vale per i linguaggi, le mode, i simboli della cultura giovanile e adolescenziale; non con riguardo ai convincimenti e alle azioni che eventuali messaggi persuasori intendono favorire. In altre parole, a una crescente omologazione simbolico-spettacolare, e quindi essenzialmente esteriore, favorita dai media su scala planetaria, non si accompagna l'omologazione delle subculture, che anzi spesso piegano il messaggio alle proprie esigenze.

Il mezzo, dunque, s'identifica con il messaggio, come voleva McLuhan, solo nel senso che diversi tipi e forme di messaggio sono più adatti a questo o a quel mezzo (l'immediatezza delle news si adatta alla radio, mentre la complessità del commento è congruente con la natura del quotidiano d'informazione o del newsmagazine e la spettacolarità delle immagini è specifica della televisione). A partire dalla metà degli anni Ottanta, peraltro, le naturali propensioni dei diversi mezzi a ospitare forme diverse di comunicazione hanno cominciato a non essere rigorosamente rispettate, negli Stati Uniti come in Italia che, dal punto di vista televisivo, occupa una posizione di primo piano nel panorama internazionale. Parallelamente, è venuta meno la classica distinzione fra i ''generi'' televisivi (informazione, fiction, intrattenimento-evasione) con l'irruzione dell'informazione nell'intrattenimento e la stessa contaminazione della fiction. Accade così che attori, intrattenitori, giornalisti e soubrettes partecipino allo stesso ''contenitore'', favorendo in tal modo l'esposizione a messaggi politico-sociali da parte di un segmento di pubblico che non si esporrebbe al telegiornale. Da questo comportamento deriva, soprattutto in Italia, un accresciuto livello d'informazione sociopolitica.

La comunicazione politica. - Alla spettacolarizzazione della politica, che è in larga misura un effetto dell'avvento della televisione, si deve probabilmente la crescente attenzione che i sociologi della comunicazione dedicano ai modi della comunicazione politica. Secondo D. Altheide e R. Snow (1979), è infatti individuabile una peculiare "logica dei media", che, nel caso della televisione, esige una sintassi lineare-visuale di eventi e una struttura narrativa elementare, rapida e incalzante, nella presentazione delle notizie. Ciò implica spettacolarità e un linguaggio che enfatizza i conflitti, vale a dire una grammatica incentrata sulla drammatizzazione. È proprio la televisione, mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, a informare di sé la "cultura dei mass media" (Snow 1983), che è uno sviluppo della cultura di massa tradizionale. Con le news si ha la più significativa espressione della cultura dei mass media, che "crea la realtà sociopolitica" di milioni di individui (Altheide 1976): una realtà schematica, che ha un inizio, uno svolgimento e che, infine, personalizza opinioni e azioni in figure di leaders cui tende ad annettere carisma, pur umanizzandone i tratti con l'esibirne le mogli, i figli, gli hobbies (Statera 1986; Edelman 1988). Lungo questa linea d'analisi, sviluppatasi negli Stati Uniti durante l'era di Reagan, ''il Grande Comunicatore'', si svolge l'approccio costruttivista alla comunicazione politica, per cui la realtà politica è, in sostanza, quella ''creata'' dai media e ''costruita'' dal pubblico che è esposto alla comunicazione stessa. Peraltro, negli anni Ottanta la politica-spettacolo celebra i suoi fasti non solo negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna con M. Thatcher (''la lady di ferro''), in Francia con F. Mitterrand, persino in India, dove più di un attore popolare assurge ai vertici del potere.

Non è incompatibile con l'approccio costruttivista, ma anzi per molti versi a esso complementare, l'approccio in termini di agenda-setting, o definizione di un'agenda. Questo approccio muove dall'idea che i mass media siano potenti fattori di attrazione dell'attenzione del pubblico, al punto da condizionare fortemente l'universo delle questioni che sono presenti alla consapevolezza del pubblico stesso in un particolare periodo (normalmente, per la verità, alquanto breve). Si tratta, come osserva il sociologo statunitense McCombs (1981), di un paradigma che ha inglobato in sé, negli ultimi anni, gran parte degli studi sugli effetti sociali dei mass media, anche se prescinde completamente dal problema della persuasione. "L'ipotesi dell'agenda-setting - precisa Shaw, che è uno degli esponenti più significativi di questo indirizzo − non sostiene che i media cercano di persuadere... Essi piuttosto descrivono e precisano la realtà su cui formarsi un'opinione e discutere... L'assunto fondamentale dell'agenda-setting è che la comprensione che la gente ha di larga parte della realtà sociale è mutuata dai media" (Shaw 1979, p. 96 e p. 101).

I vantaggi dell'approccio in termini di agenda-setting sono evidenti. In primo luogo, esso consente di chiudere, o di mettere fra parentesi, la disputa fra ''apocalittici'' e ''integrati'' svuotando l'interrogativo circa gli effetti manipolatori dei mass media o i positivi effetti partecipativi degli stessi; in secondo luogo, spostando l'accento dalla persuasione alla selezione di temi e questioni presenti alla coscienza del pubblico, rende possibile operare, per la ricerca empirica, sulla nozione stessa di ''effetto''; infine, considerando la relativa semplicità dei disegni di ricerca che ispira, la prospettiva indicata consente di differenziare con precisione i diversi mezzi quanto al tipo di agenda-setting che favoriscono e, quindi, di definire con un ragionevole grado di attendibilità almeno questa dimensione degli effetti dei mass media. D'altra parte, i limiti del paradigma dell'agenda-setting sono altrettanto evidenti: la sua sistematizzazione teorica è scarsa e controversa; i dati empirici cui perviene sono spesso contraddittori; per poterli spiegare è necessario il più delle volte leggerli alla luce della classica teoria del flusso a due fasi, recentemente ribattezzata teoria degli usi e delle gratificazioni (nel senso che i messaggi veicolati dai media sono ''usati'', cioè sono selezionati, in funzione di gratificazioni sociali), ovvero, più specificatamente, alla luce della teoria della dissonanza cognitiva o della ''retorica scientifica''.

Ciò significa che quello in termini di agenda-setting, pur dominante dalla metà degli anni Settanta nello studio della comunicazione politica, è piuttosto un approccio agevole, che non un paradigma in senso proprio. Lo stesso vale per l'approccio diffusivo "che connette in modo sistematico una pluralità di elementi i quali tendono a diffondere qualche proprietà comunicativa nello spazio e nel tempo da un agente ad un altro" (Savage 1981, pp. 102-03). In questo caso, siamo di fronte fondamentalmente a una tecnica comunicativa, funzionale all'assunzione di decisioni politico-amministrative: si diffondono, infatti, da un segmento dell'amministrazione a un altro, da questo agli opinion makers e quindi ai media, aspettative d'intervento legislativo; se ne saggia il gradimento, si aggiusta il tiro e, infine, si assume la decisione allorché essa è − per così dire − matura nelle aspettative collettive. Non a caso, nell'introduzione alla raccolta di Swanson e Nimmo (1990), non si procede più a classificare presunte prospettive teoriche (come nella raccolta di Nimmo e Sanders del 1981), ma piuttosto s'indicano i campi in cui lo studio sociologico della comunicazione politica ha avuto maggiore attenzione e ha ottenuto risultati di qualche rilievo. Tra questi, restano centrali l'analisi sistematica delle campagne elettorali (soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna e in Francia), la realizzazione di sempre più sofisticate analisi del contenuto dei messaggi veicolati dai media, lo studio dell'innovazione tecnologica fra i politici, della comunicazione amministrativa, dell'omologazione crescente di stili e modalità espressive, dalla stampa a quelli propri della televisione, nel veicolare notizie. In molti di questi campi sono attivi anche diversi studiosi italiani, che si sono distinti in particolare nell'analisi della spettacolarizzazione della politica e dell'agenda-setting dei telegiornali. Lo sviluppo della disciplina appare però frenato in Italia dalla scarsità di risorse finanziarie disponibili per la ricerca.

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