Sociologia

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Sociologia

LLuciano Gallino

di Luciano Gallino

Sociologia

sommario: 1. Quesiti fondativi della sociologia. 2. La natura del legame sociale. 3. Differenziazioni teoretiche e specializzazioni della sociologia. 4. Programmi di ricomposizione della sociologia: a) la teoria generale dei sistemi sociali; b) la sociologia storica. 5. La critica delle rappresentazioni della società come compito della sociologia. ▭ Bibliografia.

1. Quesiti fondativi della sociologia

La sociologia, in quanto disciplina e forma di conoscenza, dà corpo al tentativo di rispondere con metodi d'indagine rigorosi a due quesiti essenziali per la condizione umana. Il primo suona 'come è possibile la società?' L'apparente ovvietà della vita sociale viene così problematizzata. In sé l'essere umano non risulta dotato di alcun apparato nativo capace di assicurare spontaneamente il suo inserimento nella cultura e nelle relazioni del gruppo di cui si trova a far parte. A tal riguardo si tratta di un animale totalmente 'esonerato' o 'carente', secondo la definizione di Arnold Gehlen. Ogni nuovo nato si presenta come un estraneo al quale occorre laboriosamente far apprendere, allo scopo di mantenere la struttura manifesta e latente del gruppo, le regole di condotta proprie di questo. Grazie all'interazione fra genotipo e storia personale, fra biologia e cultura, ciascun individuo acquisisce con lo sviluppo una personalità unica. Quindi giunge ad albergare e manifestare desideri, motivazioni, scopi personali, differenti da quelli dei suoi simili. A loro volta i processi della differenziazione sociale generano interessi individuali e collettivi, materiali e ideali, che si rivelano frequentemente in conflitto. Nonostante simili incongruenti premesse, accade che persone, azioni e risorse si muovano e si incontrino con accettabile prevedibilità, nel tempo e nello spazio, formando reti sociali immensamente complesse. Prima o poi la maggior parte delle persone trova uno spazio sociale appropriato, una posizione nella società che pone in rapporto con l'interesse generale il loro comportamento e le loro particolari disposizioni. La guerra hobbesiana di ciascuno contro tutti non è lo stato di cose ordinario. Le società appaiono funzionare mediamente in modo ordinato, sopravvivendo e riproducendosi di generazione in generazione. Come ciò sia possibile richiede un'apposita indagine teoretica e fattuale.

Il secondo quesito fondativo della sociologia chiede in qual modo si sia passati dalla società antica e dalle tradizionali comunità di villaggio alla società moderna. In quest'ultima, diversamente da quelle, la massa della popolazione è stata inserita nel sistema economico e politico; la gran maggioranza della popolazione che prima viveva nelle campagne appare ora concentrata in centri urbani; la tecnologia e lo sviluppo di modelli organizzativi più efficaci hanno ridotto in misura sostanziale la quantità di lavoro necessario per produrre una determinata quantità di ricchezza, quale si misura dal Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite; la qualità e gli orari del lavoro sono senza paragoni più umani di quanto non fossero nelle società premoderne; e a fronte del 90% di analfabeti di un tempo, il 99% della popolazione dei paesi sviluppati arriva almeno al compimento del secondo ciclo nel sistema d'istruzione. Nella società moderna si osserva altresì un fortissimo incremento della divisione sociale del lavoro; per far fronte alle necessità di regolazione dei comportamenti individuali e collettivi che da essa derivano si è sviluppato un possente apparato giuridico e amministrativo centrale; si sono moltiplicate le associazioni, le istituzioni, le organizzazioni governative e non governative che sono specializzate nello svolgere funzioni un tempo inesistenti, o che erano fuse in ruoli generici entro la sfera familiare: una transizione agevolmente osservabile al presente in gran parte delle funzioni produttive, riproduttive ed educative. Attraverso quali stadi, in forza di quali processi, si sono verificati siffatti mutamenti?

Nella forma esatta sopra riportata, il primo quesito è stato formulato da Georg Simmel (v., 1908) ai primi del Novecento. Peraltro, nel suo sfondo traspare con evidenza il problema classico dell'ordine sociale, delle condizioni che rendono possibile l'esistenza di una società relativamente ordinata e pacifica, qual è stato formulato innumerevoli volte nella storia del pensiero filosofico e politico, prima ancora che in quello sociologico. Sin dalle origini, la sociologia ha mirato a distinguersi da tali precedenti per l'intento di sviluppare una risposta al problema dell'ordine che fosse fondata su procedimenti scientifici, tra i quali essa attribuisce massimo peso alla costruzione di teorie generali corroborate da appropriata evidenza empirica. Nello sviluppare tale risposta, il pensiero sociologico è stato orientato fino al presente da alcuni grandi 'modelli di società': il modello 'organicistico', quello 'meccanicistico' e quello 'sistemico'. I primi due sono categoricamente contrapposti; nel terzo, che pure possiede un'identità e una storia specifiche, possono rinvenirsi, a seconda degli autori che lo adottano, vari tratti dei primi due. Tali modelli di società sono modelli mentali, rappresentazioni che agli occhi dello studioso appaiono descrivere in modo affatto aspecifico, ma al tempo stesso altamente efficace nell'indirizzare la ricerca, la natura profonda della società in generale. Diversamente dai modelli utilizzati nelle ricerche sul campo, un modello di società non è assoggettabile ad alcuna verifica empirica. In altre parole, non esiste alcun tipo di ricerca capace di comprovare o confutare su basi fattuali che la società possegga realmente la natura indicata da un dato modello mentale. Tuttavia, se lo studioso non avesse la mente pre-orientata da un dato modello di società, qualsiasi forma di indagine, inclusa la ricerca sul campo o in laboratorio, sarebbe impossibile, poiché egli non saprebbe dove e su cosa indagare.

Il modello organicistico, che è stato tra i primi a emergere nel pensiero sociale, concepisce la società come un organismo, formato da organi latamente assimilabili a quelli corporei, il quale, come accade appunto ai corpi, cresce, acquisisce nuove capacità, conosce stati di salute e di malattia, ed è destinato prima o poi al declino. Per contro, il modello meccanicistico, che dal punto di vista storico è stato un accanito antagonista del precedente - nelle scienze sociali come nelle scienze naturali - scorge nella società un meccanismo composto da parti strettamente interrelate, che non conosce processi autonomi di crescita, che è suscettibile di guasti ma non di processi di declino, e nel quale ogni parte può venire sostituita senza difficoltà da una analoga.

Tra i fondatori della sociologia, il maggior rappresentante dell'organicismo è stato Herbert Spencer. Nei Principles of sociology, pubblicati a Londra tra il 1876 e il 1896, Spencer indica una serie di similarità tra l'organismo sociale e l'organismo biologico. Entrambi sono soggetti a fenomeni di crescita. Nel processo di crescita entrambi manifestano forme di differenziazione, tanto di struttura quanto di funzioni. In entrambi esiste una interdipendenza delle parti. Ambedue posseggono uno speciale sistema di sostentamento, un sistema distributivo egualmente specializzato e uno speciale sistema di regolazione, che sarebbe il sistema nervoso in un organismo e il sistema di governo in una società. Nella Divisione del lavoro sociale (1893) Émile Durkheim critica Spencer per le analogie troppo stringenti che questi ha stabilito fra organismo biologico e società; tuttavia ne condivide in sostanza il modello organicistico. La distinzione che egli stabilisce tra la solidarietà organica e la solidarietà industriale di Spencer deriva dalla constatazione che quest'ultima avrebbe un'origine esclusivamente contrattuale, libera da ogni regolamentazione esteriore dell'agire degli individui. La solidarietà organica, per contro, viene a crearsi in forza del contemporaneo incremento della divisione del lavoro, dell'apparato di regole giuridiche e della crescita dello 'spessore morale' della società. Per Durkheim, inoltre, l'acquisizione del carattere di organicità da parte di una società è un fenomeno storico. La società tradizionale era caratterizzata piuttosto dalla solidarietà meccanica. "Ciò che la caratterizza è il fatto che essa costituisce un sistema di segmenti omogenei e simili tra loro. La struttura delle società in cui prevale la solidarietà organica è completamente diversa. Esse sono costituite, non già da una ripetizione di segmenti simili e omogenei, ma da un sistema di organi differenti, dei quali ognuno svolge un compito specifico, e che sono formati essi stessi di parti differenti" (v. Durkheim, 1893; tr. it., pp. 191-192).

Nel corso del Novecento, il modello organicistico informerà esplicitamente l'opera di autori quali Othmar Spann, Oswald Spengler, Arnold Joseph Toynbee. Secondo Spann, concepire la società come un tutto autonomo, quasi che fosse un organismo, nel quale le parti vivono la loro esistenza come membri sostenendosi grazie alla forza vitale del tutto, è una scelta obbligata per lo studioso di scienza sociale. L'alternativa consisterebbe nel concepire la società come un mero aggregato, un 'mucchio di sabbia', ovvero un meccanismo nel quale ogni parte conduce un'esistenza autonoma, che non dipende in alcun modo dalla forma del tutto. Per Spengler e Toynbee le unità di riferimento sono le civiltà, più che le singole società; ogni civiltà può raggruppare in sé numerose società. L'adesione del pensiero di Toynbee (v., 1934-1961) al modello organicista è evidente nella sequenza che egli scorge in ogni civiltà: genesi, crescita, collasso e disintegrazione, sebbene l'autore non postuli che la sequenza stessa sia necessariamente identica per tutte le civiltà.

Il modello opposto, tra quelli che orientano la costruzione di risposte al quesito di come sia possibile la società, è fondato sull'idea che essa sia una sorta di meccanismo. Questo modello mentale accentua il carattere della società come insieme di atomi individuali, dai cui comportamenti singoli derivano le proprietà della società stessa. L'elemento base su cui deve concentrarsi l'indagine sociologica, secondo tale modello, sono gli interessi, le motivazioni, le azioni dei singoli individui. Da un modello meccanicistico della società appaiono orientate varie scuole sociologiche che vanno dai primi decenni del Novecento fino a tempi recenti. Si possono menzionare tra di esse la sociologia come scienza logico-sperimentale di Vilfredo Pareto (v., 1916), la metodologia neopositivistica di Paul Lazarsfeld, il comportamentismo sociale di George K. Homans e di Peter M. Blau (v. Gallino, 19932, pp. 442 ss.), sino all'odierno individualismo metodologico di Raymond Boudon. Come altri corpi, nell'ottica del modello meccanicistico la società risulta formata da atomi. L'atomo logico dell'analisi sociologica, asserisce Boudon (v., 1979 - tr. it., p. 33 - e 1992), è dunque l'attore individuale.

Dalla metà del Novecento in poi, tra i modelli mentali che orientano il pensiero sociologico nella ricerca di una risposta logicamente ed empiricamente fondata circa la possibilità della società, uno speciale rilievo ha acquisito il modello sistemico. Concepire la società come un sistema porta a tener conto del fatto che una società deve fare continuativamente fronte ad alcune fondamentali funzioni. Preminenti tra di esse sono il procurarsi risorse sufficienti in rapporto alla popolazione; mantenere a livelli accettabili le tensioni e i conflitti interni; conservare nel tempo la propria identità sociale e culturale; conciliare il soddisfacimento dei bisogni individuali con il perseguimento di scopi collettivi. Il modello sistemico muove in generale dall'analisi della struttura dei fondamentali sottosistemi interni d'una società, individuati per lo più nel sistema economico, nel sistema politico, nel sistema della riproduzione socio-culturale, nel sistema comunitario, ivi comprese le componenti psichiche e biologiche. Insieme con l'analisi strutturale sono studiati gli scambi materiali e simbolici che tra i sottosistemi intercorrono. La concezione sistemica della società ha avuto i suoi massimi esponenti, nella seconda parte del Novecento, in Talcott Parsons e Niklas Luhmann (v. sotto, cap. 4).

Nei filoni del pensiero sociologico interessati più all'interrogativo di come la società sia possibile che al problema di scoprire le modalità e le cause del passaggio dalla barbarie alla civiltà, ovvero dalla società antica alle società industriali, il modello predominante è stato quello che scorge nella società un 'processo storico'; processo che non è formato da una successione casuale di avvenimenti, bensì che palesa un senso, una direzione di movimento. Per Auguste Comte - al quale si deve anche il conio dell'ibrido latino-greco sociologìa - tale processo è caratterizzato dalla successione costante e necessaria di tre stadi generali, esaminati in dettaglio nel ponderoso Cours de philosophie positive, edito a Parigi tra il 1830 e il 1842. Il primo, storicamente, è quello teologico, che si caratterizza per il predominio dell'immaginazione, in cerca di spiegazioni essenziali dei fenomeni, i quali sono attribuiti dagli uomini a esseri simili all'uomo benché siano di natura sovrannaturale. Segue lo stadio metafisico o astratto, caratterizzato dal predominio di argomentazioni logiche nel cui quadro la spiegazione si richiama a entità o ad astrazioni personificate e forze occulte. Lo stadio più avanzato è quello positivo o scientifico, il quale studia le leggi dei fenomeni e si distingue per il predominio esclusivo dell'osservazione. Con la sociologia, secondo Comte, lo studio della società accede finalmente a tale stadio.

Per contro, nella teoria della società elaborata da Karl Marx il processo storico è sospinto dallo sviluppo delle forze produttive - combinazioni specifiche di mezzi di produzione e di capacità umane - che con le loro scansioni quantitative e qualitative improntano successivamente le comunità tradizionali, la società antica, la società feudale, infine la società capitalistica. Ciascun tipo di società corrisponde a una determinata formazione economico-sociale, improntata in ogni sua parte dai caratteri specifici di un modo di produzione, che è a sua volta una particolare combinazione di forze produttive e di rapporti sociali. Lo sviluppo delle forze produttive è incessantemente promosso, nel proprio interesse, dalle classi sociali che ne detengono il controllo. Ciò malgrado, giunte a una certa fase di sviluppo le forze produttive infrangono le strutture sociali che le controllano, essendosi queste trasformate da fattori di dinamizzazione in elementi di costrizione della loro espansione. La formazione economico-sociale in essere è quindi costretta a cedere il proscenio della storia a una formazione più progredita.

L'opera di Max Weber è stata considerata in genere la negazione, e anzi il rovesciamento, dell'economicismo marxiano. In essa il processo storico appare sospinto dall'influenza del fattore religioso, in specie della religione protestante, con la sua etica del lavoro e le sue regole di condotta, sulla nascita del capitalismo moderno; ipotesi suffragata dall'esame di altre religioni del mondo diffuse in paesi dove tale nascita non si verificò (v. Weber, 1920-1921). Parallelamente all'espansione del capitalismo, nel campo politico si succedono tre tipi ideali di dominio. Essi sono il dominio carismatico, esercitato da un capo o da un'istituzione cui si attribuiscono doti straordinarie; il dominio tradizionale, fondato sulla credenza del carattere legittimo di un'autorità che appare essere esistita da sempre; e il dominio razionale, che viene in essere sotto forma di un sistema di regole in ambito giuridico e amministrativo, valide per tutti i membri della comunità. Categoria fondamentale del dominio razionale, che per Weber coincide con l'avvento del capitalismo, è la burocrazia.

Mentre per i suddetti autori il processo storico non appare mai ritornare sui propri passi - una prospettiva che configura le loro sociologie come altrettante teorie del progresso -, per Pitirim A. Sorokin (v., 1937) ogni società umana, con tutte le sue componenti strutturali e culturali, tende a percorrere una sequenza di stadi al termine della quale è possibile che ricominci dallo stadio iniziale. Pertanto Sorokin non parla di successione, bensì di 'fluttuazioni' secolari di forme dell'arte, dei sistemi scientifici, etici e giuridici, delle relazioni sociali, delle guerre e delle rivoluzioni.

Concorrente del modello di società concepita in essenza come processo storico è stato, specie nella seconda metà dell'Ottocento, ma con robuste ramificazioni per gran parte del Novecento, il modello evoluzionistico. Alla luce di esso le società moderne sono il prodotto dell'evoluzione sociale, che incarna il prolungamento a un livello più alto dell'evoluzione biologica. Secondo Spencer, per il quale il modello evoluzionistico rappresentava un complemento naturale del modello organicistico, l'evoluzione sociale è una forma di evoluzione superorganica che si palesa in tre processi principali. Sebbene questi possano ricorrere più volte nella storia di una società, da un punto di vista universale essi appaiono incessantemente avanzare. Tali processi sono la crescita quantitativa mediante l'integrazione in un solo Stato di collettività di minori dimensioni; la differenziazione delle funzioni svolte dalle parti dell'organismo sociale; infine la differenziazione delle strutture. Da tale movimento nasceranno nuove esigenze di integrazione. Nella società industriale Spencer scorgeva alla sua epoca il culmine dell'evoluzione superorganica.

Il richiamo a questi classici della sociologia, e ai quesiti dai quali mossero le loro costruzioni teoriche, appare necessario per stabilire un punto cruciale al fine di comprendere gli sviluppi, le crisi d'identità, le frammentazioni specialistiche e i programmi intesi a ricomporle che hanno caratterizzato la sociologia dalla metà del Novecento ai nostri giorni: essa è sorta, e si è affermata nel concerto delle scienze umane, primariamente quale 'teoria della società'. Quest'ultima dovrebbe dunque costituire di norma il quadro di riferimento concettuale in cui si collocano anche le ricerche empiriche sulle relazioni interpersonali in differenti tipi di collettività, dal piccolo gruppo alle organizzazioni complesse, talora presentate come la sola attività distintiva dei sociologi.

2. La natura del legame sociale

I corpi materiali sono tenuti insieme da legami chimici o elettromagnetici tra i loro componenti. Qual è la natura del legame tra i suoi componenti che tiene insieme il corpo sociale? Ovvero, con un concetto affine ripreso da David Hume, qual è il "cemento" che "tiene insieme le società e impedisce che esse si disgreghino degenerando in caos e in guerra?" (v. Elster, 1989; tr. it., p. 11). Le teorie del legame sociale si possono distinguere in 'soggettiviste' e 'strutturali'. Le prime pongono alla base del legame sociale la coscienza del soggetto; le seconde presuppongono un soggetto che è legato agli altri da rapporti di cui è possibile esso non abbia affatto coscienza.

Tra le teorie soggettiviste del legame sociale spiccano quelle che pongono a suo fondamento qualche tipo di norma. Una norma sociale è una proposizione la quale prescrive a un soggetto o a un gruppo il comportamento più appropriato al quale attenersi allorquando si presenti una determinata situazione. Nella maggior parte dei casi la norma tiene conto, nella sua articolazione, delle proprietà del soggetto (ad esempio se questi è un minore), delle azioni da esso eventualmente subite e delle risorse di cui dispone. Non è detto che una norma sociale sia sempre codificata formalmente in una proposizione; nondimeno è necessario, affinché essa sia efficace, che sia possibile ricondurla a qualche tipo di proposizione. Una classe particolare di norme sociali, d'importanza determinante in tutte le società, è formata dalle norme giuridiche. Le norme sociali costituiscono una forma essenziale di legame tra i soggetti e tra i gruppi sia perché stabiliscono in anticipo, in modi generalmente noti, qual è il tipo di azione che un dato soggetto dovrebbe compiere in presenza di date circostanze, sia perché così facendo rendono le azioni reciprocamente prevedibili.

Il concetto di 'ruolo' si spinge più in là di quello di norma sociale, poiché ingloba sia tutte le norme esplicite alle quali deve attenersi un individuo che occupa una determinata posizione sociale, sia tutte le aspettative implicite, le prescrizioni non scritte, gli obblighi morali non codificati che convergono su quella posizione. I ruoli, che non vanno confusi con il modo in cui il soggetto che occupa una certa posizione realmente agisce, rappresentano i componenti elementari dei sistemi sociali. A paragone del concetto di ruolo le teorie dello 'scambio' accentuano il grado di consapevolezza e razionalità del soggetto. L'agire di quest'ultimo consiste nel cedere ad altri soggetti determinate risorse sociali allo scopo di ottenere da loro delle risorse di genere differente che considera più gratificanti o utili di quelle che si appresta a cedere. Nel contesto, il termine 'risorsa' ha una valenza assolutamente generale, potendo designare di volta in volta, e spesso anche simultaneamente, tanto oggetti materiali o denaro, quanto compensi simbolici, prestigio, affetto, riconoscimento della propria identità o valore. Le teorie soggettiviste del legame sociale trovano un compendio nel concetto di 'azione sociale'. Essa si articola, da un punto di vista analitico, in un complesso di elementi che comprendono un progetto o un piano concepito in precedenza; lo scopo al quale il piano è diretto, che consiste in generale nella trasformazione della situazione esistente; la presenza di diverse alternative che richiedono una scelta; la consapevolezza che uno o più soggetti saranno toccati dall'azione stessa e potranno reagire a essa con varie modalità e tempi differenti.

Uno dei più moderni e complessi tentativi di teorizzare il legame sociale è la teoria dell"agire comunicativo' di Jürgen Habermas. L'agire comunicativo è il livello dello scambio di informazioni in cui la validità del contesto dei significati e la legittimità di valori e di norme vengono assunti dal soggetto come non problematici, ossia vengono da esso presupposti. Ciò che distingue l'agire comunicativo rispetto a ogni altro tipo di agire sono due elementi: l'intenzione di intendersi (non necessariamente il raggiungimento effettivo dell'intesa) e il linguaggio come mezzo (v. Habermas, 1981; tr. it., vol. I, p. 12).

Le teorie strutturaliste del legame sociale muovono viceversa dal presupposto che esso deriva da complessi di rapporti sociali che si impongono all'individuo, collegandolo ad altri, indipendentemente dal fatto che essi siano o meno coscienti dei medesimi. Un'epitome di tale concezione si trova in Marx. Di fronte alla necessità di produrre le risorse occorrenti per la loro esistenza, di difendersi dalla natura, di riprodurre la specie, "gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali" (v. Marx, 1859; tr. it., p. 10). I rapporti di produzione non solo mutano, come s'è ricordato, con lo sviluppo dei mezzi produttivi, ma influenzano anche la cultura e la coscienza sociale, sì da pervenire a occultare ai soggetti, in date condizioni, la loro vera natura. Ogni formazione economico-sociale che si sussegue nella storia è caratterizzata dal prevalere di determinati rapporti materiali e ideologici, l'insieme dei quali forma un determinato tipo di legame sociale; di questo i soggetti, in quanto appartenenti a differenti classi sociali, possono avere o meno coscienza.

Secondo Durkheim, il legame sociale trae origine, in funzione delle epoche, da due differenti forme di solidarietà già menzionate: quella meccanica, derivante dall'uniformità delle parti che compongono una società, e la solidarietà organica, derivante dalla divisione del lavoro. È l'interdipendenza tra gli individui e i gruppi, che si riflette in una parallela costruzione di regole morali, che crea il più forte elemento legante della società. Al confronto di quella durkheimiana, la concezione di Weber è più direttamente politica. Per essa il legame sociale è prodotto in ogni epoca storica da una particolare forma di dominio. Il dominio è un rapporto di superiorità che un dato soggetto individuale o collettivo esercita su una massa di altri soggetti, controllando a proprio vantaggio la distribuzione delle risorse materiali e non materiali disponibili nella società, nonché i diritti a esse relativi. Costitutivo di ogni forma di dominio è il processo politico, nel corso del quale il soggetto dominante impiega ai propri fini varie forme di potere, di autorità, o di influenza, sì da condizionare la coscienza dei dominati. Ogni impresa di dominio, specifica infatti Weber, ha bisogno che "l'azione umana sia disposta all'obbedienza nei confronti di quei dominatori che pretendono di detenere il potere legittimo"; oltre a pretendere che "per mezzo di tale obbedienza le siano messi a disposizione i beni materiali necessari per realizzare l'impiego della forza fisica" (v. Weber, 1921; tr. it., vol. II, p. 831).

3. Differenziazioni teoretiche e specializzazioni della sociologia

Sin dalle origini gli studi di sociologia sono andati progressivamente differenziandosi in termini di orientamento teoretico ed epistemologico. Alla base dei differenti orientamenti via via emersi è rintracciabile, in generale, l'influenza informatrice di una o più delle filosofie dell'Ottocento e del Novecento. La ricostruzione di tale nesso permette di cogliere la continuità intrinseca fra i due ambiti, di regola presentati invece quali fossero due culture categoricamente distinte e contrapposte (v. Remotti, 1995).

Detta ricostruzione appare agevole in specie nel caso del positivismo. Uno dei fondatori della sociologia, Auguste Comte, figura infatti anche tra i padri del positivismo filosofico. Ricercare le leggi della statica e della dinamica della società; considerare i fatti sociali come fossero delle cose; individuare la causa determinante di un fatto sociale tra i fatti sociali antecedenti e non tra gli stati della coscienza individuale: questi obiettivi contrassegnano inequivocabilmente in senso positivistico il primo secolo della storia della sociologia (1830-1920), soprattutto in Francia e in Italia, tra Comte, agli inizi, e Durkheim e Pareto, verso la fine. All'idea positivistica di una determinazione universale del significato e dello sviluppo della società si oppongono agli inizi del Novecento la sociologia di Simmel, ispirata dal neocriticismo, e lo storicismo di Max Weber, che ha tra i suoi maggiori ascendenti la filosofia della storia di Wilhelm Dilthey e di Heinrich Rickert, sebbene da essa prenda le distanze. Pure la questione sociologica fondamentale, consistente nel problema della possibilità stessa della società, viene interpretata da Simmel in senso kantiano, ossia come un problema di costituzione dell'oggetto a partire da certe condizioni (v. Fornero e Tassinari, 2002, pp. 134-135). Dallo storicismo di Rickert, Weber riprende in particolare la distinzione "fra 'relazioni ai valori' (il punto di vista o 'l'interesse' da cui muove lo storico ai fini di delimitare il campo della propria indagine) e 'giudizio di valore' (la presa di posizione valutativa)" (v. Weber, 1921; tr. it., vol. II, pp. 155-156).

Negli anni trenta del Novecento è il pragmatismo a orientare le indagini di George Herbert Mead sull"altro generalizzato', sull"altro significativo', sul 'carattere sociale'. Sono tutte linee di indagine che si prolungano nel presente con l"interazionismo simbolico' e si intessono altresì con la teoria dell'agire comunicativo di Habermas. L'orientamento pragmatista della sociologia statunitense tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e gli anni successivi alla grande crisi appare rilevante anche nelle ricerche nell'ambito della Scuola di Chicago (v. Rauty, 1995). Tuttavia, più che da ogni altro indirizzo della filosofia, la sociologia del Novecento è stata influenzata dal neopositivismo. Tra gli elementi del neopositivismo che hanno maggiormente influito sulla teoria sociologica sono da annoverare: la confutazione di ogni distinzione di principio tra scienze naturali e scienze sociali, sicché queste ultime possono ambire allo statuto di scienze solamente assumendo in toto la metodologia delle prime; l'importanza assegnata all'elaborazione di un linguaggio univoco e universale, sotto il profilo semantico, per la designazione dei fatti sociali; nonché il fatto che uno dei maggiori rappresentanti del neopositivismo filosofico, Otto Neurath (v., 1931), abbia elaborato egli stesso un'articolata teoria sociologica.

Tra le opere più rappresentative del neopositivismo sociologico si trovano trattati sui fondamenti epistemologici della sociologia (v. Lundberg, 1939), al pari di ricerche empiriche divenute famose: sui rapporti tra direzioni aziendali e lavoratori (v. Roethlisberger e Dickson, 1939); sul modo in cui l'elettore decide di votare (v. Lazarsfeld e altri, 1941); sul sistema sociale di una comunità moderna (v. Warner e Lunt, 1941); sul soldato americano in tempi di guerra (v. Stouffer e altri, 1949); sulle forme elementari del comportamento sociale (v. Homans, 1961).

Successivamente è stata l'epistemologia post-positivistica di Thomas Kuhn, Imre Lakatos, Paul K. Feyerabend a sollecitare la sociologia, in specie la sociologia della scienza, a imboccare nuove strade. Fino agli anni settanta del Novecento la sociologia della scienza era rimasta ancorata allo studio dei fattori sociali 'esterni' che incidono sulla crescita della scienza, quali lo sviluppo o meno, entro una data società, di istituzioni scientifiche, oppure lo status sociale degli scienziati. La struttura interna delle teorie scientifiche era considerata intangibile da tali fattori. Al contrario, l'epistemologia post-positivistica ha contribuito alla nascita di una sociologia della scienza 'internista', detta anche sociologia cognitiva o epistemica. Secondo gli 'internisti', essendo ogni teoria scientifica sottodeterminata da fatti od osservazioni, la scelta tra la teoria A o la teoria B viene compiuta in forza di un condizionamento più o meno evidente di fattori sociali. Uno degli enunciati programmatici della sociologia cognitiva, nel quale è palese l'influsso dell'epistemologia post-positivistica, è stato il 'programma forte' della Scuola di Edimburgo (v. Vinck, 1995).

È ancora negli anni trenta del Novecento che prende forma, da una rivisitazione della dialettica hegeliana e attraverso questa, di quella marxiana, la 'teoria critica della società' di Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse. Denominazione ante litteram, giacché l'espressione 'teoria critica' venne coniata solamente nel 1937 in un saggio di Horkheimer (v., 1968; tr. it., vol. II, pp. 135-186) in cui egli la contrapponeva alla 'teoria tradizionale'. Capisaldi distintivi della teoria critica della società sono la denuncia delle contraddizioni, dell'involuzione culturale prodotta dai mezzi di comunicazione di massa, dell'autoritarismo, dell'irrazionalità derivante dal predominio attinto dalla ragione puramente strumentale, che questi autori ritenevano di individuare nella società capitalistica avanzata. All'interno del campo sociologico, la teoria critica è stata una severa forma di opposizione intellettuale nei confronti della sociologia positiva o neopositivista, in quanto questa, orientata a ricercare esclusivamente regolarità osservabili tra particolari fenomeni della realtà sociale, perde di vista l'insieme della realtà stessa. La sociologia positiva - prosegue l'accusa della teoria critica - utilizza inoltre categorie, concetti, metodologie di ricerca che sono in realtà prodotte dall'oggetto medesimo, la società industriale avanzata, della quale pretenderebbe di fornire una conoscenza autonoma.

Una durevole influenza sulla costituzione di indirizzi della sociologia contemporanea, quali l"interazionismo simbolico', la 'sociologia comprendente', la 'etnometodologia', è stata esercitata dalla fenomenologia di Edmund Husserl. Al complesso dei suddetti indirizzi ci si riferisce talvolta con l'espressione di 'sociologia fenomenologica'. Di rilievo per la trasmissione delle categorie fenomenologiche alla sociologia è stata l'opera di un allievo di Husserl trasferitosi negli Stati Uniti, Alfred Schutz (v., 1962-1964). Dalla scuola di questi ultimi sono emersi autori che hanno scelto quale campo di indagine soprattutto i processi per mezzo dei quali si effettua la 'costruzione sociale della realtà', intesa come l'attività produttrice di significati da cui derivano le costrizioni tipiche della vita associata. Queste sono d'origine simbolica e però risultano materialmente coercitive, donde l'impotenza dell'individuo dinanzi a esse (v. Berger e Luckmann, 1966). Anche la sociologia fenomenologica costituisce una opposizione dichiarata al positivismo e al neopositivismo sociologico, soprattutto alla proposta di quest'ultimo di studiare la realtà sociale mediante metodi d'osservazione e di misura simili a quelli delle scienze naturali. Contrariamente all'assunto di base della sociologia durkheimiana, per la sociologia fenomenologicamente orientata un fatto sociale non è mai una cosa, bensì una complessa costituzione di significati. Nel pensiero dei maggiori studiosi contemporanei di sociologia, elementi delle filosofie dell'Ottocento e del Novecento si intrecciano, sia come influenze primarie, sia come voci antagoniste. Nell'opera di Habermas, ad esempio, sono rintracciabili elementi del neoaristotelismo, del neocriticismo, dell'hegelismo, dell'ermeneutica di Hans Georg Gadamer, delle teorie degli atti linguistici e altri ancora.

Mentre le differenziazioni teoretiche ed epistemologiche indotte nella sociologia dalle filosofie dell'epoca hanno rappresentato per essa un fattore di continuità culturale e di ispessimento concettuale, diverse sono state le conseguenze delle innumerevoli specializzazioni, in termini di natura e ampiezza degli oggetti indagati, in cui la sociologia è andata via via frammentandosi. Un processo tuttora in corso, in apparenza non dissimile da quanto avviene in altre discipline, a cominciare dalle scienze naturali; ma che, a differenza di quanto accade in queste ultime, non appare avere più alcun fondamento in un quadro teorico generale. Fin dagli inizi del Novecento parve invero necessario ai sociologi delimitare il proprio campo di indagine: alcuni privilegiarono i rapporti tra economia e (il resto della) società; altri i rapporti tra politica e società, o tra società e cultura; o ancora, come fece in modo eminente Max Weber, i rapporti tra religione ed economia. In seguito, queste generiche delimitazioni di campo si trasformarono rapidamente in un numero senza posa crescente di particolari 'sociologie con il genitivo', centrate ciascuna su un oggetto privilegiato via via più circoscritto, orientativamente disconnesso da ogni altro. Sono quindi nate le sociologie dei gruppi, dell'educazione, dei processi culturali, della famiglia; le sociologie del lavoro, delle professioni, dell'industria, dell'organizzazione; le sociologie delle comunicazioni di massa, della letteratura e della città; le sociologie del diritto e delle forze armate, del tempo libero e del consumo, del crimine e della medicina.

Già negli anni trenta Max Horkheimer si riferiva a tale frammentazione della sociologia in aree di ricerca sempre più anguste e particolari come al "caos dello specialismo" (v. Fornero e Tassinari, 2002, p. 546). Con ciò egli intendeva negare non la necessità obiettiva della specializzazione, che è una premessa ineludibile per la conduzione di ricerche approfondite, bensì la rilevanza scientifica e sociale di ricerche condotte al di fuori di un quadro teoretico idoneo a conferire alla loro molteplicità un senso unitario. Nella seconda metà del Novecento, con l'impetuoso sviluppo della sociologia nelle università dei paesi dove essa era stata soppressa dall'una o l'altra forma di totalitarismo nei decenni precedenti, la proliferazione delle specializzazioni della ricerca sociologica ha conosciuto un'ulteriore accelerazione. Le discipline sociologiche ricomprese nei settori scientifico-disciplinari che compendiano la presenza delle varie discipline nell'insegnamento accademico dei paesi sviluppati sono diventate centinaia. Al presente ogni minuscola frazione dell'organizzazione sociale appare essere oggetto di una sua particolare sociologia.

In tale esasperata divisione del lavoro, ciò che appare essersi smarrita è la vocazione originaria della sociologia: il suo essere anzitutto non una teoria dei rapporti interpersonali, bensì una teoria della società. A fronte di tale frammentazione non sono tuttavia mancati dei programmi di ricomposizione della totalità della disciplina.

4. Programmi di ricomposizione della sociologia

a) La teoria generale dei sistemi sociali

La teoria generale dei sistemi sociali, che costituisce l'esito dell'adozione sino ai più analitici piani d'indagine del generale modello d'orientamento sistemico (v. sopra, cap. 1), rappresenta un tentativo di costruire una teoria onnicomprensiva della società, procedendo lungo due assi concettuali. Sull'asse verticale, essa istituisce come oggetto primario d'indagine l'insieme strutturato delle relazioni tra tutti i componenti della società, insieme definito appunto come sistema sociale. L'attività del sistema sociale è controllata al livello sovrastante dalla cultura, mentre al livello sottostante esso controlla a sua volta la formazione e la dinamica della personalità. In altre parole, il sistema sociale occupa un livello intermedio tra personalità e cultura, rispetto alle quali è indipendente da un punto di vista analitico, ma con le quali tuttavia scambia, sui rispettivi confini, un flusso ininterrotto di risorse materiali, simboliche e psichiche.

Sul piano orizzontale il sistema sociale, composto non da persone fisiche bensì da azioni individuali e collettive tendenzialmente strutturantisi (e destrutturantisi) in ruoli, si differenzia in sottosistemi ciascuno dei quali è contraddistinto dalla funzione basilare cui deve fare fronte. Il punto di partenza sta qui nella sopraccennata considerazione che al puro scopo di sopravvivere una società deve continuamente affrontare una serie di problemi funzionali che sono simili per tutte le società. Dall'ambiente fisico e sociale in cui è inserita essa deve procurarsi le risorse necessarie per assicurare un livello di vita accettabile per la sua popolazione. A tale funzione provvede il sistema economico. Una società deve inoltre saper sviluppare tra i suoi membri forme durature di solidarietà, così come deve presentarsi all'esterno in veste di soggetto unitario. A tale funzione provvede il sistema politico. È altresì necessario che una società riproduca la sua popolazione, sia come entità demografica, sia come insieme di sistemi psichici atti a motivare i componenti del sistema sociale a svolgere i loro ruoli; il sottosistema deputato a svolgere tali attività prende il nome di sistema comunitario. Non da ultimo, allo scopo di poter continuare a esistere mantenendo la propria identità, una società deve impegnarsi a riprodurre di generazione in generazione i suoi codici culturali. Questa funzione è svolta dal sistema socio-culturale. La capacità di sviluppo di una società, così come le possibilità di declino, sino alla sua eventuale disintegrazione, sono correlate al grado di efficacia con cui ciascun sottosistema svolge le proprie peculiari funzioni, dipendenti in larga misura dagli scambi di risorse materiali, simboliche e biologiche con gli altri sottosistemi, nonché dai rapporti con sistemi esterni. Il passaggio dalla società tradizionale alle moderne società complesse è costituito prevalentemente da una marcata differenziazione e autonomizzazione di ciascun sottosistema rispetto agli altri.

Questo schema della teoria dei sistemi sociali si trova, più che in ogni altro autore, alla base dell'opera di Talcott Parsons (v., 1951). Far perno sull'opera parsonsiana per richiamare i tratti salienti della teoria generale dei sistemi non è tuttavia un'operazione arbitraria, anche se è vero che la suddivisione della realtà sociale in tre livelli - società (ossia sistema sociale), cultura e personalità - risulta già trattata a fondo in una precedente opera di Sorokin (v., 1947). Docente all'Università di Harvard, dove Parsons dirigeva il Department of Social Relations, quando nel 1951 apparve il Social system parsonsiano, in cui la medesima distinzione è presente sin dal primo capitolo, esposta con identica terminologia, Sorokin accusò Parsons di aver utilizzato idee altrui. Ecco un passo che sembra una sintesi fedele del Social system di Parsons; però è di Sorokin, che così riassume i concetti alla base della sua opera: "La composizione strutturale dell'interazione socioculturale presenta tre aspetti inseparabili l'uno dall'altro, ossia: (1) la personalità come soggetto dell'interazione; (2) la società come la totalità delle personalità interagenti, con le loro relazioni e processi socioculturali; (3) la cultura come la totalità dei significati, dei valori e delle norme possedute dalle persone interagenti e dalla totalità dei veicoli che oggettivano, socializzano, e convogliano codesti significati" (v. Sorokin, 1947, p. 63).

Peraltro, l'impianto teorico di Parsons si dimostrò sin dai primi anni assai più cogente e idoneo alla replicazione, come entità culturale, di quello di Sorokin; fu quindi soprattutto la teoria del sistema sociale del primo a generare negli Stati Uniti e in Europa l'immenso corpus della teoria generale dei sistemi sociali. Il nucleo centrale di tale corpus è stato per la maggior parte prodotto - oltre alla serie di scritti che Parsons ha continuato a dedicare sino alla morte (1979) alla teoria dei sistemi (v. Parsons, 1977) - da pochissimi studiosi, in primo luogo i tedeschi Niklas Luhmann e Richard Münch, e lo statunitense Jeffrey C. Alexander.

Nel volume conclusivo di Theoretical logic in sociology, Alexander ha compiuto un'approfondita ricostruzione della teoria parsonsiana, concepita come l'esito di un dialogo con il pensiero di Marx, Durkheim e Weber. Appena menzionato è Pareto, benché egli comparisse come uno dei maggiori interlocutori di Parsons nella prima grande opera di questi sulle origini d'una teoria volontaristica dell'azione (v. Parsons, 1937). Il punto di partenza di Alexander sono due polemiche simultanee. La prima contro la convinzione positivistica per cui le proposizioni fattuali possono venire ontologicamente separate da proposizioni o generalizzazioni non fattuali. La seconda contro talune obiezioni antiteoretiche che sono emerse nell'ultimo terzo del Novecento all'interno dello stesso impianto della sociologia antipositivistica. Alexander critica in particolare i dibattiti nella letteratura sociologica che hanno cercato di ridurre gli argomenti a favore dell'impegno teoretico a un particolare insieme di approcci non empirici, come se detti argomenti rappresentassero cioè un rifiuto della ricerca sociale sul campo. Al contrario Alexander propone che "la scienza sia concepita come un continuum a molti strati, tale da spingersi dalle presupposizioni più generali, metafisicamente orientate, ad assunti e modelli ideologici più specifici, sino a toccare presupposti e impegni metodologici più empirici, per giungere finalmente a proposizioni e fatti 'empiricamente correlati'" (v. Alexander, 1981-1983, vol. IV, pp. XVII-XVIII). In quanto teoria della società, la teoria generale dei sistemi sociali deve essere capace di coprire con la medesima logica e i medesimi presupposti teorici e metafisici l'intero complesso di codesti strati.

Tra i continuatori relativamente ortodossi della teoria parsonsiana dei sistemi sociali risalta Richard Münch. Dopo un'analisi della teoria volontaristica dell'azione di Parsons, e dei suoi precedenti nell'opera di Durkheim e di Weber - la teoria dell'azione essendo consustanziale in Parsons alla teoria dei sistemi -, Münch ha dedicato due grandi opere alla struttura delle società moderne e alla loro cultura, concentrando l'analisi sui loro fondamenti e sviluppo in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia e in Germania (v. Münch, 1984 e 1986). In entrambe le opere, seppure con maggiore evidenza nella prima, l'esposizione di Münch segue fedelmente la quadripartizione parsonsiana dei sottosistemi della società, analizzando nell'ordine i mutamenti sulla via della modernità del sistema socio-culturale, del sistema comunitario, del sistema politico e del sistema economico. Nell'opera di questo autore, la teoria generale dei sistemi sociali ha trovato il suo compimento con l'elaborazione di una teoria della società-mondo - che prefigura i possibili esiti della fase attuale della mondializzazione - centrata sulla relazione che sin dagli inizi ha segnato lo sviluppo della modernità: la relazione tra dinamica globale e mondi di vita locali (v. Münch, 1998).

A differenza degli autori precedenti, Luhmann ha sviluppato sino alla sua scomparsa (1997) una teoria dei sistemi sociali che pur diramandosi da quella di Parsons - conosciuto durante un soggiorno all'Università di Harvard nei primi anni sessanta - se ne allontana notevolmente e per diversi aspetti ne costituisce anzi un superamento. Laddove la teoria di Parsons intendeva applicarsi a ogni forma di società, dalle più semplici alle più complesse - il passaggio dalle une alle altre essendo marcato, come s'è detto, da una crescente differenziazione dei principali sottosistemi funzionali - la teoria di Luhmann è in modo dichiarato anzitutto una teoria delle società contemporanee. Esse sono caratterizzate da una pronunciata autoreferenzialità, sia della società nel suo insieme, sia dei diversi sottosistemi, che in Luhmann coincidono solo in parte con quelli di Parsons.

Avendo criticamente assorbito le teorie dell'autopoiesi e dell'auto-organizzazione dei sistemi viventi di Umberto Maturana e Francisco Varela, Luhmann, dopo aver tracciato i lineamenti di una teoria generale dei sistemi sociali (v. Luhmann, 1984), ne ha via via approfondito e trasferito i principî al sistema economico (v. Luhmann, 1988), al sistema scienza (v. Luhmann, 1990), al sistema giuridico (v. Luhmann, 1993) e da ultimo all'insieme della società, che rimane comunque in modo affatto esplicito il sistema di riferimento, in quanto comprensivo della totalità del sociale (v. Luhmann, 1997). Ciascun sistema - compresa dunque la società nel suo insieme - è orientato primariamente alla conservazione di se stesso. Inoltre, ogni sistema è operativamente chiuso; non viene affatto informato dalle comunicazioni che gli arrivano dall'esterno, bensì reagisce a esse con appropriati adattamenti autoconservativi della propria struttura interna. Nelle operazioni ricorrenti di tali sistemi il soggetto non ha alcuna parte: esso costituisce unicamente un nodo di ricezione e di rilancio delle comunicazioni che lo attraversano, delle quali esso non ha alcuna coscienza. Tale impostazione, che rinvia alla preminenza socio-psichica che contraddistingue le odierne tecnologie dell'informazione e della comunicazione, da Luhmann per l'appunto sviluppata in special modo nell'opera sulla scienza, porta altresì a scorgere in lui uno dei teorici della scomparsa del soggetto nelle società contemporanee.

b) La sociologia storica

Alle teorie generali dei sistemi sociali è stata frequentemente rivolta l'obiezione di essere antistoriche. Ove con ciò si intenda che esse non tengono conto delle temporalità dell'organizzazione sociale, dei mutamenti intervenuti nelle strutture politiche, economiche, comunicative delle prime società industriali attraverso gli ultimi due secoli, e delle società in via di sviluppo a partire dalla seconda metà del Novecento, l'obiezione appare mal posta. Sia Parsons, in particolare, che i suoi successori ed epigoni, hanno dedicato approfondite indagini ai processi di transizione dalle comunità tradizionali alle società moderne, ivi includendo tanto i processi secolari conosciuti dai paesi occidentali, quanto i ritmi accelerati propri dei paesi avviatisi alla modernizzazione con la fine dell'età coloniale (v. Parsons e altri, 1961). È vero tuttavia che la loro indagine appare solo di rado suffragata da riferimenti storiograficamente soddisfacenti a epoche, avvenimenti, date, personaggi, documenti d'archivio. In questo senso la ricomposizione da loro effettuata delle disiecta membra della sociologia in direzione di una o più teorie generali della società presenta effettivamente connessioni pressoché inconsistenti con la storia.

Per contro, la ricomposizione della sociologia come teoria della società attuata dalla 'sociologia storica' ha proceduto in direzione di un collegamento stretto con la storia, nel duplice senso di ricostruzione di avvenimenti e di storiografia, o scienza della ricerca storica. Nel corso del suo sviluppo non sono mancate tesi radicali. Scrive al riguardo un teorico della sociologia storica: "La prima [tesi] è che molti dei problemi più gravi che i sociologi incontrano devono essere risolti storicamente; la seconda è che molte delle presunte differenze tra storia e sociologia come disciplina non costituiscono in realtà un ostacolo alla ricerca di una soluzione per tali problemi. Nel suo insieme [si avanza qui] una proposta: sarebbe estremamente vantaggioso ripensare la storia e la sociologia come un'unica disciplina, la sociologica storica" (v. Abrams, 1982; tr. it., p. 5). Peraltro, la maggior parte degli autori da tempo annoverati tra i classici della sociologia storica, quali Marc Bloch e Norbert Elias, Karl Polanyi e Samuel N. Eisenstadt, Barrington Moore jr. e Immanuel Wallerstein, hanno operato al fine di istituzionalizzare un intreccio tra i due ambiti disciplinari, piuttosto che tentar di addivenire a un'ardua quanto forse infertile fusione tra sociologia e storia.

A rigore, la ricomposizione della sociologia come teoria della società intrapresa dalla sociologia storica andrebbe specificata notando che essa è stata soprattutto opera della 'macrosociologia storica'. Negli ultimi due decenni del Novecento è accaduto infatti che il ricorso a documenti e metodi storici da parte dei sociologi si sia esteso a quasi tutte le loro specializzazioni; sicché una scorsa alla odierna letteratura di questo campo, offerta per esempio da riviste autorevoli quali "Historical sociology", mostra in qual modo la frammentazione della sociologia sia proseguita anche sul terreno delle sue connessioni con la storia. Resta però indubbio che gli autori che hanno costruito l'identità primaria di questo settore della sociologia hanno in generale agito in una prospettiva segnatamente macrosociologica e macrostorica.

Ciò non significa che tra le sociologie storiche da loro elaborate non sussistano cospicue differenze di raggio degli oggetti come delle epoche indagati, senza che sia dato osservare alcun rapporto tra il raggio degli oggetti considerati e quello della durata. Vi sono opere che ricostruiscono attraverso i secoli dei processi culturali particolarissimi, ancorché di vasto significato, quali l'incivilimento nelle società europee dei costumi quotidiani, dei comportamenti a tavola, dei rapporti interpersonali (v. Elias, 19692). Altre affrontano processi socio-culturali immani, quali la formazione dei sistemi politici degli imperi, in una prospettiva temporale che abbraccia i millenni (v. Eisenstadt, 1963). Vasti studi hanno ricostruito la formazione della classe degli imprenditori sin dal Settecento e il correlativo avvento delle forme moderne di relazioni industriali nelle grandi imprese (v. Bendix, 1956), così come le differenti vie verso l'industrializzazione e il mondo moderno percorse nell'Europa occidentale (Inghilterra e Francia), negli Stati Uniti e in Asia (Cina, Giappone, India). Vie che nei diversi paesi sono sfociate in forme di democrazia capitalistica - pur avendo avuto ognuna delle origini rivoluzionarie - o al contrario in dittature, a seconda dei rapporti sociali e politici localmente esistenti, ancor prima della rivoluzione industriale, tra proprietari e contadini, e della loro successiva evoluzione (v. Moore, 1966).

La più globale delle sociologie storiche è la teoria del sistema-mondo elaborata tra i primi da Immanuel Wallerstein. La teoria del sistema-mondo è un approccio macrosociologico il quale mira a spiegare la dinamica dell'economia capitalistica mondiale come un sistema sociale totale. Secondo Wallerstein, un sistema-mondo "è un sistema sociale, provvisto di confini, strutture, gruppi componenti e regole di legittimazione e coerenza. La sua vita è strutturata dalle forze conflittuali che lo compattano in uno stato di tensione e al tempo stesso lo spezzano, dato che ciascun gruppo cerca eternamente di rimodellare il sistema a proprio vantaggio. Ha le caratteristiche di un organismo in quanto manifesta un arco della vita nel quale le sue caratteristiche per certi aspetti mutano e per altri rimangono stabili […]. L'esistenza entro il sistema-mondo è largamente contenuta in se stessa, e la dinamica del suo sviluppo è largamente interna" (v. Wallerstein, 1974, p. 347). Sotto il profilo economico un sistema-mondo è una economia-mondo, integrata dai meccanismi del mercato piuttosto che da un centro politico, nel quale regioni centrali, periferiche e semiperiferiche sono tra loro interdipendenti per quanto concerne le risorse primarie come l'energia, gli alimenti e la protezione politico-militare.

Dette caratteristiche hanno contribuito ad assegnare alla teoria del sistema-mondo un posto di rilievo nelle teorie contemporanee in tema di globalizzazione economica, politica, militare e culturale. A essa è stato obiettato che gli ascendenti della teoria medesima nel marxismo e nella teoria della dipendenza degli anni settanta del Novecento l'hanno fatta trovare spesso in difficoltà di fronte al compito di spiegare l'intricata complessità dei processi attuali di globalizzazione e mondializzazione. La globalizzazione ha comunque imposto sin dagli anni ottanta una revisione dell'agenda della sociologia storica. I suoi fondatori si erano occupati di questioni tradizionali quali le radici e le conseguenze della rivoluzione industriale in Europa, l'ascesa delle classi lavoratrici, i processi simultanei di burocratizzazione degli Stati e di democratizzazione della politica. Tali temi sono ancor oggi indagati sulla base di nuovi documenti e metodi d'analisi più raffinati. Tuttavia, i lavori dei sociologi storici delle successive generazioni appaiono essersi maggiormente concentrati su temi più attuali, quali la divisione del lavoro nell'industria manifatturiera globale, la crisi dello Stato sociale, le relazioni etniche e religiose (v. Skocpol, 1984, pp. 356 ss.). Nel primo decennio del XXI secolo altri temi connessi alla globalizzazione e mondializzazione dell'economia, della politica, delle relazioni internazionali, della cultura; ai flussi di comunicazione e alla distribuzione internazionale delle conoscenze tramite le tecnologie infotelematiche; alle disuguaglianze globali e nazionali, hanno preso a occupare uno spazio crescente nei lavori di sociologia storica (v. Chase-Dunn, 1999; v. Sklair, 1999; v. Bergesen e Bata, 2002). In tali studi la teoria del sistema-mondo, perseguita lungo linee differenziate, gradualmente distaccatesi dai presupposti iniziali, mostra una capacità di analisi e al tempo stesso di sintesi che conferma quanto sia fecondo per la sociologia non perdere mai di vista, quale che sia il raggio contingente dell'indagine, la sua vocazione a elaborare teorie della società in stretta connessione con i macroprocessi storici, quale venne compendiata nei quesiti fondativi della disciplina.

5. La critica delle rappresentazioni della società come compito della sociologia

La realtà di una società è in generale diversa da quella che appare ai suoi componenti. La natura e i vincoli realmente esistenti, che improntano in profondità l'agire e il pensiero degli individui e dei gruppi, derivanti la prima come i secondi dai rapporti sociali presenti in essa in una data epoca storica, non corrispondono quasi mai alle rappresentazioni mentali che si formano nelle menti dei soggetti. In vari modi tale nozione è stata affrontata sin dai precursori del pensiero sociale o protosociologico. Al principe, scriveva ad esempio Machiavelli nel 1513, convengono qualità come la pietà, la fedeltà, l'integrità, l'umanità, la religione. Ma si guardi il medesimo dal praticarle con troppa solerzia, giacché "A uno principe […] non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utile […]. Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto relligione […]. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà dello stato che li difenda" (v. Machiavelli, 1960, pp. 73-74).

Da Marx in poi la critica delle rappresentazioni della società che velano o distorcono, al fine di legittimarlo, l'ordine sociale esistente, è stata in gran parte sussunta sotto la voce 'ideologia'. A onta delle varietà delle definizioni fornite dallo stesso autore, e delle innumeri interpretazioni che di esse sono state elaborate, secondo la concezione marxiana le rappresentazioni della società sono, "in ultima analisi", un riflesso delle strutture economiche. L'ideologia è un complesso di conoscenze, di giudizi, di valori propri della classe dominante nel quale si esprimono a livello ideale i rapporti materiali dominanti. Essa è "dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante e dunque sono le idee del suo dominio" (v. Marx ed Engels, 1932; tr. it., p. 43). In seguito la nozione di un 'sistema di illusioni' utilizzato consapevolmente per ingannare le classi governate, i gruppi soggetti, circa la realtà del dominio politico, è stata accolta anche da sociologi estranei alla teoria marxiana. Vilfredo Pareto parla al riguardo di una "formula politica" che la classe politica impiega, sapendola ingannevole e falsa, per giustificare il proprio governo e presentare di esso un'immagine razionale. Gran parte del suo Trattato di sociologia generale (v. Pareto, 1916) è presa dall'analisi delle razionalizzazioni che sono elaborate da soggetti individuali e collettivi per coprire i moventi reali delle loro azioni.

Karl Mannheim ha introdotto nello studio delle rappresentazioni mentali della società due forme di generalizzazione mantenutesi fino al presente. Le rappresentazioni che costituiscono una contraffazione più o meno deliberata di una situazione reale, imputabile direttamente o indirettamente a un gruppo al quale una conoscenza realistica della situazione recherebbe danno, è per Mannheim solamente una forma 'particolare' di ideologia. Ove l'indagine venga estesa all'intero sistema di rappresentazioni o concezioni del mondo di una certa epoca storica, o di un'intera classe sociale, l'ideologia va definita 'totale'. Qui il processo di mascheramento e legittimazione appare dunque relegato ai margini dell'indagine: esso è soltanto una fra le forme della connessione esistenziale del pensiero, dei rapporti che lo collegano alle strutture sociali e ai processi storici. In secondo luogo l'analisi di Mannheim rimuove il privilegio che il pensiero marxiano assegnava alla classe operaia come l'unico soggetto che in forza della sua posizione nella società (capitalistica) sarebbe portato ad acquisire una conoscenza veritiera della struttura di questa. Qualunque soggetto collettivo è suscettibile di formarsi rappresentazioni vere oppure distorte della società in cui vive. Il compito della sociologia sta nel distinguere le prime dalle seconde, risalendo alle radici del condizionamento che ha orientato quel determinato gruppo nell'una o nell'altra direzione (v. Mannheim, 1929). Con Mannheim, la sociologia dell'ideologia, intesa quest'ultima essenzialmente come un premeditato sistema di illusioni e credenze legittimanti, è venuta inserendosi nel più vasto ambito della 'sociologia della conoscenza'.

A partire dagli anni trenta e quaranta del Novecento, sono i mezzi di comunicazione di massa a essersi assunti appieno la funzione della costruzione sistematica, attuata con metodi e tecnologie industriali, di rappresentazioni dell'ordine sociale dirette a legittimarlo in favore dell'identità e degli interessi dei ceti o classi sociali o élites dominanti. Una critica la cui incisività perdura ai giorni nostri è stata condotta dalla teoria critica della società, con testi quali il capitolo sull'industria culturale nella Dialettica dell'illuminismo di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (v., 1947) e nei Minima moralia di Adorno. Mirata sia alle società capitalistiche dell'epoca, sia alla società sovietica, la teoria critica traeva la sua incisività tanto dal recupero della dialettica hegeliana, che porta a scorgere nel soggetto un essente che si autodissolve giusto perché utilizza gli strumenti della sua emancipazione, quanto dall'integrazione della psicanalisi entro il suo orizzonte teorico. I mezzi di comunicazione di massa non incidono solamente sulla coscienza, bensì assuefanno gli individui al dominio sollecitando le pulsioni consumatorie e l'introiezione dei modelli dell'intrattenimento, donde la manipolazione permanente del loro stesso inconscio.

Quattro secoli prima, Étienne de La Boétie, l'amico di Montaigne celebrato negli Essais, aveva scritto nel Discours sur la servitude volontaire (1576), con accenti che anticipano singolarmente i richiami weberiani alla necessaria partecipazione dello spirito dei dominati al dominio: "sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno ammaestrare, poiché se cessassero di servire se ne sbarazzerebbero; è il popolo che si asserve, che si taglia la gola, che, avendo la scelta di essere servo o di essere libero, abbandona l'indipendenza e accetta il giogo, che consente al proprio male, o anzi lo persegue" (v. La Boétie, 1983, p. 138). La dialettica tra soggetto e media analizzata dalla teoria critica della società con l'apporto della psicanalisi spiega come nelle società contemporanee il perseguimento della propria dipendenza persista, mentre è venuta meno nel soggetto non solo la capacità di liberarsi - qualora semplicemente si risolva, come proponeva La Boétie, di non più servire - ma perfino l'intenzione stessa di farlo.

La critica delle rappresentazioni della società, in specie di quelle costruite dai media, come pure di quelle prodotte da altre scienze sociali, quali la scienza politica, l'economia e la storia, viene praticata esplicitamente sotto tale denominazione dai sociologi contemporanei. Non meno rilevante è tuttavia la critica implicita nella costruzione a opera della sociologia di rappresentazioni della società alternative a quelle predominanti. La sociologia propone di estendere e trasformare il quadro dell'intesa pubblica su cui si fonda l'uso di una data rappresentazione della società, sostituendo alle rappresentazioni riconosciute e diffuse nel proprio interesse da un dato gruppo altre rappresentazioni riconoscibili da gruppi sociali più ampi. La differenza nella portata e nel contenuto di questa intesa-quadro deriva dalla circostanza che, diversamente da quanto fanno i costruttori di rappresentazioni al tempo stesso distorsive e autolegittimanti della società, la sociologia costruisce le sue rappresentazioni mediante un'indagine pubblicamente controllabile.

Un'indagine è pubblicamente controllabile in quanto sia suscettibile di venire sottoposta di continuo al vaglio di procedure razionali riconosciute intersoggettivamente, ossia pubblicamente, come valide. Una simile proposta costituisce di per sé una forma di critica radicale - nel senso epistemologico e cognitivo del termine, ma per certi aspetti anche in quello politico e morale - delle rappresentazioni convenzionali della società, ancorché artificialmente costruite. Mediante tale contrapposizione si può dimostrare che è possibile sostituire alle rappresentazioni convenzionali della società - che riflettono in generale interessi circoscritti di un gruppo, di un'élite politica, di un partito al potere o all'opposizione - delle rappresentazioni che riflettono interessi più generali. In tale direzione vanno le rappresentazioni della società che definiscono la modernità come una progressiva interpenetrazione tra i bisogni dell'individuo e i bisogni pubblici, e delle modalità atte a soddisfare gli uni e gli altri, a livelli via via più alti di consapevole articolazione ed equilibrio; contrariamente a quanto fanno le rappresentazioni, pur tra di loro opposte, che legittimano invece il primato dell'individuo singolo rispetto alla società, oppure il primato dello Stato o della comunità sull'individuo (v. Gallino e altri, 19972, cap. II).

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