Sommario di pedagogia come scienza filosofica

Croce e Gentile (2016)

Sommario di pedagogia come scienza filosofica

Davide Spanio

Pedagogia come filosofia

Il Sommario di pedagogia come scienza filosofica (d’ora in poi Sommario), pubblicato in due volumi, tra il 1913 e il 1914, rappresenta la prima grande opera sistematica di Giovanni Gentile. Occorre anzi precisare come essa abbracci un arco di tempo che in effetti costituisce l’intervallo decisivo per l’avvio dell’impresa filosofica gentiliana, ormai alle prese con l’idealismo attuale. Per questo verso, il primo volume del Sommario, scritto nel settembre del 1912, a ridosso della Riforma della dialettica hegeliana, portata a termine nei mesi seguenti, ci consegna l’immagine di un attualismo in cerca di se stesso, quasi sorprendendo Gentile nel suo laboratorio. E solo al termine di questo intenso travaglio speculativo, esattamente un anno dopo aver licenziato la Pedagogia generale, il filosofo siciliano avrebbe ripreso la penna in mano, per condurre in porto, con la Didattica, un lavoro chiamato a inaugurare una prospettiva filosofica originale e sconcertante. Accompagnato dalle note insistenti di un approccio filosofico «piuttosto rivoluzionario» (lettera del 28 ottobre 1912, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 4° vol., Dal 1910 al 1914, 1980, p. 200), esso doveva infatti preludere allo scontro con Benedetto Croce, reso pubblico sulle pagine della «Voce» che nel gennaio del 1914 avrebbe ospitato il suo ultimo atto, un articolo di Croce in risposta alla replica di Gentile al filosofo amico che aveva criticato senza mezzi termini l’esito più recente del suo pensiero.

La circostanza ci consente di riconoscere nel Sommario i tratti peculiari di una filosofia che, anche dal contrasto, usciva con una fisionomia riconoscibile, attesa tuttavia da una lunga e complessa elaborazione teoretica. Il che, se da un lato spiega la scarsa fortuna filosofica di un’opera alla quale, in effetti, di rado gli interpreti di Gentile guardano come a un punto di riferimento, dall’altro non deve far dimenticare come nel Sommario trovi spazio una vera e propria «riduzione della pedagogia alla filosofia» (Sommario, 2° vol., Didattica, 19425, p. 12). L’indagine pedagogica consentiva infatti a Gentile di chiarire a se stesso le ragioni di un tema filosofico che, guardando in modo inedito all’uomo e allo spirito chiamato a ritrarne concretamente il volto, anche e soprattutto per questa via doveva venire più chiaramente alla luce. Del resto, non è un caso che Gentile, in quei giorni, replicando a Croce, sentisse il bisogno di confessare che a illuminare «il significato dell’universalità dell’Io» gli avesse appunto giovato «a poco per volta l’intensa meditazione del problema dell’educazione» (Frammenti di filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, p. 38). La frettolosa stesura del «volumetto pedagogico», il primo del Sommario, dettata dal timore che esso, per ragioni di salute, dovesse essere l’ultimo, se spingeva Gentile a mettere nero su bianco, «in pochi giorni», una posizione filosofica fino ad allora rimasta sostanzialmente in ombra, non poteva non contare sull’imponente lavoro di ricerca che egli aveva avviato almeno tredici anni prima (cfr. Educazione e scuola laica, 1921, a cura di H.A. Cavallera, 20035, e Lezioni di pedagogia, a cura di H.A. Cavallera, 2001). Ora, del Sommario si sarebbe potuto dire quello che Gentile stesso aveva detto del «saggio pedagogico» sull’Insegnamento della filosofia ne’ licei, da lui pubblicato all’alba del Novecento: «apparirà pure teoretico a chi lo leggerà con intelligenza» (lettera del 27 ottobre 1899, Carteggio Gentile-Jaja, a cura di M. Sandirocco, 1° vol., 1969, p. 381). Anzi, proprio la vena teoretica del Sommario, unita alle aspre vette concettuali aggredite dal testo, avrebbe destato le maggiori perplessità tra gli insegnanti e gli addetti ai lavori.

Se ne sarebbe subito reso conto Croce, che pure aveva apprezzato lo sforzo dell’amico – «vedo che hai fatto un libro robusto, originale ed ispirato, che è la più ricca e personale delle tue opere» –, osservando come soprattutto la prima parte, chiamata a sbozzare l’umanità dell’uomo protagonista dell’impresa pedagogica, fosse «troppo difficile» per le scuole (lettera del 7 novembre 1912, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, 1981, p. 433). E Gentile, nel 1919, ne avrebbe preso atto, pregando l’editore Laterza di non includere più nella Collezione scolastica la seconda edizione di un libro giudicato al suo primo apparire «astruso» e – sono parole scritte dall’autore per la prefazione alla terza edizione, datata 1925 – «paradossale». Anche questa circostanza, tuttavia, non toglie, anzi esalta, il significato di questa prima opera sistematica di Gentile, colto – per dir così – in mezzo al guado, ma già in vista della riva, tra le necessità della pedagogia e quelle di una filosofia capace di riprodurne integralmente il volto. Non perché, appunto, altre fossero le necessità della pedagogia e altre quelle della filosofia, ma proprio perché soltanto la filosofia, rappresentando la necessità del necessario, avrebbe saputo annodare i lacci pedagogici. Si sarebbe trattato infatti di comprendere che lo «spirito» di cui la pedagogia esplorava la «formazione», additando la norma del suo «sviluppo», coincideva con il «soggetto» pensante che Gentile invitava ormai a interpretare come la «verità» consapevole di sé nel «mondo» ove si sprigionava «quell’aria frizzante e vivificante che è la gioia e la serietà della vita nel suo spontaneo rigoglio» (Sommario, 1° vol., Pedagogia generale, 19344, p. IX).

Ma cos’era questa verità consapevole di sé – e dunque autenticamente tale –, se non l’oggetto della filosofia, tradizionalmente impegnata a godersi lo spettacolo che restituisce agli occhi dell’umanità il reale e indefettibile profilo dell’eterno? Per questo verso, la filosofia dello spirito che Croce, sulla scia dello Hegel vivo, stava ormai conducendo alla meta, doveva in Gentile alludere a una filosofia della filosofia in ragione della quale era la coscienza della realtà autocosciente a imporsi. Si sarebbe cioè trattato di comprendere che la filosofia

1° è realtà, quella realtà che è pensiero (onde sono annullate tutte le forme di scepsi): la stessa realtà nella celebrazione della propria intimità; 2° è concetto, pensiero, coscienza della realtà, e quindi intrinseco superamento del momento anteriore. È l’essere e la coscienza dell’essere; la vita e lo specchio della vita,

per usare le parole della memoria L’atto del pensare come atto puro, del 1911, pubblicata da Gentile nel primo numero dell’«Annuario della Biblioteca filosofica di Palermo» (1912) in cui cominciavano a raccogliersi le voci entusiaste dei suoi primi discepoli (cfr. La riforma della dialettica hegeliana, 19754, p. 195).

Ora, anche per Gentile la filosofia dello spirito, in quanto «scienza di tutto quanto lo svolgimento dello spirito come libertà», era e non era più quella di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che egli già nel Concetto scientifico della pedagogia, del 1900, aveva visto andare incontro alla forma «sicura e indiscutibile» del sapere (Educazione e scuola laica, cit., p. 27, nota). Sennonché, la direzione intrapresa doveva condurre il filosofo siciliano molto lontano da Croce, il quale, lamentando come nelle pagine del Sommario «il problema delle distinzioni» non fosse «né risoluto né liquidato» (lettera del 7 novembre 1912, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 433), già cominciava a paventare i lineamenti di un misticismo dell’atto che – propugnato ormai da «una piccola falange, che parla dicendo: Noi; e [da] una scuola filosofica con relativo battesimo, e con dichiarata opposizione» (pp. 453-54) – gli sarebbe presto apparso come l’inevitabile traguardo filosofico dell’amico.

L’uomo o il «principio del mondo»

Lo spirito, infatti, chiamato da Gentile a esprimere la realtà dell’«educazione» come condursi dell’uomo destinato a una «generazione perpetua» (Sommario, 1° vol., cit., p. IX), sottraeva la realtà al tempo e alla molteplicità, consegnando tutto all’eterna unità di un «conoscere» senza presupposti. Negli intendimenti del padre dell’attualismo, la spiritualità dell’uomo – o, se si preferisce, l’uomo stesso, nel suo concetto – stava tutta in questa intimità del vero, agostinianamente ospitato dalla coscienza che non lasciava nulla fuori di sé e tutto trovava in sé, nelle infinite distinzioni di cui le cose e le persone testimoniavano l’avvento. Per Gentile, nulla oltrepassava l’«atto del conoscere» al quale lo spirito doveva essere ricondotto, se non si voleva perdere di vista la concretezza del gesto che equivaleva all’imporsi di un orizzonte trascendentale, accogliente e creativo. Occorreva cioè rendersi conto di come la «preesistenza» del mondo, rispetto agli occhi che l’uomo vi posava, fosse semplicemente un’«apparenza», dettata dalla fallace persuasione che altro fosse la realtà delle cose e altro lo sguardo capace di investirle. La conoscenza doveva allora equivalere alla sostanza stessa della realtà che, incontrando l’uomo, si imbatteva in se stessa ed era anzi questo imbattersi «non […] un’alterazione bensì una creazione delle cose» (p. 11), tolta la quale non rimaneva all’umanità altra possibilità che non fosse quella di falsificare il vero, patendo il supplizio che era già stato di Tantalo.

Ma in tal caso l’eterno supplizio della conoscenza non sarebbe stato allora veramente conosciuto? O si sarebbe dovuto concedere che solo la conoscenza del supplizio si sottraesse all’inevitabile falsificazione del conoscere? Evidentemente no. Sospeso una volta, il supplizio della conoscenza sarebbe stato sospeso per sempre e il ritratto della realtà sarebbe apparso in ogni caso come la realtà stessa, senza margini o resti. Non sospeso mai, invece, nessuna eccezione poteva essere concessa e anche il ritratto del supplizio, falsificando la realtà, avrebbe occultato per sempre l’originale. Sennonché, l’invito di Gentile esortava a cogliere le fattezze divenienti di un originale che, ritraendo se stesso, sprigionava una realtà bensì «mai perfettissima» (p. 5), ma perciò sempre più fedele a se stessa. Un addentrarsi, sprofondando nel pensiero che non naufragava mai, nel perpetuare grado a grado il percorso che doveva restituirne l’attualità, nelle infinite sfaccettature di un Io che per questa via riconosceva tutto se stesso. «Sì che», così si esprime Gentile,

tutto muta in noi, o, come si dice, intorno a noi, e noi siamo sempre al centro di questa continua vicenda di tutto, fonte da cui in noi s’irradia ogni cosa; e tutto è per noi, come tutto è da noi (p. 15).

La prima parte del Sommario – «la sola parte positiva di una pedagogia filosofica, tutto il resto riducendosi a schiarimenti e confutazioni di pregiudizi» (lettera del 15 novembre 1912, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 208) – doveva allora intercettare il «principio del mondo», evocando il «soggetto del conoscere» o «Io reale», «puro», del quale ciascuno di noi, come «Io empirico», era «oggetto», insieme a tutte le cose che ci circondavano (Sommario, 1° vol., cit., pp. 16-17). Il tema pedagogico lasciava cioè emergere l’archè o la matrice originaria alla quale l’intera vicenda filosofica occidentale aveva legato il destino della verità, ma evidenziandone la concretezza del farsi. In effetti, osserva Gentile,

nessuno, se pensa quando dice “Io”, è quello che pensa di essere; ma “si fa” qual che pensa di essere con l’atto stesso del pensarsi. L’Io, per l’appunto, non è una “cosa”, ma un “atto” (pp. 17-18).

L’uomo del quale la pedagogia doveva farsi carico, additando la norma del suo sviluppo, era appunto «soggetto», vale a dire quello che costituiva «la negazione della particolarità, per cui ogni singolo si distingue dagli altri». Si trattava infatti di comprendere che gli uomini si distinguevano come «oggetti del pensare» e non come soggetto, il cui valore «universale» era sottratto al vincolo e ai condizionamenti, in vista dell’assoluto: vero, bello, buono e così via. Del resto, nulla che fosse suscitato dall’attualità del soggetto poteva rinunciare all’eterna consistenza del dominio valido per tutti, in cui non era il «fatto del plauso e [del] consenso» riscossi a deciderne le sorti, bensì il «giudizio, espresso o no», chiamato ad approvarlo (pp. 20-21). «E l’approvazione in che altro consiste se non nel ritrovarsi nell’affermazione di qualche cosa, e la riprovazione nel ritrovarsi nella negazione?» (p. 21). All’Io doveva cioè essere riconosciuta la perenne convivenza del fatto che lascia insoddisfatti e dell’atto in cui è la soddisfazione a trionfare, congedandolo, in un saliscendi che consentiva allo spirito di salire sempre più in alto, sopra se stesso.

Ne usciva allora l’immagine di un uomo della quale lo stesso Gentile riconosceva che ci si sarebbe potuti chiedere se essa competesse o meno alla sua natura di «essere mortale che è, ma non fu e non sarà». Tuttavia, non era forse questo stesso «dubbio», colto in tutta la sua drammaticità, a ribadire quella immagine, enfatizzando la presenza ineludibile del «soggetto [che] non ha plurale» (p. 23) e pensa, prova a se stesso della propria esistenza assoluta? Per questo verso, il pensatore siciliano si avviava a descrivere un’articolata fenomenologia dello spirito, formulando una critica perentoria di ogni psicologia che avesse voluto individuare eventi psichici irriducibili alla soggettività, ma anche di ogni antropologia in ragione della quale si fosse insistito sull’irriducibilità del corpo, o, più precisamente, dei suoi interni meccanismi fisico-chimici, alla signoria dell’anima. L’argomentazione gentiliana – quella che Ugo Spirito (L’idealismo e i suoi critici, 1930, p. 48) vedeva correre sulla linea di un «nuovo concetto di fenomenologia», prodigo di una non rinviabile «riforma della pedagogia» (lettera del 26 settembre 1912, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 193) – passava in rassegna le canoniche «distinzioni psichiche» in cui pareva che ci fosse bensì l’uomo, ma non ancora il soggetto, giungendo alla conclusione che nessuna di esse anticipava «quell’atto permanente che è l’Io» (Sommario, 1° vol., cit., p. 26). Ci si doveva cioè rendere conto di come sensazione, sentimento piacevole e doloroso, percezione, inconscio, rappresentazione astratta, memoria, linguaggio, concetto, giudizio, teoria e prassi costituissero ogni volta il palcoscenico sul quale saliva il soggetto ed era sempre il soggetto come «attività spirituale» a imporsi, andando in scena. Soltanto l’analisi, fautrice di astrazioni irreali e inconsistenti, poteva isolare la sensazione immediata dal sentimento in cui era il piacere a dettare il copione della vita, mettendo in fuga il dolore, sottratto, come Euridice, allo sguardo del nuovo Orfeo, che pure era la sua guida e il suo custode, in direzione della gioia. E ancora l’analisi, quando il momento analitico fosse stato sottratto alla sintesi attuale, spingeva a isolare sensazione e percezione, addebitando l’«avvertimento» della prima, supposta inconscia, alla coscienza che evidentemente sarebbe dovuta sopraggiungere (cfr. anche Sommario, 2° vol., cit., pp. 80 e segg.).

Nell’Io, invece, la sensazione era atto psichico, presenza a sé che – occorreva ribadirlo (Sommario, 1° vol., cit., pp. 42-44) – «non ammette[va] nulla di anteriore, dietro a sé», di cui essa dovesse rispondere, ma proprio perché essa rispondeva a se stessa, in «un processo incessante di accorgimento sempre più profondo di riflessione», tale per cui l’«unità immoltiplicabile dell’Io attuale» si imponeva («Io» o percezione) prendendo le distanze da sé («non-Io» o sensazione). Lungo questa via, occorreva allora convincersi di come anche la rappresentazione chiamata a fissare in un tipo astratto il fugace contenuto della sensazione, custodendolo nella memoria, non equivalesse affatto al prodursi di una dimensione ulteriore, bensì coincidesse con la sensazione stessa ricondotta, nel suo andarsene, al farsi del soggetto, «che non può andarsene mai». «La sensazione che si prova non passa», poiché essa passa (e dunque resta) in quello «stesso Io» che resta (e dunque passa) non appena «sopraggiunge» una nuova sensazione (p. 53). Sensazione, è evidente, che godeva della stessa universalità rivendicata dalla rappresentazione astratta: non – per riprendere l’esempio gentiliano – una fame, come ce ne potrebbero essere tante altre, bensì quella attuale che, essendo la mia, c’è e non può non esserci, al modo dell’autentica ed essenziale fame cui ogni altra deve guardare per essere quella che è. Sensazione, dunque, che, coniugando particolare e universale, non andava e non veniva: «esperienza, che si può dire totale», ma di una totalità che incrementava se stessa ed era perciò «storica», «in eterno svolgimento» (p. 54), senza che però nulla precipitasse nell’oblio o emergesse dai ricordi (cfr. anche Sommario, 2° vol., cit., pp. 84 e segg.). La circostanza induceva allora Gentile a insistere sulla necessità di sottrarre anche il linguaggio all’inerzia delle parole, quasi esse fossero state semplicemente dei segni vuoti, evocando al loro posto la «parola eterna» (Sommario, 1° vol., cit., p. 56) che, sprigionata dal parlante, doveva pronunciarle tutte, in ragione di un «agire e mutarsi di continuo» (p. 58) dell’atto linguistico. Assoluta, necessaria e insostituibile, la parola attuale ribadiva cioè il proprio significato nel momento stesso in cui lo generava, immancabile testimone di una sensazione dalla quale essa, animata storicamente, non si emancipava. Non veste, ma corpo del pensiero.

L’uomo come autoctisi

Il punto sul quale Gentile batteva era quello sul quale egli a lungo avrebbe battuto, vale a dire la riconduzione della realtà intera all’attualità di un pensiero che «non è stato, né cosa, né qualità o altro che si rappresenti già determinato», bensì «è lavoro, realizzazione di sé, o come può dirsi con parola greca: autoctisi: un farsi» (p. 38). Non mezzo, ma scopo e scopo a se stesso in quanto realizzazione di scopi capace di suscitare il mondo, transitando «dal non essere all’essere» (p. 39). Ancora una volta, insomma, Gentile invitava a parlare greco e lo faceva risalendo alle origini del tema ontologico, dato che nel «farsi» dello spirito al lavoro erano «impliciti due concetti che nella loro reciproca attinenza han dato molto filo da torcere ai filosofi: […] l’essere e il non-essere» (pp. 38-39). Per questo verso, il discorso appariva destinato a prendere una piega metafisica che Gentile non avrebbe tardato a enfatizzare. La circostanza emergeva con nettezza dal tono schiettamente aristotelico del passo in cui il filosofo di Castelvetrano chiariva il punto:

Se fossi, non mi farei, non diverrei; questo è evidente; ma se non fossi, non diverrei neppure: perché non essendo mai, non avverrebbe mai in me ombra di quella trasformazione, in cui il divenire, se accade, deve consistere. Dunque, si fa ciò che è e non è; ed è, non essendo; e non è, essendo (p. 39).

La conclusione riprendeva la formula sulla quale Gentile aveva a più riprese attirato l’attenzione, evocando nel 1911 l’atto puro come «sintesi» di essere e non-essere (La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 195), ma, prima ancora, nel 1907, esortando la filosofia a celebrare «una vita che non fosse più essere soltanto, ma essere insieme e non-essere» (p. 104). Di lì a poco, infatti, questo tema sarebbe dovuto stare al centro della riforma con la quale egli avrebbe messo radicalmente in questione la dialettica di Hegel, risolvendola nel divenire che la Wissenschaft der Logik (1812-1816), suscitata l’unità dell’essere e del non-essere, aveva posto alla base della costruzione ideale. Il divenire, infatti, non doveva più apparire come il culmine di un processo, anticipato dall’essere e atteso dal pensiero, bensì testimoniare il processo stesso del pensiero, senza un essere che non fosse il proprio divenire e senza un non-essere che di quel divenire non testimoniasse la consistenza ontologica. «L’atto si fa, fit, diviene. È, in quanto diviene. Non può essere prima di divenire» – scrive Gentile nei giorni successivi a quelli in cui porta a termine il primo volume del Sommario –, ma proprio perché «l’essere stesso si nega nel non-essere, pensando» (La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 38-39).

Il Sommario, tuttavia, glissando sul punto hegeliano, che era però il punto dal quale si generava l’intera linea argomentativa, si adoperava piuttosto per evidenziare le conseguenze fondamentali di un discorso che, messa al centro della scena la problematica educativa, intorno all’educazione dell’uomo conduceva una battaglia riformatrice senza precedenti. Gentile esortava dunque la pedagogia a liberarsi delle «vane ombre» (Sommario, 1° vol., cit., p. 70) che le impedivano di accedere al dominio scientifico, una delle quali si riferiva alla persuasione che il sapere avesse a che fare con i «concetti», termini del giudizio, soggetti di definizione e di divisione, ma soprattutto forme eminenti del raziocinio. I concetti delle cose, ai quali la tradizione, da Socrate in poi, aveva guardato come all’apparire del vero, dovevano anch’essi tradursi nella trama ideale in cui era l’Io a palesarsi, unificando il molteplice nel concetto di sé («conceptus sui»). Non vi era insomma concetto che, ritraendo il vero, non fosse il «concetto che lo spirito ha di se medesimo» (p. 72), dal momento che a nulla lo spirito poteva riferirsi che non equivalesse al riflesso fedele e incessante della propria «esperienza». Si trattava cioè di liquidare definitivamente, con il «realismo» che essa portava con sé (cfr. Sommario, 2° vol., cit., pp. 58 e segg.), l’«immaginaria situazione del soggetto di rimpetto al suo oggetto» (Sommario, 1° vol., cit., p. 72). Non che la via non fosse già stata aperta, con Immanuel Kant e il suo giudizio sintetico a priori, vera e propria «germinazione parallela» del senso e dell’intelletto, suscitata dall’«appercezione originaria», ma egli aveva concesso al «dato» uno spessore, irriducibile al «prodotto» dell’esperienza (p. 76), che non poteva più essere ammesso. Per questo verso, la coincidenza del dato e del prodotto, immediato e mediato insieme, propugnata da Gentile, implicava bensì la valorizzazione della «categoria» kantiana, ma solo perché essa doveva risolversi nell’unità dell’atto pensante rispetto al quale la molteplicità categoriale assumeva la consistenza astratta dell’oggetto.

Con Kant, oltre Kant, dunque, ma non senza oltrepassare Hegel, come veniva in chiaro soprattutto nel capitolo dedicato a un’altra delle ombre vane chiamate ad affollare il vestibolo della filosofia, la distinzione tra la teoria e la prassi. Era lo stesso Gentile a sottolinearlo, consapevole di avere «contro […] quasi tutta la storia della filosofia, compreso Hegel» (lettera del 15 novembre 1912, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 207). Conoscere e agire, infatti, potevano rinviare a due divergenti attività dello spirito solo nella misura in cui si concedeva, da un lato, un mondo presupposto, sul quale mettere gli occhi, e, dall’altro, un mondo da porre, suscitandone il rinnovamento. Gentile non esitava allora a concludere che volontà e conoscenza, come la sensazione e la percezione, coincidevano in un mondo – il mondo in atto della coscienza – che era fatto come da farsi e da farsi come fatto, non essendo «mai un farsi, che poi si debba contemplare e avvertire», ma «sempre, a un tratto, un farsi che è vedersi, e viceversa» (Sommario, 1° vol., cit., p. 84). Chi conosce il mondo – e solo l’Io conosce – conosce se stesso, ma conosce appunto quel se stesso che non è presupposto del conoscere, bensì l’esito e il prodotto del suo agire – e solo l’Io agisce – in direzione dell’autocoscienza.

Lungo questa via, anche il corpo materiale, a partire dal proprio corpo, assumeva la consistenza spirituale di uno svolgimento inesausto, in cui non c’era nulla che davvero andasse perduto o fosse acquistato. In questione, però, daccapo, non era la materia o la corporeità, bensì l’«interpretazione materialistica» (p. 95) che fantasticava eccedenze e resti, sottratti al governo dell’Io. Un’interpretazione, si vuol dire, non solo sommamente inadeguata, ma – come con il tempo doveva con sempre maggiore chiarezza imporsi alla coscienza dello stesso Gentile – tale da costringere il discorso a negare l’innegabile, piombando in «difficoltà inestricabili» (p. 95). L’esistenza concreta di un dominio materiale, infatti, avrebbe reso «inconcepibile quell’attività spirituale, dalla quale non possiamo a nessun patto staccarci, poiché essa costituisce la stessa nostra natura» (p. 95). Ora, il nostro corpo non era forse mutamento e farsi continuo, «unità vivente» che si accresce non per addizione di parti a parti, ma per assimilazione del tutto con il quale esso, accrescendo se stesso, era in relazione, fino a toccare i confini dell’intero universo? E del resto, non era forse da qui che l’«educazione fisica» (p. 257) traeva legittimità e consistenza? Come si sarebbe potuto, infatti, educare un corpo che fosse stato solo corpo e non invece l’espressione di una libertà destinata a incorporarsi per essere se stessa? (cfr. pp. 257-61).

Il soggetto dell’educazione come storia

Soltanto soggetto, «e nient’altro che soggetto» (p. 93), l’uomo era affidato da Gentile a una «filosofia» per la quale l’«antropologia» e la «psicologia» si risolvevano in una vera e propria «metafisica», quando per metafisica si fosse intesa la scienza «in quanto ha per oggetto un essere che è l’essere, fuori del quale non c’è altro» (p. 110). Si trattava cioè di accedere a una metafisica della «libertà», dato che il farsi dell’atto doveva esibire l’autodeterminazione dello spirito, sempre causa (di sé) e mai effetto (d’altro), evidenziando il profilo di una filosofia che non rappresentava affatto una tappa del percorso speculativo, atteso da altre mete, bensì la meta, essa stessa, di ogni ricerca. Non l’adito al reale, bensì il suo concreto andamento, illuminato da una consapevolezza che, senza esitazioni, era luce a se stessa nell’eterno «processo storico di alienazione da sé e di ritorno a sé» (p. 111). Ora, a questo «ritorno» dialettico alludevano tutte le scienze o i saperi intorno ai quali, da sempre, l’umanità andava raccogliendo gli indizi di una verità che si rendeva disponibile per gradi. Per questo verso, invitando ad applicare la filosofia alle scienze dell’«educazione», Gentile non intendeva appiccicare a esse un contenuto supplementare, bensì consentire al loro specifico contenuto di tornare a sé, inverandosi. Il che doveva indurlo a insistere sul fatto che se l’alienazione fosse equivalsa a un lasciare la casa della filosofia, dimenticando le chiavi per farvi ritorno, nessun ritorno sarebbe stato possibile. Le scienze, insomma, tenevano in tasca la chiave, coltivando la nostalgia di casa, anche quando esse parevano invece allontanarsi dal focolare domestico. Indubbiamente la pedagogia, come le altre forme del sapere scientifico, indugiava nei dualismi, tolti i quali pareva che venisse meno il suo oggetto, ma essa non suggeriva forse, quasi presagendola, l’unitaria risoluzione filosofica? Certo, impossibile era negare la differenza tra l’educatore e l’educando, e dunque tra la norma ideale, misura del processo formativo, e la realtà fattuale, misurata dal medesimo processo, da cui evidentemente scaturiva l’esigenza educativa.

Tuttavia, se non ci si voleva accontentare di una soluzione posticcia e improvvisata, era al concorso del dover essere e dell’essere, a un uomo insieme Girolamo Savonarola e Niccolò Machiavelli, che occorreva guardare con decisione. Si trattava cioè di stare con i piedi per terra («la “realtà effettuale”»), ma con la testa nel regno dei cieli («il “Regno di Gesù Cristo”», p. 115). Del resto, la teleologia della formazione non implicava forse il riferimento a una meccanica dello sviluppo soggettivo, messo a tema dall’impresa educativa? E la meccanica, per converso, non assecondava forse una teleologia immanente che fosse in grado di onorarla? Indicare all’uomo il fine della sua formazione, normandone lo sviluppo, significava infatti evidenziare una coincidenza di etica e psicologia alla quale non sfuggiva nemmeno chi, favorendone gli esiti, si accontentava di badare allo sviluppo naturale dell’uomo. Ma dire identità di psicologia ed etica, in pedagogia, equivaleva a dire filosofia: «non c’è più una psicologia e un’etica tra cui scegliere: c’è la filosofia, e s’impone il concetto che la pedagogia è filosofia» (p. 119). Non una «tecnica» da mettere alla prova; non, appunto, una capacità speciale o una «potenza», da pensare con le categorie proprie del materialismo aristotelico, bensì l’esibizione di una «sintesi a priori» (pp. 122-25) destinata a inghiottire tutto, consentendo al tutto di assimilare se stesso in quanto concorso dell’Io e del non-Io nel soggetto che sprigionava la loro coincidenza viva e inattesa. Potenza, certo, ma come «elemento intrinseco dell’atto, e una cosa stessa con esso» (pp. 122-23), secondo quanto aveva divinato Giordano Bruno: non l’«antecedente» dell’atto, bensì «un vero e proprio conseguente, nato per astrazione dell’analisi dell’atto» (Sommario, 2° vol., cit., pp. 82-83).

Per questo verso, l’educando, capace di essere educato, e l’educante, realmente educato, abitavano entrambi l’unità dell’atto educativo, dimenticandosi l’uno dell’altro e nell’altro. A proposito dell’educante e dell’educando, scrive Gentile,

è proprio il caso di dire che quando l’uno dei due si accorge dell’altro, questo è già sparito, perché non è più quello di cui egli si accorge: lo scolaro per il maestro, il maestro per lo scolaro (p. 129).

L’educando, che correggeva se stesso, e l’educante, chiamato a correggerlo, non guardavano cioè mai fuori di sé, proprio perché l’educare dell’uno coincideva con l’educarsi dell’altro, in ragione di un «processo autocreativo» (p. 126) dal quale l’uomo non poteva congedare se stesso. Educante ed educando, insomma, nascevano insieme e insieme morivano, abolendo il dualismo da cui muoveva la concezione monadistica di un’educazione intesa come trasmissione da uno spirito all’altro. La norma spirituale additata dal maestro non poteva in alcun modo eccedere lo spirito dello scolaro chiamato a farla propria: essa, esortando l’uomo a essere uomo, coincideva con il farsi uomo dell’uomo, in cui tutto dileguava, vivo di un’altra vita. Si trattava dunque di apprezzare l’imporsi di un uomo come «attiva trasparenza e spontanea comunicabilità, anzi flagrante comunione» (p. 66), in una polifonia di voci che erano e dovevano essere la sua voce, in ragione della quale risuonavano (senza che mai esse fossero davvero suonate) le voci trasmesse dalla vicenda storica di un’umanità in fieri, consegnata alle biblioteche e ai documenti di una tradizione che non cessava di alimentare se stessa.

Siccome occorreva dire di «no», senza esitazione alcuna, a «un fare lo spirito differente dal farsi dello spirito» (Educazione e scuola laica, cit., p. 28), non meno urgente appariva la necessità di sottrarre alla scuola l’inerzia di un sapere definito e definitivo, depositato, come che sia, nella coscienza degli insegnanti e degli autori dei libri, se non nei libri stessi. Attraverso toni dialettici, Gentile evidenziava come la circostanza implicasse l’esistenza di un maestro che non era tale, bensì dovesse farsi tale, con il farsi dello scolaro. Non perché il maestro cominciasse a farsi tale e a farsi tale cominciasse lo scolaro, provenendo da altro: lo spirito non proveniva che da se stesso e non andava incontro che a se stesso, sottraendosi al tempo che affliggeva gli eventi trascorsi e quelli destinati a sopraggiungere. L’io non era cioè un evento, ma ciò per cui ogni evento astrattamente concepito, compreso quello educativo, apparteneva bensì alla successione dei prima e dei dopo, ma solo perché era «di là da ogni prima e da ogni dopo» (p. 14). Ne scaturiva l’idea di un’educazione permanente, da sempre e per sempre affidata all’uomo, che al da sempre e per sempre di un lavoro serio e impegnativo consegnava la propria vita, anche quando pareva fosse il gioco dell’infanzia a imporsi. L’educazione non aveva a che fare con il tempo, altrimenti non avrebbe avuto nulla a che fare, se non accidentalmente, con l’uomo. L’uomo come autoeducarsi dello spirito implicava allora la negazione di ogni momento preliminare, viatico della formazione autentica, cui ogni metodologia astratta era solita riferirsi, adombrando, con precetti e formalismi, i lineamenti inaccettabili di una visione strumentale della pedagogia. Non che un metodo non ci fosse o che gli strumenti pedagogico-educativi venissero meno, ma la circostanza avrebbe dovuto alludere a una norma immanente tradotta nel «metodo vivo» di un’educazione in cui la legge dello sviluppo spirituale legiferava se stessa nella storia chiamata a produrla (cfr. anche Sommario, 2° vol., cit., pp. 112 e segg.). Non una via già percorsa e da ripercorrere, per scongiurare l’errore e il disordine, ma la via in atto del maestro che, sprigionando l’autorevolezza di un’autodisciplina, aveva «nel fatto ogni giorno, ogni ora, ogni istante, continuamente, un metodo nuovo, identico alla vita sempre nuova del suo pensiero» (Sommario, 1° vol., cit., p. 168).

La consistenza storica dello spirito obbligava così la pedagogia a interpretare storicamente l’azione educativa, ma c’era «storia e storia» (p. 165), vale a dire la storia astratta e morta, che metteva in fila i fatti, custodendoli nel museo al quale la coscienza avrebbe potuto fare visita, e la storia concreta e viva, animata dall’immancabile atto storiografico di una coscienza in cui il fatto conservava se stesso, rinnovandosi. Il rispetto della tradizione, senza il quale la storicità dello spirito sarebbe apparsa come una parola vuota, implicava cioè la celebrazione dell’attualità viva e presente che, suscitando il futuro, impediva al «passato» di essere «niente» (p. 170). L’esistenza dei fatti e della storia che si incaricava di testimoniarne il peso alludeva cioè alla presenza dell’Io che collocava entrambi nella storia incondizionata di uno spirito la cui libertà non poteva essere messa in questione, senza affermarla. Non un limite esterno, bensì l’interna limitazione di una vicenda nella quale l’Io riconosceva liberamente se stesso, decidendone l’andamento. Il maestro, allora, avrebbe dovuto incarnare l’attualità storica che «non è la storia come contenuto del sapere storico, ma la storia come Io, personalità» (p. 174), dove nulla emergeva che non fosse animato da significati trasparenti, comunicabili e gravidi di un avvenire consegnato alla buona volontà dell’uomo. Nel «farsi tutto per lo scolaro», risolvendosi in esso come nel futuro in cui egli avrebbe dovuto trovare se stesso, il maestro avrebbe suscitato l’universale dominio della «persona» consapevole di sé e del mondo nel reticolo mobile delle discipline affidate alla sua fatica. Un «mondo fisico e morale» in cui era l’umanità intera a ritrovarsi, scolara di se stessa, in vista del sistema che, senza tuttavia escludere nulla, non trovava spazio che non fosse quello concesso dalla propria coscienza.

Guai alla scuola dove non penetra il sole, e col sole tutta la vita! Guai alla scuola che mortifica in un fanciullo un solo germe di vita, per mutarsi in fabbrica di umanità a serie! (p. 191).

Il che non significava delegittimare la «specializzazione» (p. 191); anzi, la consapevolezza autentica passava attraverso la concentrazione di chi, sordo alle distrazioni, sprofondava nell’abisso del particolare, con i suoi innumerevoli dettagli, sebbene la circostanza non dovesse in alcun modo alludere a una prigione che impedisse all’uomo di uscire all’aperto, «per assaporare anche la primavera, e il pasto e il romanzo, e l’amico e tutto, in cui lo spirito ritrova se stesso, e a cui perciò riconosce un valore» (pp. 191-92).

Il dramma del mondo: arte, religione e filosofia

L’indagine gentiliana si avviava così ad accostare il versante didattico, non senza però evidenziare le «forme dell’educazione» sprigionate dall’attualità dell’Io. Se pedagogia ed educazione si risolvevano nella filosofia come «concetto che la realtà ha di se stessa in quanto spirito che si realizza nella storia» (p. 192), la «didattica» doveva rendere visibili i momenti fondamentali di una vicenda immancabile. Il fare scuola (o educare) e la scuola da fare (o didattica), con i programmi e le discipline collegate, non dovevano essere separati e opposti, per coniugarne a posteriori l’andamento, ma concretare, nei modi più adatti, lo svolgimento dello spirito, enfatizzandone il ruolo (auto)educativo. Si trattava cioè di far emergere per questa via un’«autodidattica» come insieme «eterodidattica», per quel tanto che il ritorno a sé dello spirito padrone di se stesso coincideva con l’alterazione dell’Io destinato a incontrarsi in un altro. Avevano perciò ragione entrambi, Jean-Jacques Rousseau e Claude-Adrien Helvétius: educare, infatti, significava bensì togliere i condizionamenti esterni, ma solo perché ciò equivaleva ad aggiungere i materiali provenienti dall’esperienza, circolando su di sé. Lungo questa via, Gentile aggrediva l’opposizione tra «educazione formale» ed «educazione materiale», quasi che i contenuti del sapere avessero potuto anche solo per un istante sottrarsi alla loro forma (cfr. anche Sommario, 2° vol., cit., pp. 102 e segg.); ma anche il dualismo «educazione» e «istruzione», partorito dalla erronea convinzione che altro fosse la volontà (da educare, appunto) e altro l’intelletto (da istruire). Ci si doveva invece persuadere di come fosse la «moralità del conoscere» a imporsi, e cioè uno sforzo consapevole e la scelta che compete a chi intende essere e non è (per es., conoscitore della regola matematica del tre semplice), in vista del fine destinato ad assumere le sembianze del valore. Ecco perché il giovane preparato, a differenza delle pere che maturano per effetto del sole, suscitava l’universale approvazione e il riconoscimento di un merito altrimenti ingiustificati.

Come Bruno, ognuno di noi era «martire delle idee sue»: «non solo le confessa e professa, ma le attesta; le prova, le realizza. E chi vede una differenza tra le sue idee e la sua persona, non ha quelle idee che crede di avere» (Sommario, 1° vol., cit., p. 237), così come colui che ieri non intendeva pienamente l’idea oggi in suo possesso, non aveva davvero la stessa idea, ma un’idea diversa (cfr. anche Sommario, 2° vol., cit., pp. 27 e segg.). La circostanza teorica, evocata dal martirio del Nolano, spingeva l’autore del Sommario ad affrontare il conflitto che a prima vista opponeva l’educazione religiosa, indirizzata al dogma, e l’educazione laica, votata alla critica, per contestarne alla radice l’attendibilità. Il tema, non nuovo per Gentile, fautore della scuola laica, richiedeva che si sgombrasse intanto il campo dagli equivoci, primo fra tutti quello in ragione del quale si scambiava per religione la dottrina affidata alle parole vuote di un messale incompreso o la pratica di un culto esteriore svuotato del sentimento vivo del credente. La religione autentica si spartiva infatti l’umanità dell’uomo con una filosofia della quale l’arte testimoniava l’avvento incipiente, nel circolo dell’Io in cui dogma e critica convivevano, risolvendosi l’uno nell’altra e l’altra nell’uno. L’autoeducazione dello spirito implicava cioè entrambi i momenti, artistico e religioso, ma senza che nessuno dei due potesse ambire al tutto, di cui solo la filosofia doveva apparire come il testimone più attendibile. Più precisamente, per evitare che arte e religione, parti del tutto, anticipassero la filosofia che doveva coniugarne l’andamento, occorreva comprendere come l’una e l’altra fossero bensì il tutto, colto però solo da un lato: soggettivo, il primo; oggettivo, il secondo.

Ora, la laicità della scuola doveva alludere al superamento dell’unilateralità della religione (e dell’arte), non però della religione (e dell’arte). Ancora una volta, insomma, l’idealismo gentiliano suggeriva l’inveramento di un’esigenza, quella religiosa (e artistica), ma senza che perciò della religione (e dell’arte) andasse perduto l’essenziale. Si trattava, daccapo, di guardare a un Io «che non può essere soggetto senza essere soggetto di un oggetto […], oggettivazione dello stesso soggetto» (Sommario, 1° vol., cit., p. 208), in ragione del quale l’alienazione, alterando il quadro, giocava un ruolo fondamentale. L’unione mistica con Dio, celebrata dalla religione, esaltava infatti l’oggetto «assoluto», infinito, presupposto di ogni oggetto finito, chiamato a suscitare nell’uomo la coscienza della propria nullità, adombrata dall’oblio di sé. Lungo questa strada, l’umanità sperimentava l’imporsi di un vero indisponibile, tutto intero e interamente reale, senza che nemmeno noi, in quanto reali, potessimo distinguercene. La nostra verità, il nostro Dio, certamente; ma dove il nostro era suo, proprio dell’oggetto supremo, trascendente, creatore (di una creatura e non di sé: «eteroctisi»), rivelato e buono di una Bontà graziosamente concessa ai mortali (p. 243). Come si sarebbe potuto rinunciare a questo momento dello spirito? Rinunciarvi sarebbe equivalso, per Gentile, a rinunciare all’irrinunciabile, vale a dire allo spirito come incessante divenire della storia cui l’intera scommessa dell’attualismo doveva essere addebitata, esaltando la negatività dell’oggetto. Si trattava insomma di rendersi conto di come ogni affermazione, nell’atto stesso del suo affermarsi, enfatizzasse l’avvento di una religione, cui non si opponeva l’ateismo (che era una straordinariamente impegnativa affermazione), bensì l’indifferenza di chi non prendeva nulla sul serio, nemmeno se stesso, ignaro (se pure un simile uomo esista) del «valore per dir così, cosmogonico o teogonico di ogni alitare del suo proprio animo» (p. 245). Per questo verso, il mondo certamente portava con sé impressa «la vasta orma di Dio», ma in Dio riverberava, come in uno specchio, lo sguardo dell’Io, incapace di ristagnare in un’affermazione qualsiasi e anzi ribelle a ogni fermata.

Ora, da qui veniva il naturale rifiuto dell’uomo per la religione semplicemente rivelata. La religione costituiva la tappa di un percorso immanente, in cui erano appunto la «libertà» e il «progresso» dello spirito a farla da padrone. In tal senso, una scuola autenticamente laica poteva bensì «abolire l’insegnamento religioso», ma solo a patto di sostituirvi un insegnamento che fosse in grado di rispondere ai «fini legittimi della religiosità» (p. 246). Non però il tradizionale «insegnamento scientifico», che dell’oggettività faceva una bandiera, additando il dominio prevedibile dei fenomeni vincolati alla legge naturale, analogo a quello consegnato dalla religione a Dio e alla preveggenza del suo governo. «Mistero», da scoprire e rivelare, perché già dato e comunicato dal ricco formulario di un sapere cui lo scienziato, sacerdote dell’età moderna, prestava semplicemente la voce, togliendosi dalla scena. «Attenti e aprite gli orecchi: 2+2=4, e così sia» (p. 248). Una scuola non dogmatica, critica e laica, doveva infatti richiamare l’attenzione sul «soggetto», e dunque sulla realtà autentica, ma senza dimenticare che il soggetto era il farsi dell’oggetto, presente a se stesso nella coscienza storica deputata a farlo risaltare sullo sfondo di un divenire incessante. L’oggetto, insomma, era momento essenziale del processo spirituale, ma come oggetto del soggetto.

Per questo verso, Gentile si affrettava a chiarire come nemmeno l’«educazione estetica», chiamata a liberare l’uomo dalla «tortura della religione e delle scienze astratte», enfatizzando la soggettività creatrice dell’«artista», avrebbe potuto restituire la concreta vita dello spirito. Certo, il «concetto moderno della scienza» (p. 250), liberandosi della tirannia di un sapere già fatto, aveva senza dubbio rivendicato – e lo avrebbe fatto sempre più decisamente, anche in relazione ai temi religiosi – il ruolo dell’osservatore e la funzione euristica dell’esperimento, affidato all’opera del «laborioso spirito umano» (p. 250), ma correndo il rischio di trascinare nel gorgo della poesia quello che, per dir così, doveva invece esprimere la prosa della vita. I fantasmi poetici – veri, per l’artista, della realtà più vera –, ma anche l’Essere – vero, per il credente, della realtà più vera –, ritagliavano astrattamente il tessuto concreto dell’Io al quale la scuola, assecondando l’andamento dello spirito, doveva rimanere fedele. Gentile esortava allora a coniugare i due immancabili momenti – egoistico e altruistico, libero e necessario – in un’«educazione umanistica» testimone e artefice di un uomo che fosse bensì «individuo, ma in quanto coscienza o personalità universale e assoluta» (p. 253).

Con Gesù, l’educazione filosofica diceva: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Si trattava cioè di aspirare, con la scuola, a un’educazione – laica, certamente, ma non di un laicismo negativo – chiamata a suscitare «uno spirito che sent[isse] sé come oggetto, e l’oggetto come sé; la propria libertà come legge, e la legge come libertà; sé come tutto, ma tutto anche come sé» (pp. 252-53). La scuola avrebbe cioè dovuto conservare «il carattere educativo o morale dell’istruzione religiosa», intenta a «far sentire la realtà del soggetto nell’oggetto, l’uomo legato al mondo, alla verità, alla legge, a un tutto che è assoluto, in cui si spunta l’arbitrio individuale», affidandolo però alle cure di un’«educazione filosofica» chiamata a spiritualizzare il contenuto religioso, per quel tanto che esso pareva sottrarsi alla vita inquieta del soggetto (pp. 253-54).

Il Sommario, dal lato della didattica, lasciava così emergere le forme assolute, arte, religione e filosofia, in cui la scuola avrebbe dovuto riconoscersi, ribadendo l’eternità di un «ritmo spirituale» assoluto (Sommario, 2° vol., cit., p. 137). Ne sortiva un’inedita «didattica speciale filosofica», destinata da Gentile a cogliere l’attualità «universale» nella «forma riflessa e istituzionale dell’educazione» (p. 17). La scuola doveva infatti fare tesoro dell’idealizzarsi del reale da cui scaturivano i «tre momenti» della vita spirituale. Non che il tre, evidentemente, si riferisse a un numero. Il terzo momento consisteva semplicemente nella differenza dei primi due, che tuttavia nasceva morendo, anzi nasceva già morta. Una differenza dinamica, non statica. Trattandosi insomma di «categorie», l’arte differiva dalla religione non appena smetteva di differire, viva della filosofia in cui tuttavia il processo non posava, se non per morire, differendo. La didattica dell’arte e della religione, cui è dedicata l’ultima parte del Sommario, esortava quindi la scuola a enfatizzare nelle diverse discipline il momento soggettivo dello spirito, eslege e originale, insieme a quello oggettivo, norma originaria del reale che, annientando le astratte ambizioni dell’Io, gemellava l’idea di Dio e della morte, in vista della concretezza filosofica. Infatti, la didattica della filosofia avrebbe dovuto suscitare la pienezza della sintesi in cui era l’autenticità dell’Io, soggetto e oggetto, a imporsi, oltrepassando la «bella per quanto contraddittoria posizione della coscienza religiosa» (Sommario, 1° vol., cit., p. 255), che pure concretizzava l’andamento spirituale. Per questa via, la scuola era chiamata a onorare «il vero insegnamento o svolgimento spirituale», nel quale la personalità e il mondo, celebrati rispettivamente dall’arte e dalla religione, si risolvevano nella «costituzione della personalità del mondo, o del mondo della personalità», in cui la filosofia coincideva con la vita, «perché era la vita stessa» (Sommario, 2° vol., cit., pp. 204-05). Ciò consentiva a Gentile di additare una scuola fedele (anzi, identica) all’uomo e alla sua natura, mettendo in scena il «dramma» del mondo, l’unico mondo esistente, nella consapevolezza che

il dramma non ha una catastrofe, e non si può concepire né la morte dello spirito, né – che è poi la stessa cosa – la fine del mondo: poiché il suo essere è tale che impegna l’eternità. Il mondo è un dramma eterno, in cui lo spirito si dibatte e travaglia tra l’essere e il non essere, e si sforza e s’adopera ad affermarsi; e in questo stesso sforzo è la sua affermazione; nella sua attiva aspirazione a realizzarsi, la sua realtà (pp. 139-40).

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