Spazio

Dizionario di filosofia (2009)

spazio


Il luogo in cui gli oggetti reali appaiono collocati. Il concetto di s., come quello di tempo (➔), è stato assai discusso e variamente inteso, cosicché la storia di tale problema viene a riflettere, da un certo angolo visuale, l’intera storia della filosofia. In linea generale, si possono distinguere due punti di vista: per il primo, lo s. è inteso come qualità relativa alla posizione degli oggetti materiali nel mondo; per il secondo lo s. è inteso come contenitore di tutti gli oggetti materiali.

Lo spazio nel pensiero antico e medievale

Pur mancando nella lingua greca un termine specifico per denotare il concetto di s., l’impiego nella prassi della nozione di s. tridimensionale (quella che verrà codificata nel 3° sec. a.C. da Euclide) era già implicito nelle scoperte geometriche attribuite a Talete, nell’aritmogeometria di Pitagora e di altri presocratici. Una prima concezione dello s. quale contenitore degli oggetti materiali si può rintracciare nella teoria pitagorica del «soffio infinito» (πνεῦμα ἄπειρον), che poi sembra trovare sviluppo nell’idea di un «mare» d’aria elastica che si rarefà via via che ci si allontana dalle regioni terrestri. Una più elaborata teoria sulla natura primaria dello s., «luogo» (τόπος) di tutti i corpi e necessario per la loro stessa sussistenza, è invece attribuita al pitagorico Archita, cui la tradizione ascrive anche la «prova del dardo», in seguito ripresa e resa famosa da Lucrezio. Sembra inoltre che già i pitagorici parlassero del κενόν, del «vuoto», come entità che circonda tutte le realtà singole: ma il problema della sua legittimità fu sollevato da Parmenide, che, riportando il vuoto, come negazione del pieno, nella categoria ideale di «ciò che non è», lo escluse senz’altro dall’ambito del reale. Ma il vero e proprio problema dello s., in quanto concepito in termini oggettivi, si presentò quando Zenone, non parlando più (almeno secondo le parole di Simplicio) del κενόν = μὴ ὄν («vuoto = non ente») ma direttamente del τόπος («luogo, s.»), mostrò come anche quell’universale ambiente delle molteplici realtà empiriche andasse soggetto alle stesse contraddizioni che egli rinveniva in ogni molteplice. Più in partic., Zenone osservò che, se lo s. esiste, deve esistere «in qualche posto» e con ciò in uno s. ulteriore: ma la stessa situazione si ripete a proposito di questo secondo s., sicché lo s. mostra la stessa contraddizione di finito e infinito che si rinviene nel molteplice e ne dimostra l’intrinseca assurdità. L’argomentazione eleatica avrebbe esercitato grande influsso sulla speculazione greca, almeno fino ad Aristotele. L’esigenza di superare il rigido monismo eleatico spinse i primi atomisti, Leucippo e Democrito, a concepire il «vuoto» (κενόν) come s. infinito in cui sono collocati gli atomi indivisibili, e che, non opponendo alcuna resistenza, ne consente anche il movimento (e a quello dei corpi da essi composti); dottrina, questa, che troverà particolare fortuna nell’ambito dell’epicureismo e, molti secoli dopo, nell’atomismo moderno. Ma alla speculazione eleatica – in partic. a quella di Melisso – sembra ricollegarsi anche la dottrina platonica (esposta nel Timeo ➔) della χώρα, in quanto «spazialità», «luogo» e «sede» delle cose corruttibili, «terza natura», intermedia tra il mondo delle idee e quello delle cose, in cui si compie il passaggio dalle pure forme ai corpi materiali; dottrina che pure avrebbe esercitato larga influenza nei secoli a venire, sia pure attraverso la controversa interpretazione aristotelica e neoplatonica, che portava all’identificazione dello s. con la materia, intesa come pura tridimensionalità geometrica, e quella, non meno discutibile, formulata da molti commentatori di età ellenistica e cristiana, che identificava la χώρα con la materia primordiale, concepita a sua volta come «luogo» metaforico che accoglie gli elementi e le loro mescolanze, secondo le proprietà originarie dei cinque elementi (terra, acqua, aria, fuoco ed etere) e delle rispettive forme originarie (i cinque poliedri regolari: cubi, icosaedri, ottaedri, piramidi, dodecaedri). Alla problematica zenoniana si sarebbe riallacciato soprattutto Aristotele, con la sua teoria del «luogo» (esposta nella Fisica, IV 3) che muove dalla distinzione dei «molti modi in cui si dice che una cosa è in un’altra» ‒ con procedimento analogo alla critica dell’essere parmenideo ‒ e perviene alla definizione del τόπος come «primo immobile limite del contenente», e più precisamente come limite dell’estrema estensione del cosmo, contenitore immobile di un Universo pieno, eterno e finito. Nella dottrina dello Stagirita, inoltre, lo s. non è pensabile senza un corpo contenuto: a differenza di quanto accade nella concezione dei pitagorici e degli atomisti, non è il corpo ad avere bisogno dello s. per essere collocato ma, al contrario, se non si desse corpo, non si darebbe neppure il «luogo» che lo contiene. All’interno del mondo si identificano i singoli luoghi semplicemente sommati e giustapposti, non costituenti uno s. unitario. Questi luoghi sono ordinati gerarchicamente in quanto a ognuno dei quattro elementi che costituiscono la sfera sublunare (terra, acqua, aria e fuoco) è assegnato un «luogo naturale» verso cui ogni elemento tende per natura a tornare quando ne sia stato allontanato con la violenza. Il moto rettilineo, proprio solo del mondo sublunare, si giustifica quindi soltanto per la necessità di ricostituire l’equilibrio statico dei quattro elementi quando esso sia stato violentemente alterato; un corpo terrestre sollevato «in alto», lontano dal suo luogo naturale, tende «naturalmente» a ricollocarvisi e si dirige all’ingiù finché non lo raggiunge; viceversa il fuoco, costretto a soggiornare nel luogo naturale della terra, tende all’insù, verso il suo luogo. E al di sopra della sfera lunare le sfere celesti, ciascuna contenuta dalla superficie interna dell’altra come proprio luogo, muovendo eternamente in circolo per loro natura, non si allontanano mai dal loro luogo e non danno adito, con ciò, ad alcuno squilibrio. Nei cieli è quindi impensabile il moto rettilineo; la materia perfetta (quintessenza) che costituisce le sfere celesti possiede per natura un moto più perfetto, simile alla quiete in quanto non implica traslazione. Con queste tesi di Aristotele si fissa quindi uno schema che rapporta teoria del luogo e teoria del movimento, ponendo un’ipoteca assai grave allo sviluppo di questi concetti in età successiva; completato da Tolomeo, questo sistema cosmologico avrebbe infatti dominato il pensiero occidentale fino alla tarda scolastica. Per la storia del concetto di s. notevole importanza riveste anche la teoria stoica, che ammetteva il vuoto, ma lo relegava oltre i confini del mondo materiale pieno, assegnandogli la funzione di contenere i frammenti del mondo dopo la conflagrazione (ἐκπύρωσις) e prima della sua nuova ricostituzione; la distinzione fra la zona piena al centro e la zona vuota oltre i termini del mondo sarebbe stata riscoperta nelle prime polemiche rinascimentali nei confronti della concezione aristotelica del luogo. Non meno influente sarebbe risultata, sia pure a molti secoli di distanza, la teorizzazione epicurea, che riprese la teoria atomistica del vuoto, arricchendola però di un elemento che limitava l’originale omogeneità dello s.: il vuoto epicureo, infatti, possiede un «alto» e un «basso» che costituiscono una direzione privilegiata «all’ingiù», lungo la quale si muovono gli atomi corporei; non è più, quindi, un vuoto assolutamente omogeneo e isotropo a contenere gli atomi senza peso, ma un vuoto infinito anisotropo, in cui si muovono atomi «gravi» tendenti all’ingiù. Anche questa tesi avrà una notevole importanza nella formazione di un’alternativa alla soluzione aristotelica tra il Cinquecento e il Seicento; né va dimenticata la rilevanza etica che assumeva nella poesia di Lucrezio il tema dello s. infinito, che avrebbe trovato in Bruno un nuovo, grande interprete. Sulla via che conduce al prevalere delle tesi relative a uno s. unitario, contenitore dei corpi materiali, vanno infine ricordate anche le trattazioni di Giovanni Filopono e di Damascio. Il primo contrappone alla definizione aristotelica del luogo la sua definizione del luogo come «intervallo» (διάστημα) tridimensionale, corrispondente, come misura, al volume dell’oggetto «locato»; questo vuoto ricettacolo, in cui il corpo è contenuto, è incorporeo e permane immutato qualora il corpo ne esca. Al punto di vista opposto, cioè alla dottrina dello s. come qualità relativa alla posizione degli oggetti materiali, si ispira invece l’analisi del neoplatonico Damascio (6° sec. d.C.). Per Damascio, infatti, il luogo o s. non è altro che la misura della relazione posizionale delle diverse parti di un oggetto o dell’oggetto nei confronti di altri. Contrariamente all’ambigua tesi di Aristotele, per cui, pur non dandosi luogo vuoto, il luogo è pur sempre «diverso» dal suo contenuto e «permane» quando questo se ne allontani, nella più rigida analisi di Damascio la posizione di un corpo in moto, per quante posizioni nuove esso assuma, non diventa mai posizione di un altro oggetto. Tuttavia, dopo queste due fondamentali trattazioni non si ritrovano per lungo tempo polemiche significative nei confronti della tesi aristotelica, che finì con l’avere una prevalenza quasi incontrastata fino ai primi, timidi e ipotetici tentativi di confutazione da parte dei fisici della tarda scolastica.

Lo spazio nel pensiero rinascimentale e moderno

La fioritura di nuove teorie sullo s. è databile al Rinascimento, ed è dovuta specialmente a Telesio, Patrizi da Cherso, Marcello Palingenio Stellato, Bruno e ad altri autori che prepararono il terreno alla rivoluzione scientifica coniugando l’elaborazione di nuovi modelli cosmologici con l’osservazione empirica dei fenomeni celesti. Già in Telesio si delinea, in opposizione alla concezione di Aristotele, la tesi di uno s. unitario, omogeneo, pura «attitudine a ricevere i corpi», privo di differenziazioni qualitative e di direzioni privilegiate. Un’idea analoga si ritrova peraltro in Patrizi, che teorizzò uno s. infinito, continuo, immobile, omogeneo (sia pure non completamente) sottolineandone l’estraneità alla metafisica aristotelica (distinzione sostanza e accidenti) e il rapporto problematico con la divinità, in un quadro concettuale di tipo neoplatonico. Ma, rifacendosi a Cusano, a Lucrezio, a Giovanni Filopono, fu soprattutto Bruno (in partic. nel De immenso et innumerabilibus, 1590-91) a sviluppare compiutamente un’idea dello s. nettamente alternativa a quella aristotelica; Bruno, infatti, concepì lo s. come ente infinito e uniforme, quantità continua e indivisibile, che tutto comprende, senza esser da nulla compreso; da queste qualità dello s. egli dedusse inoltre l’infinità dei mondi e dell’Universo, rifiutando la concezione aristotelica dei luoghi, e aprendo così la strada alla fisica, all’astronomia e alla cosmologia moderne. Il modello cosmologico delineato da Bruno tardò, come è noto, ad affermarsi nel corso del Seicento; l’idea di un Universo infinito fu rifiutata da Keplero, sulla base di argomenti sia filosofici sia scientifici, come pure da Galileo, il quale, tenendosi ben lontano da audaci ed eterodosse speculazioni metafisiche, mantenne al contrario ben fermi all’interno della sua fisica nuova alcuni presupposti tradizionali, fra i quali una concezione dello s. non omogeneo e anisotropo. La tesi della comune «gravità» di tutti i corpi materiali, non più distinguibili in pesanti e leggeri, e l’identificazione, quindi, di un’unica direzione «naturale» nel moto all’ingiù avvicina Galilei piuttosto a Lucrezio che ad Aristotele, ma non toglie che il moto rettilineo dei corpi seguiti a essere distinto in «naturale» e «violento», e che sia lo s. a dirigere il moto naturale. All’interno di questa concezione si spiega come mai Galilei non sia potuto pervenire alla formulazione corretta della legge d’inerzia pur avendone individuato tutti gli altri presupposti. D’altro canto, Descartes, nella sua rigorosa riduzione del mondo fisico alle caratteristiche della geometria, pervenne alla riduzione della materia a pura tridimensionalità, identificandola perciò con l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità. Ciò gli consentì, una volta liberata la materia da ogni altra qualità, di descriverne il comportamento in termini puramente meccanici, ma l’identificazione di estensione (s.) e materia gli impedì di concepire l’esistenza del vuoto e quindi d’intendere il movimento se non in termini puramente relativi. In un mondo pieno di materia estesa il moto non può essere che mutamento dei rapporti di posizione dei corpi (analogamente a quanto teorizzato da Damascio). Quando due corpi mutano il loro reciproco rapporto, è frutto di pura convenzione l’affermare che uno dei due si è mosso e l’altro è rimasto immobile. Ricollegandosi al filone speculativo di ascendenza neoplatonica rappresentato da Patrizi, uno dei più illustri rappresentanti della scuola di Cambridge, More, elaborò la sua teoria dello s., che influenzò quella, ben più famosa, di Newton; contro l’identificazione cartesiana di materia ed estensione, More affermò l’attribuibilità dell’estensione anche alle sostanze spirituali, che altrimenti verrebbero negate, in quanto esistenti «in nessun luogo». L’estensione immateriale in cui tutte le sostanze materiali e immateriali sono collocate, lo s. infinito, uniforme, indivisibile che tutto contiene, è il punto di riferimento immobile rispetto al quale è possibile identificare il moto «vero» di un corpo e la quiete «vera» di un altro, risolvendo così il problema che Descartes aveva aperto con la sua teoria del moto relativo. Questo s. possedeva quindi una serie di caratteristiche (infinità, indivisibilità, unità, indispensabilità, ecc.) che consentivano di supporre l’identificazione con l’infinito estendersi reale di Dio nel mondo. A partire da un’analoga polemica nei confronti di Descartes, Newton pervenne quindi alla definizione dello s. assoluto, infinito, omogeneo, isotropo, indivisibile, base immobile del movimento inerziale rettilineo dei corpi materiali, unico possibile parametro di misura dei moti veri e assoluti, nonché mezzo attraverso cui si trasmette la forza gravitazionale che tiene unito in una compagine ordinata il cosmo planetario; e dall’analisi di questa funzione che lo s. assume in relazione alla gravità, Newton giunse alla sua definizione dello s. assoluto come «sensorium Dei», mediante il quale la divinità percepisce il mondo e agisce su di esso. Con la teoria newtoniana dello s. assoluto, accettata da gran parte dei fisici del suo tempo come un dogma incontestabile, il punto di vista relativo allo s. come universale contenitore dei corpi sembrò segnare un trionfo, seppure non incontrastato. Il suo principale oppositore fu, come è noto, Leibniz, che alla nozione di s. assoluto contrappose la concezione dello s. come «ordine di coesistenza», elaborazione ideale che sorge dalla considerazione del mutare dei rapporti reciproci dei corpi, alla quale solo indebitamente si può conferire una realtà oggettiva. Con Lebiniz, e con Locke, iniziava a delinearsi un nuovo punto di vista nell’indagine sullo s., che poneva in primo piano l’aspetto soggettivo, ossia il modo in cui tale nozione si inquadra nel mondo conoscitivo del soggetto. Una strada, questa, su cui si sarebbero incamminati soprattutto i massimi teorici dell’empirismo, per i quali il problema dello s. si poneva in una prospettiva gnoseologica e psicologica. Sarebbe stato Berkeley, in partic., a trarre le estreme conseguenze di questa linea di riflessione, radicalizzando la posizione di Locke ‒ per il quale l’idea di s., idea complessa, nasce dalla correlazione mentale di idee semplici provenienti da sensazioni visive e tattili – e sottolineando come la percezione dello s. risulti impossibile senza una serie di sensazioni visive e tattili, quali il colore, la figura, ecc., del tutto soggettive, che vengono astratte dalla mente a costituire un’idea di cui non ci è affatto garantita la realtà extramentale. Con queste tesi, la validità fisica e metafisica del concetto newtoniano di s. come entità reale era messa seriamente in discussione, e si apriva la via alla soluzione critica kantiana. L’esigenza di reagire a questa dissoluzione soggettivo-empiristica del concetto di s., e di dare un fondamento certo alla geometria, alla meccanica e all’astronomia newtoniana, indusse infatti Kant a indagare lo s. stesso in quanto condizione trascendentale della conoscenza. Negando il carattere di realtà assoluta dello s. (in virtù del fatto che non si dà mai come contenuto della percezione), ma nel contempo rifiutando che possa risolversi in semplice astrazione di dati empirici, o in una nozione puramente relativa, Kant concepì lo s. come forma pura delle intuizioni del senso esterno, e quindi come condizione necessaria della conoscenza umana, avente la funzione, assieme al tempo, forma pura delle intuizioni del senso interno, di organizzare il molteplice della sensazione in vista della sua unificazione sotto i concetti puri dell’intelletto. D’altra parte, studiando le antinomie in cui l’intelletto si avvolge qualora superi i limiti dell’esperienza possibile, e, più in partic., quella per cui la totalità dell’Universo può esser giudicata tanto finita quanto infinita, Kant non faceva altro che rinnovare, nella sua nuova prospettiva, l’argomentazione con cui Zenone dimostrava la contraddittoria finità-infinità di ogni molteplice e di ogni s. (come avrebbe acutamente osservato Hegel).

Gli sviluppi ottocenteschi e novecenteschi

Nel corso dell’Ottocento, la rielaborazione kantiana del concetto di s. fu messa in crisi dai duplici attacchi di cui fu oggetto, sul versante filosofico e su quello propriamente scientifico. I sostenitori dell’idealismo oggettivo, rivendicando all’attività dello spirito la capacità di produrre da sé stessa i veri contenuti della conoscenza, reinterpretarono lo s. come un momento dello sviluppo dialettico dell’idea; così, nel sistema hegeliano lo s. diviene la prima determinazione della filosofia della natura, in quanto «universalità astratta del suo esser-fuori-di-sé», quantità pura esistente nel mondo esteriore (essendo stata superata la logica dell’essere), caratterizzata in prima battuta dall’assoluta continuità, quindi dal porsi delle differenze (punto, linea, superficie). D’altra parte, gli sviluppi ottocenteschi della geometria, caratterizzati dall’emergere di geometrie non euclidee (per opera di K.F. Gauss, N.I. Lobacevskij, J. Bolyai, Riemann), ponevano in crisi l’implicita identificazione dello s. in quanto forma pura dell’intuizione con lo s. tridimensionale e isotropo della geometria euclidea, e mettevano in luce come nella matematica pura non ci sia alcuna necessità logica a pensare lo s. in questi termini, ma sia altrettanto possibile concepirlo in dimensioni superiori. Parallelamente, nel campo della fisica, le ricerche di M. Faraday, W. Thompson, J. Maxwell, L. Lange, e altri, gettavano i presupposti per una nuova concezione del rapporto tra s. e materia, che avrebbe portato all’abbandono del concetto newtoniano di s. assoluto. Tale concezione fu elaborata compiutamente da Einstein, nella sua teoria della relatività generale, che rinunciava definitivamente alla geometria euclidea a favore di una nuova teoria dello s. fisico, incentrata sulla nozione di s.-tempo (cronotopo), cioè di uno s. «elastico», la cui struttura muta in funzione della presenza in esso della materia. Parallelamente, nella filosofia novecentesca la riflessione sullo s. si svincolava dalle problematiche gnoseologiche; si possono ricordare, per es., la teorizzazione di Bergson, che considerò la spazializzazione come la modalità propria delle scienze positive con cui si reifica il tempo, proiettando il flusso continuo della pura durata nello spazio (per es., nel quadrante dell’orologio), e quella di Gentile, che intese lo s. come il frutto dell’attività dello spirito che moltiplica l’uno, superando eternamente, con il suo atto, il proprio dato e il proprio limite.