SPERONI, Sperone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SPERONI, Sperone (degli Alvarotti)

Luca Piantoni

– Sesto di sette fratelli, di cui i primi quattro premorti ai genitori, nacque a Padova il 12 aprile del 1500 da Bernardino e da Lucia Contarini, nobile veneziana.

L’antico casato degli Speroni-Alvarotti si distinse nell’ambito delle professioni mediche e giuridiche, come pure in quello della storia patria.

L’infanzia e la formazione di Speroni si svolsero verosimilmente tra Padova e Venezia, dove risiedevano i parenti materni e il padre, medico rinomato, era spesso chiamato dalla Serenissima a curare importanti personaggi locali. In queste due città, dopo una prima istruzione affidata a un educatore privato («pareva il mio precettore un gran sire e non lo chiamava se non per domine, epiteto imperatorio e regale», Opere..., a cura di M. Farcellini - N. Dalle Laste, 1740, 1989, V, p. 169), è altrettanto probabile ch’egli seguisse le lezioni dei professori che non smisero d’insegnare durante la chiusura dello Studio, tra il 1509 e il 1517, a causa della guerra di Cambrai.

Il primo dato certo e di rilievo riguarda il tentamen sostenuto il 27 maggio del 1518 nella chiesa di S. Urbano a Padova (esistente sino al 1810), dove Speroni fu giudicato sufficiens ad examen privatum dai promotori del Sacro Collegio degli artisti e dei medici, tra i quali era presente il padre. Il colloquio, secondo gli usi coevi, era preliminare alla più severa prova per il conseguimento del titolo di dottore, ch’egli ottenne il 10 giugno in filosofia, discutendo e ribattendo, nella sala del Vescovado, i punti assegnatigli il giorno prima e le consuete argomentazioni contrarie. Accolto a pieni voti nel Collegio, di cui in seguito sarebbe divenuto priore, già nel 1520 fu nominato lettore di logica in primo loco nell’ateneo patavino, ed ebbe tra i suoi scolari Bernardo Navagero, cui poi si legò di stretta amicizia.

Le lezioni dovettero essere apprezzate, come pure l’ingegno del ventenne, se il 6 novembre del 1523 il Senato gli conferì la cattedra straordinaria di filosofia in secundo loco. Speroni, tuttavia, preferì interrompere la carriera universitaria per seguire gli insegnamenti di Pietro Pomponazzi a Bologna, rimanendovi sino alla morte del filosofo, nel 1525. Tornato in patria, riprese l’attività di docenza per altri tre anni, alternando agli impegni accademici frequenti soggiorni veneziani, durante i quali conobbe, diventandone amico e familiare, alcuni protagonisti della vita letteraria del tempo, tra cui Pietro Aretino, Bernardo Tasso, Antonio Brocardo, Pietro Bembo e Bernardo Cappello. È in tale contesto che si colloca una pratica intellettuale per lo più affidata al libero conversare, secondo un tratto ch’egli avrebbe trasferito nelle modalità argomentative operanti all’interno dei Dialoghi (che uscirono a Venezia nel 1542, contro la sua volontà e per le cure di Daniele Barbaro), caratterizzati da una struttura dialetticamente policentrica e da non prevedibili movimenti nei contrasti tra le posizioni evocate.

La morte dei genitori, nel 1528, obbligò Speroni ad assumersi la responsabilità dell’intera famiglia, ponendo con ciò fine agli insegnamenti. È però lecito supporre che la decisione di abbandonare l’università non dipese passivamente dalle circostanze, quanto, piuttosto, da una scelta che trovava in quell’occasione un pretesto opportuno. L’indole ritrosa, refrattaria alle astrattezze delle aule accademiche, congiunta all’insofferenza per un ambiente distante da una concezione del sapere inteso quale impegno civile e militanza ‘socratica’, fu probabilmente alla base di tale scelta. Con simili ragioni avrebbe del resto motivato, nel 1564, il rifiuto della cattedra di filosofia morale propostagli dai riformatori dello Studio, come attesta la lettera ad Angelo Blasio del 19 agosto: «non ho io letto in Padova logica già anni quarantaquattro, e non lasciai io di legger filosofia già anni trentasei? giovine lasciai la vanità della gloria e la viltà del guadagno; ora vecchio correrò ad abbracciarli?». E ancora: «leggiamo senza salario o senza leggere, come faceva Socrate, affrontiamo li scolari per le piazze, per li bordelli, per le bettole, alle chiese, alle feste, e riprendianli de’ loro vizii o della perdita del tempo loro o della vanità delle pompe o d’altra tal cosa» (Opere..., cit., pp. 171 s.).

Pesarono sempre più gli oneri connessi alla gestione dell’economia domestica e alle numerose liti che Speroni dovette affrontare in difesa del patrimonio di famiglia, specialmente in favore delle figlie e dei nipoti. In particolare, incresciose vicende giudiziarie incorsero con il fratello minore, Giulio, «cagion d’ogni male» (Opere..., cit., p. 109), al quale Speroni aveva garantito il percorso di studi che lo avrebbe condotto a conseguire un dottorato in legge. L’insieme di tali incombenze non impedì a Speroni di coltivare i suoi interessi e di dedicarsi a una intensa attività civile e oratoria, di cui testimoniano alcune delle materie affrontate nei Dialoghi, così come i Trattatelli e le Aringhe e scritture forensi raccolti nel quinto tomo delle Opere.

Eletto membro del Consiglio comunale il 4 gennaio 1532, nel 1533 fu deputato della magistratura dei Sedici, carica che avrebbe ricoperto alternativamente sino al 1548; il 10 gennaio 1534, insieme con Antonio da Carrara e Francesco Capodilista, denunciò di fronte al doge il rincaro delle derrate alimentari; il 28 luglio fu inviato a Venezia per chiedere una diminuzione delle imposte fondiarie. Trattò poi della incanalatura delle acque e prese parte alla regolamentazione delle leggi suntuarie a Padova, tanto da essere eletto, nel 1539, censore iuxta ordines de immoderatis conviviis et superfluis sumptibus. Propose emendamenti alla riforma dell’estimo; fu presidente, nel 1542, del fondaco delle pelli e del cuoio situato nell’isola di Giudecca; fu provveditore in materia di conventi e di salute pubblica; si batté per la salvaguardia del Monte di pietà contro la pratica dell’usura, reclamando drastici interventi contra judaeos: dalla rimozione dei banchetti di prestito all’allontanamento degli ebrei dai luoghi di commercio, sino a proporne il bando totale dalla città.

Il 24 febbraio 1530 partecipò, in compagnia di Brocardo, Navagero e Luigi Priuli, alla festa per l’incoronazione di Carlo V, ospite a Bologna di Gaspare Contarini, ambasciatore per conto della Serenissima e suo vecchio compagno durante i corsi universitari nella città felsinea. Al 1530 risale anche il matrimonio con Orsolina da Stra, ch’egli sposò «più consigliato che volentieri», essendo ella «tanto ricca che ognun la ambiva e desiderava» (Opere..., cit., p. 250). Dalla moglie, che aveva già una figlia di nome Angelica, Speroni ebbe Lucia Cristina Adriana, nata il 3 agosto 1533, Diamante, nata l’11 marzo 1535, e Giulia, nata nel 1537 o 1538 e sola destinata a sopravvivergli. Anche sotto questo profilo il padre, che fu sempre affettuoso e colmo di sollecitudini, non mancò di assicurare loro un’adeguata sistemazione: Lucia e Diamante furono congiunte, rispettivamente nel 1548 e 1554, a Marsilio e Ubertino Papafava dei Carraresi, una delle più nobili, importanti e ricche famiglie locali; Giulia, nel 1558, ad Alberto dei Conti, il cui genitore Speroni aveva difeso anni prima scagionandolo da un’accusa di omicidio.

Nel 1540 venne fondata a Padova l’Accademia degli Infiammati, di cui fu il maggiore animatore nonché l’ultimo dei principi di cui resti memoria scritta, succedendo nella carica ad Alessandro Piccolomini nell’ottobre del 1541 (Canace..., a cura di C. Roaf, 1982, p. 292, n. 2). È in seno a tali adunate che i suoi interessi linguistico-filologici trovarono nello stesso Piccolomini, come pure in Bernardino Tomitano e Benedetto Varchi, una vivace sponda interlocutoria. Speroni, che già verso la metà degli anni Trenta aveva scritto il Dialogo delle lingue e il Dialogo della rettorica, fu il più accreditato ispiratore del circolo, che sullo sfondo di un bembismo riletto alla luce delle teorie aristoteliche di scuola patavina, con particolare riferimento al naturalismo di Pomponazzi, promuoveva una visione sincretica del volgare come tramite di un sapere moderno in cui l’antico binomio di eloquentia e sapientia avrebbe concorso alla realizzazione di un ethos civile oltre che culturale (si vedano Bruni, 1967; Daniele, 1989; Vasoli, 2003; Selmi, 2005).

Sempre a cospetto degli Infiammati, Speroni diede pubblica lettura della sua tragedia di soggetto mitologico, Canace, composta a stretto giro dall’Orbecche di Giovan Battista Giraldi tra il 9 gennaio e il 9 marzo 1541 e pubblicata la prima volta a Venezia, senza consenso dell’autore, nel 1546. L’opera, la cui rappresentazione fu impedita dall’improvvisa morte di Ruzante, che doveva esserne il principale interprete (Savarese, 1976), sollevò ben presto aspre polemiche, che si protrassero sin quasi alla fine del secolo (con i Due discorsi di Faustino Summo del 1590). Salutata con tempestivo favore da Aretino e Claudio Tolomei, come pure, successivamente, celebrata da Lodovico Dolce e Battista Guarini, essa venne attaccata, sulle prime, a mezzo di un manoscritto anonimo, datato 5 luglio 1543 e a lungo ritenuto di Bartolomeo Cavalcanti, ma da attribuire quasi certamente allo stesso Giraldi (Roaf, 1959); poi nel 1550, con il titolo di Giudizio sopra la tragedia, per i tipi di Vincenzo Busdraghi di Lucca, che vi annesse anche il testo della Canace. Speroni, sollecitato a rispondere con un’Apologia indirizzata ad Alfonso II d’Este, rimasta però incompiuta, tornò a difendersi con un ciclo di lezioni tenute, tra il 9 e il 27 dicembre 1558, nel consesso degli accademici Elevati, dove venne fatta pervenire un’ulteriore risposta, questa volta in latino e con la firma di Giraldi.

Nel contempo Speroni si era recato a Ferrara per rendere omaggio a Paolo III Farnese (13 aprile 1543), rimanendovi una quindicina di giorni e ritornandovi nel maggio successivo. In questo stesso periodo si infittivano anche i rapporti con il Ducato di Urbino, ch’egli raggiunse una prima volta nel febbraio del 1547 per partecipare, recitandovi un’orazione in morte, alle esequie di Giulia Varano dei duchi di Camerino, sposa dal 1534 di Guidubaldo II Della Rovere. Il 23 novembre 1548 morì la suocera, insieme alla quale Speroni viveva dall’ottobre del 1536, dopo aver lasciato la casa paterna di via Sant’Anna (ora Sperone Speroni) ed essersi trasferito nei pressi della chiesa del Carmine, alla Bovetta, dal nome di uno dei tanti canali che per lungo tempo attraversarono la città. Tuttavia, la necessità di recarsi spesso a Venezia lo indusse a fissare un nuovo soggiorno a Murano, dove frequentò l’Accademia di Paolo Manuzio, abitualmente visitata da intellettuali come Gian Giorgio Trissino, Bembo, Francesco Sansovino e Bernardo Tasso, insieme ai quali, e con il vecchio compagno Navagero, è verosimile che Speroni trovasse un terreno di discussione comune agli interessi editoriali di Manuzio e alle questioni ch’egli aveva già trattato intorno alla lingua dei moderni e alla necessità di volgarizzare i classici.

Gli anni Cinquanta furono caratterizzati da lutti, problemi di salute e rinnovate noie giudiziarie, ma anche dal primo e desideratissimo viaggio di Speroni a Roma («infino allora – avrebbe scritto nel 1578 riferendosi al 1530 – «disiderava di lasciar Padova e venire a Roma», Opere..., cit., p. 250), dove giunse inizialmente nel 1553 per l’elezione di Guidubaldo a capitano generale della Chiesa. Il soggiorno fu breve ma decisivo, poiché l’amore per questa città non sarebbe mai venuto meno. Sta di fatto che Speroni era ancora in patria allorché la tranquillità domestica venne ulteriormente scossa dalla morte, nel 1555, prima di Marsilio e poco dopo di Ubertino, e dalle conseguenti contese ch’egli ebbe con Roberto Papafava per la tutela dei figli di Lucia. La lite, che si protrasse sino al maggio del 1557 per riaccendersi alla morte del suocero, il quale, lasciata erede la moglie, aveva escluso i pronipoti dal testamento, non impedì tuttavia a Speroni di occuparsi di molte altre faccende, tra le quali rimaritare le proprie ragazze: Lucia con Giulio da Porto, Diamante con Antonio Capra. Nell’agosto del 1559 perdette la moglie.

L’occasione di far ritorno a Roma si presentò sul finire del 1560, dopo avere inizialmente rifiutato la richiesta di Guidubaldo di trasferirvisi per aiutarlo nella mediazione di alcuni negoziati e per seguire, come gentiluomo di compagnia, la figlia Virginia, sposa di Federigo Borromeo, fratello di s. Carlo. L’insistenza dell’amico, nonché le prospettive di carriera che gli furono ventilate, indussero tuttavia Speroni a partire da Padova il 12 novembre per giungere nella città il 9 dicembre, ricevuto con grandi accoglienze anche dal papa. Il lungo soggiorno romano gli permise di entrare in contatto con gli intellettuali locali e di far parte, con il nome di Nestore, in ossequio all’oratore antico, dell’Accademia delle Notti Vaticane, di cui fu anche principe. Da Roma dirigeva i propri affari attraverso una fitta corrispondenza epistolare e da qui diede consigli a Bartolomeo Zacco per fondare l’Accademia padovana degli Animosi, così come, più tardi, quella dei Gimnosofisti. Inoltre, la morte di Federigo Borromeo, nel 1562, lo liberò dagli impegni assunti e gli consentì di coltivare a pieno regime i suoi studi, turbati soltanto dalla notizia della stampa, a opera di Sansovino che ne attribuiva la paternità a un autore incerto, di due orazioni ch’egli aveva composto e recitato, rispettivamente, nel 1536 per Jacopo Cornaro e nel 1547 per la menzionata Giulia Varano («non vi è cane in Venezia che non sappia chi è l’autore, non che in Padova o in Urbino», avrebbe poi scritto ad Alvise Mocenigo, l’11 aprile del 1562, Opere..., cit., p. 113), e soprattutto dalla notizia del decesso di Lucia, la figlia prediletta, nel settembre del 1563.

Deluso nelle aspettative (l’unico riconoscimento che ottenne in Roma fu il titolo di cavaliere, conferitogli dal pontefice nell’agosto del 1564), preoccupato per la salute di Diamante e angustiato dalla morte del genero, Giulio da Porto, Speroni deliberò di lasciare l’amata città il 6 settembre per dirigersi nuovamente in patria, dove si sarebbe fatto carico dei nipoti, di cui si definì «non pur tutore ed avo materno, ma servo, medico e balia» (Opere..., cit., p. 251). Perduravano, intanto, le controversie patrimoniali con il fratello minore, che almeno sino al 1571 avrebbe costretto Speroni a continui spostamenti al tribunale di Venezia, e ulteriori noie giudiziarie ebbe anche con Alberto Conti, suo genero, il quale, aiutato dal cognato Antonio Capra, voleva disporre della dote di Giulia.

Un capitolo a parte meriterebbero i rapporti con Torquato Tasso, che Speroni conobbe già nel 1559 allorché Bernardo, per sua mano, gli fece recapitare alcuni canti dell’Amadigi, e successivamente nel 1560, quando il giovane alternava alle lezioni di legge a Padova frequenti visite all’anziano maestro, nella cui «privata camera» scorgeva una sorta «di quella Academia e di quel Liceo in cui i Socrati e i Platoni avevano in uso di disputare» (Tasso, 1964, p. 15). I due s’incontrarono poi nell’autunno del 1571, in occasione di una gita di Alfonso II nei pressi di Monselice, quindi nel novembre del 1573 a Ferrara. Il comune interesse per questioni di poetica, in cui rientra quello per Virgilio, cui Speroni dedicò ben due dialoghi e otto discorsi, costituì il collante di questi primi convegni destinati a esercitare un influsso notevole, nonostante le rispettive vedute, sulla produzione tassiana che seguì (Girardi, 1997). Speroni fu tra i lettori romani del Goffredo nel 1574 e tra i successivi revisori del poema nell’anno seguente, mentre la Canace affiora in quanto modello del tragico aminteo (Guglielminetti, 1983) come pure nei prestiti riscontrabili tra i versi della favola, oltre che in Torrismondo e Gerusalemme (Cremante, 2003). Eppure, a proposito dell’Aminta, un «dilemma secolare» (ricostruito in Gigante, 2007, pp. 117-120) riguarda l’interpretazione di Mopso, il bieco personaggio sotto il quale si volle identificare, tra altri, lo stesso Speroni. Qualunque sia la verità, è certo che i rapporti tra Speroni e Torquato furono sempre cordiali, per lo meno nella forma, anche se le ripetute censure letterarie avanzate dal primo, che nel 1581 avrebbe accusato l’allievo di plagio per la propria Poetica (Opere..., cit., p. 272), di cui peraltro rimangono scarsi frammenti, indispettirono senz’altro l’ormai affermato poeta, come si ricava dal suo epistolario.

Soggiornò a Pesaro nel gennaio del 1570, invitato dall’amico Guidubaldo alle nozze del figlio, Francesco Maria II Della Rovere, con Lucrezia d’Este, e sul finire del 1573 nuovamente a Roma per festeggiare l’elezione a pontefice, con il nome di Gregorio XIII, di Ugo Boncompagni, già sodale nelle Noctes Vaticanae. Nonostante tutto, Roma era per Speroni un porto di quiete rispetto alla mal tollerata Padova, dove ogni faccenda sembrava congiurare alla tranquillità degli studi («Io rifaccio in Roma il tempo mal speso in Padova ed in Venezia, né fo altro che studiare»; «studio più che non facea di anni 25», Opere..., cit., p. 210). A giudicare dalle lettere, però, non furono pochi i disagi ch’egli dovette fronteggiare in un ambiente assai distante dalla semplicità delle sue abitudini e da quel tratto provinciale che lo estraniava dal più raffinato contesto romano: «in Roma, ove son più Padovano che non era in Padova – scriveva già nel 1561 –, ci venni colla mia lingua Padovana e col mio abito consueto [...], co’ miei concetti ed opinioni, per non dir discipline o scienzie, le quali per aventura sono stimate non manco stranie della lingua e dell’abito» (Opere..., cit., pp. 74, 91).

Nell’ottobre del 1574 gli giunse la notizia della morte di Guidubaldo, che lo aveva incaricato di comporre un’orazione in difesa del padre, Francesco Maria I, contro le accuse di tradimento che Francesco Guicciardini gli aveva mosse per non aver difeso Clemente VII dalle truppe imperiali nella primavera del 1527. Nel medesimo tempo subì le censure dell’Inquisizione per i suoi Dialoghi a causa di un’ignota denuncia per vilipendio della morale.

Proibita la vendita del volume ai librai di Roma, l’autore difese i punti controversi dapprima a voce, e con esiti decisamente favorevoli, poi con un’Apologia che inviò agli amici Antonio Riccoboni di Padova e Alvise Mocenigo di Venezia affinché ne facessero circolare le copie («Io mi difesi in voce e li accusatori s’indolcirono assai, ma nella congregazione ogni cosa divenne zucchero e mele. Faccio la Apologia, e la vederete», Opere..., cit., p. 210).

Richiamato a Padova nell’aprile del 1578 per sistemare alcuni affari, come pure dal desiderio di sposare la nipote, Lucia da Porto, con Alberto Cortese (a sua volta nipote della celebre Ersilia), Speroni fu costretto a trattenersi in città nonostante i numerosi inviti che gli erano rivolti da varie corti, tra le quali quelle di Parma e Urbino, e, soprattutto, a dispetto del suo intenso desiderio di fare ritorno a Roma, dove avrebbe voluto finire i suoi giorni («è la mia intenzion di non morire in Padova, ove voi sete, ma a Roma ove sapete che io voglio andare», avrebbe scritto il 18 marzo del 1580 alla figlia, Opere..., cit., p. 269). La vecchiaia, aggravata dall’essere diventato «sordo e cieco o non ben vedente» (p. 289), non frenò in ogni caso il suo ardore intellettuale, e tra le ultime attività cui Speroni si dedicò vi fu la difesa di Dante nelle diatribe letterarie che da poco si erano accese intorno all’autorità del poeta.

Si spense a Padova nella notte del 2 giugno 1588.

Opere. Opere di S. S. degli Alvarotti tratte da’ mss. originali, I-V, a cura di M. Forcellini - N. Dalle Laste, Venezia 1740 (rist. anast., prefazione di M. Pozzi, Roma 1989). Hanno veste moderna: Dialogo delle lingue e Dialogo della rettorica, introduzione di G. De Robertis, Lanciano 1912; Canace e Scritti in sua difesa, a cura di C. Roaf, Bologna 1982; Canace, in Teatro del Cinquecento, I, La Tragedia, a cura di R. Cremante, Milano-Napoli 1988; Lettere familiari, I-II, a cura di M.R. Loi - M. Pozzi, Alessandria 1993; Dialogo delle lingue, a cura di A. Sorella, Pescara 1999.

Fonti e Bibl.: Manoscritti di S. S. degli Alvarotti, Filosofo e Cavalier Padovano, Padova, Biblioteca Capitolare, D 55.

Sulla vita si vedano: A. Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre e sui fratelli di S. S. degli Alvarotti, Padova 1907; Ead., S. S. (1500-1588). Saggio sulla vita e sulle opere, Padova 1909. _Inoltre C. Roaf, A sixteenth century Anonimo. The author of the ‘Giuditio sopra la tragedia di Canace e Macareo, in Italian studies, 1959, pp. 50-74; T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica ‘e del poema eroico’, a cura di L. Poma, Bari 1964; F. Bruni, S. S. e gli «Infiammati», in Filologia e letteratura, 1967, n. 1, pp. 24-72; N. Savarese, In morte di Angelo Beolco detto Ruzante: la Canace dello S., in Biblioteca teatrale, 1976, nn. 15-16, pp. 170-190; M. Guglielminetti, Introduzione, in T. Tasso, Teatro, Milano 1983, pp. VII-XXXIX; A. Daniele, S. S., Bernardino Tomitano e l’Accademia degli Infiammati di Padova, in Filologia veneta, 1989, n. monografico, pp. 1-54; M.T. Girardi, Tasso, S. e la cultura padovana, in Formazione e fortuna del Tasso nella cultura della Serenissima, a cura di L. Borsetto - B.M. Da Rif, Venezia 1997, pp. 63-77; R. Cremante, La memoria della ‘Canace’ nell’esperienza poetica di T. Tasso, in Sul Tasso. Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Luigi Poma, Roma-Padova 2003, pp. 123-159; C. Vasoli, S. S.: la filosofia e la lingua. L’ombra del Pomponazzi e un programma di volgarizzamento del sapere, in Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento, Firenze 2003, pp. 339-360; E. Selmi, Da Erasmo a S. e Barbaro: l’«ordo» della retorica al servizio della «civilitas», in Strutture e forme del ‘discorso’ storico, a cura di A. Olivieri, Milano 2005, pp. 113-140; C. Gigante, Tasso, Roma 2007.

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