SQUILLACE, Leopoldo de Gregorio, marchese di Vallesantoro e di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SQUILLACE, Leopoldo

de Gregorio,
Elena Papagna

marchese di Vallesantoro e di. – Nacque a Messina da Francesco Maria e da Orsola Masnada nel dicembre del 1700 o del 1699, comunque dopo che il genitore fece ritorno da Genova, ove la famiglia, oriunda siciliana, si era stanziata per qualche tempo.

Una lunga tradizione di studi ha enfatizzato le modeste origini familiari del futuro marchese; tuttavia, pur senza dar credito a un’antica discendenza da Gregorio di Bolzano vissuto all’inizio del secondo millennio, è documentato che Leopoldo fu ascritto al patriziato di Messina e negli anni giovanili fu governatore della tavola pecuniaria e senatore. Nella città sposò Giuseppa Mauro, una giovane dell’antica nobiltà urbana da cui ebbe Francesco, Giuseppe, Giovanni, Gerolamo e Maria.

Passò in seguito a Napoli ove la sua carriera decollò negli anni Quaranta, grazie alla partecipazione alla guerra di successione austriaca in qualità di provveditore generale degli eserciti borbonici, dando prova di ottime capacità organizzative che gli valsero l’apprezzamento dei duchi di Castropignano e di Montemar, al comando degli eserciti napoletano e spagnolo, e del marchese di Ensenada, ministro di Filippo V e segretario di Stato e Guerra dell’infante Filippo. Conquistò parimenti il favore del duca di Modena Francesco III d’Este, alleato del re di Napoli, che lo nominò marchese del Sacro Romano Impero e lo investì dei feudi di Trentino e Selvarotta, nel modenese. Per i meriti conseguiti, ebbe da Carlo di Borbone il titolo di marchese di Vallesantoro, nel messinese, e l’ufficio di maestro razionale del tribunale del Real Patrimonio di Sicilia.

Il 1748 rivestì grande importanza nella vita pubblica e privata. Rimasto vedovo, in primo luogo contrasse nuove nozze con la barcellonese Giuseppa Verdugo e Quosnada, figlia di un commissario di guerra conosciuto durante il conflitto antiasburgico, e con lei generò Carlo, Antonio Maria, Emanuele, Angela Maria, Maria Giuseppa, Maria Teresa, Maria Vincenza. Ottenne in secondo luogo la carica, lautamente retribuita, di soprintendente generale delle dogane del Regno di Napoli e, in ottemperanza alle istruzioni ricevute dal segretario d’Azienda Giovanni Brancaccio, si impegnò zelantemente nei suoi compiti e conseguì risultati vantaggiosi per l’erario regio. L’accresciuta stima del sovrano e le protezioni di amici potenti durante il governo di Giovanni Fogliani gli valsero la direzione effettiva della segreteria d’Azienda, formalmente affidata ancora all’anziano Brancaccio a cui sarebbe subentrato nel 1753. Centrale nella sua politica finanziaria fu lo sforzo di riscattare le rendite pubbliche alienate e a tal fine spinse per istituire un’apposita giunta, detta ‘delle ricompre’, che suscitò malcontento tra i danneggiati dalle innovazioni.

La cura per i pubblici affari non distraeva dall’accudimento di quelli privati dello stesso, che si avvalse del favore regio per fare gli interessi suoi e dei suoi protetti. Emblematico si può considerare l’acquisto della città di Squillace, in Calabria Ultra, comprata nel 1750 per 110.261 ducati, rifiutando di soddisfare un sopraprezzo di altri 20.700 ducati, pretesi dal Fisco per l’omessa stima di una miniera. Il siciliano concluse a proprio vantaggio la vertenza grazie alla protezione del re che si dichiarò soddisfatto dell’offerta ricevuta e che di lì a poco, nel febbraio del 1755, gli fornì un’ulteriore e tangibile dimostrazione del suo apprezzamento, conferendogli su quel feudo il titolo marchionale trasmissibile ai successori.

Alla caduta del ministro Fogliani, che nel 1755 si accompagnò alla riduzione delle segreterie e alla suddivisione dei carichi del ministro tra gli altri colleghi, a Squillace andarono, oltre l’Azienda e Commercio che già reggeva, la Guerra, la Marina, l’ufficio di Corriere maggiore e il Fondo lucri. Nella circostanza è probabile che il siciliano, forse non estraneo all’esonero di Fogliani, rimanesse deluso nelle sue aspettative di rilevare tutte le competenze di quest’ultimo e contrariato dall’attribuzione degli Affari esteri, di Casa reale e dei Reali Siti, vitali nella politica del Regno, all’inviso ministro della Giustizia Bernardo Tanucci, suo rivale sulla scena pubblica napoletana.

Ebbe ulteriore prova della regia stima nel 1759 quando, nominato tenente generale onorario e gentiluomo d’entrata, fu tra i pochi italiani a seguire in Spagna Carlo, asceso al trono madrileno lasciando nel Mezzogiorno un re bambino sotto tutela di un Consiglio di reggenza, ove emerse Tanucci. Prima della partenza Squillace riuscì a redigere un Breve rapporto sullo stato delle rendite di questo Regno per istruire Giulio Cesare d’Andrea che gli sarebbe subentrato alla guida di Azienda e Commercio, mentre Antonio del Rio gli sarebbe successo al vertice di Guerra e Marina.

Viaggiò sulla stessa nave del re e con lui entrò a Madrid il 9 dicembre 1759; il giorno precedente era stato nominato segretario di Stato e del dispaccio di Azienda in sostituzione di Juan de Gaona y Portocarrero, conte di Valdeparaíso, il solo ministro di Ferdinando VI rimosso da Carlo III. Ottenne nel 1763 anche la segreteria di Stato e del dispaccio di Guerra, vacante per le dimissioni del ministro irlandese Ricardo Wall, e nell’anno seguente entrò in Consiglio di Stato. Alle cariche politiche aggiunse onorificenze prestigiose come l’abito dell’Aquila bianca di Polonia e il grandato di Spagna, ricevute rispettivamente nel 1763 e nel 1765. Tali riconoscimenti suscitarono la malevolenza e le critiche di molti spagnoli che, prevenuti verso il personale straniero impiegato a corte e nel ministero, contestarono a Squillace sia di avvalersi di risorse pubbliche per favorire i propri clienti sia di conseguire vantaggi personali spropositati, facilitando le carriere dei figli nelle fila dell’esercito e della Chiesa, accumulando ricchezze e conducendo vita lussuosa.

Nei difficili anni Sessanta, funestati dall’ingresso della Spagna nella guerra dei Sette anni a sostegno della Francia e dagli esiti dirompenti della carestia, Squillace ebbe modo di dar prova della sua intelligenza politica, impegnandosi per riordinare la fiscalità, per limitare i poteri delle corporazioni, per affrontare i problemi di ordine pubblico, per innovare e razionalizzare le forze armate, per intraprendere una serie di lavori volti ad ampliare la rete stradale del Regno e a migliorare l’assetto urbano e le condizioni di vita della capitale. Tra i numerosi interventi rientrò il bando del marzo 1766 che vietava il tradizionale uso di lunghi mantelli e cappelli a larga falda, in grado di celare l’identità di chi li indossava, e che il 23 marzo, domenica delle palme, innescò il cosiddetto Motín de Esquilache. L’evento, che fosse sia una rivolta popolare spontanea, scoppiata a seguito della crisi produttiva granaria e del conseguente carovita, sia sobillata ad arte dagli oppositori del riformismo carolino, fu decisivo per le sorti del marchese, esonerato dai suoi incarichi per facilitare il ripristino della pubblica quiete.

Costretto a licenziare il ministro, Carlo III non lo rinnegò e, memore dei vantaggi conseguiti grazie alla sua politica riformistica, si adoperò per facilitarne il ritorno a Napoli, ove il marchese godeva ancora di un certo prestigio, stando alle orazioni elogiative composte per l’occasione da giuristi quali Vincenzo Ambrogio Galdi o Giuseppe Lombardo Longo. Problema più complesso fu il suo reinserimento nella vita pubblica e valsero a poco le raccomandazioni del re a Tanucci che già in passato aveva mostrato a Squillace profonda avversione, mitigata negli anni di lontananza e di separazione delle rispettive sfere di competenza, ma riemergente al ritorno nel regno del siciliano.

Nel luglio dello stesso 1766 preferì lasciare la capitale partenopea, rientrare nell’isola nativa e, in attesa di rilanciare la propria carriera, attendere più comodamente ai propri affari, a incominciare dai festeggiamenti per le nozze della figlia Angela Maria con Giuseppe Paternò Asmundo e Alliata, svoltisi in autunno tra Messina e Palermo. Tra il 1766 e il 1767 visitò il suo marchesato calabrese, prima di tornare nella città sullo stretto e, profittando della confisca di vaste tenute alla soppressa Compagnia di Gesù, effettuare importanti investimenti fondiari. Nel 1768 ottenne il cordone dell’Ordine di S. Gennaro, mentre si rincorrevano, senza concretizzarsi, pronostici sulla sua imminente collocazione in questo o quel prestigioso ufficio.

Per uscire da quella incresciosa situazione, il marchese organizzò una Raccolta di documenti volti ad attestare i meriti conseguiti al servizio dei sovrani borbonici di Napoli e Spagna, sperando di indurli ad affrettare i tempi e a trovargli un impiego adeguato.

La soluzione giunse da Carlo III che nel settembre del 1772 lo nominò ambasciatore a Venezia, una sede diplomatica di secondaria importanza, rimasta vacante per la morte di José Joaquín de Montealegre. L’attività diplomatica di Squillace fu vigile e costruttiva, finché a capo della segreteria di Stato spagnola vi fu il marchese Girolamo Grimaldi; quando subentrò alla fine del 1776 il conte di Floridablanca che impresse nuovi orientamenti alla politica estera, i rapporti con la Serenissima divennero del tutto marginali e irrilevanti le informazioni fornite dall’anziano marchese.

Amareggiato dall’epilogo della propria carriera e provato dalla malattia, morì il 13 settembre 1785 a Venezia dove fu sepolto nella chiesa degli Scalzi.

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