Stampa

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

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Martyn Lyons

Introduzione

L'invenzione della stampa rappresenta una delle numerose svolte che segnarono sia la storia materiale del libro occidentale, sia l'evoluzione del rapporto tra lettore e testo. La prima di tali svolte fu l'invenzione della scrittura stessa nell'epoca della civiltà sumerica, poco prima del 3000 a.C. Un'altra svolta fu costituita dalla comparsa del codice, che gradualmente cominciò a sostituire il volumen nel mondo cristiano intorno al II secolo d.C. I codici presentavano numerosi vantaggi: consentivano di usare sia il verso sia il recto del materiale, erano maneggevoli e potevano essere tenuti con una mano sola, ed erano dotati di numeri di pagina e di indici. Sebbene i governanti europei continuassero a usare il volumen per fini amministrativi, l'affermarsi del codice costituì la prima, autentica rivoluzione nella storia del libro. Allorché, nel corso di un lungo processo, il libro stampato andò progressivamente soppiantando il manoscritto e la tradizione orale, la lettura perse i caratteri di esperienza verbale e collettiva per diventare una pratica silenziosa e individualizzata - una transizione culturale che costituisce un ulteriore punto di riferimento per lo storico del libro e della lettura.

L'invenzione della stampa stessa alla metà del XV secolo deve essere considerata quindi un importante cambiamento in un lungo continuum evolutivo che va dalle tavolette d'argilla, al papiro, agli schermi del computer. Sebbene la stampa abbia innegabilmente contribuito ad accelerare e a rendere duraturo il mutamento culturale in Europa, alcuni studiosi hanno messo in discussione la natura rivoluzionaria di questa invenzione. Sino all'inizio dell'Ottocento, infatti, non vi furono altri cambiamenti radicali nelle tecniche di produzione del libro e nella accessibilità generale della parola stampata. Successivamente, dopo il 1830 circa, l'industrializzazione dell'editoria produsse le condizioni per lo sviluppo di una cultura letteraria di massa.

La stampa non può essere analizzata isolandola completamente dagli altri aspetti del processo di produzione e di recezione della parola stampata. Essa infatti non rappresenta che un elemento in una serie di complesse interazioni attraverso le quali un'opera letteraria viene creata dall'autore e recepita dal lettore. Si potrebbe affermare che l'autore scrive un testo, ma non crea ancora un libro. Il libro stampato è opera dell'editore, del tipografo, degli illustratori, dei rilegatori, dei fabbricanti di carta e di molti altri. La forma materiale che il testo assumerà alla fine è frutto delle decisioni dell'editore in merito al formato, al prezzo e alla distribuzione, decisioni che sono collegate alla circolazione del libro e al pubblico cui è destinato. Le strategie editoriali pertanto determinano la forma materiale specifica che assume un libro stampato, e creano determinate condizioni per la sua recezione.

Per tutte queste ragioni si rende necessario considerare la stampa nel suo contesto sociale ed economico. La storia della stampa può essere descritta come storia di regole e vincoli che limitano la produzione di testi - come ad esempio la censura, la tecnologia disponibile in una data epoca storica, i vincoli di tipo economico e di mercato nelle società capitalistiche e precapitalistiche, e infine i limiti imposti dalle scelte del singolo editore. Inoltre, la stampa deve essere considerata in rapporto ai fruitori della parola stampata, alle norme e alle pratiche che influenzano il modo in cui i lettori la assimilano e la interpretano. Un'analisi storica delle forme del libro e dei suoi mezzi di circolazione consente di storicizzare il rapporto tra lettore e testo. A questo riguardo si rende utile far riferimento al concetto di "circuito della comunicazione" (v. Darnton, 1990). In un punto del circuito si collocano l'autore e l'editore, le cui decisioni determinano ciò che verrà pubblicato. Vi sono poi i tipografi, gli addetti alla composizione e i fornitori di carta e di inchiostro, che controllano l'aspetto materiale del processo di produzione del libro. Da qui il prodotto passa agli spedizionieri e agli agenti di distribuzione, che a loro volta lo distribuiscono ai librai e ai rivenditori al dettaglio, e in passato anche ai rilegatori (sino al XIX secolo, infatti, i libri spesso erano venduti senza rilegatura). Il lettore in qualità di singolo acquirente, frequentatore di biblioteche o membro di un club del libro si colloca alla fine del circuito, che è così completo in quanto l'autore stesso è a sua volta parte del pubblico dei lettori, da cui emerge ed è in certa misura programmato.

La nozione di circuito della comunicazione aiuta a cogliere il processo della stampa e della distribuzione, e mette in luce il ruolo di mediatori culturali svolto dagli editori e dai tipografi. Occorre ricordare che sino al XIX secolo la stampa, la pubblicazione e la vendita dei libri non erano funzioni nettamente distinte. Il tipografo assumeva anche il ruolo di editore, e spesso di rivenditore di libri. Solo al principio dell'Ottocento si ebbe una maggiore specializzazione di questi ruoli professionali, e si affermò la figura dell'editore che recluta autori da un lato e investitori dall'altro, e che analogamente al direttore di orchestra supervisiona l'intero processo di produzione e di vendita.

Da Gutenberg al villaggio globale

La rivoluzione della stampa

L'invenzione dei caratteri mobili metallici per la stampa di testi in Europa viene tradizionalmente attribuita a Johann Gutenberg, attivo nella città tedesca di Mainz alla metà del XV secolo. La tecnica venne poi diffusa in tutta Europa dai suoi operai e collaboratori via via che questi entrarono al servizio della Chiesa, delle università e delle corti di giustizia, nonché di singoli clienti dell'aristocrazia.

L'invenzione di Gutenberg non fu del tutto originale. La stampa infatti, al pari della carta, aveva fatto la sua comparsa in Cina in epoca più antica, ma in quest'area ebbe conseguenze assai più limitate. Ciò va ricollegato forse con il basso livello di alfabetismo della società cinese, laddove in Europa vi era una crescente domanda di libri da parte della borghesia mercantile, della Chiesa e delle autorità politiche, che furono i principali clienti dei tipografi-editori. L'invenzione della stampa si propagò attraverso le fiere internazionali - in particolare quelle di Francoforte e di Lipsia - e le tipografie si moltiplicarono rapidamente nei grandi centri urbani della Germania, dell'Italia settentrionale e dei Paesi Bassi. In un secondo tempo l'invenzione venne adottata in Svizzera, in Francia e in Spagna, mentre fu assai più lenta ad affermarsi in Gran Bretagna, paese che si trovava ancora, all'epoca, in una fase di ristagno culturale rispetto al resto d'Europa.

Nel XVI secolo l'arte della stampa era penetrata in Polonia e nell'Europa dell'Est, e venne introdotta in Perù e a Nagasaki dai missionari spagnoli e portoghesi.Il passaggio da una situazione di alfabetismo ristretto o di 'oligoalfabetismo' a una di alfabetismo diffuso costituiva una minaccia per i monopoli tradizionali del sapere. Con la diffusione della stampa le élites ecclesiastiche in particolare videro la produzione dei libri trasferirsi dai monasteri alle corti, alle università e ai centri commerciali. La stampa apriva agli individui l'accesso a nuovi modi di pensare, e li invitava a riflettere criticamente sulle istituzioni consolidate e sulle verità religiose. Per queste ragioni le élites condannarono la propagazione del sapere, in quanto sembrava implicare un rifiuto dell'autorità. Nel 1485 l'arcivescovo di Mainz proibì le traduzioni di opere teologiche in tedesco perché, a suo avviso, esse avrebbero falsificato la verità. Per i tradizionalisti l'effetto della diffusione della stampa non era quello di democratizzare il sapere, che ai loro occhi richiedeva sempre spiegazioni e interpretazioni autoritative, ma quello di diffondere l'ignoranza e di disseminare testi corrotti e fallaci. La promiscuità del libro stampato era frequentemente condannata, come attesta il motto: "Est virgo hec penna, meretrix est stampificata" ("la penna è una vergine, la stampa una meretrice"; v. Ginzburg, High..., 1976).

La tesi del carattere rivoluzionario dell'invenzione della stampa è stata sostenuta principalmente dalla storica americana Elizabeth Eisenstein (v., 1979). Secondo questa interpretazione, la stampa avrebbe reso possibile per la prima volta una diffusione della letteratura assai più ampia. Mentre gli amanuensi erano in grado di copiare solo tre o quattro pagine di testo al giorno, la stampa rese possibile una produzione assai più rapida. Arrivando al XVI secolo, tirature di 1.000 o 1.500 copie erano diventate la norma; grazie all'aumento del numero di copie in circolazione, gli studiosi europei non erano più costretti a cercare versioni rare di testi fondamentali.

La stampa, sempre secondo la studiosa americana, apportò un mutamento non solo quantitativo ma anche qualitativo, in quanto conferì al testo scritto una nuova durata, consentendogli di restare in circolazione assai più a lungo che in passato. Prima del Rinascimento, ad esempio, vi erano stati parecchi revivals della cultura greca, ma essi non ebbero un impatto durevole. Dopo l'invenzione della stampa, i testi antichi furono costantemente disponibili, e non dovettero essere riscoperti dalle generazioni successive.La transizione dal libro manoscritto al libro stampato costituì una rivoluzione, afferma Eisenstein, in quanto grazie a essa la pronunzia, il vocabolario e la lingua stessa vennero uniformati. Anche i migliori amanuensi potevano commettere almeno un errore a pagina, cosicché ogni versione manoscritta di un testo era in qualche modo unica; con l'affermarsi della stampa, per contro, le copie uniche lasciarono il posto alle edizioni standard. Ciò rivestiva una particolare importanza nella composizione di mappe e di dizionari accurati, in cui la precisione aveva un ruolo di vitale importanza.

L'avvento dei testi stampati, che comportò un'accessibilità senza precedenti della cultura scritta, trasformò la vita degli studiosi, consentendo loro di consultare e di confrontare diversi testi contemporaneamente. La stampa rese possibile il lavoro dello studioso quale lo conosciamo oggi, che comporta la verifica e il confronto delle fonti.

Con la circolazione di un numero relativamente alto di copie di testi standard, il lavoro degli studiosi del passato diventava realmente accessibile ai ricercatori: anziché affrontare ogni volta i problemi ex novo, essi potevano basarsi sul lavoro compiuto dai predecessori, e il sapere divenne effettivamente cumulativo. Furono questi sviluppi che consentirono a Copernico di rielaborare gli antichi calcoli di Tolomeo, invertendo le posizioni relative del Sole e della Terra, e di formulare una teoria eliocentrica.

La tesi secondo cui l'invenzione della stampa segnò una rivoluzione nella cultura europea, per quanto valida nel suo complesso, richiede una serie di precisazioni e di sfumature. In primo luogo le argomentazioni esposte sopra valgono principalmente per le élites colte, ma non per la massa della popolazione, che rimase legata per secoli dopo l'invenzione di Gutenberg a una ricca cultura orale in larga misura al di fuori dell'universo della parola stampata. La stampa non costituiva necessariamente una rivoluzione per i contadini europei, se non nel senso che essa offriva nuovi strumenti di dominio ai loro oppressori - governi, nobiltà, clero, uomini di legge ed esattori delle imposte. L'impatto della stampa pertanto deve essere valutato attentamente in rapporto ai diversi livelli di alfabetismo, nonché alle differenze di status sociale e professionale e di genere. Nell'Europa del XVI e del XVII secolo i proprietari di libri rappresentavano una ristretta élite sociale, come dimostrano i testamenti e gli inventari post mortem. Ad esempio a Valencia, nel XVI secolo, nove ecclesiastici su dieci possedevano libri, mentre i proprietari di libri erano rispettivamente uno su tre fra i mercanti e uno su dieci tra gli artigiani. Analogamente, a Canterbury tra il 1620 e il 1640 il 90% dei membri delle professioni liberali e il 50% degli artigiani tessili possedevano libri, ma la percentuale scendeva al 33% per gli operai edili. Questi esempi non dicono nulla di specifico sulle dimensioni delle biblioteche personali, ma indicano che l'impatto della stampa non fu affatto omogeneo.In secondo luogo, la stampa non ebbe ripercussioni immediate sul repertorio dei testi pubblicati; perlomeno agli inizi, vi fu una considerevole continuità tra i libri stampati e i libri manoscritti.

Talvolta gli amanuensi continuarono addirittura a produrre copie manoscritte di libri stampati. La stampa non permise solo la proliferazione dei testi critici ed eretici della Riforma protestante, ma contribuì anche alla diffusione dei testi tradizionali dell'ortodossia cattolica. Non vi fu alcuna rottura improvvisa nella tipologia dei testi prodotti. È stato calcolato ad esempio che il 77% dei libri stampati prima del 1501 (gli incunabula) era ancora in latino, e il 45% era costituito da testi religiosi. Una delle conseguenze della stampa, secondo Lucien Febvre, fu la proliferazione di testi liturgici e devozionali (v. Febvre e Martin, 1971). La fucina dell'attività editoriale controriformistica fu Parigi, che sfornò breviari, libri di preghiere e messali. La diffusione della stampa, di conseguenza, rafforzò i pregiudizi esistenti non meno di quanto contribuì a diffondere nuove idee.

Armando Petrucci (v., 1977) ha classificato i libri dell'epoca rinascimentale in base al loro formato e agli usi cui erano destinati. Egli distingue così il libro scolastico, o 'libro da banco', sia manoscritto che stampato, con il testo in due colonne, in formato grande e con margini piuttosto ampi per le annotazioni. Il libro da banco, usato principalmente nelle università, adottava la scrittura gotica. Come indica lo stesso nome, si trattava di un testo piuttosto voluminoso e di argomento erudito, che veniva posato sul banco dello studioso. Nel 'libro umanistico', invece, i caratteri usati erano quelli classici anziché gotici e il testo occupava l'intera pagina. I suoi principali fruitori erano i borghesi benestanti o le loro mogli istruite. Quello che nella tipologia di Petrucci viene chiamato 'libro da bisaccia' era di carattere più popolare, e si distingueva per il formato piccolo e per l'uso della scrittura gotica con caratteri piuttosto grandi; il testo era su due colonne e corredato di illustrazioni, ma senza margini. Come indica il nome, questo tipo di libro era destinato principalmente ai mercanti, ai frati predicatori, ai pellegrini e agli artigiani. Tutti questi tipi di libri, sia che fossero destinati a un pubblico colto oppure più popolare, erano semplici imitazioni dei libri manoscritti. Non esisteva dunque una netta separazione tra libro manoscritto e libro stampato, poiché entrambi erano parte dello stesso processo di produzione e di diffusione. Questo approccio al problema mette l'accento non tanto sulla specifica tecnologia di produzione, quanto sugli usi dei libri e sul pubblico cui erano destinati.

La storia della 'mise en texte' e la figura di Aldo Manuzio

Il libro stampato ereditò molte delle convenzioni di quello manoscritto, ma gradualmente impose e sviluppò i propri criteri di impiego e di distribuzione dello spazio tipografico. Si dovettero creare, ad esempio, nuove forme di punteggiatura per la stampa. Spesso nei primi libri stampati era il lettore stesso a dover provvedere a numerare le pagine, a evidenziare le maiuscole in rosso e ad aggiungere la punteggiatura. All'inizio, quindi, i testi stampati erano simili ai manoscritti, ma col tempo i tipografi assunsero sempre più il controllo editoriale del testo. Nella nuova edizione di Ovidio pubblicata nel 1502 dal grande tipografo-editore veneziano Aldo Manuzio il compito di numerare le pagine del testo e degli indici era ancora lasciato al lettore, ma in seguito a ciò provvide l'editore stesso.

La stampa riduceva così la partecipazione alle funzioni editoriali del lettore, che non fu più libero di manipolare e di 'segnare' il testo. Ben presto non gli rimase altro da fare se non aggiungere annotazioni separate per il proprio uso personale. Vi fu un significativo cambiamento nel rapporto tra testo e note. Le glosse a margine erano una caratteristica dei libri manoscritti, ma Aldo Manuzio adottò la tecnica delle note stampate alla fine del testo. Ciò segnò un netto passo in avanti rispetto al libro medievale, in cui il testo talvolta era circondato su tre lati da note a margine, e ridotto a proporzioni esigue per lasciar posto a estese glosse che di fatto costituivano l'elemento principale della pagina. I tipografi rinascimentali come Aldo Manuzio eliminarono le note e ridiedero al testo la priorità. Tale metodo d'altro canto andava incontro alle esigenze degli autori riformisti, desiderosi di fare piazza pulita dei commentari scolastici e di ritornare ai fondamentali delle Scritture.

Il punto interrogativo aveva fatto la sua comparsa già nei libri manoscritti, ma le parentesi e il punto esclamativo cominciarono a essere usati solo nel XV secolo. Il frontespizio fu un'altra innovazione del libro stampato, così come il margine giustificato a destra. Le divisioni in paragrafi erano usate assai di rado prima del XVI secolo. Una delle opere in cui esse vennero adottate in tutto il testo fu il Discours de la méthode di Descartes, in quanto l'autore non si rivolgeva qui a una ristretta cerchia di intellettuali, ma mirava a raggiungere un pubblico più vasto di lettori con diversi livelli culturali. In altre sue opere, tuttavia, Descartes fu riluttante a usare le divisioni in paragrafi, in parte perché si trattava di opere destinate a un pubblico di accademici, in parte al fine di economizzare sulla carta, che all'epoca assorbiva circa la metà dei costi di produzione del libro (v. Chartier, 1995). Le moderne divisioni della Bibbia in capitoli e versi risalgono anch'esse al periodo della stampa. Sebbene la Bibbia fosse stata divisa in capitoli nel XIII secolo, questo sistema entrò definitivamente nell'uso nel 1549, con l'edizione dell'editore parigino Robert Éstienne.I più importanti tipografi del Rinascimento non erano semplici artigiani, ma veri e propri editori che avevano stretti contatti con gli intellettuali del loro tempo.

Una delle figure più significative in questo campo fu quella di Aldo Manuzio, che iniziò la sua attività a Venezia, uno dei principali centri europei della produzione del libro in epoca rinascimentale (v. Lowry, 1979). Manuzio introdusse numerose innovazioni. Imitando le iscrizioni romane, contribuì all'affermarsi dei caratteri italici, da cui discendono i caratteri tipografici moderni. Egli cercò di brevettare la propria invenzione, e il Senato veneziano gli conferì il monopolio legale, ma in assenza di un accordo internazionale che ne garantisse l'osservanza, Manuzio non fu in grado di impedire ad altri di adottarla. Nel XVI secolo la scrittura comunemente usata nelle università e nei testi di argomento giuridico e teologico era il gotico, che rimase la 'textura' più adoperata per i testi popolari stampati in Germania, in Austria e nei Paesi Bassi. Martin Lutero, ad esempio, adoperò per la stampa dei suoi primi scritti il tondo 'romano', ma passò al gotico quando si propose di raggiungere un pubblico più vasto di lettori. Alcune versioni dell'italico, tuttavia, venivano adoperate anche nei paesi nordici per le edizioni dei classici e altre opere in lingua destinate alla borghesia colta.

All'inizio del XVI secolo Aldo Manuzio introdusse nuove strategie editoriali. Tra il 1501 e il 1502 pubblicò le sue celebri edizioni di Dante e di Petrarca, con una collana di titoli sia in latino che in volgare. Queste edizioni furono le prime a essere stampate con i nuovi caratteri italici, e vennero pubblicate nel formato relativamente piccolo in ottavo, la qual cosa rappresentava una rivoluzione per le edizioni dei classici. Manuzio eliminò tutte le glosse e i commentari, al fine di presentare al lettore il testo fondamentale (v. Richardson, 1994). La decisione di includere in una edizione dei classici autori moderni come Dante e Petrarca, inoltre, significava riconoscere loro lo stesso status di Virgilio e di Orazio. Per tutte queste ragioni l'opera di Manuzio costituisce un modello dell'arte tipografica del periodo rinascimentale.

Stampa, umanesimo e Riforma protestante

Con lo sviluppo delle biblioteche umanistiche durante il Rinascimento nacque l'esigenza di un nuovo genere di letteratura in grado di assistere e di informare i collezionisti di libri. Apparvero quindi sempre più numerosi i cataloghi e le bibliografie che avevano il compito di descrivere, catalogare e classificare il patrimonio librario esistente. Questi sviluppi rientrano nel quadro di quello che Chartier (v., 1992) ha definito il nuovo "ordine dei libri". La classificazione del sapere diede nuovo spazio alle arti liberali - grammatica, retorica e poesia -, alla storia e alla geografia, nonché alle arti pratiche come la matematica, la geometria e l'astronomia; i testi di teologia, le dispute religiose, le opere liturgiche e devozionali e la storia della Chiesa persero quindi la preminenza che avevano in passato.

La classificazione dei libri rifletteva una 'archeologia del sapere' che sopravvisse sino al XIX secolo. Si trattava nondimeno di una classificazione conservatrice, che continuava a istituire un ordine gerarchico tra le varie categorie: teologia e filosofia; giurisprudenza; storia, geografia e biografia; scienze e arti (medicina, fisica, chimica e storia naturale), e infine le belles-lettres (poesia, teatro e critica letteraria), una categoria destinata a dilatarsi a dismisura con l'esplosione della narrativa alla fine del XVIII secolo. Questo tipo di classificazione prendeva atto delle realtà politiche, in quanto le categorie principali erano quelle funzionali alle priorità delle monarchie assolute, mentre le arti liberali erano le ultime nella scala di importanza.

Spesso è stata istituita una connessione tra l'invenzione della stampa e lo sviluppo del protestantesimo in Europa. Secondo Bob Scribner, ad esempio, "la Riforma fu innegabilmente parte di un processo di transizione dalla cultura dell'immagine alla cultura stampata" (v. Scribner, 1981, p. 229). Esistono parecchie ragioni che giustificano tale connessione. Tra i seguaci di alcune eresie medievali, come i valdesi, i lollardi e gli hussiti il tasso di alfabetismo era piuttosto elevato (v. Scribner, 1994), e lo stesso vale in generale per i paesi riformati dell'Europa moderna, in cui la letteratura religiosa, le raccolte di poesie e di racconti popolari, gli opuscoli e i Volksbücher ebbero una notevole fioritura. La propaganda della Riforma si basava su questi brevi ed effimeri Flugschriften (v. Scribner, 1981). Ad Amsterdam, nel 1680, il 70% degli uomini e il 44% delle donne erano in grado di scrivere il proprio nome. Tra i luterani svedesi l'alfabetismo era piuttosto diffuso (sebbene in questo caso le letture fossero controllate e limitate in base alle esigenze della Chiesa luterana). La Riforma, si è affermato, si rivolgeva a uno strato sociale formato in prevalenza da artigiani istruiti che erano già in grado di leggere i caratteri stampati. Lo studio di Sara Nalle (v., 1989) sulle attività dell'Inquisizione nella diocesi di Cuenca, tuttavia, ci induce a non sopravvalutare il nesso tra protestantesimo e alfabetismo. A Toledo all'inizio del XVII secolo, prima dell'Inquisizione, il 62% della popolazione maschile era in grado di scrivere il proprio nome - una quota sorprendentemente alta per la Spagna controriformista.

Il dogma protestante del 'sacerdozio di tutti i fedeli' presupponeva la capacità di leggere le Scritture. Secondo Lutero, i cristiani non avevano bisogno né dell'intervento della scolastica, né della mediazione del pontefice e dei suoi ministri per stabilire un contatto diretto con Dio. Tutti potevano leggere la sua parola nella Bibbia, e cogliere autonomamente le semplici verità in essa contenute. Poiché la Bibbia era ora accessibile nelle lingue volgari, ognuno avrebbe potuto garantirsi la salvezza attraverso una lettura personale delle Scritture. Purtroppo l'edizione in volgare del Nuovo Testamento, apparsa nel 1522, era al di fuori della portata economica della maggioranza dei luterani. La stessa Bibbia luterana, stampata in Germania nel 1534, costava l'equivalente di un mese di salario di un operaio medio. Nell'epoca di Lutero ne vennero stampate probabilmente 200.000 copie, ma nemmeno i pastori nella maggioranza dei casi potevano permettersi di acquistarne una.

Tuttavia, come ha dimostrato Chrisman (v., 1982) nel suo studio sulla città di Strasburgo, il possesso di una Bibbia stampata in volgare non costituiva il principale criterio di adesione religiosa. Molti possedevano copie dei Salmi, parti del Nuovo Testamento, libri di preghiere, opuscoli e libelli anticlericali. Erano questi i mezzi più comuni di diffusione del protestantesimo attraverso la stampa. Il breve pamphlet di Lutero intitolato An den christlichen Adel deutscher Nation: von des christlichen Standes Besserung, pubblicato nel 1520, vendette 4.000 copie in tre settimane, e arrivò alla tredicesima edizione in due anni (v. Febvre e Martin, 1971), e può essere considerato una sorta di best-seller dell'epoca, in grado di raggiungere un pubblico di massa.

Stampa e nazionalismo

Nonostante il progressivo affermarsi del volgare nella produzione libraria, il latino restava indispensabile come mezzo di comunicazione internazionale. Come abbiamo accennato in precedenza, il 77% degli incunabula che ci sono giunti è scritto in latino, e fu questa la lingua in cui venne pubblicata la maggior parte dei libri in quasi tutti i paesi europei. Facevano eccezione la Gran Bretagna, dove il 55% dei primi libri a stampa (prima del 1501) era in inglese, e la Spagna, in cui il 52% della produzione libraria era costituito da testi in castigliano o in catalano (v. Hirsch, 1977). In Francia, la monarchia cercò di limitare l'uso del latino nelle attività amministrative. L'editto reale di Villers-Cotterets del 1539 decretava la sostituzione del latino col francese nei documenti ufficiali. Tra il 1450 e il 1650 circa, tuttavia, la lingua latina conobbe il periodo della sua massima fioritura, e veniva usata da umanisti bilingui come Erasmo e More. Restava indiscusso il suo predominio nel mondo accademico; i testi di giurisprudenza, medicina e teologia continuarono a essere scritti in latino.

Nel 1778, alla Fiera del libro di Francoforte, accanto a 1.821 testi in tedesco venivano offerti 348 titoli in latino. Il latino continuò a essere usato sino all'inizio del XIX secolo come lingua di insegnamento nelle università olandesi, e sino al 1848 rimase la lingua ufficiale delle sessioni della Dieta ungherese.Il latino sopravvisse dunque tenacemente nella diplomazia, nell'insegnamento e nel mondo accademico. Nello stesso tempo le lingue volgari cominciarono a essere formalizzate nella stampa, e acquistarono crescente visibilità per coloro che le usavano come lingua parlata. Da questo sviluppo prende le mosse la tesi di Marshall McLuhan (v., 1962), ripresa sotto certi aspetti da Elizabeth Eisenstein (v., 1979), secondo cui la stampa avrebbe favorito la crescita del nazionalismo in Europa. Alla base dell'argomentazione di McLuhan vi è la graduale standardizzazione delle lingue nazionali in forma scritta e stampata, e la concomitante erosione di altre lingue e dialetti. Si trattò, però, di un processo lungo e complesso, caratterizzato da una costante interazione tra lingua scritta e lingua parlata. I lettori del Rinascimento richiedevano testi in latino accurati ed edizioni in volgare chiare e comprensibili.

Ma quale era la lingua nazionale nel mosaico di lingue che dominava, ad esempio, in Francia o in Italia? Non esisteva una versione standard di una lingua nazionale italiana, sebbene il toscano del XIV secolo a motivo del prestigio letterario di Boccaccio, Dante e Petrarca esercitasse una grande influenza sui tipografi-editori, persino su quelli attivi a Venezia. Il volgare era in costante evoluzione nei testi stampati. Il toscano venne standardizzato molto gradualmente, perdendo alcune delle più evidenti caratteristiche latine (v. Richardson, 1994). Gli editori dovettero incrementare la produzione di grammatiche che spiegavano il volgare da loro usato al nuovo pubblico di lettori.I dialetti però non scomparvero con la diffusione della stampa, in quanto continuavano ad assolvere importanti funzioni per la popolazione locale. In Francia il francese scritto era la lingua ufficiale, ma per la comunicazione quotidiana venivano usati il patois e altre lingue come il fiammingo, il tedesco, il provenzale, il basco o il bretone.

Secondo le stime dell'abate Grégoire, nel 1794 almeno sei milioni di francesi (su una popolazione complessiva di 27 milioni) non conoscevano il francese, e altri sei milioni non erano in grado di sostenere una conversazione in tale lingua (v. Lyons, 1991). Alla fine del XVIII secolo solo una minoranza della popolazione di entrambi i sessi era esclusivamente francofona. Per milioni di cittadini, di conseguenza, la Rivoluzione francese, così come gli affari della monarchia borbonica, si svolsero in una lingua straniera. Le notizie circolavano attraverso la stampa, ma gli eventi spesso erano percepiti attraverso la mediazione della borghesia e della Chiesa.Per queste ragioni l'idea di un rapporto causale diretto tra stampa e nazionalismo sembra difficilmente sostenibile. Il nazionalismo moderno non si affermò che nella seconda metà del XIX secolo, ben cinque secoli dopo l'invenzione della stampa in Europa. La diffusione della stampa, tuttavia, aveva accentuato una linea di discrimine culturale tra lingua scritta e stampata da un lato, e lingua parlata dall'altro. Le lingue nazionali furono funzionali allo sviluppo di un 'alfabetismo burocratico' e alle esigenze dello Stato nazionale, mentre le lingue parlate, usate negli scambi quotidiani delle popolazioni contadine, non sempre necessitavano di una forma stampata.

Lo sviluppo dello Stato nazionale e delle sue funzioni ebbe come conseguenza la diffusione generalizzata dell'alfabetismo. Nel XIX secolo ai cittadini era richiesta una notevole quantità di documenti: certificati di battesimo, di buona condotta, di buona salute se si proveniva da un'area infetta, passaporti, bolle di consegna, licenze per esercitare una professione, per comprare un cadavere, per vuotare le latrine e via dicendo. Portare avanti un contenzioso richiedeva un livello relativamente elevato di familiarità con le fonti documentarie, per contestare le prese di possesso o per verificare i documenti comprovanti un titolo di proprietà. Gli accordi verbali o simbolici tuttavia potevano ancora avere forza di legge. Nel 1811 il Codice amministrativo austriaco in vigore nel Lombardo-Veneto dichiarava validi i contratti stipulati "in voce o in iscritto" (v. Marchesini, 1992). Sebbene il passaggio a un mondo di documenti burocratici fosse lento e graduale, il periodo compreso tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX può essere considerato una fase decisiva per quanto riguarda la mediazione tra lo Stato e i cittadini attraverso documenti scritti o stampati. Come conseguenza, lo Stato divenne un'entità sempre più distante e impersonale. Nel 1829 Maria Luisa di Parma concedeva ancora quattro udienze al mese, presentandosi personalmente ai sudditi del suo piccolo ducato, ma si trattava di una prassi in via di estinzione. Dopo il 1832 i postulanti dovevano scrivere le loro richieste su moduli stampati, e nel caso queste fossero state accolte, la data in cui sarebbero stati ricevuti da Sua Maestà veniva loro notificata per iscritto.

Il 'villaggio globale'

La tesi dell'effetto rivoluzionario della tecnologia della stampa sulla cultura occidentale è stata sostenuta principalmente dal sociologo canadese Marshall McLuhan (v., 1962). Secondo la sua teoria, la cultura stampata avrebbe cambiato i modelli di pensiero e di percezione, e avrebbe altresì avuto un effetto disgregante sui vincoli di solidarietà tra i membri della comunità. Alla base della teoria di McLuhan vi è la contrapposizione tra il ruolo dominante della tecnologia della stampa nel mondo occidentale - la cosiddetta 'galassia Gutenberg' - e una visione alternativa della cultura basata sui mezzi di comunicazione uditivi e tattili. Secondo il sociologo canadese, l'invenzione della stampa alterò in modo radicale l'equilibrio tra le facoltà sensoriali, determinando una preponderanza della vista sull'udito. Essa separò le funzioni del visivo e del sonoro, determinando una crescente specializzazione dell'attività sensoria. La stampa privilegia l'occhio, e nell'homo typographicus postulato da McLuhan la vista rappresenta la facoltà sensoriale dominante, mentre l'udito e il tatto cadono gradualmente in disuso. Nell'età della stampa, l'uomo si allontanerebbe dalle proprie origini tribali e collettive. Non più a portata d'orecchio del tam tam del villaggio, egli è solo con la pagina stampata, che lo induce a pensare in solitudine e nel modo lineare imposto dalla stampa.

Si tratta, secondo McLuhan, di una duplice forma di alienazione. In primo luogo l'individuo è alienato dal suo ambiente sociale. La cultura stampata incoraggia la riflessione individuale e la critica delle usanze del gruppo che in passato, nelle comunità tradizionali fortemente coese, non venivano messe in discussione. La stampa dunque contribuisce a distaccare l'individuo dalla comunità, rendendolo vittima di un processo di 'detribalizzazione'.In secondo luogo l'homo typographicus è alienato dalle proprie percezioni sensoriali; queste sono diventate separate, specializzate e compartimentate per effetto della cultura stampata, in cui la lettura ha conferito alla vista il predominio su tutti gli altri sensi. L'uomo post-Gutenberg sarebbe stato cacciato dal paradiso acustico in cui un tempo si muoveva felicemente, come individuo integrato in una comunità dotata di senso. Secondo questa tesi, peraltro controversa, l'acquisizione della capacità di leggere la scrittura stampata equivale a una significativa perdita culturale.

La redenzione sarebbe rappresentata, secondo McLuhan, dall'avvento dei nuovi media elettronici. Cinema, radio e televisione, il sistema stereo Dolby e i videoregistratori ci avrebbero restituito il ricco universo uditivo in cui vivevamo in passato. Le nostre percezioni sensoriali, non più circoscritte alle esigenze della comunicazione stampata, possono recuperare valori perduti. Il nostro senso del suono e le nostre percezioni visive non lineari vengono riabilitate. Per McLuhan, il mondo perduto della tribù viene così ricreato, questa volta su scala globale. Il 'villaggio globale' abbraccia dunque un mondo che si è svincolato dal dominio della stampa per diventare più unificato e omogeneizzato a seguito della diffusione dei mass media del XX secolo. McLuhan, ovviamente, ritiene positivo questo sviluppo, che rappresenterebbe una rinascita dell'"Africa dentro di noi".

Le teorie del sociologo canadese, tuttavia, risultano insoddisfacenti per lo storico in quanto non forniscono un'analisi della mutevole influenza della stampa nel corso di parecchi secoli di evoluzione della cultura occidentale. Questa evoluzione viene compressa sino a farla apparire completa non appena incominciata. Nella prospettiva della sociologia storica, d'altro canto, la teoria di McLuhan ha il difetto di trascurare l'analisi dell'impatto della cultura stampata sui diversi strati sociali in diversi periodi dell'evoluzione storica. Altrettanto insoddisfacenti appaiono le sue analisi allo studioso di scienza politica, che cercherà invano nell'opera di McLuhan una spiegazione del perché per alcuni gruppi la diffusione della stampa comportò un'acquisizione di potere, mentre per altri un indebolimento della loro posizione. Un'altra importante questione alla quale McLuhan non presta la debita attenzione concerne l'identificazione dei detentori dei media elettronici, e il potere che essi esercitano sugli altri abitanti del villaggio globale idealizzato. Ciononostante, occorre riconoscere che il sociologo canadese ha fornito una serie di concetti estremamente stimolanti (ad esempio quello di 'villaggio globale') per lo studio dei media e della loro rilevanza sociale. È qui che risiede soprattutto l'originalità della sua analisi della cultura stampata.

Cultura popolare e cultura stampata

Il mondo della cultura popolare rimase in larga misura escluso dalla cultura stampata sino a buona parte del XIX secolo. Il quadro presentato dallo storico Robert Mandrou, secondo il quale i contadini francesi nelle sere d'inverno si raccoglievano intorno al camino per leggere racconti a voce alta, non trova conferma nelle testimonianze storiche.

Studi più recenti sulla veillée contadina (v. Lyons, 1986) indicano che la presenza di libri era estremamente rara, e che il principale scopo di queste sedute collettive era quello di lavorare condividendo le scarse risorse di luce e di calore. La lettura collettiva durante la veillée contadina può essere considerata una pratica culturale che i membri dell'élite ritenevano altamente auspicabile per una più completa cristianizzazione della società rurale. Sussisteva nondimeno una discrepanza tra ciò che gli estranei desideravano e ciò che i contadini facevano effettivamente. Non si può negare tuttavia che tra cultura scritta e cultura orale vi fosse un interscambio, con un continuo processo di mutuazione e di contaminazione reciproca.La cultura popolare in forma scritta tra il XV secolo e la seconda metà del XIX secolo è spesso associata al consumo di opuscoli a buon mercato - chap-books in Inghilterra, pliego de cordel in Spagna, la cosiddetta bibliothèque bleue in Francia. Si trattava di testi brevi caratterizzati da costi e prezzi molto bassi, stampati su carta grossolana, a volte rilegata con la carta azzurra dei pacchi di zucchero - da qui il nome francese. La produzione di questo tipo di letteratura sopravvisse per secoli; distribuita in milioni di copie, venduta nelle campagne dagli ambulanti, essa fece la fortuna di pochi editori specializzati. In Francia nel 1848 esistevano 3.500 rivenditori al dettaglio autorizzati, e sotto Napoleone III vendevano un totale di 40 milioni di testi all'anno. In quest'epoca, tuttavia, i colporteurs della bibliothèque bleue erano in via di estinzione (v. Darmon, 1972).

La produzione della bibliothèque bleue rimase vicina alle tradizioni della cultura popolare orale (v. Mandrou, 1964; v. Spufford, 1981). Circa il 15% dei testi era rappresentato da miti e fiabe popolari, e oltre il 25% da opere pie, catechismi, libri di preghiere, vite dei santi, consigli sull'arte di tingere e sermoni illustrati come la Danse macabre. Circa il 18% delle pubblicazioni, secondo Mandrou, era costituito da testi o manuali di utilità pratica - in particolare calendari e almanacchi, che includevano ricette e consigli di medicina e di magia. Le profezie e le previsioni del tempo erano collegate direttamente con le esigenze dell'agricoltura, sicché questo tipo di letteratura costituiva un'utile guida per la vita quotidiana. Un altro 18% dei titoli della bibliothèque bleue era rappresentato da opere narrative - farse popolari, poemi burleschi, canzoni conviviali e testi scatologici, come The cuckold's consolation e L'art de péter. Le fiabe, i racconti cavallereschi, le farse e i testi di magia secondo Mandrou avevano un ruolo preminente in questa letteratura popolare. Un genere di largo consumo era costituito dalla narrativa che tendeva a incoraggiare la conformità sociale confermando la gerarchia sociale esistente, rafforzando i valori patriarcali e il ruolo sottomesso delle mogli e delle figlie.Un'interpretazione diversa è offerta da Geneviève Bollème (v., 1971), secondo la quale il pubblico popolare solitamente associato a questa letteratura dozzinale nel XVII e nel XVIII secolo di fatto era in larga misura analfabeta.

Quali erano dunque i lettori di questo particolare genere di letteratura popolare? Secondo Peter Burke (v., 1978) esisteva una commistione naturale tra letteratura popolare e letteratura d'élite già prima del XVII secolo, sicché non era insolito trovare testi della bibliothèque bleue nelle biblioteche della nobiltà. A partire dal XVII secolo, però, le classi superiori si sarebbero allontanate dalla letteratura popolare, che consideravano ora volgare, oscena e intrisa di superstizioni. Bollème dal canto suo ha avanzato l'ipotesi che i lettori della bibliothèque bleue non fossero affatto costituiti da contadini illetterati, bensì da artigiani e da borghesi. Ciò spiegherebbe la presenza tra i testi pubblicati nell'epoca dei Lumi di manuali che insegnavano a redigere lettere d'affari, d'amore e di condoglianze - si sarebbe trattato dunque di una letteratura destinata a un pubblico perlomeno semialfabeta. La letteratura popolare era all'epoca in costante evoluzione. L'almanacco tradizionale poteva essere usato, ad esempio, per divulgare le scoperte scientifiche, e in una grande città poteva altresì fornire una guida alla corte e alle vedute della città (v. Braida, 1989).

Questa letteratura aveva dunque un pubblico misto, e non può essere considerata come espressione di una cultura puramente popolare.I testi di questa letteratura per il consumo popolare inoltre non erano scritti da autori appartenenti agli strati sociali inferiori. Di solito gli autori erano anonimi: i racconti popolari erano praticamente testi senza autori, assemblati da editori che si rivolgevano a un pubblico con limitate capacità di lettura. Come ha messo in luce Chartier (v., 1982), le pubblicazioni della bibliothèque bleue spesso erano costituite da estratti e manipolazioni di testi colti, ad esempio di Boccaccio o di Quevedo, o di una letteratura destinata un tempo alle élites di corte, che venivano adattati a un pubblico popolare. Viene in mente a questo proposito la tesi gramsciana della cultura popolare come una sorta di macchina del tempo, che raccoglie idee e pratiche dismesse dalla cultura ufficiale. I testi colti venivano rielaborati e ristampati per un pubblico popolare ricorrendo a varie strategie editoriali, come ad esempio quella di abbreviare i testi, o di introdurre un maggior numero di interruzioni di capitoli e di paragrafi. Nello stesso tempo, si procedeva a emendare i testi eliminando i riferimenti blasfemi e sessuali; gli editori, quindi, operavano una sorta di autocensura allorché prendevano i testi della cultura 'alta' per trasformarli in opere che potevano facilmente vendere in milioni di copie. In questo modo la letteratura colta subiva numerose trasformazioni prima di giungere nella cesta del venditore ambulante. Questo tipo di letteratura gettava un ponte tra la cultura popolare e quella d'élite, rivolgendosi a differenti tipi di pubblico e dimostrando in tal modo la circolarità tra generi letterari 'alti' e 'bassi'.

Lo stretto rapporto tra cultura orale e cultura scritta è messo in risalto anche nel notevole studio di Carlo Ginzburg (v., Il formaggio..., 1976) su un mugnaio del Friuli, Domenico Scandella, detto Menocchio, processato per eresia dall'Inquisizione. Condannato al carcere a vita nel 1584, il mugnaio venne rimesso in libertà due anni dopo, per essere poi nuovamente processato per le sue idee eretiche, e condannato a morte nel 1600. Menocchio aveva elaborato una bizzarra cosmogonia secondo cui il mondo non era stato creato da Dio, ma si sarebbe formato da un caos primordiale attraverso un processo di coagulazione, come un formaggio in cui crescono grossi vermi, che in questa cosmogonia diventano angeli. Sono presenti in questa concezione elementi di antiche eresie. Menocchio negava il carattere divino di Cristo, la necessità del battesimo e considerava eguali tutte le religioni. Il clero ai suoi occhi era formato da parassiti, e la Chiesa non era altro che un'organizzazione che sfruttava i poveri.

L'importanza di Menocchio per la storia della recezione della stampa emerge con chiarezza allorché si focalizza l'attenzione sulle fonti delle sue bizzarre concezioni. Egli fornì all'Inquisizione un dettagliato resoconto delle sue letture, che erano costituite fondamentalmente da libri presi in prestito a caso - una Bibbia in volgare, una cronaca medievale catalana, le vite dei santi, il Corano, una copia non emendata del Decameron, una traduzione del Voyage di Mandeville. Nella sua recezione di questa letteratura erudita piuttosto eterogenea, Menocchio apportò una vena di egualitarismo contadino radicato in una cultura orale arcaica e tradizionale. La sua eresia quindi derivava dalla contaminazione reciproca tra un remoto radicalismo contadino da un lato e idee desunte da una littérature savante dall'altro. Il risultato, del tutto imprevedibile, dimostra non soltanto l'autonomia del lettore, ma anche la gamma di possibili connessioni tra cultura orale e cultura letteraria, fra tradizione colta e tradizione popolare.

La censura

La circolazione della letteratura può essere controllata o limitata in molti modi: ad esempio da regolamentazioni di polizia contro opere 'oscene', oppure da norme contro l'importazione di opere considerate sediziose o altrimenti indesiderabili. Impedimenti giuridici di questo tipo vennero adottati ad esempio in Australia negli anni trenta, al fine di ostacolare la diffusione della letteratura di sinistra e di varie opere pornografiche catalogate sotto la generica etichetta di 'romanzi francesi'. I governi, come fece ad esempio la Monarchia di luglio in Francia negli anni quaranta dell'Ottocento, potevano imporre ai giornali il deposito di una 'cauzione' con cui pagare le eventuali multe in cui fossero incorsi i proprietari se avessero infranto le norme sull'editoria. Talvolta le autorità postali potevano semplicemente rifiutarsi di consegnare periodici considerati offensivi della morale. La censura vera e propria può essere esercitata prima o dopo la pubblicazione di un'opera. Nella condanna di determinate opere e nei suoi tentativi di stabilire certe ortodossie di recezione letteraria, l'Inquisizione operò una forma di censura ex post facto. Non è possibile tuttavia stabilire in che misura il timore dell'Inquisizione cattolica e dei suoi metodi agisse da deterrente per gli editori. Nel XVI secolo, durante la Controriforma, la Chiesa condannò le opere di Machiavelli, e ammise il Decameron solo in una versione purgata. Gli editori che derogavano da queste norme venivano perseguitati. Nel 1546 Étienne Dolet, colpevole di aver pubblicato un Nuovo Testamento in volgare e una serie di pamphlets in francese venne arso sul rogo.

Negli anni sessanta del Cinquecento vi furono periodicamente roghi di libri eretici a Lione e in altri centri in cui l'influenza del calvinismo era stata particolarmente forte. Secondo i gesuiti, il rogo pubblico dei libri eretici sarebbe stato legittimato dagli Atti degli Apostoli, in cui si legge a proposito della predicazione di san Paolo agli Efesini: "Molti di coloro che avevano praticato le arti magiche, portarono i loro libri e li bruciarono alla presenza di tutti: il loro valore fu stimato cinquantamila dracme d'argento" (Atti, 19, 19). Le incisioni dell'epoca mostrano roghi di libri in cui l'unico autentico Libro, ovvero la Bibbia, resta intatto tra le fiamme. Nel tentativo di estirpare l'eresia, l'Inquisizione finì per demonizzare il libro stesso, cosicché persino il possesso di un testo stampato poteva ingenerare sospetti. Nel condannare le opere in volgare in particolare, la censura dell'Inquisizione sembrava ostile al fatto stesso che il popolo leggesse.

Nella Francia d'ancien régime la monarchia cercò con crescente difficoltà di applicare un sistema di censura ex ante, impiegando un certo numero di censori incaricati di fare rapporto sui manoscritti alle autorità preposte al controllo del commercio di libri. L'apparato della censura si estese nel XVIII secolo: nel 1740 esistevano 41 censori, ma il loro numero salì a 178 nell'epoca della Rivoluzione francese (v. Darnton e Roche, 1989). Ciò segnalava sia l'espansione della produzione libraria, sia il desiderio della monarchia di controllarla. Molti censori erano essi stessi scrittori, e spesso discutevano il proprio operato con gli autori. Il loro compito ufficiale era quello di difendere la religione, la monarchia e 'les bonnes moeurs', e a sostenerli nel loro operato vi era una rete di ispettori governativi. Il sovrano, però, non era l'unica autorità in materia di censura, poiché poteri analoghi erano rivendicati anche dalla Facoltà di teologia della Sorbona e dal Parlamento di Parigi, che nel 1762 ordinò l'arresto di Jean-Jacques Rousseau dopo la pubblicazione dell'Émile.

Le condanne al carcere della Bastiglia per reati connessi all'editoria raggiunsero il loro picco tra il 1750 e il 1780. Oltre 100 librai, editori o autori vennero imprigionati ogni decennio, di solito per circa sei mesi. Lo stesso Voltaire scontò una pena nel carcere della Bastiglia - traendo buona pubblicità dall'esperienza - e il suo contemporaneo, il filosofo Diderot, venne imprigionato per un certo periodo nel carcere di Vincennes.

Tutto ciò che veniva stampato o pubblicato nella Francia d'ancien régime richiedeva l'autorizzazione reale, sotto forma di un privilège che garantiva all'editore il monopolio sull'opera pubblicata e un mercato protetto. Per la durata del privilège, che poteva essere rinnovato, l'editore godeva inoltre dell'immunità da qualunque azione penale da parte dello Stato.

La stampa era per tale ragione un'industria protetta, che dipendeva dalle buone disposizioni del sovrano.In pratica, tuttavia, la censura era piuttosto lassista e inefficiente. Molte opere prive di un privilège formale erano tacitamente tollerate dall'amministrazione, consapevole dell'impossibilità di impedire alla letteratura sovversiva di essere introdotta clandestinamente in Francia dall'Olanda, dalla Svizzera o dalla Gran Bretagna. Malesherbes (v., 1994), direttore della Librairie tra il 1750 e il 1763, spiegò in un trattato perché la censura fosse inefficiente, propugnando un atteggiamento più liberale. In primo luogo, affermava Malesherbes, qualunque azione il governo avesse intrapreso, non sarebbe riuscito a impedire che le opere censurate raggiungessero il pubblico, per una via o per l'altra. In secondo luogo, la censura avrebbe danneggiato l'industria libraria francese, impedendo agli editori di produrre le opere per le quali esisteva una forte domanda, e che sarebbero state prodotte in ogni caso al di fuori del paese; la censura avrebbe finito quindi con l'avvantaggiare la concorrenza straniera. In terzo luogo, Malesherbes esortava la monarchia a mobilitare l'opinione pubblica attraverso la stampa, accennando con ciò all'emergere di una cultura politica liberale. Si aveva così una situazione paradossale, in cui un ministro del re preposto alla censura cominciava ad ammettere argomenti liberali in favore di una maggiore libertà d'espressione.

La fine dell'ancien régime della stampa e la rivoluzione della lettura

Per quanto riguarda la tecnologia, pochi cambiamenti erano intervenuti dall'età di Gutenberg alla fine del XVIII secolo. La carta era ancora ricavata dagli stracci, raccolti da migliaia di straccivendoli in tutta Europa, e assorbiva di norma il 60-75% dei costi di produzione. L'inchiostro era ricavato da tinte vegetali, resina, trementina e mallo di noce, e per cancellare si usava la mollica di pane. La macchina da stampa azionata a mano continuò a essere usata per più di tre secoli. I lettori dell'epoca avevano un elevato livello di consapevolezza della qualità tipografica, nel senso che potevano lamentarsi con gli editori se i libri messi in vendita presentavano pagine macchiate d'inchiostro, erano rilegati male o avevano troppi errori tipografici (v. Darnton, 1979). La struttura corporativa dell'industria della stampa rimase praticamente immutata fino a quando la Rivoluzione francese non abolì le gilde.

Nel 1791 la Rivoluzione aveva liberato l'industria tipografica da tutti i controlli esercitati dalla monarchia e dalle corporazioni, creando per la prima volta un mercato editoriale aperto e competitivo. Molti editori non riuscirono a sopravvivere nel nuovo regime di deregolamentazione, e fallirono. Ma la Rivoluzione francese produsse un'enorme quantità di opuscoli, di giornali e di letteratura effimera; la fine della censura regia segnò una straordinaria fioritura della stampa.

La produzione di libri passò in secondo piano rispetto a quella di opuscoli, libelli polemici e periodici. Tra il 1789 e il 1799 solo a Parigi apparvero oltre 2.000 nuove riviste, sebbene molte di esse non sopravvivessero che per poche edizioni. Nelle province durante il periodo della rivoluzione nacquero oltre 1.000 nuovi periodici. I giornali apparivano con maggior frequenza che in passato, e dedicavano un maggior spazio alla politica. L'esplosione della stampa fu accompagnata da una rivoluzione del giornalismo (v. Darnton e Roche, 1989). Per la prima volta i giornalisti assistevano alle assemblee politiche per riferire l'andamento dei dibattiti. È a quest'epoca che risale l'invenzione della stenografia. I discorsi politici pronunciati nel corso delle assemblee rivoluzionarie e riportati dalla stampa potevano ora essere letti dal pubblico a distanza di pochi giorni nei maggiori centri provinciali.

La Rivoluzione francese creò una forma primitiva di proprietà letteraria riservata. Prima di allora i diritti d'autore non esistevano, in quanto gli autori vendevano i manoscritti all'editore una volta per tutte. L'istituzione della proprietà letteraria riservata si sviluppò gradualmente nel XIX secolo, ma già le leggi del 1793 riconoscevano all'autore il diritto esclusivo di disporre delle proprie opere finché restava in vita (v. Hesse, 1991). Tale diritto restava in vigore per dieci anni dopo la sua morte, dopodiché l'opera diventava proprietà pubblica. Questa innovazione significava che chiunque poteva ora pubblicare le opere di autori come Voltaire e Rousseau, e segnò anche una svolta per il riconoscimento dell'autore come persona giuridica. La nuova concezione dei diritti di proprietà individuali inaugurata dalla Rivoluzione ridefinì lo status dell'autore, che poteva ora diventare proprietario del testo.Tra il 1810 e il 1811 Napoleone mise fine alle oscillazioni nelle regolamentazioni relative alla censura, emanando una serie di norme sulla produzione editoriale. Egli istituì l'obbligo di registrare tutte le nuove opere, e di depositarle in dépôt légal. Al fine di facilitare la sorveglianza dello Stato sulla produzione stampata, il numero degli editori autorizzati operanti a Parigi venne limitato a 80. La normativa napoleonica divenne il modello del controllo governativo per quasi tutto il XIX secolo.

L'esplosione della stampa alla fine del XVIII secolo rientra nel quadro di quella che alcuni storici hanno definito una 'rivoluzione della lettura' che si ebbe nell'Europa occidentale e nel Nordamerica tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX. Un aspetto della trasformazione del pubblico dei lettori fu il declino delle pubblicazioni colte di tipo tradizionale, e la crescente domanda di letteratura d'evasione. Alla metà del XVIII secolo, ad esempio, le opere devozionali rappresentavano ancora un quarto di tutte le pubblicazioni ufficialmente autorizzate in Francia, ma già nel 1785 le opere teologiche rappresentavano solo il 10% della produzione editoriale (v. Furet e Dupront, 1965-1970, vol. I). Nello stesso tempo, il pubblico dei lettori europei dimostrava una forte propensione per il romanzo moderno; particolarmente richiesti erano gli autori inglesi: Defoe, Richardson, Fielding e, successivamente, Walter Scott. La crescente domanda di opere di narrativa nella seconda metà del XVIII secolo rientrava nel quadro di un nuovo modello di consumo per una vasta gamma di articoli per la casa, dalle tovaglie, ai vestiti, agli specchi e altri oggetti d'arredamento.I gusti letterari divennero più laici, come dimostra la crescente richiesta di resoconti di viaggi e di narrativa romantica. Nello stesso tempo, le satire di argomento politico ed erotico, i libelli polemici, le caricature e gli opuscoli trovarono un vasto pubblico urbano. La trasformazione dei lettori nel periodo prerivoluzionario è stata interpretata da Jürgen Habermas (v., 1962) come la creazione di una sfera pubblica in cui poté emergere la libera discussione politica e si poté formare una 'opinione pubblica'. Attraverso il nuovo mercato della stampa e dell'informazione, il pubblico dibattito eludeva il controllo da parte dello Stato ed era libero di criticare le istituzioni ufficiali. Si venne così formando una comunità critica legata a libri, giornali, clubs, caffè e logge massoniche, e in grado di formulare giudizi indipendenti sulle questioni pubbliche. Si trattava ancora, peraltro, di un pubblico borghese e aristocratico, dal quale il lettore comune restava ancora di fatto escluso.

La rivoluzione della lettura denota poi il passaggio da un tipo di lettura tradizionale, che può essere definito 'intensivo', a uno più moderno ed 'estensivo' (v. Engelsing, 1974; v. Hall, 1983). Questa trasformazione fu avviata, secondo Engelsing, dalle pratiche culturali della borghesia occidentale, e trasformò gradualmente il rapporto del pubblico con la parola stampata. La lettura intensiva presupponeva un atteggiamento di reverenza e di rispetto nei confronti del libro, al quale talvolta venivano attribuiti addirittura poteri magici, in quanto fonte di sapienza e di potere per le due categorie alfabetizzate della comunità tradizionale - il clero e i gli scaltri. I libri erano un genere raro e costoso; spesso l'unico testo di lettura accessibile era costituito dalla Bibbia o da alcune sue parti. Ancora alla metà del XIX secolo, i filantropi del ceto medio lamentavano il fatto che le letture della classe operaia fossero limitate alla Bibbia, ai libri di preghiera e agli almanacchi. Un numero esiguo di testi familiari continuava a essere letto e riletto, e tramandato da una generazione all'altra. La lettura a voce alta era una prassi comune nella società tradizionale, e di solito era strettamente legata al contesto religioso. Nell'epoca della lettura intensiva predominava dunque la lettura reiterata di opere di meditazione e di edificazione. Il fatto che la Chiesa legittimasse con la sua autorità alcuni testi scelti rafforzava il rispetto suscitato dalla parola stampata.

Con il passaggio da un tipo di lettura intensivo a uno estensivo, che contrassegna quella che è stata definita 'rivoluzione della lettura', il libro non è più una rarità ma costituisce un oggetto familiare di consumo quotidiano, perdendo così i suoi connotati magici e religiosi per diventare qualcosa di assai più effimero. Il tipico lettore 'estensivo' si limita a scorrere rapidamente una rivista illustrata, che viene gettata via una volta finita. Egli è parte di una società di lettori-consumatori avvezzi alla rapida obsolescenza del materiale di lettura e continuamente in cerca di novità. Con la diffusione dei romanzi popolari e dei giornali, la parola stampata viene definitivamente svincolata dal contesto religioso. Il testo stampato non è più dotato di un'autorità che non può essere messa in discussione, e viene pertanto 'desacralizzato'. Nello stesso tempo, la lettura diventa un'attività più individualizzata, non più soggetta ai vincoli della comunità e della lettura collettiva a voce alta che aveva costituito un tempo la cornice della pietas familiare.La teoria della transizione dalla lettura intensiva a quella estensiva è stata sviluppata da Engelsing e Hall, con particolare riguardo alle società protestanti della Germania settentrionale e del New England, dove la lettura della Bibbia aveva un ruolo centrale per la vita familiare e per imparare a leggere.

Resta da vedere in che misura tale interpretazione può applicarsi alle società non protestanti. È opportuno osservare a questo proposito che la lettura a voce alta non è esclusivamente un modo tradizionale di rapportarsi al testo stampato, ma è sopravvissuta a lungo assumendo varie forme. Notizie, cartelloni e opuscoli possono essere letti a voce alta per la strada. La lettura a voce alta era una prassi usuale nelle botteghe di molte imprese artigiane del XIX secolo. Essa poteva assumere a volte un carattere più autoritario, quando veniva praticata dal capofamiglia, dal prete o dall'insegnante, ma poteva anche svolgersi nell'intimità tra amici o amanti. Sia prima che dopo la 'rivoluzione della lettura' vi fu sempre un vasto pubblico di lettori che si accostava alla letteratura attraverso l'ascolto.

La modernizzazione dell'editoria nel XX secolo e la sfida degli altri media

All'inizio del XIX secolo una serie di innovazioni tecnologiche trasformò il processo della stampa e segnò la fine di una lunga era in cui poco o nulla era cambiato dall'invenzione di Gutenberg. Le macchine stampatrici avevano sino ad allora impiegato quattro o cinque addetti (compositori, stampatori e apprendisti), che riuscivano a produrre forse 2.500 pagine al giorno. Nel 1804, però, Stanhope propose un torchio di stampa in metallo che sostituì quello in legno, più soggetto al deterioramento, usato sino ad allora. Nel 1811 la stampatrice cilindrica azionata a vapore inventata da Koenig prometteva di porre fine al duro lavoro comportato dal torchio a mano, eliminando altresì la necessità di inchiostrare ogni pagina.

Nel 1820 la tipografia di Koenig era in grado di produrre 1.000 copie all'ora. Ulteriori perfezionamenti tecnici negli anni venti dell'Ottocento permisero la stampa su entrambi i lati del foglio contemporaneamente. Nel 1850 la tipografia di Applegarth era in grado di produrre 10.000 copie all'ora. Il successivo sviluppo della litografia e poi della fotolitografia rivoluzionò le possibilità delle illustrazioni stampate. Queste innovazioni furono frutto della seconda rivoluzione industriale, compiutasi dopo il 1870, che vide la sostituzione del vapore con l'elettricità. Nel corso del XIX secolo, inoltre, la carta non venne più ricavata dagli stracci ma da materie vegetali - dapprima la paglia e in seguito la pasta di legno. Questo nuovo tipo di carta entrò nell'uso negli anni settanta dell'Ottocento, e ridusse notevolmente la voce di spesa più consistente nel bilancio delle case editrici. Alla fine del XIX secolo, però, la carta veniva trattata chimicamente per sbiancarla, e di conseguenza molte pubblicazioni dell'epoca, stampate su carta impregnata di acido, non si sono potute conservare.

Dapprima le uniche industrie che poterono permettersi le nuove invenzioni furono quelle dei quotidiani ad alta tiratura. Esse sole infatti erano in grado di investire i capitali necessari e di aumentare le tirature in misura sufficiente a rendere economicamente vantaggiosa l'adozione delle nuove tecnologie. Molte innovazioni ebbero origine nel campo dei grandi quotidiani come il "Times" di Londra, che già nel 1814 aveva installato il torchio di Koenig.

L'aumento del volume della produzione ebbe un ritmo vertiginoso. In Gran Bretagna negli anni quaranta dell'Ottocento venivano stampati annualmente dai 2.000 ai 3.000 titoli. Nell'ultimo decennio del secolo il numero delle pubblicazioni salì a 6.000. Nel 1909, favoriti da un ampio mercato internazionale e coloniale, gli editori britannici producevano oltre 10.000 titoli all'anno (v. Eliot, 1994). All'inizio del XIX secolo la tiratura media di un romanzo francese superava raramente le 1.000 o le 1.500 copie. La prima edizione de Il rosso e il nero di Stendhal del 1831, ad esempio, apparve in sole 750 copie. Verso la metà del secolo, tuttavia, i romanzi di autori che godevano di grande popolarità come Victor Hugo erano pubblicati in edizioni di 5.000 copie. Negli anni settanta le edizioni economiche delle opere di Jules Verne ebbero una tiratura di 30.000 copie. Il volume complessivo delle opere stampate messe in circolazione in Francia aumentò di circa 25 volte tra il 1840 e il 1910.

I formati divennero più piccoli e i prezzi calarono, soprattutto quando si cominciò a utilizzare carta più a buon mercato. Il piccolo formato in 18° per i romanzi fu introdotto in Francia da Charpentier nel 1830. Negli anni cinquanta dell'Ottocento l'editore parigino Michel Lévy pubblicava opere di narrativa in volumi da un franco, e nel 1914 il lettore poteva comperare i classici della letteratura francese a soli 10 centesimi a copia (v. Mollier, 1984). Il mercato del romanzo in tre volumi, destinato essenzialmente alle biblioteche circolanti, era crollato alla fine del XIX secolo. In Gran Bretagna fu sostituito da prime edizioni a sei scellini, seguite da una ristampa in edizioni economiche a larga tiratura all'esiguo prezzo di sei pence.

L'industria editoriale subì un processo di ristrutturazione. L'editore si affermò come imprenditore autonomo, sostituendo la vecchia figura del tipografo-libraio-editore. Alcune case editrici fondate all'epoca, come la Hachette, che si affermò nel campo dei testi scolastici, o la Larousse in quello dei dizionari, ebbero lunga vita e sono tuttora attive. La struttura corporativa dell'industria libraria si trasformò, adattandosi alle condizioni della produzione capitalistica. La confraternita degli stampatori nel XVIII secolo si era rinnovata attraverso contatti familiari; alla metà del XIX secolo i rapporti personali con l'industria assunsero una diversa configurazione, e divennero più direttamente soggetti alle pressioni del mercato. Si venne affermando il sistema dei diritti d'autore. Nel 1852 l'accordo internazionale sul copyright siglato a Berna protesse la proprietà intellettuale dalle edizioni pirata.

Nell'era dell'industrializzazione alcuni autori divennero vere e proprie macchine per la produzione letteraria. La serializzazione della narrativa nelle testate giornalistiche era assai lucrosa (come lo sono oggi i diritti cinematografici), ma imponeva agli autori un ritmo di produzione assai impegnativo. Gli autori erano pagati in base alla lunghezza dei testi, di qui l'interminabile lunghezza dei romanzi di alcuni autori di successo del XIX secolo, come Eugène Sue. La serializzazione venne usata vantaggiosamente da Dickens, Trollope, Thackeray e Dumas. Quest'ultimo, pagato a riga, divenne una vera e propria fabbrica di romanzi, subappaltando le sue opere ad autori anonimi. Sainte-Beuve, tra altri tradizionalisti, trovò difficile accettare la crescente mercificazione della produzione letteraria. In un pamphlet del 1839 sulla industrializzazione della letteratura, egli lamentava che era impossibile produrre arte di valore sotto tali pressioni mercenarie.

La distribuzione dei prodotti editoriali venne trasformata dall'espansione delle reti ferroviarie, che resero accessibili libri e giornali ai lettori delle piccole città e dei villaggi. La ferrovia consentiva ai quotidiani prodotti nelle grandi città di essere distribuiti nel giro di poche ore anche in aree un tempo remote. I chioschi delle stazioni, che vendevano principalmente giornali e riviste, divennero sbocchi assai lucrosi per le case editrici W.H. Smith in Gran Bretagna e Hachette in Francia. Le librerie locali e le biblioteche circolanti resero a poco a poco obsoleta la figura dell'ambulante nella seconda metà del XIX secolo, e alla sua scomparsa contribuì anche l'istituzione di controlli di polizia più rigorosi (v. Darmon, 1972).Tutto ciò creò i presupposti per lo sviluppo di mercati nazionali omogenei. Mentre nel XVIII secolo gli unici libri che tutti leggevano erano i catechismi, il Nuovo Testamento e le opere devozionali, alla fine del XIX secolo i lettori europei, statunitensi e australiani leggevano gli stessi romanzi di Dumas, Verne, Dickens o Scott (v. Lyons, 1987). Le origini della globalizzazione della cultura possono così essere individuate nell'espansione della produzione di narrativa popolare nel XIX secolo.

L'unità culturale fu rafforzata dal diffondersi delle lingue nazionali nella stampa e dal lento declino dei dialetti locali, e fu ulteriormente accelerata dall'introduzione della scuola dell'obbligo nell'Europa occidentale a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento. L'apprendistato del giovane lettore si trasferì dall'ambiente domestico alla scuola. L'accesso alla cultura stampata venne così istituzionalizzato e separato dai ritmi del lavoro e della vita familiare. Le letture scolastiche potevano essere un utile strumento per la formazione di una nuova identità nazionale che, come auspicavano alcuni educatori, avrebbe annullato le divisioni di classe, di religione e di etnia per creare una cultura pubblica standardizzata.Le nuove opportunità di lettura per le classi inferiori divennero un problema politico. In Francia, ad esempio, la Rivoluzione del 1848 fu attribuita alla diffusione di opere indesiderabili tra gli operai e i contadini. Alcuni gruppi delle élites temevano che le classi subordinate leggessero troppo, e che le loro letture fossero male indirizzate. È stato stimato che i due terzi della classe operaia inglese erano alfabetizzati nel 1870 (v. Webb, 1955). Inoltre gli operai in generale avevano più tempo libero da dedicare alla lettura. In Germania l'orario di lavoro venne progressivamente ridotto dopo il 1870 circa, sebbene per molti operai tedeschi tempo libero e lettura fossero associati solo con la domenica. Nel 1914, la giornata lavorativa di dieci ore era diventata la norma in Germania. Questi sviluppi si rivelarono una nuova fonte di profitto per gli editori di giornali, riviste e romanzi popolari, serializzati o venduti in dispense, ma divennero anche fonte di inquietudini. Si era raggiunto un buon livello di alfabetismo funzionale della popolazione, ma si era ancora lungi dall'aver raggiunto un 'alfabetismo sociale'. In altre parole, la nuova classe operaia industriale doveva ancora essere integrata saldamente nel tessuto sociale.Il controllo sulla lettura, si sperava, avrebbe assicurato l'armonia sociale; di qui il proliferare di movimenti sia laici che religiosi che miravano a diffondere la letteratura edificante tra i lettori delle classi inferiori distogliendoli dalla narrativa popolare. Di qui anche lo sviluppo delle biblioteche circolanti, specialmente nei paesi di lingua inglese, che avevano lo scopo di fornire letture di livello qualitativo accettabile per la classe lavoratrice. Molte biblioteche furono finanziate dagli stessi industriali, nella speranza di formare una classe operaia più istruita e morale.

All'inizio del XX secolo, nel quadro delle misure di welfare capitalistico, vennero istituite delle biblioteche nelle fabbriche destinate alla forza lavoro industriale. La biblioteca della fabbrica Krupp nell'Essen divenne una delle più raffinate biblioteche circolanti della Germania, e si è calcolato che nel 1910 il 50% dei lavoratori della Krupp vi prendeva in prestito dei libri (v. Langewiesche e Schonhoven, 1976).I lettori della classe operaia erano senz'altro in grado di sviluppare la propria cultura letteraria, all'insegna dello slogan lanciato da Liebknecht nel 1872: "La conoscenza è potere - il potere è conoscenza!". Gli operai erano assistiti ovunque dal settore educativo del movimento operaio, che istituì le proprie biblioteche e i propri materiali di lettura per contrastare le influenze di interessi più conservatori. La maggioranza dei lettori, tuttavia, continuava a frustrare le aspettative sia dei conservatori sia dei liberali riformisti e dei tradeunionisti, orientando la sua domanda principalmente verso la letteratura d'evasione. Nell'area di lingua anglosassone i Mechanics' Institutes furono considerati un fallimento in quanto non assolsero lo scopo per il quale erano stati concepiti, ossia quello di fornire letture serie agli artigiani. Essi erano diventati invece veicoli per la circolazione di letteratura popolare d'evasione. Analogamente, a Vienna, tra il 1909 e il 1910 solo l'1,6% dei lettori richiedeva alla Biblioteca centrale operaia (Wien-Favoriten) testi di scienze sociali (v. Langewiesche e Schonhoven, 1976).

La fine del XIX secolo può essere considerata l'età d'oro della parola stampata. L'alfabetismo e la scolarizzazione di massa erano stati raggiunti, e il libro non era ancora sfidato da altri mezzi di comunicazione come la radio o i nuovi media elettronici del nostro secolo. Per un breve momento storico, la stampa godette di una supremazia assoluta. Tuttavia in numerosi paesi europei prima del 1914 non mancarono i segni di una saturazione del mercato editoriale. L'enorme espansione della produzione che si era verificata nel XIX secolo aveva raggiunto il suo apice, e non si sarebbe mai più riprodotta.

La 'crisi del libro' tra il 1890 e il 1914, nonché le crisi successive determinate dalla depressione degli anni trenta e dal secondo conflitto mondiale portarono alla modernizzazione e a una certa ristrutturazione dell'editoria. La produzione di libri e di periodici nel XX secolo divenne sempre più integrata nel mondo del capitale finanziario. Alcuni editori, come ad esempio Calmann-Lévy, investirono i loro capitali in infrastrutture pubbliche, compagnie ferroviarie e capitale azionario. Il vecchio modello dell'impresa a gestione familiare era già sulla via del tramonto in Europa alla fine del XIX secolo, allorché l'industria cominciò a essere dominata dalle grandi imprese. Louis Hachette, ad esempio, non deteneva più la maggioranza delle azioni della sua società dopo il 1884. Un'altra figura esemplare dell'industria editoriale francese è quella di Plon. Dopo aver cominciato come tipografo a Parigi, Plon fece carriera grazie a un matrimonio vantaggioso, speculazioni immobiliari e il favore di Napoleone III. I fratelli Plon rappresentavano una tipica casa editrice a gestione familiare. Successivamente, essa venne assorbita dalle Presses de la Cité, che rilevarono anche la casa editrice Julliard e quella dei fratelli Garnier (nel 1966), e attualmente controllano un complesso di imprese nel campo editoriale, in particolare nel settore della meccanizzazione, della composizione e dell'illustrazione.

L'introduzione della linotype, e poi della monotype fu particolarmente utile per il processo di composizione dei quotidiani ad alta tiratura. I contemporanei sviluppi della fotocalcografia avevano consentito l'inserimento di fotografie nel testo stampato, e l'introduzione della stampa a colori ha creato altre possibilità che hanno trasformato l'industria editoriale, in particolare il campo dei libri illustrati per l'infanzia. L'uso diffuso di queste tecniche (stampa-offset, monotype, ecc.), tuttavia, ha determinato una maggiore standardizzazione e globalizzazione. La varietà dei caratteri impiegati normalmente si è ridotta, i libri vengono ora composti, fabbricati e rilegati a macchina. L'uso di una gamma più ampia di caratteri è lasciato alle piccole tipografie private che producono edizioni di lusso ai margini dell'industria.I costi di stampa e di fabbricazione, tuttavia, non si sono ridotti. L'ingresso di un maggior numero di donne nella forza lavoro delle industrie editoriali alla fine del XIX secolo assicurò stabilità alla produzione editoriale solo nel breve periodo. I salari dei tipografi aumentarono sensibilmente nella prima metà del XX secolo, sia in termini assoluti che relativamente ad altri tipi di lavoro qualificato. Il compenso orario dei tipografi parigini aumentò di nove volte tra il 1911 e il 1936 (v. Chartier e Martin, 1982-1986, vol. IV).

La stampa e l'editoria si sono sempre più specializzate, in quanto le case editrici si avvalgono ora dei servizi professionali di avvocati, esperti di pubbliche relazioni, contabili, lettori e dattilografi a tempo pieno. Questi servizi, così come la revisione e la stampa stessa, sono spesso decentrati e subappaltati all'esterno dalle case editrici. La distribuzione della produzione editoriale è stata anch'essa rivoluzionata in questo secolo con l'affermarsi del 'club del libro' sul modello americano, del sistema della vendita diretta a singoli clienti e istituzioni, di grandi società specializzate nella distribuzione che servono parecchi editori contemporaneamente, e di nuovi punti di vendita al dettaglio nei supermercati. Solo una minoranza dei libri in circolazione viene venduta attualmente nelle librerie tradizionali. È aumentata costantemente la necessità di pubblicizzare i prodotti editoriali, di solito attraverso la stampa stessa; attualmente si calcola che il 5-10% del budget per la produzione di un libro venga destinato alla pubblicità.La sfida dei nuovi media come la radio, la televisione e il cinema ha determinato una crisi del libro. È vero, peraltro, che quotidiani e riviste hanno un pubblico vasto e in costante espansione, e che il consumo globale di carta per la stampa raggiunge oggi livelli vertiginosi. La produzione mondiale di testi stampati per bisogni immediati di tipo burocratico e informativo resta enorme, ed è in aumento. La produzione editoriale aumenta ovunque: nel 1983 nel mondo sono stati prodotti 750 mila titoli. Sembra prematuro, quindi, parlare di una obsolescenza del libro.

Il mercato potenziale per la letteratura è aumentato nel corso del XX secolo a seguito dell'incremento demografico e dell'espansione della scolarizzazione primaria, secondaria e terziaria. Inoltre, l'introduzione della settimana corta ha aumentato il tempo libero che i lavoratori possono dedicare alla lettura, perlomeno nel mondo occidentale industrializzato, dove si è anche registrato un incremento dei livelli salariali sconosciuto in passato. Tuttavia libri, quotidiani e periodici sono esposti a una competizione particolarmente forte da parte delle industrie del divertimento altamente commercializzate (in parte di proprietà delle stesse grandi case editrici). Di conseguenza il pubblico dei lettori non è aumentato a ritmi altrettanto impetuosi quanto quelli registrati nel XIX secolo. In Francia, paese per il quale si hanno tuttavia dati statistici a volte contraddittori, nel 1890 sono stati prodotti circa 11.000 titoli, nel periodo tra le due guerre 12.000-13.000 e all'inizio degli anni cinquanta circa 14.000 - cifre che indicano il carattere piuttosto inelastico del mercato del prodotto stampato, perlomeno sotto forma di libro (v. Chartier e Martin, 1982-1986, vol. IV).

La stampa tuttavia ha creato nuovi lettori, e l'industria editoriale ha risposto alla sfida sviluppando nuovi prodotti. Nuovi generi letterari hanno fatto la loro comparsa in questo secolo, a seguito della costante ricerca da parte degli editori del best-seller esclusivo. Tra questi nuovi generi figurano il poliziesco, i romanzi di spionaggio, la fantascienza, i fumetti o i racconti illustrati che si avvalgono di nuove tecniche di illustrazione. I formati più economici hanno reso accessibile la narrativa sia classica che contemporanea a un pubblico di lettori più ampio e più informato. Il mini-libro, in piccolo formato, breve e poco più costoso di un quotidiano, è l'ultima di una lunga serie di innovazioni note sotto l'etichetta ingannevole di 'rivoluzione del paperback'.

Il genere dei manuali popolari, che danno consigli pratici su una varietà di argomenti - salute e forma fisica, giardinaggio, cucina, puericultura e sessuologia -, è un altro settore in cui il libro cerca di reagire alla sfida dei nuovi media. Il campo educativo è ancora dominato (sebbene in modo meno esclusivo che in passato) dalla parola stampata. I libri educativi, compresi i testi scolastici, rappresentano una quota ragguardevole del prodotto totale, principalmente grazie alle alte tirature e alle numerose riedizioni. I libri di testo per le scuole sono mutati in misura significativa negli ultimi cinquant'anni; il pubblico giovanile cui sono destinati si attende una profusione di illustrazioni e un uso creativo dello spazio tipografico. La stampa, dunque, conserva ancora le sue funzioni pedagogiche.

Sussistono ancora, purtroppo, elevati tassi di analfabetismo in alcune aree dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia musulmana. Gli ostacoli qui sono in parte di ordine economico (la povertà), in parte di tipo ideologico. Nell'area musulmana in particolare vi sono forti resistenze alla completa alfabetizzazione della popolazione femminile. Sebbene i media elettronici vadano separando in misura crescente il testo dal suo tradizionale supporto cartaceo, la cultura scritta, in una prospettiva globale, ha ancora un ruolo e un futuro.

(V. anche Comunicazioni di massa; Giornalismo; Libro).

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