STATICA

Enciclopedia Italiana (1936)

STATICA

Gustavo COLONNETTI

. È quel capitolo della fisica, e più propriamente della meccanica, che studia i problemi dell'equilibrio dei corpi naturali.

Evoluzione storica dei principî della statica.

1. I primi studî sull'argomento datano da più di duemila anni. Le tracce di questi studî che sono pervenute fino a noi non sono molte in verità, ma bastano per destare in chi le consideri a fondo la più viva ammirazione. Due opere meritano in particolar modo di essere qui ricordate, veri monumenti della sapienza antica: quella che Aristotele ha consacrato alla trattazione dei problemi meccanici, e quella in cui Archimede ha raccolto le sue ricerche sui diversi problemi dell'equilibrio.

Aristotele non era un matematico, ma un filosofo: l'opera sua, veramente mirabile quando tende a stabilire i principî, non si sviluppa poi col dovuto rigore quando si volge a trarre da quei principî le conseguenze, o ne tenta l'applicazione alla risoluzione di particolari problemi. I problemi stessi egli non li isola per proporzionarne la complessità all'esiguità dei mezzi di indagine di cui dispone: non si preoccupa neppure di separare la teoria dell'equilibrio da quella del movimento, assegnando alla prima principî proprî, indipendenti dalla seconda; ma affronta il problema meccanico in tutta la sua generalità e ne cerca la soluzione in quella specie di legge fondamentale che rappresenta come la linea direttiva di tutta l'opera sua, e tutta più o meno esplicitamente la domina. Qualsiasi movimento deve, secondo Aristotele, incontrare una resistenza: esso presuppone perciò l'intervento di un'azione o potenza motrice, che deve essere tanto più grande quanto più grande è la massa che si tratta di smuovere, e quanto più grande è la velocità che si tratta d'imprimerle.

"Quale che sia la potenza che produce il movimento - scrive Aristotele in un passo che merita di essere citato integralmente per la sua singolare chiarezza - è certo che ciò che è più leggiero riceve, a parità di potenza, un movimento più grande. In realtà la velocità del corpo meno pesante starà alla velocità del corpo più pesante così come il secondo corpo sta al primo".

Non si può negare che questo principio fondamentale della dinamica aristotelica - che la scienza moderna definisce senz'altro come un grave errore - avesse una solida e larga base sperimentale. Che ogni movimento da noi determinato, in assenza di una conveniente forza motrice continuativa, sia destinato presto o tardi a estinguersi, è cosa di cui noi siamo materialmente e continuamente testimonî. Che occorra una forza per far camminare a velocità costante una vettura, e che ne occorra una più grande per far camminare la stessa vettura più velocemente, o anche per far camminare alla stessa velocità una vettura più pesante, è cosa che rientra all'evidenza nella nostra quotidiana esperienza.

In realtà la meccanica di Aristotele non è altro che una meccanica che non fa astrazione dalle resistenze passive. Ci volle un gigantesco sforzo intellettuale, ci volle l'opera indefessa di tutti gli spiriti più acuti e profondi che attraverso due millennî si sono succeduti da Aristotele a Galileo, perché s'intravvedesse la possibilità e l'opportunità di cercare nell'astrazione dalle varie resistenze passive quell'approssimazione della realtà che è la dinamica moderna (v. dinamica, n. 1; inerzia).

Ma se ci mettiamo, anche solo per un momento, dal punto di vista della dinamica aristotelica, ci accorgiamo subito del contributo che essa (malgrado l'errore su cui si fonda) poteva arrecare, e ha effettivamente. arrecato, allo sviluppo dei principî fondamentali della statica.

Due potenze devono infatti, secondo Aristotele, essere considerate equipollenti se, movendo due pesi differenti con differenti velocità, esse determinano eguali valori del prodotto del peso per la velocità. Questo prodotto si potrà dunque assumere come una misura della potenza motrice. Si consideri allora una leva rettilinea, che un punto di appoggio suddivide in due bracci disuguali, all'estremità dei quali stanno applicati pesi disuguali. Quando la leva gira attorno al suo punto d'appoggio, i due pesi si muovono con velocità differenti: quello che è più lontano dal punto d'appoggio descrive un arco più grande di quello che è più vicino: e le loro velocità stanno tra loro come le lunghezze dei rispettivi bracci della leva. Volendo paragonare le potenze motrici di questi due pesi, bisognerà dunque fare, per ciascuno di essi, il prodotto del peso per la lunghezza del braccio di leva. Il moto avverrà nel senso determinato da quello dei due pesi cui corrisponde una potenza motrice, cioè un prodotto, maggiore. E il moto non averrà - vi sarà cioè l'equilibrio - se le due potenze, cioè se i due prodotti, risulteranno eguali. "Il peso che è mosso - scrive Aristotele nei suoi Μηανικὰ προβλήματα - sta dunque al peso che produce il movimento nella ragione inversa delle lunghezze dei bracci della leva; perché ciascun peso determinerà tanto più facilmente il movimento quanto più lontano si troverà dal punto di appoggio. E la causa ne è sempre la stessa: cioè che la traiettoria che è più lontana dal centro comporta un arco maggiore".

Né si creda che queste considerazioni abbiano nel pensiero di Aristotele una portata particolare e limitata al solo problema della leva: esse rappresentano per contro l'espressione di un metodo generale, e racchiudono un principio che Aristotele vede come assolutamente fondamentale. "Le proprietà della bilancia - egli scrive - sono così ricondotte a quelle del cerchio; e le proprietà della leva a quelle della bilancia; e le stesse più varie questioni che s'incontrano nello studio dei meccanismi vengono a questo modo ad essere ricondotte alle proprietà della leva".

È difficile leggere questo passo di Aristotele senza provare l'impressione che egli abbia veramente segnata, con le sue parole, quella che un giorno diverrà la via maestra della meccanica razionale. Aristotele sembra infatti avere intuita la relazione che passa tra le grandezze delle forze in equilibrio e gli spostamenti che i loro punti di applicazione subirebbero, qualora l'equilibrio venisse per una qualsiasi ragione turbato. Nel suo pensiero vi è come un primo, embrionale, forse confuso, ma prezioso germe di quello che noi oggi chiamiamo il principio dei lavori virtuali (v. lavoro: meccanica). Ma quanti secoli dovranno trascorrere prima che l'idea si ripresenti, e prenda forma e rigore, e sia riconosciuta come il vero fondamento di tutta la statica!

2. Intanto per ben altre vie si dovevano concretare i primì progressi. Archimede, spirito eminentemente matematico, lascerà da parte le idee generali sul movimento dei corpi, come troppo complesse e inadatte, allo stato delle cose, a fornire delle proposizioni precise e concrete, alle quali l'esperienza quotidiana conferisca un tal grado di evidenza da sottrarle senz'altro a ogni discussione, così che si possa su di esse con tutta tranquillità fondare una scienza, nel senso eminentemente matematico in cui egli la intende. Egli rivolgerà di preferenza la sua attenzione ai fenomeni e agli strumenti più semplici e, fedele al metodo del suo grande maestro, Euclide, metterà a base di ogni suo ragionamento, di ogni sua teoria, un piccolo numero di proposizioni semplici e precise, che alla sua mente si presentano come esenti da ogni possibile dubbio, e su cui egli ammette senz'altro di avere l'universale consenso.

Così nel suo trattato 'Επιπέδων ἰσορροπικῶν, in cui sono raccolti i suoi studî sulla leva e sui centri di gravità, egli prenderà le mosse dalle ipotesi seguenti, considerate come evidenti per sé stesse:

a) Due pesi uguali sospesi a distanze uguali dal punto di appoggio sono in equilibrio.

b) Due pesi uguali sospesi a differenti distanze non sono in equilibrio, e quello che è sospeso alla distanza maggiore si mette a discendere.

c) Se due pesi sospesi a date distanze sono in equilibrio, e si accresce alquanto uno di essi, cessano di essere in equilibrio, e quello che è stato accresciuto si mette a discendere.

Soffermiamoci un momento ad analizzare queste varie proposizioni. Archimede sembra ritenerle indipendenti da qualsiasi esperienza. Ora è fuori di dubbio che nel caso contemplato nella prima ipotesi non vi è ragione alcuna di movimento in un senso piuttosto che nell'altro, visto che tanto la leva come i pesi che essa sopporta sono simmetrici per rapporto alla verticale di sospensione: è dunque perfettamente giustificato indurne che vi dovrà essere equilibrio. Tuttavia non bisogna trascurare che anche in questa così semplice e ovvia affermazione è già inclusa tutta una serie di esperienze che si potrebbero chiamare negative, secondo le quali l'eventuale stato di moto o di quiete dipende soltanto dai pesi e dalle distanze a cui essi sono applicati, ma non dalla posizione dei corpi che si trovano nelle vicinanze, né dal colore dei bracci della leva, né da tutte quelle altre circostanze accidentali, rispetto alle quali il sistema potrebbe benissimo non essere affatto simmetrico.

D'altra parte un'esperienza positiva è ovviamente implicita nelle due proposizioni b) e c), in quanto queste mettono in chiaro la dipendenza dello stato di quiete o di moto della leva dai fattori sopra accennati, precisando che tanto la distanza dei pesi dal punto di appoggio, come la grandezza di questi, possono essere circostanze determinanti del movimento.

Ciò premesso, volendo ricostruire nelle sue linee generali il ragionamento di cui Archimede si serve per ricondurre al caso più semplice ed evidente, contemplato nelle citate sue proposizioni, i casi più complessi e generali del problema, basta procedere come segue. Incominciamo con l'osservare che non si turba la simmetria della leva a bracci uguali, se, oltre ai due pesi applicati alle estremità dei suoi bracci, si suppone che essa ne porti un terzo, uguale in grandezza ai precedenti, applicato in corrispondenza del suo punto di mezzo, in corrispondenza cioè della sospensione. Rileviamo in secondo luogo che due qualunque dei pesi agenti sulla leva così modificata (per esempio, quello di sinistra e quello di mezzo) possono, anziché direttamente, venire applicati con l'intermediario di una seconda leva appesa alla prima per il suo punto di mezzo.

Ma ciò equivale ovviamente a sostituire a quei due pesi un peso unico, di grandezza doppia, agente con un braccio di leva pari alla metà del braccio iniziale. Ciò non dovrà turbare il preesistente stato di quiete del sistema; si può pertanto ritenere dimostrato che due pesi che stanno tra loro come 1 a 2 si possono fare equilibrio se le loro distanze dal punto di appoggio stanno tra loro come 2 a 1. Non occorre dire che la dimostrazione si può generalizzare senza nessuna difficoltà. Con successive ripetute applicazioni dello stesso ragionamento, Archimede perviene infatti all'enunciato generale: Due pesi si fanno equilibrio quando le loro grandezze sono inversamente proporzionali alle lunghezze dei bracci, a cui essi sono sospesi.

3. Il ragionamento di Archimede si presta a qualche facile obiezione. Non deve dunque far meraviglia se nei suoi continuatori, e specialmente in quelli del Medioevo, si scorge costante e continua preoccupazione di completare e perfezionare quel ragionamento per renderlo esente da ogni menda. Così, per esempio, Archimede ammette, senza darne ragione, che il carico gravante sul punto di appoggio o sulla sospensione di una leva a bracci uguali portanti pesi uguali, sia precisamente pari alla somma dei due pesi. In verità questo postulato poté da principio venir considerato come un risultato dell'esperienza quotidiana, la quale ci mostra che il peso di un corpo dipende solo dalla sua massa totale, non dalla sua forma, né dal modo con cui la massa è suddivisa in parti. Solo più tardi si riconobbe che questo postulato si poteva dedurre dalla prima delle proposizioni esplicitamente enunciate da Archimede.

Ben altro è il punto debole del ragionamento di Archimede. Il fine che Archimede e i suoi continuatori si proponevano era, infatti, di ricondurre il caso generale della leva a bracci disuguali al caso, che appariva loro evidente, della leva simmetrica. Ora vien fatto di chiedersi come il semplice fatto dell'equilibrio di due pesi uguali situati a uguali distanze dal punto di sospensione possa logicamente condurre alla legge della proporzionalità inversa tra pesi e distanze. In altre parole, se noi abbiamo già dovuto andare a cercare nell'esperienza, sia pure la più elementare e inconscia la semplice nozione di dipendenza dell'equilibrio dal peso e dalla distanza, come è possibile che mediante un semplice ragionamento noi possiamo poi precisare la legge di proporzionalità, cioè la forma di quella dipendenza?

Precisiamo meglio ancora: l'ipotesi dell'equilibrio nel caso della disposizione perfettamente simmetrica, avrebbe lo stesso valore e significato, qualunque fosse la legge secondo cui la rottura dell'equilibrio si determina in dipendenza di una variazione dei pesi o delle distanze; è per conseguenza affatto impossibile dedurre dal solo fatto dell'esistenza dell'equilibrio, in quel caso particolare la forma di detta legge.

In realtà quando noi sostituiamo a due pesi uguali, applicati alla leva, un unico peso doppio nel punto di mezzo, facciamo una operazione che sarebbe evidentemente indifferente dal punto di vista dell'equilibrio solo quando quel punto di mezzo coincidesse col punto di sospensione; nel qual caso è facile convincersi che non usciremmo dal caso particolare della simmetria, epperò non troveremmo niente di nuovo.

In ogni altro caso l'operazione implica il ravvicinamento di un peso alla sospensione, e l'allontanamento dell'altro. Ora ammettere che l'equilibrio non venga turbato se il primo peso si avvicina alla sospensione esattamente di quanto l'altro se ne allontana, equivale proprio ad avere già decisa la legge di cui si tratta, poiché la costanza dell'azione nel caso descritto non è possibile se non a condizione che la determinante dell'equilibrio sia il prodotto del peso per la distanza.

È così che Archimede, e con lui tutti quelli tra i suoi continuatori che andarono cercando la dimostrazione logica del principio della leva, rifiutandosi di accettare puramente e semplicemente il fatto sperimentale, hanno fatto un uso tacito e più o meno ben dissimulato dell'ipotesi che l'effetto di una forza p, applicata alla leva a una distanza a dal punto di sospensione, è misurato da quel prodotto p d, che ricevette assai più tardi il nome di momento (v.).

4. In realtà è soltanto dalla precisazione di questo concetto di momento di una forza che il principio della leva trarrà a un tempo chiarezza e generalità di applicazioni. Ora la nozione di momento era certamente nota ai matematici della scuola alessandrina nei primi secoli dell'era volgare. Essa appare nettamente formulata in un libro di Erone, che è però rimasto sconosciuto fino a questi ultimi tempi.

Nel Medioevo la precisazione del concetto di momento avviene assai lentamente, e dopo non lievi titubanze, attraverso il timido riapparire della primitiva concezione aristotelica tendente a fare in qualche modo dipendere l'equilibrio delle forze dai possibili spostamenti dei loro punti di applicazione.

Ricordiamo un manoscritto del sec. XV nel quale si trova conservata, in un testo che pare completo ed esente da manipolazioni posteriori, l'opera Liber... de ponderibus, propositiones XIII et earundem demonstrationes, attribuita a Giordano Nemorario (v.), vissuto a quanto sembra verso il 1230. In essa il problema della leva viene esposto presso a poco in questi termini: Alle estremità A e B dei bracci di una leva (fig. 1) avente in C il suo fulcro, siano applicati due pesi le cui grandezze stiano fra loro nel rapporto inverso dei bracci. Supponiamo per un momento che la leva non stia in equilibrio, ma si metta a discendere dalla parte di B fino a prendere la posizione inclinata AB′. Il peso applicato in B subirà un certo abbassamento che in figura abbiamo indicato con h; contemporaneamente il peso applicato in A dovrà subire un ben determinato innalzamento k.

Ora, essendo i due triangoli ACA′ e BCB′ evidentemente simili, il rapporto dell'altezza h all'altezza k dovrà necessariamente essere uguale al rapporto del braccio BC al braccio AC, ossia al rapporto del peso applicato in A al peso applicato in B. A questo punto - premesso che un secondo peso eguale a quello agente in B, supposto appeso nel punto D, simmetrico di B rispetto al fulcro, dovrebbe subire nella supposta rotazione della leva un innalzamento esattamente eguale all'abbassamento h di B - il Giordano osserva che non viene a esserci alcuna differenza tra il sollevare il peso effettivamente applicato in A all'altezza k e il sollevare il peso supposto in D all'altezza h. Ma quest'ultima operazione certo non avverrebbe spontaneamente, poiché i due pesi in B e in D, eguali e simmetricamente disposti per rapporto al fulcro, si fanno sicuramente equilibrio. Così non avverrà neppure che il peso applicato in B sollevi quello applicato in A. Non ha cioè ragione d'essere la rotazione della leva da noi supposta. E poiché non v'è neppure ragione perché avvenga una rotazione in senso opposto, conviene concludere che la leva, nelle considerate condizioni di posa e di carico, sta in equilibrio.

Per quanto in questa dimostrazione non appaia esplicitamente enunciato, è impossibile non riconoscere qui quel medesimo principio a cui si fa abitualmente appello per definire la nozione di lavoro meccanico, principio che si può brevemente e intuitivamente enunciare così: "elevare un dato peso ad una data altezza è esattamente la stessa cosa che elevare un peso n volte più grande ad una altezza n volte più piccola". E il nesso che qui si viene a stabilire tra quel principio e la nozione di momento è estremamente istruttivo e degno di attenzione.

Non meno chiaro appare il concetto di momento nei manoscritti lasciatici da Leonardo da Vinci. In uno di quei tanti fogli in cui troviamo traccia delle sue meditazioni, Leonardo si chiede come varii la potenza motrice di un peso applicato all'estremità di una leva quando questa, rotando, s'inclina rispetto all'orizzontale. E risponde che l'azione di un peso agente in un punto qualunque A di una circonferenza (fig. 2) è quella stessa che il medesimo peso eserciterebbe se fosse applicato in quel punto D del diametro orizzontale in cui esso diametro è intersecato dalla linea d'azione (verticale) del peso. Alla distanza di questo punto D dal centro della circonferenza, Leonardo dà il nome di "braccio di leva potenziale". E altrove avverte che il "vero braccio della bilancia" si deve considerare il tratto di perpendicolare abbassata dal fulcro sulla retta secondo cui agisce la forza, e che l'azione di questa è da riguardare come immutata, qualunque sia il punto della retta su cui essa materialmente agisce, anche se diverso dal piede di quella perpendicolare.

5. L'insistenza con cui si è qui trattato del problema fondamentale della leva non deve far credere che ad esso soltanto si fossero rivolti gli sguardi degli antichi. Già Pappo di Alessandria (sec. IV a. C.) si era occupato, per esempio, del problema del piano inclinato, pure senza riuscire a risolverlo. La prima soluzione di questo problema fu trovata, per quanto ci consta, da un anonimo seguace della scuola di Giordano Nemorario. Egli parte dalla considerazione di due pesi i quali poggino su due piani diversamente inclinati e che stiano tra loro nel rapporto stesso delle lunghezze AB e AC, misurate sui piani fra una medesima origine A e un medesimo piano orizzontale BC (fig. 3). Ammesso che ogni discesa PP′ del peso collocato in P implichi una corrispondente salita QQ′ del peso collocato in Q, così come avverrebbe se i due pesi fossero collegati da un filo di lunghezza invariabile accavallato in A, il nostro anonimo autore mette in paragone ciò che accade nella sopraindicata ipotesi con ciò che accadrebbe se P, discendendo, dovesse invece costringere alla salita un peso R ad esso uguale, collocato su di un piano AD simmetrico di AB rispetto alla verticale. È evidente che, in questo secondo caso, a parità di percorsi PP′ e RR′ sui due piani ugualmente inclinati corrisponderebbe un innalzamento verticale h del peso R, esattamente uguale all'abbassamento verticale del peso P. D'altra parte, tra questo dislivello h e il dislivello k, che corrisponde al percorso QQ′ (eguale a PP′) del peso Q, corre lo stesso rapporto che corre fra AC e AD, o, ciò che per ipotesi fa lo stesso, tra Q e R. Con un evidente, per quanto non esplicitamente espresso, riferimento alla solita nozione dell'equivalenza del sollevare Q all'altezza k, ovvero R all'altezza h, ogniqualvolta è:

il nostro autore conclude che come non vi sarebbe ragione perché il peso P discendesse, sollevando di altrettanto il suo eguale R, così non accadrà che discenda, sollevando Q, quando questo peso sta al peso P nel sopraindicato rapporto.

La dimostrazione è così bella e convincente che avrebbe meritato di essere senz'altro accolta dai contemporanei del geniale autore; ma il principio dell'uguaglianza dei lavori, di cui questa dimostrazione si vale, non si doveva imporre alle intelligenze se non molto lentamente e attraverso una lunga e faticosa elaborazione.

Per quanto a conoscenza di questa dimostrazione, Biagio da Parma, al principio del sec. XV, andò escogitando soluzioni assolutamente insostenibili del problema del piano inclinato; e Guidobaldo Del Monte, alla fine del sec. XVI, si contentò ancora della soluzione errata di Pappo, per demolire la quale Galileo dovrà impiegare tutte le risorse della sua dialettica. Lo stesso Leonardo, che si occupò con particolare insistenza del problema del piano inclinato - tanto che la relativa figura si trova con grande frequenza ripetuta qua e là nei fogli che ci restano a perenne testimonianza delle sue meditazioni - non sembra affatto considerare quel problema come risolto. Ed esita, e si riprende, e lo ristudia sotto i più diversi aspetti, senza decidersi mai ad applicare a esso quel principio dell'uguaglianza dei lavori che pure aveva sistematicamente applicato con successo in tanti altri casi.

6. Bisogna giungere fino a Galileo Galilei per vedere di nuovo felicemente affrontato il problema con un elegante e bene appropriato riferimento al problema della leva. Galileo considera, infatti, una leva ACB (fig. 4) a bracci uguali: l'uno CB orizzontale, l'altro CA comunque inclinato. E osserva che col variare dell'inclinazione di CA, varia la tendenza che il peso collocato in A ha a discendere - nel senso che varia quello che abbiamo già chiamato il suo momento per rapporto al fulcro - sicché l'equilibrio è possibile solo in quanto il peso A stia al peso B come CB sta a CD. Ciò posto, egli considera la tangente MN alla circonferenza descritta da A e, osservando che è indifferente considerare il possibile moto di A lungo l'arco di cerchio che dal punto si parte, ovvero lungo la relativa tangente, ne deduce che la tendenza che ha il mobile a discendere lungo la retta inclinata MN è eguale a quella che esso ha a discendere lungo quel particolare arco della circonferenza. Una volta fatta questa audace e feconda affermazione, il problema, s'intende, è completamente risolto. Le più ovvie considerazioni di geometria elementare permettono a Galileo di stabilire che la forza che tende a fare discendere un grave lungo un piano inclinato, o che vale a sostenerlo in equilibrio su di esso, sta al peso come l'altezza h del piano sta alla sua lunghezza l (fig. 5).

7. Il problema del piano inclinato di cui Galileo aveva così ritrovata la soluzione, veniva quasi contemporaneamente, ma per tutt'altra via, risolto da un matematico olandese, Simone Stevin. Mente eminentemente matematica, lo Stevin misconosce completamente le intuizioni primitive e pure così feconde di Aristotele, cui rivolge nei suoi scritti una critica tanto aspra quanto ingiusta; seguace fedele del metodo di Archimede, egli si sforza di costruire una statica in tutto indipendente dalla scienza del movimento, fondata solo su assiomi suggeriti dal senso comune o, ciò che fa lo stesso, dalla più elementare e quotidiana esperienza.

Ecco l'originalissimo ragionamento con cui lo Stevin affronta e risolve il problema del piano inclinato: S'immaginino due piani diversamente inclinati, rappresentati nella fig. 6 da due segmenti rettilinei uscenti da un medesimo punto e discendenti da una parte e dall'altra della verticale per tale punto fino a incontrare una medesima retta orizzontale. Su questo sistema di due piani immaginiamo appoggiata una fune o una catena senza fine, omogenea e abbastanza lunga perché dopo averli abbracciati penda liberamente a foggia di catenaria al di sotto dell'accennata orizzontale. Prescindiamo da ogni eventuale rigidità della fune e da ogni idea di attrito; supponiamo cioè che la fune sia perfettamente flessibile e scorrevole, senza resistenze sui piani inclinati. È ben certo che, malgrado ciò, la fune non si muoverà affatto: infatti se essa cominciasse spontaneamente a muoversi, non vi sarebbe ragione alcuna perché poi si fermasse, visto che la configurazione del sistema continuerebbe a essere sempre la stessa: e d'altra parte un simile moto perpetuo sarebbe un'assurdità. Ciò premesso, si osservi che l'arco di catenaria che sta al di sotto della retta orizzontale, deve, data la sua simmetria, esercitare sui due rami rettilinei della fune delle tensioni eguali, tensioni che si trasmetteranno fino al vertice superiore, accresciute ciascuna di quel tanto che deriva dal peso del corrispondente tratto di fune. Ma l'equilibrio esige che il vertice superiore sia egualmente tirato da entrambe le parti; conviene dunque concludere che i due tratti rettilinei di fune si fanno per conto loro equilibrio (fig. 7). E poiché i loro pesi sono proporzionali alle loro lunghezze, se ne deduce che, su piani inclinati della medesima altezza, pesi uguali agiscono in ragione inversa delle lunghezze dei piani.

Questa la dimostrazione dello Stevin, con la sola differenza che egli, invece di una fune omogenea, considerava un filo portante a uguali distanze tante sfere pesanti. Egli era, e con ragione, così fiero della sua scoperta da adottare per frontespizio dei suoi Hypomnemata mathematica uno scudo portante al centro un triangolo a base orizzontale con sopra accavallata una collana di 14 perle; un motto fiammingo diceva: "la meraviglia non è più meraviglia" quasi a significare che in quella figura stava la spiegazione del mistero.

Non vi è dubbio del resto che lo Stevin fu felicissimo nella scelta della sua dimostrazione: l'ipotesi dell'equilibrio della catena senza fine è in realtà profondamente istintiva: egli ebbe la sensazione (e noi l'abbiamo come lui) di non avere mai osservato in natura alcun fatto che assomigliasse a un movimento in simili condizioni. E questa convinzione istintiva ha una potenza logica così grande, che noi ammettiamo la legge del piano inclinato che da essa deriva assai più volentieri che se lo Stevin ce l'avesse presentata come il risultato di un'esperienza diretta.

Ciò non deve stupire: qualunque risultato sperimentale è affetto da errori dovuti a circostanze accessorie, quali gli attriti e simili fenomeni praticameote inevitabili: qualunque conseguenza si deduca da esso in ordine alle circostanze determinanti può quindi essere influenzata da quegli errori. Invece, la conoscenza istintiva a cui lo Stevin ha fatto ricorso in quest'occasione è indipendente da noi e si forma in noi senza che vi contribuiamo personalmente per nulla: costituisce un tesoro che abbiamo inconsciamente sotto mano e di cui usiamo senza diffidenza, perché è il frutto spontaneo e non elaborato delle nostre osservazioni quotidiane. Soltanto una minima parte di esso è contenuto nella serie delle nostre idee concrete, ma il resto non è meno utile in quanto, per esempio, ci permette di escludere senza esitazione certi fatti solo perché contrastano violentemente con la massa oscura delle esperienze che noi possediamo, pure senza sapervi discernere il fatto isolato. In questo senso, il ragionamento dello Stevin è uno dei più preziosi documenti da noi posseduti sul processo di formazione della scienza e sul modo con cui questa si sviluppa dalla massa delle nozioni istintive. Analizziamolo dunque bene.

La deduzione dello Stevin sembra meravigliosa perché il risultato a cui conduce sembra contenere assai di più dell'ipotesi da cui parte. Naturalmente ciò non è: nel fatto così evidente che la fune senza fine resta in equilibrio, è già contenuta la nozione che il moto di un corpo pesante non è possibile se non conduce a una discesa del corpo stesso. Vi sarebbero invero, nella fune in moto, dei tratti che discenderebbero, ma ve ne sarebbero degli altri costretti a salire, e il moto non avviene perché a ciascun tratto che discendesse di una data altezza corrisponderebbe un altro tratto, che dovrebbe salire esattamente di altrettanto.

Ma l'ipotesi enunciata dal matematico olandese ha il merito di contenere queste verità particolari in una forma essenzialmente generale. E questa è anche la ragione della superiorità del procedimento dello Stevin su quello dì Archimede, il quale, essendo invece partito da una verità intuitiva ma particolarissima, non poteva risalire al caso generale se non con ragionamenti illusorî.

8. Se uno dei due piani inclinati di cui si è dianzi trattato diviene verticale, l'azione che il relativo tratto di fune esercita sul vertice superiore diviene identicamente uguale al peso. Ne segue immediatamente che per un'inclinazione qualunque l'azione deve essere misurata dal prodotto del peso per il rapporto tra l'altezza e la lunghezza, o ciò che fa lo stesso per il seno dell'angolo che il piano che si considera fa con l'orizzontale. Se pertanto si prende in esame il caso di un peso P, trattenuto su di un piano inclinato da un filo teso parallelamente al piano stesso, l'azione che il peso esercita sul filo (o, se si vuole, la tensione che si deve attribuire al filo perché l'equilibrio sussista) si può sempre, per ciò che abbiamo detto, determinare graficamente proiettando il vettore, che rappresenta il peso P, ortogonalmente sulla direzione del filo.

Giunto a questo punto delle sue considerazioni, lo Stevin ebbe un'altra idea geniale la quale gli permise di fare un nuovo passo importantissimo. Egli intuì, emulo anche in questo del grande Galileo, che ciò che caratterizza un vincolo è il moto elementare che esso consente al sistema vincolato; intuì, in particolare, che si può nel problema del piano inclinato sostituire idealmente al piano stesso un filo di sospensione diretto perpendicolarmente a esso, e facente capo a un punto fisso, in quanto tale filo permette al peso P degli spostamenti che, almeno nelle immediate vicinanze della sua posizione attuale, coincidono con quelli consentitigli dal piano inclinato. Così il peso P viene a essere sostenuto, invece che da un piano e da un filo a esso parallelo, da due fili fra loro perpendicolari; ed è ovvio che, quando il sistema è in equilibrio, questi due fili si trovano, rispetto al peso P, in condizioni perfettamente analoghe, e che ciò che si è detto a proposito della determinazione della tensione di uno di essi, deve necessariamente valere anche per l'altro. È ovvio, cioè, che l'azione del peso P sul secondo filo (e quindi la tensione in esso prodotta) si deve potere determinare graficamente proiettando ortogonalmente il vettore P sulla direzione del filo stesso. In questo modo sembra si possa ricostruire il ragionamento, con cui lo Stevin riuscì a tracciare il primo parallelogrammo delle forze.

Ragionamento molto ingegnoso per quanto indiretto, che negli scritti dell'olandese appare effettuato in parecchie riprese e in modo assai laborioso; così schematizzato come noi l'abbiamo esposto esso comparirà solo più tardi in uno scritto di G. P. de Roberval, pubblicato, nel suo Traité de l'harmonie universelle del 1636 da M. Mersenne. Giova rilevare che questo ragionamento presuppone che i due fili, e quindi anche le due forze componenti siano tra loro perpendicolari: e in realtà sembra che a questo caso particolare lo Stevin abbia limitata la sua dimostrazione. Egli intuì bensì che questa condizione non era essenziale e nei suoi scritti si servì sovente del parallelogrammo delle forze e lo applicò anche in casi diversi da questi; ma non dimostrò però mai il principio nella sua forma più generale.

9. In verità, sulla via della scoperta del parallelogrammo delle forze, lo Stevin era stato preceduto da Leonardo da Vinci. In uno dei passi, già citati, in cui tratta del modo di agire di un peso applicato all'estremità di un braccio di leva inclinato, nel definire quella che, secondo la terminologia del tempo, egli chiama la gravità "secundum situm" - e che noi oggi chiameremmo la componente del peso secondo la traiettoria compatibile col vincolo - Leonardo non trascura di avvertire che questa gravità "secundum situm" non è che una delle componenti del peso, alla quale un'altra ne deve venire associata, normale alla prima. Altrove, trattando della discesa di un grave lungo un piano inclinato, scrive: ogni grave che discende obliquamente divide il suo peso in due aspetti differenti. E lo stesso concetto ribadisce con insistenza nello studio di uno dei problemi meccanici che sembra lo abbiano più fortemente interessato: quello del volo degli uccelli.

Vi sono finalmente alcuni fogli di un manoscritto esistente nella biblioteca dell'Institut de France, dai quali risulta chiaramente che Leonardo ha considerato il caso di un peso sostenuto da due funi AB e BC (fig. 8), e ha riconosciuto che il momento del peso per il rapporto a un punto C, scelto a arbitrio su una delle funi, deve essere uguale al momento, preso rispetto allo stesso punto C, della tensione che si esercita nell'altra fune. Questa importante conclusione egli trae dalla considerazione dell'equilibrio di una leva immaginaria, costituita da un corpo rigido di forma qualunque, semplicemente girevole attorno al punto fisso C, sul quale il peso dato e la tensione della fune AB agiscano rispettivamente coi bracci potenziali CF e CD.

Spetta però a Gilles Personne de Roberval il merito della prima trattazione sistematica dell'importante argomento. Nel breve trattato di meccanica, pubblicato dal Mersenne, in cui rende conto degli studi e delle scoperte dello Stevin, il Roberval, richiamandosi ora al principio della leva ora a quello del piano inclinato, enuncia e dimostra che, se due funi sostengono un peso nelle condizioni indicate nelle figg. 9 e 10, la tensione di ciascuna fune sta al peso dato come la lunghezza della perpendicolare, abbassata da un punto dell'altra fune sulla verticale del peso, sta alla lunghezza della perpendicolare abbassata dal medesimo punto sulla direzione della prima fune. Dopo di che, con semplici considerazioni geometriche - di cui ci si può rendere facilmente conto riferendosi all'uguaglianza dei due triangoli-momenti CBE e CBF - si giunge facilmente a dimostrare che, se da un qualunque punto F, preso sulla verticale del peso, si conduce la parallela FE a una delle funi fino a incontrare l'altra, i lati del triangolo FBE così formato risultano ordinatamente omologhi al peso e alle due tensioni.

10. È ovvio che, ottenuto per questa via, il principio del parallelogrammo delle forze assume il carattere di una verità indirettamente assodata in modo, se si vuole, indubitabile, ma niente affatto intuitivo. Si acquista cioè la convinzione che esso è vero, ma si prova un po' l'impressione di non vederne bene il perché.

Ai tempi di cui stiamo discorrendo era ancora lontano il giorno in cui il parallelogrammo delle forze si potrà dimostrare quale diretta e immediata conseguenza del principio dei lavori, assunto finalmente a fondamento primo di tutta la statica. È quindi ben naturale che, vista la grande importanza e l'estrema varietà delle applicazioni della regola dimostrata dal Roberval, si cercasse di stabilirla direttamente, di darle un posto d'onore nelle trattazioni sistematiche, di prenderla in qualche modo come punto di partenza della teoria dell'equilibrio. Ciò fece in realtà P. Varignon in un'opera di cui avremo occasione di occuparci a lungo: lo fece giustificando la regola della composizione delle forze mediante un semplice riferimento a quella, a lui famigliare, della composizione dei movimenti. Restò però nel Varignon, e ancora più nei suoi continuatori, il desiderio di svincolarsi da ogni concezione dinamica.

Vi furono anzi dei fisici che vollero vedere nel teorema della composizione delle forma una verità puramente geometrica, indipendente da ogni esperienza, e si preoccuparono perciò di darne una dimostrazione diretta.

Sono classici in proposito i tentativi di Daniele Bernoulli. Nelle sue dimostrazioni però è sempre implicita qualche nozione, che non si può accettare come evidente per sé stessa, ma che è più o meno direttamente attinta dall'esperienza. Fra l'altro, egli ammette che, sempre e in tutte le condizioni, più forze applicate in un medesimo punto possano essere sostituite a tutti gli effetti da un'unica forza risultante. Ora, per sapere questo, occorre essere già molto familiari con le varie operazioni di composizione e di decomposizione di forze, e il modo più semplice di acquistare una tale familiarità è quello di conoscere la regola del parallelogrammo.

In realtà il Bernoulli conosceva precedentemente, come risultato d'esperienza, il teorema che si proponeva di dimostrare: e il suo procedimento consisteva nel supporsi volontariamente nell'ignoranza e nel cercare di ritrovare il teorema stesso deducendolo con processo logico dal minor numero possibile d'ipotesi.

Un tale tentativo, si badi bene, è ben lontano dall'essere ozioso: anzi è questa la via più sicura per rendersi conto di quanto tenui e impercettibili siano le esperienze che bastano a metterci in possesso della verità: ed è per questo che noi abbiamo voluto seguire il Bernoulli nel suo tentativo. L'importante è di non indursi, strada facendo, in errore, come al Bernoulli è effettivamente accaduto, ma di conservare presenti alla mente tutte le ipotesi e di non perdere di vista nessuna delle esperienze di cui ragionando si viene a fare uso.

Ricerche assai più moderne, sulle quali crediamo inutile dilungarci, hanno dimostrato che l'ipotesi che più forze concorrenti possano sempre e in ogni condizione, e a tutti gli effetti, venire sostituite da un'unica risultante è, dal punto di vista matematico, affatto equivalente al teorema del parallelogrammo delle forze. Ma è ben più facile acquisire dall'osservazione dei fatti naturali il principio della composizione delle forze, di ciò che non sarebbe l'arrivare a convincersi, in base a sole esperienze statiche, della legge assai più astratta e generale di cui abbiamo testé fatto cenno. Senza contare che ci sarebbe voluta una sagacità quasi sovrumana per dedurre matematicamente il principio della composizione delle forze dalla semplice affermazione dell'esistenza della risultante, qualora quel principio non fosse già stato dall'uomo conosciuto per altra via.

11. Scoperto il principio della leva, trovata la legge dell'equilibrio sul piano inclinato, dedotta dall'uno o dall'altra la regola del parallelogrammo delle forze, si può ben dire che la maggior parte dei problemi della statica non presentava più difficoltà sostanziali. Tutto si riduceva a escogitare qualche ingegnoso artificio atto a ridurre il problema nuovo all'uno o all'altro di quelli noti e risolti.

Ingegnosissime sono le utilizzazioni che, del principio della leva, seppe fare Leonardo, che nei suoi manoscritti, mostra come tale principio possa fornire la soluzione dei più svariati problemi dell'equilibrio di pulegge o sistemi di pulegge.

Sulle tracce di lui, consimili problemi vennero ampiamente trattati da Giovanni Battista Benedetti e da Guidobaldo Dal Monte, nonché dallo stesso Stevin, che nel 1605 aggiungeva ai suoi Hypomnemata mathematica un apposito capitolo: De Trochleostatica, nel quale si sofferma, quasi incidentalmente, a fare rilevare il fatto che i varî casi di equilibrio trovati soddisfano tutti a un'unica regola generale che enuncia così:

"Ut spatium agentis ad spatium patientis,

Sic potentia patientis ad potentiam agentis".

È un evidente richiamo a quel principio dell'uguaglianza del lavoro motore e del lavoro resistente, che abbiamo visto ispirare a Giordano Nemorario la sua bella dimostrazione dell'equillbrio della leva, e che al suo anonimo allievo ha suggerito la soluzione del problema del piano inclinato.

Al medesimo principio si ricollegano certe osservazioni che Galileo fa seguire alla sua trattazione del problema del piano inclinato da noi già ricordata. Egli, riferendosi al caso in cui la lunghezza l del piano è esattamente uguale al doppio dell'altezza h, e dopo di avere dimostrato che per l'equilibrio deve il contrappeso Q essere esattamente uguale alla metà del peso P, osserva che, se si mettesse il sistema in movimento in modo che il contrappeso Q discendesse di una certa altezza δ, il peso P dovrebbe bensì spostarsi parallelamente al piano, su cui poggia, della stessa identica quantità, ma la sua salita misurata verticalmente sarebbe soltanto eguale a δ/2. Galileo è così condotto a rilevare che l'equilibrio non è soltanto determinato dalle grandezze dei pesi, ma anche dai loro possibili "avvicinamenti od allontanamenti dal centro della Terra", da quelle cioè che noi oggi chiameremmo le loro "altezze di caduta".

Non diversamente il Roberval, dopo di avere trattato il problema dell'equilibrio di un peso sostenuto da due funi, si sofferma a immaginare che al peso venga impresso uno spostamento verticale (verso l'alto e verso il basso) sì che i due contrappesi che determinano le tensioni nelle due funi siano trascinati a muoversi alla loro volta (nel senso contrario); e mette in evidenza la relazione che passa tra il rapporto delle loro grandezze.

Per lo Stevin, come per Galileo, come per il Roberval, il principio dell'uguaglianza dei lavori non è già il punto di partenza, sibbene il corollario che si enuncia a dimostrazione compiuta. Però è un corollario di cui salta agli occhi la grande generalità.

Galileo stesso, in un'"aggiunta" dettata nel dicembre del 1639 per essere inserita in un'eventuale ristampa dei suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, non si potrà astenere dal generalizzare. Premesso "tanto esser l'impeto del descendere d'un grave quanta è la resistenza o forza minima che basta per proibirlo e fermarlo", Galileo scrive infatti testualmente: "possiamo assertivamente affermare che quando debba seguire l'equilibrio, cioè la quiete, tra due mobili, le lor propensioni al moto devon rispondere reciprocamente alle loro gravità, secondo quello che in tutti i casi de' movimenti meccanici si dimostra". In un altro passo della stessa aggiunta, Galileo, quasi a sviscerare l'intima fondamentale ragione di tutte le sue osservazioni, si esprime poi in questi termini: "come è impossibile che un grave o un composto di essi si muova naturalmente all'in su, discostandosi dal comun centro verso dove conspirano tutte le cose gravi, così è impossibile che egli spontaneamente si muova se con tal moto il suo proprio centro di gravità non acquista avvicinamento al suddetto centro comune". E in verità sarebbe difficile disconoscere la singolare evidenza di una simile affermazione, tanto a noi sembra perfettamente naturale che non si produca alcun movimento in un sistema in cui l'eventuale discesa di un grave sarebbe compensata da un equivalente salita di un altro.

C'è nei rilievi dello Stevin, di Galileo, del Roberval un evidente richiamo a certe nostre conoscenze istintive, che sono così profondamente acquisite dalla nostra coscienza che noi non sentiamo neppure il bisogno di darcene ragione, con una dimostrazione. Si tratta di quelle stesse conoscenze istintive cui abbiamo fatto esplicito appello nelle nostre premesse, quando, per dare un significato fisico e matematico preciso all'idea di lavoro, abbiamo affermato che sollevare un chilogrammo a un metro di altezza è esattamente la stessa cosa che sollevare mezzo chilogrammo a due metri. E valeva bene la pena che fermassimo su questa idea ancora una volta la nostra attenzione per eliminare ogni dubbio che pure ci fosse rimasto sulla sua origine eminentemente, anzi esclusivamente sperimentale.

Un'altra osservazione dobbiamo fare ed è questa. L'eventuale sostituzione del concetto di lavoro a quello di momento, dagli antichi prescelto come elemento determinante dell'equilibrio o del movimento, sostituzione che appare chiara quando Galileo fa seguire alla dimostrazione dell'equilibrio sul piano inclinato l'osservazione testé ricordata, non aggiunge sostanzialmente nulla alle conoscenze di cui già eravamo in possesso: non fa che esprimerle sotto una nuova forma.

Nel fatto, per esempio, dell'equilibrio di una leva, è perfettamente indifferente considerare come elementi determinanti del fenomeno i pesi e le distanze loro dal fulcro, ovvero i pesi e le loro altezze di caduta. Ma lo sviluppo ulteriore della scienza ci rivelerà ben presto fino a qual punto la nuova concezione sia, rispetto alle precedenti, più espressiva e più vantaggiosa specialmente dal punto di vista dell'economia del pensiero.

12. Il primo che abbia veramente intuito tutto il vantaggio che dal nuovo punto di vista si poteva trarre per la possibilità ch'esso offriva di ridurre tutta la statica a un principio unico, fu René Descartes. In un breve trattato pubblicato nel 1637 sotto il titolo: Explication des engins par l'ayde desquels on peut, avec une petite force, lever un fardeau fort pesant, il Descartes espone infatti la teoria della puleggia, del piano inclinato, del cuneo, dell'asse nella ruota, della vite e, per ultimo, della leva, partendo sempre e sistematicamente da un solo principio secondo il quale "il lavoro - il Descartes usava ancora la parola forza, ma su ciò che intendesse dire non vi può essere dubbio - necessario per elevare due pesi differenti a differenti altezze è lo stesso se è lo stesso il prodotto del peso per l'altezza". E in una lettera indirizzata poco dopo, il 13 luglio 1638, al padre Mersenne, ribadisce il suo punto di vista scrivendo che tutto dipende da un solo principio che è il fondamento di tutta la statica, e cioè: "il ne faut ny plus ny moins de force, pour lever un cors pesant à une certaine hauteur, que pour lever un autre moins pesant à une hauteur d'autant plus grande qu'il est moins pesant, ou pour en lever un plus pesant à une hauteur d'autant moindre". E subito appresso: "Et il suit évidemment de ceci que la pesanteur relative de chaque cors, ou ce qui est le mesme; la force qu'il faut employer pour le soutenir et empescher qu'il ne descende, lorsqu'il est en certaine position, se doit mesurer par le commencement du mouvement que devrait faire la puissance qui le soutient tant pour le hausser que pour le suivre s'il s'abaissait. En sorte que la proportion qui est entre la ligne droite que descriroit ce mouvement et celle qui marqueroit de combien ce cors s'approcheroit cependant du centre de la terre est la mesme qui est entre la pesanteur absolue et la relative". E perché non resti dubbio sul fatto che, per lui, il principio dell'eguaglianza dei lavori non è più il corollario, sia pure generale e elegante, rilevato così sovente dai suoi predecessori, ma è la chiave stessa del problema dell'equilibrio e la ragione ultima della soluzione di esso, in una lettera sucessiva del 15 novembre stesso anno, allo stesso padre Mersenne scrive: "Pour ce qu'a écrit Galilée touchant la balance et le levier, il explique fort bien Quod ita fit, mais non pas Cur ita fit, comme je fais par mon Principe".

Il Descartes è anche stato il primo che abbia nettamente enunciato il carattere infinitesimale del principio dei lavori. Nel valersi di quella equivalenza di vincoli, a cui già avevano felicemente ricorso prima di lui Galileo e lo Stevin, egli ha, per primo, l'avvertenza di precisare che lo spostamento da considerarsi deve essere piccolissimo.

In una celebre lettera al Mersenne egli avverte, infatti, che l'uguaglianza dei lavori non ha luogo qualunque sia lo spostamento, grande o piccolo, che al meccanismo s'imprime: essa non sussiste in modo generale che per spostamenti infinitamente piccoli a partire dalla posizione di equilibrio. Scrive: "La pesanteur relative de chaque cors se doit mesurer par le commencement du mouvement que devrait faire la puissance qui le soutient, tant pour le hausser que pour le suivre s'il s'abaissait". E aggiunge: "Notez que je dis commencer à descendre, non pas simplement descendre à cause que ce n'est qu'au commencement de la descente à laquelle il faut prendre garde".

Riferendosi poi al caso di un peso vincolato a muoversi a contatto di una superficie curva, spiega che la tensione Q che il peso P determina nella fune che lo trattiene in equilibrio è la stessa tanto se la superficie d'appoggio è profilata secondo una curva data come se è semplicemente costituita dal piano tangente nel punto di appoggio alla superficie predetta. È ben vero, infatti, che il movimento che farebbe il peso salendo o discendendo di quantità finite sulla superficie curva, sarebbe affatto diverso da quello che farebbe spostandosi sul piano tangente: tuttavia la direzione del movimento nell'istante iniziale sarebbe nei due casi la stessa. "Et il est évident - scrive il Descartes - que le changement qui arrive à ce mouvement, sitost qu'il a cessé de toucher le point M, ne peut rien changer en la pesanteur qu'il a lorsqu'il le touche".

Attraverso all'accurata e minuziosa precisazione del suo pensiero, che ha occasione di fare nelle varie sue lettere al padre Mersenne, il Descartes formula in modo rigoroso la necessaria distinzione fra i concetti di forza e di lavoro, e dà di quest'ultimo la definizione esatta e completa riportata nelle nostre premesse.

Gli spetta, inoltre, indiscutibilmente il merito di avere operato il definitivo distacco della statica dalla dinamica. Nel mettere in relazione i pesi applicati a una macchina con gli spostamenti verticali dei loro punti di applicazione, i matematici del suo tempo usavano volentieri parlare delle rispettive velocità. Ora, poiché gli spostamenti di cui si tratta erano necessariamente contemporanei, parlare delle grandezze di essi o delle velocità con cui si effettuavano, doveva necessariamente condurre allo stesso risultato. Ma il riferimento alle velocità rappresentava un richiamo ai principî della dinamica aristotelica che il Descartes non esita a disapprovare. "Pour ceux qui disent que je devais considérer la vitesse, comme Galilée, plustost que l'espace, pour rendre raison des machines je croy, entre nous, que ce sont des gens qui n'en parlent que par fantaisie, sans entendre rien en cette matière. Et bien qu'il soit évident qu'il faut plus de force pour lever un cors fort viste, que pour le lever fort lentement, c'est toutesfois une pure imagination de dire que la force doit etre justement double pour doubler la vitesse, et il est fort aisé de prouver le contraire".

Abbiamo voluto riportare nel testo originale tutte queste affermazioni del Descartes, per dimostrare come attraverso l'opera sua la statica fosse veramente divenuta una scienza autonoma e come essa si fosse finalmente emancipata dalle premesse della dinamica aristotelica, senza perciò legarsi alh dinamica nuova, che in quello scorcio di tempo si andava appena delineando.

La statica aveva ormai trovato un suo principio fondamentale, di cui nessuno oserà più mettere in dubbio l'assoluta esattezza e l'evidenza immediata.

13. Non bisogna però credere che a questo principio tutti gli studiosi del tempo abbiano senz'altro riconosciuto quel carattere basilare, su cui il Descartes si era così decisamente affermato.

Chi scorra la letteratura scientifica del sec. XVII la troverà tutta pervasa da discussioni e da ritorni sulle antiche posizioni: sopra tutto dominata da una ristrettezza e oscurità di vedute che l'influenza del Descartes non riuscì a dissipare. È di questo tempo la deduzione del principio della composizione delle forze da quello della composizione delle velocità, fatta dal Roberval e dal Varignon con evidenti riferimenti alla dinamica di Aristotele.

È bensì vero che verranno presto P. Lamy e Isacco Newton a gettare le basi della dinamica moderna, e a correggere la deduzione del Varignon mettendo le forze in rapporto con le accelerazioni anziché con le velocità. È vero, anzi, che le parti non tarderanno a invertirsi e che J.-B. d'Alembert proietterà una luce nuova su tutta la dinamica, dimostrando come ogni problema di movimento si possa ridurre a un problema di equilibrio. Ma tutto ciò avverrà con lentezza e attraverso difficoltà di ogni sorta.

La verità è che la dinamica di Aristotele, come abbiamo avvertito, offriva un'interpretazione singolarmente naturale e immediata delle più comuni esperienze. Infinitamente più astratta, la dinamica moderna è il frutto di un prodigioso sforzo mentale, e il sec. XVII ci offre la prova delle enormi difficoltà che l'intelligenza umana ha dovuto affrontare e superare per decidersi ad abbandonare l'antica concezione e ad abbracciare la nuova.

Nel frattempo pochi sono i progressi che si registrano nel campo della statica propriamente detta. Ci limitiamo a segnalarne due.

Il primo consiste nell'estensione, esplicitamente fatta per la prima volta da John Wallis, del concetto di forza, e del modo di trattarne, al caso di forze affatto qualunque. Noi abbiamo infatti sin qui seguito lo studio dei più svariati problemi della statica, e abbiamo visto che le forze in giuoco erano sempre e soltanto dei pesi. È bensì vero che con la sistematica applicazione di funi e di pulegge di rinvio, questi pesi venivano costretti ad agire nelle più diverse direzioni; ma si trattava pur sempre e soltanto di pesi. Nel suo monumentale trattato di Mechanica, pubblicato tra il 1669 e il 1671, il Wallis avverte espressamente che tutto ciò che abitualmente si dice dei pesi e della loro tendenza verso il centro della Terra si può e si deve ripetere di ogni qualsiasi forza e del termine verso il quale essa tende. E spiega che, come la discesa di un grave deve essere misurata dal suo avvicinarsi al centro della Terra, così lo spostamento dovuto a una qualsiasi altra forza motrice deve, in modo assolutamente generale, valutarsi nella direzione della forza.

Il secondo consiste nella scoperta del teorema, secondo cui il momento della risultante di due forze per rapporto a un punto qualsiasi del loro piano è eguale alla somma degli analoghi momenti delle forze componenti. Questo teorema è stato scoperto da Pierre Varignon, e si trova nella sua Nouvelle Mécanique, opera architettata da lui fino dal 1687, ma pubblicata soltanto nel 1725, tre anni dopo la sua morte.

14. Questa Nouvelle Mécanique doveva, nelle intenzioni del suo autore, ricollegare la statica tutta al principio della composizione delle forze. Ed ecco che quel principio dei lavori, che si era già mostrato così fecondo negli scritti di Giordano Nemorario, dei suoi allievi e di Leonardo da Vinci; che era stato trascurato o misconosciuto dal Benedetti, da Guidobaldo Dal Monte e solo di sfuggita rilevato dallo Stevin; che, felicemente ripreso, rigorosamente enunciato e vigorosamente difeso dal Descartes, era stato dopo di lui di nuovo messo in disparte, fa, proprio nell'opera del Varignon, la sua nuova e definitiva ricomparsa. Nella Nouvelle Mécanique il Varignon ha, infatti, inserita una lettera indirizzatagli da Giovanni Bernoulli il 26 giugno 1717, che contiene fra l'altro il seguente brano che, per la sua importanza veramente storica, citiamo per intiero: "Concevez plusieurs forces différentes qui agissent suivant différentes tendences ou directions pour tenir en équilibre un point, une ligne, une surface ou un corps: concevez aussì que l'on imprime à tout le système de ces forces un petit mouvement, soit parallèle à soi-même suivant une direction quelconque, soit autour d'un point fixe quelconque: il vous sera aisé de comprendre que par ce mouvement chacune de ces forces avancera ou reculera dans sa direction, à moins que quelqu'une ou plusieurs des forces n'ayent leurs tendences perpendiculaires à la direction du petit mouvement: auquel cas cette force, ou ces forces, n'avanceroient ni ne reculeroient de rien: car ces avancemens ou reculemens, qui sont ce que j'appelle vitesses virtuelles, ne sont autre chose que ce dont chaque ligne de tendence augmente ou diminue par le petit mouvement: et ces augmentations ou diminutions se trouvent, si l'on tire une perpendiculaire à l'extrémité de la ligne de tendence de quelque force, laquelle perpendiculaire retranchera de la même ligne de tendence, mise dans la situation voisine par le petit mouvement, une petite partie qui sera la mesure de la vitesse virtuelle de cette force".

Il Bernoulli chiama qui col nome assolutamente improprio di velocità virtuali, delle grandezze che, come dal contesto appare chiaramente, non sono affatto delle velocità, ma semplicemente degli spostamenti (cioè delle lunghezze); noi non abbiamo in proposito che da richiamarci al passo citato del Descartes, e il richiamo ci sembra tanto più opportuno in quanto ancor oggi vi sono dei trattatisti che, impropriamente, continuano a designare col nome di principio delle velocità virtuali quel principio dei lavori, in cui resta ormai ben inteso che le velocità non entrano affatto.

Nel seguito della sua lettera, il Bernoulli si preoccupa di definire minuziosamente in un caso concreto il lavoro - ch'egli chiama "énergie" - di ciascuna forza, sotto forma di prodotto della forza per la sopra indicata proiezione dello spostamento sulla direzione della forza stessa; e precisa, nei modi a noi ben noti (v. lavoro), quando questo lavoro è da considerarsi come positivo (énergies affirmatives), e quando esso deve riguardarsi come negativo (énergies négatives). Dopo di che conclude: "Tout cela étant bien entendu, je forme cette proposition générale: En tout équilibre de forces quelconques, en quelque manière qu'elles soient appliquées, et suivant quelques directions qu'elles agissent les unes sur les autres, ou médiatement, ou immédiatement, la somme des énergies affirmatives sera égale à la somme des énergies négatives, prises affirmativement".

15. Per il Varignon, che ce lo presenta, questo enunciato è ancora quello dell'elegante corollario, la cui grande generalità, già rilevata da Galileo, viene nella Nouvelle Mécanique ampiamente illustrata coi più svariati esempî e con le più interessanti applicazioni. Ma ben più grande di quella, che il Varignon pensasse, era la portata dello scritto del Bernoulli.

In realtà, come giustamente osserva P.-M. Duhem nella sua storia su Les origines de la statique, di cui ci siamo largamente valsi, la lettera del Bernoulli al Varignon chiude il periodo storico dell'elaborazione dei principî della statica: con essa ha in certo qual modo inizio quello che si potrebbe chiamare il periodo classico.

Da Archimede al Varignon, gli spiriti più spiccatamente matematici hanno tenacemente perseguito un medesimo programma che troverà numerosi e valorosi continuatori fino ai tempi nostri. Per essi l'ideale consiste nel costruire una statica sul modello della geometria di Euclide: per opera loro, e attraverso un'analisi dei singoli problemi estremamente ingegnosa e paziente, i casi di equilibrio dei sistemi più complicati e più varî vengono decomposti e discussi fino a che in ciascuno appaiano, chiaramente isolati, i casi semplici, elementari, di cui in certo modo si compone; e questi casi semplici, elementari, sono da essi scelti in modo che vi si ritrovi una ragione di certezza e un grado di evidenza, che ricordi alla nostra mente quella evidenza e quella certezza che sono proprie delle verità fondamentali, su cui Euclide ha costruita la sua geometria.

Dare alla statica dei fondamenti logici così chiari e indiscutibili come sono quelli che stanno alla base delle matematiche pure, tale era indubbiamente l'obiettivo cui Archimede mirava quando scriveva il suo trattato 'Επιπέδων ἐσορροπικῶν; tale era ancora l'intenzione di D. Bernoulli e più tardi di L. Poisson allorquando essi si sforzavano di dimostrare in modo indipendente da qualsiasi esperienza la legge del parallelogrammo delle forze.

Ma mentre questa corrente ideale trascina un così gran numero di studiosi, altrì non mancano che s'ispirano alle direttive che alla statica aveva fino dalla prima ora segnate Aristotele. I loro sforzi non si esauriscono in un'analisi paziente e minuta dei singoli problemi più o meno complessi, ma tendono piuttosto a una larga sintesi: essi cercano di abbracciare in certo qual modo col loro sguardo tutti i casi di equilibrio che s'incontrano in natura o che l'uomo riesce comunque a realizzare: e tutti questi casi cercano d'inquadrare in un principio unico e universale. Certo questo principio essi dovranno trarlo da qualche osservazione semplice e spontanea dei fatti naturali; ma l'opera ardita di generalizzazione, con la quale essi passano da poche esperienze particolari a una legge sì ampia e comprensiva, farà necessariamente perdere a questa ogni carattere di evidenza immediata.

Del resto è sempre così: quanto più la scienza, progredendo e sviluppandosi, mette in evidenza la portata vera dei processi logici di cui essa si serve, tanto più riesce chiaro che il grado di certezza che noi attribuiamo alle ipotesi generali, su cui una teoria si fonda, non può derivare semplicemente da quei pochi fatti particolari che quelle ipotesi hanno suggerite; e si constata che ciò, che dà valore alle ipotesi e ci assicura della loro attendibilità, è la facilità con cui, nella teoria che ne deriva, si inquadrano le più diverse leggi che disciplinano i fatti sperimentali, è la sicurezza con la quale questi fatti possono essere dalla teoria anticipatamente previsti. È sotto questo punto di vista che vanno riguardati i tentativi isolati di Giordano Nemorario e dei suoi continuatori, e quelli sistematici di Descartes e di Giovanni Bernoulli, tendenti a precisare e a estendere sempre più la portata e l'importanza del principio dei lavori virtuali.

Le due tendenze, in apparente continuo conflitto, hanno per vie diverse egualmente contribuito allo sviluppo della statica: e un osservatore imparziale può facilmente riconoscere la parte che ciascuna di esse ha avuta nella storia di questa scienza. Certo lo spirito critico e l'analisi meticolosa hanno contribuito a sceverare da ogni errore le singole verità che a mano a mano l'uomo andava scoprendo; ma rare e di poco rilievo sono le scoperte ad esso dovute. La fecondità è virtù propria dello spirito di sintesi; ed è al metodo dei lavori virtuali, e a lui solo, che si deve l'incessante ampliarsi e moltiplicarsi delle teorie che nella statica moderna s'inquadrano o che ad essa più o meno direttamente si ricollegano.

16. Poche osservazioni ci restano ormai da fare. Abbiamo visto che per caratterizzare lo stato di equilibrio di un sistema qualunque il Bernoulli immagina di imprimere ad esso "un petit mouvement soit parallèle a soi-même suivant une direction quelconque, soit autour d'un point fixe quelconque". È ben chiaro che egli vuole così indicare gli spostamenti rigidi del sistema; ora questi spostamenti non sono sempre tutti compatibili coi vincoli; e non è neppur detto che fra essi siano sempre compresi tutti gli spostamenti compatibili coi vincoli. Anche negli esempî del Varignon accade a volte di trovar cenno di spostamenti incompatibili coi vincoli, il che richiede naturalmente che si suppongano idealmente soppressi questi vincoli e introdotte in loro vece le rispettive reazioni: di qui gravi complicazioni dipendenti dal fatto che queste reazioni sono incognite, e incognito è quindi anche il relativo lavoro virtuale.

Però tutte le volte che noi abbiamo occasione di studiare un vincolo, nel quale sia ben certo che non entrano in gioco resistenze passive di sorta, siamo condotti a constatare che, operata la solita sostituzione ideale del vincolo con la sua reazione, questa riesce sempre diretta normalmente agli spostamenti che il vincolo soppresso consentiva al sistema; sicché se, pur dopo di aver liberato il sistema da esso vincolo, ci si limita a considerare spostamenti che con esso siano compatibili, la relativa reazione non compie lavoro alcuno. Questa proprietà è così caratteristica che si è trovato opportuno assumerla addirittura come definizione di "vincolo senza attrito": definizione, s'intende, che non ha in sé niente di necessario, che è cioè assolutamente arbitraria; che anzi, se presa alla lettera, escluderebbe senz'altro dalle nostre considerazioni la maggior parte dei vincoli naturali, nei quali è ben difficile per non dire impossibile, liberarsi completamente dalle resistenze passive in genere e da quelle di attrito in ispecie. Si tratta al solito di una astrazione che conduce a costruire una teoria limite, il cui immenso valore, come prima approssimazione della realtà, risulta dimostrato da numerose ed espressive applicazioni.

Qui basta rilevare come - definiti così i vincoli - vi sia la possibilità di evitare tutte le difficoltà e le complicazioni di cui si è fatto cenno poc'anzi, eliminando le reazioni incognite dall'equazione dei lavori virtuali: basta limitarsi a considerare spostamenti che siano, con essi vincoli, compatibili.

Questa possibilità era probabilmente sfuggita all'attenzione del Bernoulli; in ogni caso egli non si è affatto curato di metterla in rilievo; ma essa costituisce in pratica una ragione di grande superiorità del metodo dei lavori virtuali su tutti gli altri metodi di analisi del problema generale dell'equilibrio; vale quindi la pena che noi ne teniamo esplicito conto nel formularne in modo definitivo l'enunciato.

A tal fine immaginiamo per un momento che i singoli punti, di cui consta un sistema materiale comunque complesso, siano resi completamente liberi e indipendenti gli uni dagli altri mediante l'annullamento dei vincoli che connettono ciascuno di essi al resto del sistema, e la contemporanea introduzione in loro vece delle rispettive reazioni (v. reazione).

È evidente che all'equilibrio del sistema si verrà così a sostituire l'equilibrio dei singoli suoi punti; per ciascuno dei quali, una volta ammesso il principio della composizione delle forze, sarà ovvio ritenere che l'equilibrio sussisterà se, e soltanto se, sarâ nulla la risultante di tutte le forze su di esso agenti (siano esse direttamente applicate, ovvero derivanti dai vincoli soppressi).

Ma per un punto libero, come è ora per ipotesi ciascun punto del sistema, dire che la forza risultante è nulla o dire che è nullo il lavoro che questa forza compie per qualunque spostamento. immaginabile del punto, è evidentemente la stessa cosa; non si fa cioè che enunciare lo stesso identico fatto sotto due forme differenti.

Limitiamoci ora a considerare, tra tutti gli spostamenti immaginabili, quelli solo che sono piccolissimi e compatibili coi vincoli: sono essi che d'ora innanzi converremo di chiamare col nome di "spostamenti virtuali"; per essi le reazioni di vincolo non compiono lavoro; dunque per l'equilibrio dovrà riuscir nulla la somma dei lavori delle forze direttamente applicate.

Reciprocamente, quando questa condizione è soddisfatta, l'equilibrio deve necessariamente aver luogo: altrimenti per ottenerlo occorrerebbe far intervenire delle nuove forze capaci di opporsi agli spostamenti che tenderebbero a prodursi: forze cioè che, per questo particolare sistema di spostamenti, dovrebbero effettuare un lavoro negativo. Si realizzerebbe così un nuovo stato di equilibrio nel quale la condizione, precedentemente dimostrata come necessaria, non sarebbe più realizzata.

Questo ragionamento, basato sull'ipotesi che ogni sistema naturale si possa considerare come l'aggregato di un numero convenientemente grande di punti materiali fra loro connessi da vincoli senza attrito, è, almeno nella sua struttura generale, dovuto a J.-B. Fourier, e viene di solito considerato come una vera e propria dimostrazione (nel senso di deduzione dal principio della composizione delle forze) di quello che si conviene allora di chiamare il teorema dei lavori virtuali e che si enuncia così:

La condizione necessaria e sufficiente per l'equilibrio di un sistema materiale, soggetto a vincoli senza attrito, è che la somma dei lavori delle forze ad esso direttamente applicate sia nulla per tutti i sistemi di spostamenti virtuali, cioè piccolissimi e compatibili coi vincoli.

17. Ora poco importa in fondo che lo si chiami "teorema" ovvero "principio dei lavori virtuali": quello che preme soprattutto è che non si perda di vista che siamo di fronte né più né meno che ad un'espressione generale delle leggi dell'equilibrio, anzi alla più generale tra le espressioni delle leggi dell'equilibrio.

G. Lagrange non ha esitato ad affermare che qualunque altra espressione delle leggi dell'equilibrio fosse stata scoperta in avvenire, non sarebbe stata altro che il principio stesso dei lavori virtuali diversamente espresso.

Sotto questo punto di vista i ragionamenti dello Stevin, di Galileo, del Descartes, del Bernoulli, ecc., per quanto riguardanti soltanto dei casi particolari, sono forse più istruttivi della dimostrazione di Fourier. Più istruttivo soprattutto, se pure un po' artificioso, è il modo con cui il Lagrange stesso cerca di giustificare il principio in discorso, deducendolo da quello che egli si compiace di chiamare il "principio delle pulegge".

Ecco, brevemente riassunto, il suo ragionamento. Consideriamo un sistema in equilibrio sotto l'azione di un certo numero di forze F1, F2, F3, ecc., oltreché di certi vincoli rientranti in tutto e per tutto nelle categorie sopra definite: e supponiamo che si possa determinare una grandezza Q tale che:

n1, n2, n3, ecc., essendo dei numeri intieri.

In queste condizioni immaginiamo collocate nei punti A, B, C.... di applicazione delle singole forze delle pulegge multiple e altre identiche collocate in certi punti A′, B′, C′, ... scelti convenientemente sulle linee d'azione delle stesse forze e resi assolutamente fissi nello spazio (fig. 11). Fissata l'estremità di un lungo filo a un punto fisso O, facciamolo passare n1 volte tra A ed A′ in guisa da formare ivi un paranco ad n1 rami: poi portiamoci in B′ e facciamo passare lo stesso filo n2 volte tra B e B′ sì da costituire ivi un secondo paranco a n2 rami: indi andiamo a costituire tra C e C′ un terzo paranco ad n3 rami; e così via: sospendiamo all'estremità libera del filo un peso eguale a Q. È evidente che poiché il filo deve assumere in tutta la sua lunghezza la medesima tensione Q, il meccanismo così costituito diviene capace di rimpiazzare con l'azione di quell'unico peso tutte le forze date.

Ora, se, per una data configurazione del sistema, tra tutti i sistemi di spostamenti piccolissimi di cui esso è suscettibile, compatibilmente coi vincoli, ve ne è qualcuno capace di dar luogo a una discesa del peso Q, questo peso discenderà effettivamente provocando la realizzazione di quel determinato sistema di spostamenti: non vi sarà dunque equilibrio.

Vi sarà invece equilibrio, in quanto nessun movimento tenderà a prodursi, se tutti i predetti sistemi di spostamenti sono tali da lasciare immobile il contrappeso. Ora perché ciò avvenga è evidente che, detti s1, s2, s3, ... gli spostamenti dei singoli punti A, B, C, ... misurati nelle direzioni AA′, BB′, CC′, ... e tenuto conto del numero dei rami di filo che entrano in ciascun paranco, deve sussistere la relazione

la quale nelle ipotesi fatte equivale alla formola:

che esprime appunto il principio di cui ci siamo occupando.

Il lettore avrà notato che il Lagrange non considera qui i sistemi di spostamenti che potrebbero dare luogo a un innalzamento del peso Q; la ragione è subito vista: il Lagrange suppone sempre che i vincoli siano bilaterali: che cioè a ciascun sistema di spostamenti con essi compatibile corrisponda sempre, e sia alla sua volta compatibile, il sistema degli spostamenti eguali e contrarî. È allora evidente che, se il primo sistema desse luogo a un innalzamento del peso Q, questo secondo darebbe necessariamente origine a un abbassamento: sicché l'eventualità rientrerebbe ancora nella prima delle categorie considerate.

Soltanto nell'ipotesi che il sistema fosse soggetto anche a qualche vincolo unilaterale si potrebbe ammettere la possibilità di qualche sistema di spostamenti capace di dar origine a un innalzamento di Q senza che fosse possibile il sistema degli spostamenti eguali e opposti. In questa ipotesi la somma di prodotti testé scritta potrà assumere valori negativi; e tuttavia l'equilibrio continuerà a sussistere poiché non vi è dubbio che il peso Q tende bensì ad abbassarsi, non mai ad innalzarsi, epperò spostamenti atti a produrre un innalzamento di Q sono da considerarsi come non suscettibili di realizzazione spontanea.

Nel caso dei vincoli unilaterali l'equazione dell'equilibrio dovrà dunque intendersi modificata così

Un'altra osservazione conviene fare a proposito della dimostrazione del Lagrange, ed è che, per quanto il principio resti da essa stabilito limitatamente al caso in cui le singole forze applicate siano fra loro commensurabili, esso deve intendersi valido anche per forze incommensurabili, la validità potendosi sempre stabilire mediante un noto procedimento di riduzione all'assurdo, che i matematici usano in tutti i casi del genere.

18. Ciò posto vediamo di precisare la portata di questa dimostrazione, o meglio di questa giustificazione, che il Lagrange dà del principio dei lavori virtuali.

Non v'è dubbio che essa sta solo in quanto si accettino come accertati i due fatti seguenti: se il peso Q può discendere, facendo spostare il sistema a cui il filo lo collega, esso discenderà; se invece non c'è nessuno spostamento possibile del sistema che permetta a Q di discendere, tutto resterà in quiete.

Ora ciò vuol dire riportare il problema dell'equilibrio del sistema dato a quello dell'equilibrio del peso Q e ammettere che, perché questo si verifichi, è necessario e sufficiente che sia nullo il lavoro che il peso stesso può compiere in tutti gli spostamenti virtuali permessigli dal vincolo ad esso creato dal filo, dalle pulegge, e dal sistema a cui queste sono applicate.

Il Lagrange, dunque, per dimostrare il principio dei lavori virtuali in tutta la sua generalità, lo ammette in un caso particolare che è indubbiamente ben scelto in quanto è assai accessibile alla nostra intuizione diretta. Una simile riduzione a un caso semplice non è evidentemente una dimostrazione del principio, nel senso che si dà alla parola "dimostrazione" dai matematici, ma merita bene il nome di dimostrazione se ci si mette dal punto di vista fisico.

D'altronde - come osserva giustamente E. Mach nei suoi saggi critici sullo sviluppo della meccanica - essa è in ogni caso la sola specie di giustificazione di cui un principio come questo sia suscettibile.

Accade quasi sempre, nel progredire della scienza, che un principio nuovo, scoperto studiando un dato fenomeno o una data classe di fenomeni, non sia subito accettato in tutta la sua generalità. È allora naturale che si ricorra a tutti i mezzi e a tutte le vie e a tutti i ragionamenti, che possano giustificare la sua generalizzazione; e si fa appello, per rendersi convinti dell'applicabilità del nuovo principio, a casi diversi, a fatti ed esperienze le più differenti, nelle quali il principio nuovo sia bensì contenuto, ma la cui conoscenza abbia già potuto essere acquisita per altra via.

La scienza, giunta al suo stadio di completa maturità, non deve lasciarsi ingannare da simili procedimenti, ma non deve neppure disconoscerne il valore. Quando in tutti i fatti osservati noi ritroviamo sempre, costantemente e chiaramente, confermato un dato principio; quando cioè, anche senza saper dare di esso una dimostrazione assoluta, noi siamo in grado di constatarne quante volte vogliamo la verità, noi compiamo un atto assai più conforme alla concezione logica della natura ammettendolo senz'altro, che non insistendo nella pretesa di dimostrarlo.

Del resto che cosa vorrebbe dire dimostrare matematicamente il principio dei lavori virtuali? Vorrebbe dire dedurlo logicamente da un'altra legge altrettanto generale, ma più evidente o per lo meno più semplice. Ora, diceva argutamente il Poinsot, che così facendo si verrebbe a rendere il principio stesso perfettamente inutile, perché tanto varrebbe servirsi senz'altro di quella legge più semplice per dedurre da essa direttamente la teoria generale dell'equilibrio. E d'altra parte a quella legge bisognerebbe pur riconoscere alla fine quel carattere di postulato indimostrabile, che si voleva evitare di ammettere nel principio prima considerato.

Tutta la questione resta dunque ridotta al riconoscere o meno l'opportunità di una simile sostituzione di principî; e ogni discussione a fondo, la quale si imperniasse sulla presunta maggiore o minore semplicità e chiarezza di un principio rispetto a un altro, sarebbe evidentemente oziosa, in quanto semplicità e chiarezza sono in fondo delle cose molto, ma molto relative.

Ciò che bisogna cercare in un principio prima di accoglierlo come punto di partenza di una teoria è piuttosto la generalità: più precisamente la possibilità di comprendere per mezzo di esso in una unica formula la risoluzione di tutti i problemi che si possono presentare nei singoli casi particolari, sì da poterne poi fare l'applicazione a questi casi senza bisogno di dover fare per ciascuno dei casi un ragionamento da capo.

Ecco che ricompare qui, e questa volta ben precisato, quel concetto dell'economia del pensiero, nei rapporti del quale si è già annunciato che il principio dei lavori virtuali eccelle su tutti gli altri.

19. E in verità, sotto questo punto di vista, il principio dei lavori virtuali ha superate tutte le possibili aspettative.

Non soltanto le leggi dell'equilibrio dei solidi si sono trovate in esso compendiate, e la statica, per opera del Lagrange costituita in scienza mirabilmente organica e ordinata, non ha più avuto bisogno di andare a cercare la risoluzione dei suoi problemi ora nel principio della leva, ora in quello del piano inclinato, ora in quello della composizione delle forze; ma anche le leggi dell'equilibrio dei sistemi deformabili, e quelle ancora dell'equilibrio dei fluidi si sono venute a quell'unico principio ricollegando.

La stessa dinamica, una volta stabilito il principio di D'Alembert e introdotta la considerazione delle forze d'inerzia, ha trovato nel principio dei lavori virtuali e nel metodo di Lagrange la via più semplice e più sicura per giungere, in ciascun caso concreto, alle equazioni differenziali del movimento.

Dal Lagrange in poi - scrive il Duhem quasi a conclusione della sua opera già citata - il metodo dei lavori virtuali si è costantemente rivelato come il metodo a un tempo più preciso e più generale: quello che tutti i meccanici chiameranno in loro aiuto ogniqualvolta si tratterà di risolvere un dubbio, di superare una difficoltà, di gettare un raggio di luce su di un punto oscuro.

C.-L. Navier ottenne bensì per via diretta le equazioni indefinite dell'equilibrio elastico: ma quando volle completare l'opera, e aggiungere alle equazioni indefinite le condizioni ai limiti necessarie per completare la determinazione del problema, riprese lo studio col metodo dei lavori virtuali.

S.-D. Poisson era convinto che lo stato di deformazione elastica di un corpo si potesse nelle condizioni più generali far dipendere da soli 15 coefficienti indipendenti: A. Cauchy e G. Lamè sostenevano che quelle costanti erano 36: è facendo uso del procedimento di Lagrange che G. Green riuscì a risolvere la questione e a dimostrare che il numero esatto di quei coefficienti è 21.

P.-S. Laplace ha scoperta l'equazione della superficie capillare; ma i suoi ragionamenti prestano il fianco a qualche dubbio là dove egli cerca di stabilire le leggi ehe governano il fenomeno in corrispondenza dei punti in cui la superficie libera del liquido si distacca dal tubo: la costanza dell'inclinazione in quei punti è da lui postulata, non dimostrata. C. F. Gauss in un lavoro, che offre uno dei più mirabili esempî di applicazione del metodo di Lagrange, riesce con assoluto rigore e precisione a dedurre dal principio dei lavori virtuali tutto l'insieme delle leggi della capillarità.

Cauchy e Poisson non riescono ad accordarsi nell'enunciazione delle condizioni che debbono essere verificate ai bordi di una piastra elastica in equilibrio: l'analisi diretta del problema li conduce a fissare delle condizioni che si rivelano poi sovrabbondanti. E sarà ancora una volta il metodo dei lavori virtuali quello che permetterà a G. R. Kirchhoff di risolvere l'enigma e di precisare, senza omissioni né ripetizioni, le condizioni richieste.

Così si può ben dire che non v'è campo della statica propriamente detta nel quale, alla fine del sec. XIX, il metodo dei lavori virtuali non avesse dimostrato la sua superiorità assoluta.

Ma ecco che nuovi orizzonti, prodigiosamente estesi, vengono di un tratto a scoprirsi. Non sono più soltanto gli equilibrî meccanici che esso governa, ma quelli altresì che si stabiliscono tra i sistemi magnetizzati o elettrizzati, e quelli ancora che segnano il punto di partenza dei mutamenti di stato fisico e delle reazioni chimiche.

Il piccolo germe, di cui abbiamo seguito il lento e laborioso sviluppo, non si è contentato di generare la Mécanique analytique del Lagrange: da quello stesso germe derivano ormai anche la meccanica chimica e la meccanica elettrica di J. W. Gibbs e di H. Helmholtz.

20. Resta solo da chiarire il concetto della stabilità dell'equilibrio. Nei suoi Μηχανικὰ προβλήματα Aristotole considera una bilancia il cui giogo sia costituito da una trave prismatica a sezione rettangolare, sospesa ad un filo in corrispondenza del punto di mezzo del suo bordo superiore; e si domanda per qual ragione una tal bilancia una volta spostata dalla sua posizione orizzontale di equilibrio, e abbandonata a sé stessa, tenda a ritornare alla posizione primitiva; in altre parole si domanda perché l'equilibrio di una tal bilancia sia stabile. La sua risposta è la seguente: se il giogo è stato, per esempio, abbassato dalla parte sinistra, la porzione di esso che viene con ciò a trovarsi a destra della verticale di sospensione è più grande, e perciò più pesante, di quella che resta a sinistra della stessa verticale: la prima tenderà quindi ad abbassarsi costringendo la seconda a sollevarsi, e ciò riporterà la bilancia verso la posizione di equilibrio.

Passando poi a considerare il caso in cui il giogo, invece di essere sospeso, fosse appoggiato in corrispondenza del punto di mezzo del suo bordo inferiore Aristotele scrive: "il contrario accade se il punto di appoggio sta al di sotto".

Ancora a proposito della leva, il problema della stabilità dell'equilibrio si è certamente e ripetutamente presentato agli studiosi del Medioevo: a quelli in particolare della scuola di Giordano Nemorario. Certo il problema si presentò alla mente di Leonardo, il quale riconosce la stabilità della bilancia come direttamente subordinata alla condizione che la congiungente dei punti a cui i due pesi sono sospesi passi al disotto del punto di appoggio: poiché in tal caso, come egli giustamente osserva, scostato il sistema dalla posizione di equilibrio, il braccio di leva si trova ad essere accresciuto per quella delle forze il cui punto di applicazione si è innalzato, si trova ad essere diminuito per l'altra: onde segue necessariamente che il peso che si è sollevato viene a prevalere su quello che si è abbassato determinando il ritorno del sistema verso la posizione iniziale.

In un altro dei suoi scritti, Leonardo, trattando di una leva a bracci uguali, dichiara che essa deve rimanere in equilibrio qualunque inclinazione le si attribuisca, e ciò perché il punto di sospensione coincide col centro di gravità dei due pesi.

Caratterizzando così l'equilibrio indifferente, Leonardo non fa in fondo che riportarsi alla proprietà che Pappo di Alessandria aveva fin dai suoi tempi (sec. III d. C.) assunta come definizione del centro di gravità. Il matematico alessandrino chiamava infatti con questo nome quel punto, in corrispondenza del quale bisognava sospendere un corpo perché esso potesse rimanere in equilibrio con qualunque orientazione.

21. Orbene, è proprio ancora con un richiamo alle proprietà del centro di gravità che il più illustre tra gli allievi di Galileo, Evangelista Torricelli fece fare alla teoria della stabilità dell'equilibrio il più decisivo progresso. Nella sua opera De motu gravium naturaliter descendentium et projectorum, pubblicata nel 1664, Torricelli ammette come postulato che due gravi, legati insieme per modo che il moto dell'uno determini quello dell'altro, non possono spontaneamente muoversi se non nel caso che il loro comune centro di gravità possa discendere. In realtà - egli scrive - se i due gravi sono collegati con l'intermediario di una leva o di una puleggia, o di un qualsiasi altro meccanismo atto a determinare la legge di dipendenza dei loro movimenti, essi si comporteranno come un grave unico formato di due parti: il quale grave unico non si metterebbe certo in movimento spontaneamente, se non quando il suo centro di gravità potesse discendere: e ove ciò non gli fosse consentito dai vincoli impostigli, si manterrebbe sicuramente in equilibrio nella sua posizione attuale, poiché qualsiasi suo movimento, non tendendo verso il basso, non avrebbe ragione di essere.

Di qui - con un evidente richiamo alle osservazioni fatte da Galileo a proposito del problema dell'equilibrio sul piano inclinato, osservazioni da noi riportate al n. 6 - il Torricelli deduce che: "se due gravi sono collocati su due piani diversamente inclinati, ma di pari altezze, essi si possono sostenere l'un l'altro in condizioni di equilibrio se i loro pesi stanno tra loro come le lunghezze dei piani", perché proprio in questo caso, e in questo solo, avviene che, discendendo l'uno dei pesi e salendo l'altro in conseguenza, il loro centro di gravità si sposta sopra un piano orizzontale.

Torricelli non è andato molto più in là nel trarre dalle sue premesse le generalissime conclusioni di cui erano suscettibili. Ma ciò che egli non fece, fece certamente, non molti anni dopo, B. Pascal, ponendo il principio di Torricelli a base di una sua trattazione generale dei problemi dell'equilibrio che, disgraziatamente, non ci è pervenuta.

Del resto al principio di Torricelli vanno connesse molte delle più importanti scoperte nel campo della statica. Basti citarne una.

E. Mach racconta che Giovanni e Giacomo Bernoulli, mentre passeggiavano un giorno a Basilea discutendo fra loro di argomenti matematici, si chiesero quale fosse la forma di equilibrio di una catena pesante sospesa alle sue due estremità. Essi pensarono allora giustamente che l'equilibrio doveva esser raggiunto allorquando tutti gli anelli della catena fossero discesi il più possibile, nel senso che un'ulteriore caduta di uno di essi dovesse provocare la salita di un altro a un'altezza eguale o superiore. E ne conclusero senz'altro che la configurazione di equilibrio era quella, per la quale il baricentro veniva a trovarsi nella posizione più bassa.

In realtà il problema era così completamente ed assai elegantemente risolto. La parte fisica di esso era esaurita. La determinazione della curva di lunghezza data tra due punti pure dati, il cui centro di gravità si trova a un'altezza minima, non è più che una questione puramente matematica.

22. Spetta ancora al Lagrange il merito di avere segnalata la identità sostanziale del principio di Torricelli con quello dei lavori virtuali: di avere cioè avvertito come sia in ultima analisi equivalente dire che in una certa configurazione di un certo sistema di corpi pesanti il centro di gravità si trova a un'altezza minima, ovvero dire che, per una variazione infinitamente piccola della configurazione considerata, quel centro non può discendere e quindi il lavoro delle forze di gravità deve essere nullo.

Vi è solo una distinzione da fare tra i due enunciati: ed è che col principio di Torricelli non si ritrovano tutti i casi per cui il lavoro è nullo: ma si escludono automaticamente quelli in cui ciò avviene in quanto il centro di gravità si trova per esempio ad un'altezza massima: per essere più precisi, quelli in cui ciò avviene senza che il centro di gravità si trovi a un'altezza minima.

E fu ancora il Lagrange che, creando la teoria generale della stabilità dell'equilibrio, diede ragione della distinzione, e mostrò come il principio di Torricelli caratterizzi precisamente gli stati di equilibrio stabile, e quelli soli.

La distinzione è dunque della maggiore importanza.

In pratica non basta infatti saper riconoscere se un sistema occupa una posizione di equilibrio, visto che non è sempre possibile collocare esattamente il sistema in quella posizione e abbandonarvelo allo stato di riposo assoluto.

L'equilibrio non ha un reale interesse se non quando è stabile, vale a dire quando si è certi che il sistema, eventualmente scostato di poco dalla posizione che si considera, tende a ritornarvi, non ad allontanarsene maggiormente.

Si vede subito che la questione della stabilità o meno dell'equilibrio costituisce in ultima analisi un problema di dinamica: si tratta infatti di analizzare il movimento che il sistema assume quando lo si colloca in una posizione di poco differente da quella di equilibrio, e poi lo si abbandona a sé stesso.

Tuttavia, pur non volendo affatto invadere qui un campo estraneo al nostro programma, noi possiamo bene, e con i soli mezzi della statica, arrivare ad alcuni risultati che, proprio dal punto di vista statico, sono del maggiore interesse.

A tal fine riportiamoci ancora una volta col pensiero a quel certo congegno di pulegge e di rinvii che abbiamo visto utilmente impiegato dal Lagrange per render ragione del principio dei lavori virtuali. E supponiamo per un momento che ciascun punto del sistema materiale rappresentato nella fig. 11 sia vincolato a muoversi su di una curva ben determinata, e che la posizione di uno di essi sulla sua traiettoria determini completamente le posizioni di tutti gli altri punti. Si usa allora dire che il sistema ha un sol grado di libertà, nel senso che la sua configurazione si può sempre immaginare dipendente da un unico parametro. È certo questo un caso assai particolare: altrettanto importante però, perché realizzato da moltissimi dei meccanismi di cui la pratica tecnica ci offre l'esempio. Immaginiamo rappresentate in un diagramma, in funzione dell'accennato parametro, le altezze del contrappeso Q cui è affidato il compito di mantener costante la tensione del filo nel congegno ideato dal Lagrange. La rappresentazione si può ottenere con tutta facilità anche materialmente: basta munire il contrappeso di una penna scrivente e mentre esso, al muoversi del sistema, si alza o si abbassa, far scorrere un foglio di carta sotto la penna con opportuno moto di traslazione orizzontale.

Chi ricorda il ragionamento del Lagrange non può esitare nel riconoscere alla semplice ispezione del diagramma così ottenuto le possibili posizioni di equilibrio del sistema.

Si diceva allora che perché l'equilibrio potesse sussistere occorreva che, per uno spostamento piccolissimo del sistema, il contrappeso Q restasse immobile: nella rappresentazione grafica ora adottata l'eventualità verrà rappresentata da un punto del diagramma a tangente orizzontale. Ma di tali punti ce ne possono evidentemente essere di varî generi: e precisamente di quattro generi: ci possono infatti essere i punti più bassi del diagramma, i più alti e finalmente quelli che senza corrispondere né ad una ordinata massima né ad una minima hanno tuttavia la tangente orizzontale sia essa una tangente di flesso, sia essa addirittura identificata con un tratto finito della curva (v. massimi e minimi).

Ovvie considerazioni che non è qui certo necessario ripetere ci permettono di riconoscere nel primo caso le caratteristiche dell'equilibrio stabile, nel secondo e nel terzo quelle dell'equilibrio instabile, nell'ultimo finalmente quelle dell'equilibrio indifferente.

Che se poi si vuole tener presente la possibilità già prospettata a suo tempo che tra i vincoli imposti al sistema ce ne sia anche qualcuno unilaterale, occorre prevedere altresì la possibilità che il diagramma presenti dei punti angolosi, vertici o cuspidi, verso l'alto ovvero verso il basso.

S'intende che al primo di questi casi non corrisponde equilibrio di sorta, neppure instabile: mentre il secondo sta a denotare uno di quei casi di equilibrio, sicuramente stabile, che abbiamo a suo tempo riconosciuti caratterizzati da valori non nulli, ma negativi, della somma dei lavori virtuali.

Se ora noi immaginiamo di rinunciare alla limitazione dell'unico grado di libertà che momentaneamente ci eravamo imposta - se cioè ammettiamo che i singoli punti del sistema materiale considerato si possano muovere anziché su una semplice linea, su di una superficie, o addirittura in tutta una porzione dello spazio, e se di più rinunciamo alla condizione che i loro movimenti si possano tutti far dipendere in modo unico da quelli di uno solo tra essi - allora le cose si complicano assai, e non è più possibile esprimerle mediante la semplice e intuitiva rappresentazione grafica di cui ci siamo poc'anzi serviti.

Le cose si complicano anche di più se ammettiamo, come dobbiamo necessariamente ammettere per fare il caso più generale, che al muoversi dei varî punti le forze ad essi applicate non si mantengano già costanti in grandezza e direzione, ma possano variare secondo leggi ben determinate ma affatto arbitrarie.

Se però si tiene presente che nel ragionamento del Lagrange le salite e le discese del contrappeso stanno a rappresentare né più né meno che i lavori negativi o positivi delle forze applicate, si può anche ai casi più complessi e generali estendere la portata delle considerazioni che precedono alla sola condizione che invece di parlare di massimi o minimi di altezza del contrappeso si parli di minimi o massimi di valore della funzione "lavoro".

Noi sappiamo bene infatti che ad ogni passaggio di un sistema di punti da una a un'altra qualunque sua configurazione corrisponde un certo ben determinato lavoro delle forze applicate, funzione, nelle condizioni più generali, della successione delle configurazioni per cui il sistema passa.

Orbene, se in questa successione di configurazioni una ve n'è nella quale il sistema considerato potrebbe restare in equilibrio, l'incremento infinitesimo del lavoro nello spostamento elementare immediatamente precedente e in quello immediatamente susseguente alla configurazione di cui si tratta deve, pel principio dei lavori virtuali, riuscire nullo.

La funzione, in corrispondenza di quella configurazione, deve dunque, in generale, essere massima o minima.

Questo teorema fu comunicato all'Accademia delle scienze di Parigi nel 1740 da P.-L.-M. Maupertuis, il quale gli aveva dato il nome di "loi de repos": e fu oggetto di studî più approfonditi per parte di Eulero che ne riferì all'Accademia di Berlino nel 1751.

Nel caso, essenziale nella pratica, in cui le forze ammettono un potenziale si giunge senz'altro all'importante conclusione che le configurazioni di equilibrio stabile sono quelle, e quelle sole, che corrispondono ai minimi dell'energia potenziale.

Per ulteriori notizie, v. stabilità.

Cenni sull'applicazione dei principî della statica ai problemi dell'equilibrio.

23. Esposti così, sia pur soltanto nelle loro linee generali, i principî, vediamo brevemente come essi si possano tradurre in formule e prestarsi alla risoluzione numerica dei problemi dell'equillbrio.

Consideriamo un sistema costituito da n punti materiali, le cui coordinate rispetto a un sistema di assi cartesiani ortogonali siano rispettivamente

Vogliamo supporre il sistema sollecitato e vincolato nel modo più generale. Perciò a ciascuno dei punti immagineremo applicate tre forze, dirette parallelamente agli assi, che designeremo rispettivamente con

Ammetteremo inoltre che quegli stessi punti siano soggetti a un certo numero di vincoli bilaterali senza attrito, che riterremo rappresentati da k equazioni di condizione

f1, f2, ..., fk essendo funzioni delle 3 n coordinate dei punti del sistema, affatto arbitrarie, purché dotate di derivate prime ovunque finite e continue. Ci limiteremo a supporre k 〈 3n per evitare che le posizioni di tutti i punti del sistema restino intieramente definite dalle equazioni di vincolo testé scritte, nel qual caso nessun cambiamento di configurazione potrebbe più, compatibilmente coi vincoli, venire impresso al sistema. Secondo il principio dei lavori virtuali, la condizione necessaria e sufficiente per l'equilibrio di un siffatto sistema è che la somma dei lavori delle forze ad esso applicate sia nulla per tutti i sistemi di spostamenti virtuali, cioè piccolissimi e compatibili coi vincoli.

Designate pertanto con

le componenti secondo i soliti assi di uno qualunque tra gli accennati sistemi di spostamenti virtuali, e tenuto conto che ciascuna di queste componenti rappresenta precisamente lo spostamento del punto di applicazione della forza omologa, nella sua stessa direzione, la condizione sopra enunciata si potrà esprimere con l'equazione generale

Per esprimere che gli spostamenti che in questa equazione compaiono sono effettivamente compatibili coi vincoli imposti, basta evidentemente scrivere che le equazioni di vincolo continuano ad essere verificate anche quando questi spostamenti si immaginino effettuati: cioè anche quando ciascun punto di coordinate xi, yi, zi si immagini spostato nella posizione, vicinissima, di coordinate xi + δxi, yi + δyi, zi + δzi.

Per ciascuno dei k vincoli si dovrà dunque avere, non soltanto

ma anche

Ora, supposto applicabile lo sviluppo di Taylor (v. funzione, n. 26), e tenuto conto della supposta piccolezza degli spostamenti, si ha, a meno di infinitesimi di ordine superiore,

Alle k equazioni di vincolo vengono così a corrispondere k equazioni di condizione tra le componenti di spostamento

Da queste k equazioni di condizione si potranno sempre ricavare i valori di k delle quantità

in funzione delle rimanenti 3 n k. Se, fatto ciò, se ne sostituiscono i valori nell'equazione dei lavori virtuali, si ottiene una relazione il cui primo membro è una funzione lineare e omogenea delle 3 n = − k quantità che sono rimaste completamente arbitrarie.

Perché l'equazione dei lavori virtuali sia verificata per qualsiasi sistema di spostamenti compatibili coi vincoli - le cui componenti cioè soddisfino alle k equazioni di condizione trovate - occorre e basta che il primo membro testé trovato si annulli qualunque siano i valori che si attribuiscono alle 3 n k variabili arbitrarie; per il che si richiede che i coefficienti di queste variabili siano tutti identicamente nulli. La relazione scritta si scinde così in 3 n − k equazioni distinte, le quali non contengono più le componenti degli spostamenti, ma soltanto le forze e le coordinate dei punti a cui esse sono applicate. Aggiungendo queste 3 n k equazioni alle k equazioni dei vincoli si ha un sistema di 3 n equazioni tra le 3 n coordinate x1, y1, ..., zn.

A ciascun sistema di valori risolvente corrisponderà una configurazione di equilibrio.

24. Sì deve al Lagrange un procedimento di eliminazione delle componenti di spostamento, e quindi di risoluzione dell'equazione generale dell'equilibrio, che è particolarmente elegante ed espressivo. Esso è conosciuto sotto il nome di metodo dei moltiplicatori.

Ecco brevemente di che si tratta. Si incomincia con l'aggiungere al primo membro dell'equazione dei lavori virtuali i primi membri delle k equazioni a cui debbono soddisfare le componenti degli spostamenti, moltiplicati rispettivamente per certi fattori indeterminati λ1, λ2, ..., λk. Non v'è dubbio che la somma dovrà alla sua volta esser nulla. Allora si approfitta dell'indeterminazione dei moltiplicatori per annullare i coefficienti di k delle 3 n variabili δx1, δy1, ..., δzn, le quali si trovano così eliminate; ma perché ciò che resta si annulli per valori qualunque delle rimanenti 3 n k variabili, bisogna che anche gli altri 3 n k coefficienti siano identicamente nulli.

In conclusione si è condotti a scrivere 3n equazioni del tipo

Queste 3 n equazioni, unite alle k equazioni di vincolo, formano un sistema di 3 n + k equazioni tra le 3 n coordinate e i k moltiplicatori δ.

Il procedimento dei moltiplicatori di Lagrange è eminentemente simmetrico e questo è già un gran pregio; esso ne ha anche un altro: quello di far conoscere le reazioni dei vincoli. Per constatarlo basta immaginare momentaneamente soppresso il vincolo f1 = 0 e nel medesimo tempo applicato a ciascun punto xi, yi, zi, del sistema una forza le cui componenti siano

È chiaro che il sistema delle equazioni risolventi testé trovato continua a sussistere senza modificazioni; l'equilibrio dunque non è stato turbato.

Le forze che noi abbiamo immaginato di introdurre all'atto in cui sopprimevamo il vincolo f1 = 0 misurano dunque le rispettive reazioni. Lo stesso ragionamento si può senz'altro applicare a tutti i vincoli a cui il sistema si è supposto soggetto.

Il procedimento di Lagrange ha però anche un grande difetto: ed è quello di dar luogo a calcoli molto lunghi e laboriosi. Perciò quando la conoscenza delle reazioni di vincolo non interessa, si preferisce in pratica ricorrere a un altro procedimento di eliminazione che è simmetrico come quello del Lagrange ed è di applicazione tanto più rapida quanto più piccolo è il numero dei gradi di libertà del sistema: esso prende il nome di metodo dei parametri indipendenti. Ecco in che cosa consiste. Sia r = 3 n k il numero delle coordinate indipendenti da cui si può far dipendere la configurazione di un sistema di n punti soggetti a k equazioni di vincolo (grado di libertà del sistema); si potrà sempre, e in infiniti modi, esprimere le 3 n coordinate) n funzione di r parametri

Operiamo una simile sostituzione nell'equazione dei lavori virtuali; se si tiene presente che

si comprende subito che il primo membro dell'equazione si potrà sempre ridurre alla somma di r termini contenenti linearmente le r variazioni δq1, δq2, ..., δqr.

Ora perché questa somma si annulli per valori qualunque di dette variazioni, bisognerà al solito imporre che sian nulli gli r coefficienti: si arriva così ad un sistema di r equazioni

Esse determineranno i valori degli r parametri indipendenti, in funzione dei quali si potranno poi, secondo le ipotesi fatte, calcolare le 3n coordinate cercate.

Vi è finalmente un ultimo metodo che prende il nome di metodo degli spostamenti perché consiste nel considerare gli spostamenti del sistema in loro stessi - anziché supporli, come abbiamo fatto finora, astrattamente individuati dalle equazioni di condizione - e, in un secondo tempo, nell'applicare loro direttamente l'equazione dei lavori virtuali.

Naturalmente bisogna considerare tanti spostamenti virtuali del sistema, fra loro indipendenti, quante sono le incognite, vale a dire quante sono le variabili indipendenti a cui si può riferire la sua configurazione. L'applicabilità del metodo dipende dunque essenzialmente dalla possibilità di fissare a priori, in base al semplice esame dei vincoli, la natura e le caratteristiche degli spostamenti che essi consentono.

Ma questa, che in linea teorica, potrebbe sembrare una grave difficoltà, tale non è nei singoli problemi concreti che più frequentemente si propongono al nostro esame, giacché nella maggior parte dei casi è proprio delle possibilità di movimento, che essi consentono, che ci si serve per definire i vincoli imposti al sistema. E nell'ambito di queste possibilità riesce allora assai facile non solo scegliere il numero conveniente di spostamenti cui applicare il principio dei lavori virtuali, ma, quel che in pratica importa assai, sceglierli in modo che le relative equazioni riescano il più possibile semplici ed espressive.

Gli esempî che seguono serviranno, meglio di un lungo discorso, a chiarire la cosa e a convincere dei grandi vantaggi che il metodo offre a chi sappia accortamente valersene.

Caso particolare dei sistemi rigidi.

25. Un sistema materiale si dice rigido quando i vincoli cui i suoi punti sono soggetti valgono ad assicurare l'invariabilità delle loro mutue distanze.

Conviene tener presente che questa definizione non trova esatta rispondenza in nessun sistema materiale naturale. Tutti i corpi naturali sotto l'azione delle forze ad essi applicate si deformano: le distanze mutue dei loro punti si alterano. Però nella maggior parte di quei corpi naturali che noi designamo correntemente col nome di solidi, queste deformazioni si mantengono generalmente tanto piccole (almeno fino a che l'intensità delle forze applicate non supera certi limiti) da suggerire l'idea che si possa, in via di prima approssimazione, prescindere da esse.

Accettiamo dunque la definizione di corpo rigido così come l'abbiamo enunciata, con la riserva di indagare a tempo e luogo se e fino a qual punto siano ad essa riferibili i corpi naturali al cui studio noi in definitiva miriamo. E, nell'intento di principiare sempre dai casi più semplici, incominciamo col supporre che - oltre ai vincoli interni strettamente indispensabili per assicurare la rigidità - nessun altro vincolo esterno limiti comunque la mobilità del sistema. Semplici considerazioni di geometria elementare bastano allora a convincerci che la sua posizione nello spazio è evidentemente determinata quando si conoscono le posizioni di tre suoi punti generici (cioè non allineati); similmente un suo movimento qualunque resta completamente definito quando si dànno gli spostamenti di quei medesimi tre punti.

Ciò si può fare ovviamente dando tre componenti di ciascuno di quegli spostamenti secondo tre assi coordinati, in tutto nove quantità. Ma queste nove quantità non si possono però dare tutte ad arbitrio; infatti le tre distanze dei punti, presi a due a due, devono, per la rigidità del sistema, restare invariate; si hanno così tre condizioni, sicché le variabili indipendenti risultano ridotte a sei.

Ora non v'è nessuna difficoltà a trovare sei equazioni che le determinano: basta applicare l'equazione dei lavori virtuali a sei diversi spostamenti virtuali, e ciò si può evidentemente fare in modi differenti in relazione ai differenti modi con cui il sistema si può spostare nello spazio.

Fra tutti questi modi il più semplice è quello di immaginare che vengano impresse al corpo tre traslazioni infinitesime parallele ai tre assi coordinati, e tre rotazioni, pure infinitesime, intorno ai medesimi assi.

Supponiamo dunque impressa una traslazione infinitesima parallela all'asse x. Tutte le coordinate aumenteranno di una quantità comune, che indicheremo con dx, mentre le y e le z rirranno immutate: si dovrà dunque porre nell'equazione dei lavori virtuali:

Essa allora diviene

ma dx è arbitrario, quindi in definitiva è la sommatoria che deve essere eguale a zero. D'altra parte si arriva a conclusioni perfettamente analoghe se si operano le traslazioni secondo y e secondo z. In conclusione si hanno le tre equazioni:

le quali esprimono l'annullarsi del risultante delle forze applicate al sistema.

Facciamo ora girare il sistema intorno all'asse x di un angolo infinitesimo dϕ: le xi rimarranno immutate quindi

Quanto alle yi e alle zi poniamo

essendo ρi, la distanza del punto generico dall'asse x e ϕi l'angolo che la perpendicolare abbassata da esso su tale asse fa inizialmente col piano coordinato xy. Siccome durante la rotazione del sistema intorno all'asse x la distanza ρi resta immutata, si ha subito

Così l'equazione dei lavorî virtuali diviene

ma al solito dϕ è arbitrario, quindi può essere soppresso. D'altra parte i risultati sono analoghi se si operano le rotazioni attorno agli altri due assi. Si possono dunque scrivere le tre equazioni

le quali esprimono l'annullarsi del momento risultante delle forze applicate al sistema (rispetto all'origine delle coordinate).

26. Delle due terne di equazioni (1) e (2) che, nel loro complesso, si designano col nome di equazioni cardinali dell'equilibrio (v. dinamica, n. 16), non è qui possibile trattare con quella diffusione, che sarebbe necessaria per discuterne la portata, per segnalarne le svariate applicazioni, per mettere in evidenza il significato fisico di ciascuna di esse. Per tutto ciò rimandiamo ai trattati indicati nella bibliografia e ci limitiamo a rilevare come la sestupla delle equazioni (1), (2), nel suo complesso, mentre costituisce la condizione necessaria e sufficiente per l'equilibrio di quello che abbiamo convenuto di chiamare il corpo rigido, esprima soltanto una condizione necessaria ma non più sufficiente per l'equilibrio di un sistema materiale qualunque.

Dal principio dei lavori virtuali si deducono, infatti, facilmente i seguenti importantissimi corollarî.

Quando un sistema è in equilibrio, si può, senza turbare questo equilibrio:

1. aggiungere un gruppo dì forze che sarebbe in equilibrio se esistesse da solo;

2. sostituire un qualunque vincolo con un altro qualunque, purché lasci sussistere i medesimi spostamenti virtuali;

3. introdurre nuovi vincoli quali e quanti si vogliono.

Nel primo caso infatti l'equazione dei lavori virtuali, soddisfatta per ipotesi dai due sistemi di forze, non potrà che esserlo anche quando essi coesistono; nel secondo la stessa equazione continua ad essere applicabile senza mutamenti di sorta: nel terzo invece si vengono a limitare le possibilità di movimento, epperò si viene a restringere il campo degli spostamenti virtuali; tuttavia, siccome gli spostamenti virtuali che restano possibili sono tutti certamente compatibili coi vincoli primitivi, non vi è dubbio che per essi continuerà a rimanere nullo il lavoro virtuale delle forze applicate.

Per riconoscere l'importanza delle prime due proposizioni basta ricordare l'uso che di esse, più o men dichiaratamente, hanno fatto gli antichi: basta ripensare, per esempio, all'importanza cui la seconda di esse è assurta nel pensiero dello Stevin e di Galileo. Delle tre proposizioni la più interessante è però indubbiamente la terza, in quanto ci permette di asserire che, se un sistema materiale qualunque è in equilibrio, esso non cesserà di esserlo se lo si suppone irrigidito, vale a dire se si vincolano idealmente i suoi punti a mantenere invariate le loro mutue distanze. Ciò vuol dire che le forze applicate a un sistema materiale in equilibrio devono sempre soddisfare alle sei equazioni trovate nel caso dei sistemi rigidi. S'intende che esse non saranno più, in generale, sufficienti, ma il fatto solo che esse siano necessarie conferisce ad esse un'importanza nuova, e imprime alla statica del sistema rigido un nuovo interesse.

Avevamo infatti giustificata l'introduzione del concetto di sistema rigido soltanto come una prima approssimazione suggeritaci dall'osservazione dei sistemi naturali; ora possiamo concludere che i risultati a cui siamo giunti non sono soltanto più o meno approssimati: sono esatti anche quando, mancando la rigidità, non sono completi.

Per completarli si dovranno caso per caso prendere in considerazione le effettive condizioni di deformabilità dei sistemi naturali; il modo con cui ciò si può fare e i risultati che se ne possono trarre sono stati esposti sotto la voce elasticità.

Determinazione delle reazioni di vincolo.

27. Non bisogna credere che le equazioni generali dell'equilibrio di un corpo rigido servano soltanto a verificare se, in una data configurazione del corpo e sotto l'azione di un sistema dato di forze, l'equilibrio sussista o no. In realtà è ben raro il caso che il corpo sia, come noi abbiamo fin qui supposto, libero affatto nello spazio. Di solito, oltre ai vincoli interni che con più o meno grande approssimazione noi abbiamo sostituiti col concetto della rigidità, i corpi naturali sono soggettì a vincoli esterni, che ne limitano più o meno la mobilità nello spazio. È bensì vero che questi vincoli possono idealmente venir soppressi e sostituiti dalle relative reazioni; con che la libertà di movimento del corpo viene ripristinata, tutti gli spostamentì da noi considerati ritornano ad essere possibili, e si possono quindi ancora scrivere le solite equazioni generali dell'equilibrio. Ma in esse compariranno necessariamente, insieme con le date forze applicate, anche le reazioni di vincolo, che sono incognite.

Il problema dell'equilibrio si potrà pertanto, per mezzo delle solite equazioni, considerare come risolto, solo se tali equazioni saranno sufficienti a determinare i valori di queste incognite.

Per precisare le idee, cerchiamo di fissare prima di tutto il tipo e la natura dei vincoli esterni che vogliamo prendere in considerazione, specificando le limitazioni che essi sono capaci di sviluppare, e da cui quindi si possono immaginare sostituiti.

Anche qui, come già nel caso dei vincoli interni, introdurremo la considerazione di un vincolo ideale, la cui scelta ci è bensì suggerita dall'esperienza, ma che nell'esperienza non trova che una rispondenza di larga approssimazione, in quanto presuppone verificate due ipotesi che, come abbiamo già detto altra volta, non sono esattamente verificate in pratica mai: quella dell'indeformabilità dei materiali, e quella dell'assenza di attrito. Sottintese, dunque, le solite riserve in ordine all'applicabilità di ciò che diremo ai problemi naturali, ci limiteremo qui a supporre che i primi membri delle equazioni di condizione

che rappresentano i vincoli, siano tali che ciascuno dì essì non contenga come variabili se non le tre coordinate di un solo punto del sistema.

Dette pertanto x, y, z le coordinate di un punto, e

un'equazione di condizione che ad esso si riferisca, è facile precisare la natura del vincolo così rappresentato. L'equazione definisce infatti nello spazio una determinata superficie alla quale quel punto dovrà necessariamente appartenere. Gli spostamenti δx, δy, δz che a quel punto si potranno attribuire saranno pertanto da considerarsi compatibili con un tal vincolo solo se giacenti sulla predetta superficie, o, fin che si tratta di spostamenti piccolissimi, sul relativo piano tangente. Ciò avverrà se essi soddisfaranno alla condizione

Ché se poi vogliamo renderci conto del modo con cui la superficie può reagire sul punto, opponendosi a qualsiasi azione esterna che tende a portare il punto fuori di essa, se vogliamo cioè passare dalla considerazione del vincolo, geometricamente concepito, a quella della sua reazione, non abbiamo che da riferirci idealmente al caso semplicissimo in cui sul sistema che si considera non agiscono che una sola forza e un solo vincolo esterno, entrambi applicati a un medesimo punto.

Siano x, y, z le coordinate di questo punto, X, Y, Z le componenti dell'unica forza applicata e

l'equazione dell'unico vincolo.

Il principio dei lavori virtuali ci dice che per l'equilibrio occorre e basta che si abbia

per tutti gli spostamenti δx, δy, δz compatibili col vincolo imposto, contenuti nella data superficie. Applicando il metodo dei moltiplicatori di Lagrange, si trovano subito le tre equazioni

dalle quali, eliminando λ, si ricava la duplice relazione

Essa esprime notoriamente la condizione di perpendicolarità tra la forza di componenti X, Y, Z e la superficie di equazione f (x, y, z) = 0.

Quando questa condizione è verificata l'equilibrio sussiste, e

sono le componenti della reazione, eguale e contraria alla forza applicata, epperò perpendicolare anch'essa alla superficie di vincolo.

Viceversa basta presupporre questa proprietà come caratteristica della reazione di vincolo - con che si viene semplicemente a tradurre nel caso specifico l'ipotesi generale dell'assenza di attrito - per potere senza bisogno di scrivere alcuna formula risolvere in modo completo il problema dell'equilibrio, vale a dire prevedere la condizione a cui, perché l'equilibrio sia possibile, deve soddisfare la forza applicata, e determinare in funzione di questa la grandezza incognita della reazione. Occorre appena aggiungere che se al medesimo punto sono imposti due vincoli - se cioè ad esso si impone di stare contemporaneamente su due diverse superficie, o, ciò che fa lo stesso, di appartenere alla linea secondo cui esse si segano - della reazione di vincolo sarà incognita non soltanto la grandezza ma anche la linea d'azione, sapendosi soltanto che essa deve stare nel piano normale alla linea. Che se poi i vincoli imposti al punto fossero tre - se cioè esso dovesse appartenere contemporaneamente a tre diverse superficie, epperò ad esso spettasse una posizione fissa nello spazio in coincidenza con uno dei punti che le tre superficie hanno in comune - della reazione di vincolo non si conoscerà che il punto di applicazione.

28. Tuttociò premesso, se noi consideriamo un sistema rigido soggetto a un numero qualunque di vincoli, e se a ciascuno di questi noi immaginiamo sostituita la corrispondente reazione, il sistema si può allora considerare come reso libero nello spazio. Si potranno perciò utilizzare le sei equazioni cardinali dell'equilibrio ed esprimere per mezzo di esse le relazioni che debbono intercedere fra le forze applicate date e le reazioni incognite.

È allora evidente che in pratica si possono verificare tre casi ben distinti.

I. - Il numero dei vincoli semplici, e quindi delle reazioni incognite, è minore di sei. - Allora tante delle equazioni quante sono le incognite basteranno a determinare i valori di queste, mentre le rimanenti equazioni dovranno essere considerate come delle condizioni che le forze applicate al sistema debbono verificare perché l'equilibrio riesca possibile.

Esempio tipico: trave vincolata a un estremo ad un punto fisso e del resto comunque girevole attorno a tale punto. Tre sono in questo caso i vincoli semplici, e tre quindi i parametri incogniti della reazione di vincolo. Con un'opportuna scelta del sistema di riferimento si può sempre fare in modo che tre delle equazioni non contengano tali parametri; dette equazioni stanno allora a rappresentare delle condizioni tra le forze esterne applicate alla trave, e precisamente impongono, come condizione necessaria perché possa sussistere l'equilibrio, che le dette forze esterne siano riducibili a un'unica risultante, la cui linea d'azione passi per il punto fisso. Le altre tre equazioni, le quali necessariamente contengono i tre parametri della reazione incognita si possono allora risolvere rispetto a tali parametri e servono a determinarne i valori. Si dimostra facilmente che esse impongono che la reazione sia eguale e contraria alla sopra menzionata risultante delle forze applicate.

II. - Il numero dei vincoli semplici, e quindi delle reazioni incognite, è precisamente eguale a sei. - Allora le equazioni di condizione fra le forze applicate vengono a mancare perché tutte e sei le equazioni dell'equilibrio contengono insieme con le forze applicate anche qualche parametro delle reazioni incognite. Vuol dire che l'equilibrio è, generalmente, possibile qualunque siano le forze applicate. In generale poi le sei equazioni definiscono i sei parametri delle reazioni in un modo unico e ben determinato: il problema dell'equilibrio ha quindi una e una sola soluzione.

Esempio tipico: trave rigidamente incastrata a un estremo. I parametri della reazione di vincolo sono qui precisamente sei; e le sei equazioni cardinali dell'equilibrio stanno ad esprimere che, qualunque sia il sistema delle forze applicate, la forza e la coppia a cui la reazione può sempre venir ridotta dovranno essere eguali e contrarie alla forza e alla coppia cui quel sistema equivale.

III. - Il numero dei vincoii semplici, e quindi delle reazioni incognite, è maggiore di sei. - Allora le sei equazioni generali dell'equilibrio non possono più bastare a determinare i valori delle incognite: il problema ammette, dal punto di vista della statica dei sistemi rigidi, infinite soluzioni, tra le quali la vera dovrà caso per caso venire identificata, introducendo tra i dati del problema qualche condizione che era stata dapprima trascurata.

In generale le condizioni dapprima trascurate e che debbono qui venir prese in considerazione sono quelle che si riferiscono alla deformabilità che in natura presentano i materiali, deformabilità che, in vista della sua piccolezza, era stata trascurata allorquando il sistema dato era stato assimilato a un sistema rigido; ma che può avere, e che ha nel caso di cui ci stiamo occupando, una influenza niente affatto trascurabile sulla determinazione delle reazioni di vincolo. Si può infatti facilmente constatare che, non appena questa deformabilità viene rimessa in conto, il problema ridiviene perfettamente determinato.

L'impostazione da dare alla trattazione esorbita, in questi casi, dai precisi limiti in cui di proposito deve mantenersi questo nostro studio. Tale impostazione il lettore potrà trovare esposta sotto la voce elasticità alla quale qui si deve far rinvio come al seguito logico della statica classica.

Bibl.: Per la parte storico-critica: E. Mach, La mécanique: exposé historique et critique de son développement (trad. franc. di E. Bertrand), Parigi 1904; J. Boussinesq, Leçons synthétiques de mécanique générale, ivi 1889; H. Bouasse, Introduction à l'étude des théories de la mécanique, ivi 1895; P. Duhem, Les origines de la statique, ivi 1906; E. Jouguet, Lectures de mécanique; la mécanique enseignée par les auteurs originaux, ivi 1908-09; L. Lecornu, La mécanique, les idées et les faits, ivi 1918.

Per gli sviluppi analitici e l'applicazione dei principî alla risoluzione dei problemi pratici: G. L. Lagrange, Mécanique analytique, Parigi 1788; nonché i più moderni trattati di meccanica razionale: P. Appell, Traité de mécanique rationnelle, Parigi 1909 e seg.; H. Bouasse, Cours de mécanique rationnelle et expérimentale, ivi 1910; L. Lecornu, Cours de mécanique, ivi 1914-18; T. Levi Civita, Corso di meccanica razionale, Padova 1918; id. e U. Amaldi, Lezioni di meccanica razionale, Bologna 1926 e seg.; R. Marcolongo, Meccanica razionale, Milano 1905; J. Massau, Leçons de mécanique rationnelle, Gand 1911; W. Voigt, Meccanica elementare; introduz. allo studio della fisica teorica (trad. ital. A. Sella), Roma 1894.

Per le applicazioni tecniche alla meccanica e soprattutto alla scienza delle costruzioni: A. Föppl, Vorlesungen über technische Mechanik, Lipsia 1911; H. Müller-Breslau, Die neueren Methoden der Festigkeitslehre und der Statik der Baukonstruktionen, Lipsia 1913; C. Guidi, Lezioni sulla scienza delle costruzioni, Torino 1920; G. Colonnetti, I fondamenti della statica; introduzione alla scienza delle costruzioni, ivi 1927; G. Colonnetti, La statica delle costruzioni, ivi 1929-34.

Statica grafica.

29. È quel capitolo della statica che si vale dei metodi grafici, e per mezzo di essi procede alla risoluzione dei problemi dell'equilibrio.

L'operazione fondamentale su cui tutta la statica grafica riposa è quella della composizione e decomposizione delle forze mediame il parallelogrammo delle forze. Di questo si è ampiamente trattato nelle pagine che precedono, illustrandone da diversi punti di vista la genesi storica e l'importanza pratica.

Sul terreno delle applicazioni, la regola del parallelogrammo dà luogo a interessantissime costruzioni geometriche. Per darne un'idea riferiamoci al caso più semplice - che è poi anche quello più importante per le sue applicazioni - in cui le forze applicate a un determinato corpo o sistema materiale siano tutte contenute in un medesimo piano. Siano F1, F2, F3, ... (fig. 12) tali forze, e r1, r2, r3, ... le loro linee d'azione. E sia A il punto d'incontro di due di esse, per esempio di r1 e di r2: immaginiamo trasportate in A le forze F1 e F2, e componiamole, per mezzo di un parallelogrammo, in un'unica forza R2. Consideriamo poi il punto B in cui la linea d'azione di questa prima risultante parziale incontra un'altra qualunque delle rette date, per esempio r3: immaginiamo trasportate in B tanto la R2 quanto la F3, e componiamole alla lor volta in un'unica forza R3 che verrà così ad essere la risultante di F1, F2, F3. E così via.

La costruzione si può eseguire più comodamente se si ha l'avvertenza di tracciare a parte la poligonale delle forze: vale a dire una poligonale 0123... (fig. 13), la quale abbia i suoi lati ordinatamente equipollenti alle forze date (cioè aventi rispettivamente uguali ad esse la lunghezza, la direzione e il verso). In tal caso infatti i raggi 02, 03, ... proiettanti dall'origine della poligonale i singoli suoi vertici, riescono evidentemente equipollenti alle singole risultanti parziali R2, R3, ..., di cui si è dianzi parlato: mentre le successive linee d'azione di queste risultanti si possono ottenere costruendo un poligono ABC..., il quale parta dal punto d'incontro delle linee di azione delle prime due forze, abbia i suoi lati ordinatamente paralleli a quei raggi proiettanti, e i vertici sulle linee d'azione delle forze successive. Questo poligono si chiama il poligono delle successive risultanti.

Ogniqualvolta si riesce con un siffatto poligono a collegare tutte le linee d'azione delle forze date, si può dire di aver ridotto il sistema ad un'unica risultante: essa sarà equipollente all'ultimo dei raggi proiettanti (05 nella fig: 13), a quello cioè che chiude la poligonale delle forze, e avrà per linea d'azione l'ultimo lato (DE nella fig. 13) del poligono delle successive risultanti.

Questa risultante è naturalmente indipendente dall'ordine in cui le forze sono state prese in considerazione; per quanto possa sembrare superfluo, si può verificarlo facilmente anche soltanto in base a considerazioni geometriche e, naturalmente, basta esaminare il caso in cui s'inverte l'ordine di due qualunque forze successive (fig. 14), poiché con un'opportuna successione di inversioni siffatte si può evidentemente mutare comunque l'ordine dell'intiero sistema.

Come caso particolare può accadere che la poligonale delle forze risulti chiusa, che cioè il suo estremo (nella fig. 15 il punto 5) venga a coincidere con l'origine 0. Allora il raggio proiettante 04 si sovrappone al lato 45 che rappresenta l'ultima forza; perciò il lato CD del poligono delle successive risultanti risulta parallelo alla linea d'azione della forza F5: e siccome la risultante parziale delle prime quattro forze, che ha CD per linea d'azione, è eguale in grandezza. e di senso contrario alla F5, sarebbe vano tentare qualunque ulteriore composizione: il sistema è ridotto a una coppia.

Come caso ancor più particolare può accadere che il lato CD del poligono delle successive risultanti coincida precisamente con la linea d'azione della forza F5 (fig. 16): allora questa riesce eguale e opposta alla risultante delle precedenti e il sistema è in equilibrio.

30. A costruzioni grafiche anche più generali si giunge se si considerano le possibili posizioni di equilibrio di un filo flessibile e inestensibile, il quale sia sollecitato in determinati suoi punti da forze date. Tale posizione di equilibrio prende il nome di poligono funicolare. Va da sé che, se tutte le forze date sono contenute in un piano, anche il poligono funicolare è contenuto nel medesimo piano. E precisamente di questo caso intendiamo qui brevemente occuparci.

A tal fine cominciamo con l'isolare mentalmente, dalle rimanenti porzioni del filo, un tratto LMN di questo, in un punto M del quale sia applicata una forza F (fig. 17). È evidente che esso tratto dovrà trovarsi in equilibrio sotto l'azione della forza F e delle tensioni T e T′ che nei punti L ed N venivano esercitate sul tratto considerato di filo dalle porzioni adiacenti e da noi mentalmente soppresse. Ciò vale quanto dire che F deve essere eguale e contraria alla risultante di T e di T′, o anche che T e T′ si possono ottenere decomponendo F secondo le loro due direzioni note e mutando i segni delle componenti così ottenute. Nota dunque la forza F e le direzioni dei due tratti di filo ad essa attigui, le tensioni in essi tratti sono da considerarsi come completamente determinate. Viceversa, date le direzioni di due tratti consecutivi del filo e le tensioni T e T′ in essi esistenti, resta determinata completamente la forza che per l'equilibrio deve agire sul punto da cui entrambi si dipartono.

Tra le forze applicate ai varî punti di un filo materiale, le direzioni dei singoli tratti di filo (lati del poligono funicolare) e le relative tensioni, si viene cosi a stabilire un sistema di relazioni che ci proponiamo ora di analizzare, al duplice scopo di trarne norma per verificare se un poligono funicolare dato sia in equilibrio, e di fissare le regole in base alle quali il poligono può venir tracciato in funzione di quegli elementi che caso per caso figurano fra i dati del problema.

Supponiamo per un momento di conoscere le tensioni dei vari tronchi rettilinei della fune: conduciamo da un punto P scelto ad arbitrio dei segmenti P0, P1, P2, ... ad esse equipollenti (fig. 18), vale a dire paralleli ai successivi tronchi e di lunghezze proporzionali alle rispettive tensioni. Si può dimostrare che i lati della poligonale che congiunge ordinatamente gli estremi di quei segmenti, sono equipollenti alle forze applicate, cioè rappresentano tali forze tanto in direzione quanto in intensità. Consideriamo, infatti, uno qualunque dei vertici del poligono funicolare, per esempio il punto B; le tensioni T e T′ dei due rami adiacentì del filo sono per ipotesi misurate da P 1 e da 2 P; ne segue subito che esse ammettono una risultante rappresentata da 21; ma si è dimostrato che la forza applicata in B deve essere eguale e opposta a tale risultante; detta forza non potrà dunque che essere equipollente ad 12.

Reciprocamente, se si costruisce la poligonale 0123... delle forze applicate, si può affermare che ad ogni poligano funicolare, che sia configurazione di equilibrio per quel sistema di forze, corrisponde un punto P tale che i raggi proiettanti da esso i vertici della poligonale delle forze, misurano le tensioni dei successivi lati del poligono funicolare. Lo studio delle relazioni che intercedono tra le due figure costituite, rispettivamente, l'una dal poligono funicolare e dalle varie linee d'azione delle forze per cui esso è configurazione di equilibrio, l'altra dalla poligonale delle forze e dal fascio dei raggi che ne proiettano i vertici dal polo, dà luogo a un capitolo della statica di cui gli ingegneri si valgono con grande successo: esso merita quindi di essere accennato almeno nelle sue linee più generali.

Intanto una prima osservazione sorge spontanea da ciò che siamo venuti dicendo: è evidente infatti che, senza turbare l'equilibrio di ciascuno degli elementi (punti materiali) del filo a cui le forze sono direttamente applicate, queste si possono pensare decomposte secondo i lati del poligono funicolare che a ciascuna fanno capo. Si viene così a sostituire al sistema dato di forze F1, F2, F3, ... un sistema come 0 P, P1, 1 P, P 2, 2 P, P3, ... (fig. 19) in cui tutte le forze intermedie sono per costruzione eguali e contrarie. Se pertanto si pensano i punti A, B, C, ... come appartenenti a un unico sistema rigido, tutto l'insieme delle forze a esso applicate può considerarsi come equivalente a due forze sole: la prima e l'ultima.

Si noti bene che abbiamo dette: "se i punti ABC... si pensano come appartenenti a un unico sistema rigido". Non avrebbe infatti alcun senso parlare di ridurre a due sole forze il sistema dato se questo dovesse continuare a pensarsi applicato ad un filo: ché anzi è ben evidente che in questo caso, come del resto ogniqualvolta si trattasse di un sistema comunque deformabile, la riduzione sarebbe in generale accompagnata da un turbamento del primitivo stato di equilibrio.

In quanto invece le forze date si pensino applicate a un sistema rigido, la riduzione non soltanto è lecita in quel medesimo senso e con quelle stesse riserve che abbiamo già fatte a suo tempo, ma può assumere un grande interesse in quanto ci pone in possesso di un nuovo strumento di indagine il quale in molti casi facilita in modo inaspettato la risoluzione del problema fondamentale della statica dei sistemi rigidi.

Supponiamo infatti che il sistema di forze F1, F2, F3 ammetta una risultante R. Mettiamoci anzi addirittura di proposito in uno di queì casi, in cui la risultante esiste sempre; supponiamo cioè di aver da fare con un sistema di forze tutte contenute in un piano, e del resto genericamente disposte. Questa risultante si dovrà poter immediatamente ottenere, componendo insieme 0 P e P 3; dunque si può cominciare con l'affermare che le loro linee di azione, cioè a dire i lati estremi del poligono funicolare, debbono necessariamente incontrarsi in un punto D della linea d'azione della R. E se si tien conto che grandezza, direzione e senso della R sono già completamente definite dal segmento 03 che va dall'inizio al temiine della poligonale delle forze, si può concludere che la conoscenza di quel punto d'incontro D di quei lati estremi è senza altro sufficiente a determinarne la posizione nel piano.

D'altra parte tutto ciò che siamo venuti dicendo non è proprio di uno o di un altro poligono funicolare, bensì di tutti quelli che sono di equilibrio per il dato sistema di forze; perciò si potrà in pratica ricorrere, per trovare la risultante, ad uno qualunque di essi. E precisamente si potrà procedere così. Scelto nel piano del sistema il polo P ad arbitrio, si proietteranno da esso i singoli vertici della poligonale delle forze. Si assumerà poi, pure ad arbitrio, il primo lato del poligono funicolare parallelo al primo dei raggi proiettanti; gli altri lati riusciranno allora determinati in conseguenza; l'ultimo di essi segnerà sul primo un punto della risultante cercata.

Per verità non tutti i poligoni che così si possono costruire potrebbero essere realizzati come figure di equilibrio di un filo flessibile; nell'infinita varietà dei casi che così si vengono a presentare, ve ne sono di quelli in cui la tensione del filo assume valori negativi (fig. 20) e allora l'equilibrio dei singoli tratti AB, BC,..., cessa di essere possibile a meno che non si escluda la flessibilità del filo lungo di essi; a meno, cioè, che non si pensi ciascuno di essi come irrigidito e trasformato in un'asta capace di resistere egualmente bene a sforzi sia di compressione sia di trazione.

La cosa ha per verità dell'artificioso; tuttavia si passa sopra a questa difficoltà e si continuano a designare col nome di poligoni funicolari tutti quanti i poligoni costruiti nel modo anzidetto, in quanto non soltanto quelli a cui più propriamente questo nome si addice, ma tutti indistintamente, si prestano a servirci di prezioso intermediario per la risoluzione dei problemi della statica dei sistemi rigidi. Noi dimenticheremo dunque, almeno temporaneamente, il significato meccanico con cui il poligono funicolare ci si è presentato nella statica dei fili flessibili, e lo riguarderemo puramente e semplicemente come una costruzione grafica la quale ci permette di arrivare per infinite vie diverse all'identificazione della risultante di un sistema piano di forze.

31. È intanto prevedibile che alla categoria, così intesa, dei poligoni funicolari devono appartenere quei particolari poligoni che noi abbiamo già imparato a conoscere sotto il nome di poligoni delle successive risultanti.

Basta per ottenerli assumere per polo l'origine della poligonale delle forze. Il primo raggio proiettante risulta infatti in tale ipotesi indeterminato: il secondo coincide col segmento 01 che rappresenta la prima forza; in conseguenza resta indeterminato il primo lato del poligono funicolare e anche il punto in cui esso taglia la prima forza; ma il secondo lato non può che coincidere con la linea d'azione della forza stessa, e perciò il secondo vertice viene necessariamente a cadere nel punto di intersezione di essa con la seconda forza. Il resto viene da sé.

E viene anche da sé che tutte le proprietà che noi abbiamo riscontrate come caratteristiche dei poligoni delle successive risultanti si possono con le dovute cautele estendere al caso più generale dei poligoni funicolari. Citiamo fra tutte la più importante: l'indipendenza della posizione dei lati estremi dall'ordine in cui si sono considerate le singole forze.

Se, come caso particolare, la poligonale delle forze è chiusa, il poligono funicolare può presentare quelle medesime due alternative che abbiamo già esaminate nel caso del poligono delle successive risultanti: esso infatti deve avere i suoi lati estremi paralleli entrambi a quel raggio che dal polo proietta il punto che è a un tempo l'origine e il termine della poligonale delle forze (fig. 21). Orbene, se i detti lati estremi, pur essendo paralleli, si mantengono distinti, se cioè il poligono funicolare riesce aperto, il sistema dato di forze resta ridotto a una coppia completamente definita dalle due tensioni estreme 0 P e P 4. Se invece il poligono funicolare risulta chiuso, come accade quando i due lati estremi vengono a sovrapporsi (fig. 22), le due tensioni estreme si elidono a vicenda: il dato sistema di forze è evidentemente in equilibrio.

Viceversa se un sistema di forze è in equilibrio, ridotto che sia a due forze sole, queste devono riescire eguali ed opposte; è dunque necessarrio che la poligonale delle forze sia chiusa e che inoltre riesca chiuso qualunque poligono funicolare ad esse relativo, in base alle costruzioni dianzi indicate.

32. Sull'uso di questi poligoni funicolari si fondano tutti quei procedimenti di calcolo grafico che gli ingegneri sostituiscono volentieri ai metodi analitici.

Così per esempio nel problema fondamentale della determinazione delle reazioni dei vincoli - delle cui soluzioni analitiche ci siamo occupati ai nn. 27, 28 - il poligono funicolare può rendere preziosissimi servizî, in quanto la determinazione delle reazioni incognite si può sempre in definitiva ridurre alla determinazione di quelle certe forze che occorre aggiungere a un sistema di forze dato perché il complesso risulti in equilibrio. E come nella trattazione analitica tutto si riduceva ad attribuire alle incognite quei valori che rendevano soddisfatto un certo sistema di equazioni, così qui si tratterà di attribuire alle incognite quei valori per i quali una certa poligonale delle forze e un certo poligono funicolare risulteranno chiusi.

A rendere il metodo adatto alla soluzione dei più svariati problemi serve il fatto che di poligoni funicolari colleganti un determinato sistema di forze ce ne sono in generale ∞3, dipendentemente dalla libertà di scelta del polo e della posizione del primo lato del poligono (in tutto tre parametri indipendenti). Orbene in questa infinita varietà di poligoni funicolari, colleganti tutti lo stesso sistema di forze, ve ne è sempre qualcuno che si può tracciare anche quando non tutte le forze sono note, ma di alcune si conoscono soltanto la linea d'azione ovvero il punto di applicazione. E allora è precisamente a questi particolari poligoni che bisogna far ricorso perché essi, appena costruiti, ci permettono di identificare gli elementi ancora incogniti del sistema.

Naturalmente non è detto che questi speciali poligoni, che soddisfano a particolari condizioni di posizione, si possano tracciare immediatamente: a volte le condizioni a cui essi debbono soddisfare sono tali che implicano una conveniente scelta del polo, e questa scelta non si può fare a priori perché di quel polo non si conosce la posizione.

Bisogna allora incominciare col costruire un poligono di tentativo con un polo arbitrario, il quale in generale non soddisferà affatto alle volute condizioni, ma potrà servire alla ricerca e alla identificazione del poligono di cui si abbisogna, grazie a certe relazioni di posizione che intercedono fra i diversi poligoni colleganti un medesimo sistema di forze e che si possono compendiare nel seguente teorema: i lati corrispondenti di due quali si vogliano fra i poligoni funicolari connettenti un medesimo sistema di forze s'incontrano tutti su di una retta parallela alla congiungente i due poli di proiezione (fig. 23).

33. Conviene qui avvertire che analoghi vantaggi si possono ottenere se i metodi grafici di composizione e decomposizione delle forze vengono applicati, anziché allo studio delle reazioni esterne, a quello degli sforzi interni.

Tipico è il caso delle travature reticolari, nello studio delle quali si giunge al tracciamento di certi diagrammi che, scoperti dal matematico italiano Luigi Cremona, sono ormai universalmente conosciuti col nome di "diagrammi cremoniani". Di essi si tratta sotto la voce reticolari, sistemi.

Qui basti dire che l'uso dei poligoni funicolari e dei diagrammi cremoniani si è grandemente diffuso fra i tecnici, ai quali permette di evitare lunghi e laboriosi calcoli numerici, sostituendo ad essi operazioni grafiche elementari, le quali, se eseguite correttamente da un buon disegnatore, consentono di raggiungere un'approssimazione nei risultati più che sufficiente per le necessità e le esigenze della pratica.

Questo uso - nato in Italia per opera del Cremona e di C. Saviotti - si diffuse per merito principalmente di K. Culmann e di W. Ritter, che trovarono modo di estenderlo anche allo studio dei problemi iperstatici (v. iperstatici, sistemi).

Bibl.: G. Colonnetti, La statica delle costruzioni, Torino 1929-34; L. Cremona, Corso di statica grafica, Milano 1868-69; id., Elementi di calcolo grafico, Torino 1874; id., Le figure reciproche nella statica grafica, Milano 1879; C. Saviotti, La statica grafica, Milano 1888; C. Guidi, Lezioni sulla scienza delle costruzioni; nozioni di statica grafica, Torino 1920; K. Culmann, Die graphische Statik, Zurigo 1866 e 1875 (trad. francese, Parigi 1880); M. Lévy, La statique graphique et ses applications aux constructions, Parigi 1868-88; H. F. B. Müller Breslau, Die graphische Statik der Baukonstruktionen, Lipsia 1887-96; W. Ritter, Anwendungen der graphischen Statik, Zurigo 1888.