STATO

Enciclopedia Italiana (1936)

Felice BATTAGLIA
Giuseppe OTTOLENGHI
Riccardo MONACO
Giorgio BALLADORE PALLIERI
Guido ZANOBINI
Ottorino VANNINI

STATO. - Storia del nome. - Con la parola stato si designa modernamente la maggiore organizzazione politica che l'umanità conosca, riferendosi tanto al complesso territoriale e demografico su cui si esercita una data signoria, quanto al rapporto di coesistenza e di connessione di leggi e di organi che su quello imperano. Tuttavia tale significato è piuttosto recente e il suo principio si può porre tra la seconda metà del sec. XIII e la prima del sec. XV, mentre era affatto ignoto all'antichità e all'alto Medioevo.

I Greci per denotare cotesto oggetto si esprimevano con un concreto riferimento al popolo costituente l'unità politica. Lo stato persiano per essi era οἱ Πέρσαι. Contemporaneamente il genio speculativo ellenico elabora la nozione di πόλις, ma questa ha un amuito territoriale e un riferimento materiale preciso e ristrettissimo, che ne fa un'entità affatto diversa sia dalle più vaste organizzazioni non elleniche del tempo, sia dal generalissimo ed astratto stato della letteratura contemporanea. A Roma il concetto progredisce e si amplia. Populus romanus, res publica sono termini che denotano un maggiore affinamento dottrinale. Durante il Medioevo si parla di imperium, di regnum, ecc., ma la nozione non è svolta astrattamente.

Non che in precedenza mancasse la parola. Già a Roma col nome status si designava il complesso delle condizioni sotto cui si presenta una cosa o una persona. Abbiamo quindi lo status libertatis, lo status civitatis, o con riferimento all'ente collettivo lo status reipublicae romanae ove si finisce per indicare l'ordinamento giuridico fondamentale, noi diremmo la costituzione. Assai raramente, in qualche scrittore del basso impero, status rappresenta il popolo politicamente organizzato.

Nel Medioevo poche volte il termine appare usato nel senso di condizione politica, bensì tende a specificarsi nel senso di ordo, designando il complesso delle persone che sono in una determinata condizione giuridica. Le espressioni di stati generali, états généraux, ecc., usate in Italia (Sicilia, Piemonte) e in Francia per indicare i parlamenti, assemblee di ceti e classi, ordini, o dei loro rappresentanti, traggono origine da tale uso. L'accezione della parola stato o estat nel senso di paese, territorio oggetto del potere d'imperio è in quei tempi per lo meno eccezionale, se non del tutto ignota.

Solo all'alba del Rinascimento, permanendo genericamente il significato originario della parola, modo di essere di un'entità, e quelli derivati giuridici, parlamenti, si comincia ad usarla più frequentemente come essenza o costituzione dell'ente politico, anche con riferimento al suo complesso territoriale e geografico. Usato dapprima con dei complementi, si finisce per servirsene a sé, foggiando un termine astratto, in cui ogni storico ordinamento si inquadri. Il Machiavelli comincia il Principe con queste parole: "Tutti li stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o republiche o principati". È il significato distinto che con il fiorentino già s'impone, sia pure attraverso incertezze, e finisce per prevalere in tutte le lingue. All'italiano stato fanno riscontro il francese état, lo spagnolo estado, il tedesco Staat, l'inglese state. In Inghilterra sembra che il termine "state" sia apparso per la prima volta nell'England di Thomas Starkey (1538), un libro tutto permeato di dottrina italiana, quindi divenne comune sia in quel paese, ove fu adottato anche ufficialmente col titolo di secretary of state tenuto da Robert Cecil sotto Elisabetta, sia altrove, specie in Francia e in Germania.

Evoluzione storica del concetto di stato. - Se lo stesso nome di stato acquista il suo senso specifico attraverso un lungo processo storico, non meno lungo è lo sviluppo del concetto che a quel nome corrisponde, in funzione non solo delle più diverse speculazioni morali e politiche, ma altresì delle concrete organizzazioni politiche.

I primi che coscientemente meditarono sullo stato furono i Greci, con riferimento alla forma cittadina di esso. Nonostante che anche tipi inferiori di umana organizzazione abbiano esercitato funzioni che si ritengono proprie dello stato, il primo tipo sociale cui la scienza quasi concorde ritiene possa spettare il nome di stato è dato dalla πόλις. È questo l'oggetto della prima meditazione, oltre il quale i pensatori della Grecia non vanno o vanno con estrema difficoltà.

Per Platone tutta la vita si svolge nello stato. L'etica non è concepibile se non in esso, che ne assolve le eminenti finalità, per realizzare con la virtù di tutti l'universa felicità. Lo stato, oggettiva eticità, risolve interamente l'individuo, ragion per cui un'attività affatto singolare non ha davvero senso. Lo stato è inteso organicamente, a similitudine dell'uomo sebbene abbia la sufficienza che a questo manca. In esso si distinguono tre funzioni corrispondenti a tre motivi psicologici, come nell'uomo, la ragione che governa, il coraggio che difende, il senso che obbedisce e corrispettivamente la calsse dei saggi, dei guerrieri, degli artefici. L'unità è assicurata dalla giustizia, virtù delle virtù. Dall'asserita eticità dello stato in Platone derivano alcuni corollarî assai aspri. La soppressione della famiglia, il comunismo dei beni si spiegano non per motivi economici, ma come mezzi per il fine etico dello stato.

Aristotele non si oppone a tale concezione, che anzi svolge, temperandola in alcune durezze. Forse la costruzione del suo maestro gli sembra troppo ideale ed egli cerca una nozione più aderente alla realtà, ma, essendo questa la πόλις, presupposto e termine, le linee del suo pensiero non possono essere sostanzialmente diverse. Anche per Aristotele lo stato è il più alto valore sociale e morale. Nonché temporanea alleanza, appare necessità organica perfetta avente a fine la perfezione della vita. Come il tutto è prima delle parti, esso è prima degli individui, ma poi questi non risolve interamente, bensì entro certi limiti rispetta nella loro autonomia. Quindi una confutazione del comunismo platonico, la conservazione della famiglia e della proprietà privata. È la πόλις caratterizzata dall'autarchia, dall'autosufficienza, in quanto, presentando larga distinzione di organi e di funzioni, rende possibile una vita perfetta e intera.

A parte alcuni accenni della sofistica e delle scuole postaristoteliche, è questa la dottrina dominante nella Grecia e che Roma eredita, una dottrina che possiamo dire tipicamente oggettivistica, naturalistica. Sebbene portatore di valori morali, morale esso stesso, e la morale i Greci pongono in forma politica, lo stato non è libera produzione dell'uomo, ma realtà preformata che l'uomo trova dinnanzi a sé, momento di un ordine immutabile, irreversibile. Ne viene che esso non può non dico svolgere, ma neppure affermare la personalità individuale, la quale, alla sua volta, nonché spiegare ex sese, in interiore homine, la necessità dello stato, si limita a presupporlo, riconoscerlo e non più. Tra individuo e stato non c'è mediazione, o più veramente c'è un'immediata subordinazione del primo al secondo, come ad un valore che lo trascende e di cui non si rende conto. Dunque, etico organismo lo stato, ma di una eticità oggettiva, che non attinge le profonde intime scaturigini della morale nello spirito umano. Si capisce come la libertà per esso non sia che problema di organizzazione (libertà nello stato e dello stato, libertà in quanto partecipazione alla cosa pubblica), non problema costitutivo (asserzione di diritti individuali nei confronti dello stato e che lo stato debba tutelare). Si capisce ancora come esso non possa negare la schiavitù e consentire che si rivendichi l'uguaglianza degli uomini. Limitazione concettuale, che è in piena rispondenza alla limitatezza strutturale dell'ente cittadino.

L'affermarsi della potenza macedone prima e di quella romana poi distrusse il significato politico dell'ellenica πόλις. Priva questa di una coscienza collettivs che non fosse la ristretta corporatività cittadina, mancò altresì la possibilità di una superiore integrazione, regionale o nazionale che fosse, e si trascorse senz'altro allo stato tendenzialmente universale. Il nuovo tipo storico è in modo eminente rappresentato da Roma, le cui origini prime sono certo cittadine, ma il cui sviluppo segna varie tappe e si conclude in un ente, che, pur col massimo rispetto delle autonomie municipali e locali, ben rappresenta una disciplina mondiale, se tale è il vincolo che lo caratterizza, tale veramente la cittadinanza politica che ne è l'espressione correlativa. È l'impero.

Corrispettive alla nuova realtà sono le scuole postaristoteliche che, riprendendo anche in parte motivi sofistici, slargano l'orizzonte alla meditazione e svolgono esigenze dianzi ignote. Si pensi all'ideale cosmopolitico degli stoici. Per quanto esso stia a significare più una spirituale unità di conoscenza e di volontà etica che una concreta aspirazione diretta a costituire una potenza nell'ordine politico, non si può negare che l'esperienza macedone e quella romana soprattutto abbiano potuto influire sulla sua genesi.

Alla base della nuova visione morale e politica sta una concezione dell'individuo diversa da quella più antica. L'individuo, anziché senz'altro subordinarsi allo stato, comincia a sentirsi di esso fattore, come lo stato comincia a sentirsi non già precostituito rispetto agli individui, ma da questi liberamente foggiato. L'epicureismo per primo dice lo stato risultato di un patto utilitario, ponendo esigenze che il contrattualismo svolgerà nei secoli e che ora tralucono nella concezione strettamente giuridica di Cicerone. Per il grande oratore lo stato non è ogni "coetus multitudinis", ma quel "coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus".

Nonostante questi accenni ellenistici solo il cristianesimo ha potuto portare a un radicale spostamento di valori in ordine allo stato. La ragione di ciò sta nella nuova morale proclamata dal cristianesimo. Alla morale oggettiva e, in fondo naturalistica, dei Greci si sostituisce una morale, formata sull'amore e sulla carità degli uomini tra loro, con le note conseguenze dell'uguaglianza e della libertà.

Lo stato comincia ad essere giustificato come rimedio terreno al peccato, epperò, in un certo senso, come avviamento alla vita eterna. È questo il germe di un elevamento dello stato alla luce di una funzione dello spirito, sia pure secondaria e relativa. Si comprende come dopo tale prima posizione, che in S. Agostino trova il suo maggiore rappresentante, si passi ad altre, in cui la valorizzazione dello stato procede e soprattutto in cui esso non più oggetto, natura, bensì sempre più spirito appare sostanziato nell'interiore coscienza dei singoli.

Se esaminiamo gli elementi che contribuiscono a formare la nuova dottrina è facile osservare come molti derivano dalla filosofia postaristotelica, in gran parte stoica, acquisiti attraverso i santi Padri e le fonti giustinianee. Ad esse si unisce dopo il mille il rinnovato influsso aristotelico. S. Tommaso quindi può legittimare lo stato, come esigenza della stessa natura umana col fine di soddisfare agli umani bisogni. Come tale ha per fine il bene comune che realizza con la giustizia. Compito dello stato è ritenuto costantemente nel Medioevo la giustizia, ma una giustizia non più intesa classicamente come suum agere, bensì più largamente come fratellanza tra gli uomini nell'amore di Dio, prassi di altissima solidarietà diretta dalla carità, giustizia nel Cristo. Il nuovo concetto dello stato non nega pertanto l'individualità, sebbene, nonostante le interne esigenze del cristianesimo, non concluda energicamente in proposito. L'asserire che lo stato abbia una sua autonomia, assolva proprie finalità umane, anzi addirittura alcuni valori umani, il bene comune e la giustizia, per quanto poi si neghi che possa di per sé stesso essere portatore di più alti valori, quelli della più piena moralità e quelli religiosi, donde ancora la sua limitatezza e la sua subordinazione alla Chiesa, è un progresso, sulla via di quella assoluta interiorizzazione che ci sembra la conclusione del nuovo orientamento cristiano.

Questo senso dell'autonomia e quindi della legittimità su un piano umano dello stato ispira Dante e quindi confluisce in Marsilio da Padova, col quale la dipendenza dalla Chiesa è decisamente esclusa. Lo stato è umana sociale e politica formazione, i cui fini sono affatto terreni. La Chiesa stessa, nella sua esteriore organizzazione, disciplina e culto, sottostà allo stato. Se il Padovano non parla mai di contratto sociale, con Nicolò da Cusa può dirsi che il contrattualismo divenga esplicitamente criterio per un adeguato intendimento dello stato. Lo stato, come del resto la sovranità e la legge, si fondano sull'accordo di tutti, in quanto tutti nascono uguali, epperò tutti hanno per legge di natura uguale potere e uguale libertà. Donde l'esigenza democratica (sovranità del popolo) e il principio maggioritario. È lo stato cristiano interiore ai soggetti, la cui moralità è in relazione alla coscienza morale dei suoi membri. Il Cusano ci sembra abbia dato veramente senso in sede politica alla dottrina cristiana, che, ponendosi su un piano di interiorità, non può non interiorizzare lo stato e nell'interiorità valorizzarlo.

Possiamo dire che le esigenze valorizzatrici dello stato, nel senso di farlo più umano e interiore allo spirito, sono riprese dai pensatori laici, che approfondiscono il pensiero di S. Tommaso e del Cusano. Gli stessi presupposti, il diritto naturale, che aveva servito a fondare l'uguaglianza degli uomini, il contratto che aveva giustificato la prassi legislativa e amministrativa dello stato cristiano, l'esercizio della sua autorità, divengono elementi di una nuova concezione, diretta alla laicizzazione dello stato, talché appunto fare la storia del diritto naturale e del contratto sociale dopo il sec. XV significa fare la storia dell'emancipazione dello stato dalla Chiesa, della libertà religiosa oltre che politica, del libero pensiero, della tolleranza. Nonostante questo mutamento radicale di direttive, bisogna pur convenire che, senza l'inversione di valori operata inizialmente dal cristianesimo, non si sarebbe potuto mai addivenire all'idea di uno stato interiore ai soggetti, quale l'età moderna esige e svolge.

Lo sviluppo del concetto si accompagna nel Medioevo a una successione di forme politiche, che tutte nel loro processo tendono e contribuiscono al cosiddetto stato moderno. Quando i teorici dei secoli intermedî parlano dello stato, il loro pensiero si muove in una sfera affatto ideale, che a volte cerca riscontro nella superiore realtà dell'impero romano-germanico, risorto con Carlo Magno, obliando l'infinito frammentarismo che la società presenta. La realtà concreta è assai diversa dai loro teorizzamenti. Di rado si trova un'antitesi così piena come allora tra idea e fatto. Se si seguisse soltanto l'evoluzione dottrinale non ci si renderebbe conto del concreto processo che conduce allo stato moderno.

Si pensi come il Medioevo, che pur concepisce l'Impero, che la vita intende in una suprema coordinazione politica, poi dissolva l'eminente potere che caratterizza lo stato romano. Confondendo diritto pubblico e diritto privato, il diritto sovrano con la proprietà, pone il rapporto politico nella forma del contratto privato. Il feudo astringe consensualmente signore e vassallo in reciproche prestazioni. L'ente pubblico appare un mero complesso patrimoniale, cedibile, quasi fungibile. Il comune presenta un progresso; pur fondandosi sulla classe, comincia a superare la visione privatistica. Solo il passaggio alla signoria, in cui i poteri dal collegio dei cittadini consociati tendono di fatto, ancorché le limitazioni giuridiche siano molte, ad incentrarsi nel principe, che quindi impersonerà la politica unità dell'ente, significa l'annuncio dello stato moderno.

Perché questo sia, non solo bisogna che l'accennato sviluppo si compia, ma che, correlativamente, perda efficienza l'autorità imperiale, e con l'autorità imperiale svanisca altresì il senso dell'universalità papale. La Francia è la prima, quindi seguita dall'Inghilterra, dalla Spagna, dall'Italia meridionale, a sentirsi autonoma, pienamente sovrana. Elaborando una dottrina, che gli stessi comuni italiani con Bartolo da Sassoferrato non ignorano, come non l'ignorano i giuristi meridionali, si proclamano i nuovi regni "sibi principes" in quanto "superiorem non recognoscentes". La formula "rex in regno suo est imperator" consacra l'eminenza regia. I connotati potestativi che la dottrina romanistica aveva elaborato per l'imperatore e per l'impero, ora i nuovi teorici rivendicano per il re e il regno. Solo quando un po' dovunque, in Francia e in Italia, presso i liberi comuni e con le nuove monarchie territoriali, dal sec. XIII in poi le nuove idee si affermano, si compone il dualismo tra idea e fatto proprio del Medioevo e nasce veramente lo stato moderno.

Ancorché parli spesso di impero, questo è presente al pensiero di Enea Silvio Piccolomini, che primo analizza gli elementi della sovranità, definita come "suprema potestas", epperò coglie il carattere dell'ente politico che il Rinascimento matura, l'indipendenza. Dopo di lui più decisamente Bodin ritiene lo stato, appunto perché sovrano, assoluto e perpetuo, e lo proclama sciolto dalle leggi, per quanto non sottratto ai vincoli del diritto naturale e divino. È questo il nuovo pensiero che adegua la realtà, la quale, nonché contrastare a quello, in esso si riconosce. L'uomo appare ed è il grande artefice della storia, nei suoi salienti aspetti politici, ed esso è veduto autore dello stato. Machiavelli intende la volontà, egli invero parla di virtù, efficiente nello stato. Con la sua energia l'uomo crea lo stato, lo plasma, lo dirige. Esso è perché l'uomo lo fa. Ma l'uomo di cui lo scrittore dice è ancora l'uno, il singolo, il principe dotato di attitudini specialissime, gli altri sono sudditi, materia che costituisce lo stato, non di questo efficientemente partecipi.

Più profondi saranno i giusnaturalisti, quando, con Grozio e Locke, lo stato vedono in funzione di tutti gli uomini. Gli uomini lo costituiscono, in quanto tutti i loro diritti innati convergono in esso e lo stato, contrattualmente fondato, li deve confermare e tutelare. È la posizione inversa di quella ellenica.

Il complesso imponente di dottrine cui abbiamo accennato contribuisce efficacemente alla costituzione dello stato moderno e alla sua volta è dalla realtà di questo condizionato. Esso, mentre affonda le sue radici nelle nascenti nazionalità, si afferma suprema autorità territoriale, epperò combatte ogni particolarismo feudale, comunale, corporativo, ogni privilegio personale e reale, nobiliare o ecclesiastico. L'opera sua è di livellamento; nonostante che talora faccia concessioni alla nobiltà, in definitiva promuove lo sviluppo borghese, la vita industriale e commerciale. La sua autorità è assoluta, ma non siffattamente che non riconosca molti vincoli alla sua azione, sia nel diritto divino e naturale (limiti in fondo etici), sia nel complesso delle tradizioni nazionali, le cosiddette leggi fondamentali. Queste sanciscono una partecipazione alla vita pubblica dei ceti o stati nei parlamenti, che in certi periodi ebbe una grande importanza. In Inghilterra è questo il germe del regime costituzionale, che caratterizza lo sviluppo istituzionale di quel paese, di poi, soprattutto in seguito alla divulgazione fattane dal Montesquieu, modello a quasi tutti gli stati dell'Europa continentale. Nella Francia monarchica l'originaria partecipazione dei ceti alla politica diviene col tempo sempre minore, si svolge l'assolutismo, contro cui reagiranno in sede teorica gli scrittori giusnaturalisti stessi e in sede pratica la Rivoluzione. Consumata questa, e con essa la reazione, il costituzionalismo apparirà la nota fondamentale dello stato moderno. Tuttavia bisogna pur dire che alla sua formazione come hanno contribuito dottrine le più varie, parimenti di fatto ha conferito tanto l'esperienza dell'assolutismo, che lo ha assicurato nel rigoroso fondamento autoritario contro le forze dissolventi, quanto l'esperienza costituzionale per ciò che riguarda le guarentigie del cittadino contro gli abusi del governo, una più affinata tutela giuridica.

Riprendendo l'esame delle dottrine, ci sembra facile rilevare il limite della concezione giusnaturalistica, ma più veramente lo si intende con riferimento a quegli scrittori che al contratto hanno dato significato affatto empirico. Così Grozio non parla veramente di un contratto, ma di tanti contratti quanti sono gli stati, diversi di contenuto come diverse sono le forme politiche cui dànno luogo. In tal caso non solo l'ipotesi contrattualista contrasta all'esperienza storica che mai ci presenta l'associazione politica generata dall'accordo, bensì, priva di ogni valore razionale, è un mero espediente per ratificare a posteriori ciò che di fatto già è, l'assolutismo come la democrazia. Ma lo stesso fatto dello stato è assai precario nell'intendimento del contrattualismo empirico. Una potenziale anarchia minaccia lo stato, poiché, in ipotesi, quelle stesse volontà che lo hanno costituito potrebbero ritirarsi e lo stato venir meno. Si è scoperto l'uomo nello stato, ma lo stato è fugace parvenza.

Gli sforzi per superare le aporie del contrattualismo empirico sono i più tenaci. Il Hobbes, intendendo il contratto come rinuncia a favore dello stato di tutti i diritti individuali, poiché solo in tal modo, con la costituzione di una onnipotente autorità, può assicurarsi la pace sociale, dà al patto un contenuto necessario, quindi una certa razionalità. Analoga in fondo la posizione dello Spinoza, se egli non introducesse la libertà a completare la parziale visione assolutistica hobbesiana. Attraverso il patto gli uomini si impegnano a vivere ed operare "ex solo rationis dictamine" e costituiscono lo stato, cui deferiscono i poteri e i diritti dei singoli. Da una parte lo stato, in quanto regolatore della vita razionale, è libertà, dall'altra, assorbendo i diritti dei singoli, è potere assoluto. Quindi Spinoza, pur legandosi al Hobbes, annuncia il Locke, che lo stato fa garante dei diritti individuali. Ancora "fatto", il contratto, che è alla base dell'ente politico, è il più razionale dei fatti, poiché il suo contenuto deve esser tale da assicurare il rispetto dei diritti individuali, per cui, e unicamente per cui, lo stato è costituito. Quest'esigenza è inderogabile, poiché, solo soddisfacendola, lo stato è ragionevolmente possibile.

Già con Locke dunque si può notare uno sforzo per dare al contrattualismo un senso critico, per cui il contratto, nonché spiegare il nascimento dello stato nel tempo, vuol fondarne l'assoluta necessità, chiarendone il principio spirituale, e in uno determinarne la legittimità secondo un criterio deontologico. Chi veramente opera l'inversione è il Rousseau e dopo di lui il Kant. Rousseau sa bene che un contratto com'egli lo descrive non è stato mai stipulato, ma sa pure che, solo ritenendo lo stato fondato sul consenso collettivo, esso appare razionale. Egli, col contratto, afferma un'inderogabile esigenza razionale per indicare come lo stato deve essere costituito. Solo in quanto tutti i diritti naturali degl'individui convergano in uno, lo stato è sintesi delle libertà individuali, lascia e non può non lasciare inviolati i diritti dei singoli, ha e non può non avere per suo fine la tutela sociale di questi. Non diversa in fondo è la posizione del Kant. Per lui lo stato non è che coesistenza delle libertà. Un'esigenza di giustizia è a suo fondamento, poiché la moltitudine che lo costituisce si deve concepire associata per comune volere, per contratto. La giustizia appunto si realizza nello stato, in quanto in esso nulla si compia che non sarebbe stato compiuto se lo stato non fosse sorto da contratto. Con ciò il Kant elimina decisamente quell'equivoco tra senso empirico e senso razionale in ordine al contratto sociale che i giusnaturalisti non erano mai giunti a superare. Fine dello stato, secondo il filosofo, è solo la tutela del diritto, vale a dire assicurare la coesistenza delle libertà di tutti, e non più. È la cosiddetta concezione dello stato di diritto, nello specifico senso kantiano, manifestamente insufficiente. Lo stato è visto nella sua esteriorità, tutto in funzione di mere individualità coesistenti. Insomma uno stato, occupato unicamente del diritto, cui sfuggono con la morale, l'economia, la religione, i motivi più alti dello spirito.

Con il giusnaturalismo e Kant la filosofia è giunta a un intendimento dello stato interamente in funzione degli uomini, per quanto su un piano di esteriorità, che altri pensatori successivamente si sforzeranno di eliminare. Lo stato di diritto, che Kant teorizza, è corrispettivo alla rivoluzione francese. Se una critica può ad esso rivolgersi, come all'ente politico che di fatto dalla rivoluzione è nato, è la scarsa aderenza alle forze sociali economiche e morali. Si è osservato da autorevoli studiosi che la rivoluzione conclude l'opera della monarchia assoluta. Ciò è vero nel senso che anch'essa, come lo stato moderno che ne ha mutuato le idealità, è ostile ai ceti, alle classi, alle corporazioni, in cui la vita durante lunghi secoli si era foggiata, vuole direttamente attingere l'individuo e solo su questo e per questo erigere l'opera sua. Lo stato moderno conosce l'individuo, astrazion fatta dai gruppi nei quali pur vive. La società nelle sue forme molteplici gli è estranea. Si spiega quindi come esso, liberale e indifferente, ritenendo nella tutela giuridica esaurito il suo compito, finisca per rivelarsi impotente a disciplinare la vita delle classi inferiori, allorquando queste nel sec. XIX cominciarono ad acquistare il senso della propria importanza. Donde ciò che si è detto "crisi dello stato", come l'esigenza di un'ulteriore integrazione, che, se nell'ordine pratico ha trovato la sua realtà solo di recente con il fascismo (v.), nell'ordine teorico già era stata proclamata necessaria da più di un autore.

Si pensi, per es., al Fichte. In una prima fase egli svolge la nozione kantiana di uno stato coesistenza delle libertà, garante di queste; quindi ulteriormente concepisce l'ente politico come organo del benessere sociale e della sicurezza collettiva; finché, più tardi ancora, lo fa promotore della cultura, suscitatore di moralità, tale che a lui inerisca la vita in tutti gli aspetti più alti. Siamo avviati allo stato etico, al più coerente idealismo.

Se noi vogliamo raggruppare le dottrine fin qui riassunte, possiamo dire che esse costituiscono due gruppi distinti, corrispettivamente ai due punti di vista, dai quali muovendo, l'uomo cerca di intendere il reale a parte obiecti e a parte subiecti. Per le dottrine oggettive, rappresentate principalmente dalla classicità, lo stato appartiene a un ordine irreformabile che l'uomo trova; per quelle soggettive, nate dalla nuova intuizione della vita propria del cristianesimo e quindi svolte dall'età moderna, lo stato è creatura dell'uomo, che dall'uomo fiorisce come il più alto prodotto dello spirito. In fondo le une e le altre, parziali, colgono tuttavia essenziali motivi di vero.

La filosofia hegeliana rappresenta compiutamente la sintesi delle due grandi correnti tradizionali che il pensiero ha elaborato riguardo allo stato. Per essa i due accennati punti di vista, riconosciuti meri modi funzionali di intendimento, rinviano a una suprema istanza il soggetto assoluto. Lo stato è realtà oggettiva, ma fondato nello stesso soggetto che, dimentico della sua puntualità, in quello si riconosce assoluta autocoscienza, universale eticità, concretamente ethos. Grande intuizione, che poi Hegel stesso svuota, postulando la società civile altra dallo stato, suo presupposto, e sopra lo stato lo spirito assoluto nella ben nota triade dell'arte, della religione, della filosofia. In tal modo il grande filosofo germanico riconosceva implicitamente che lo stato non adegua tutta la vita pratica, se rispetto ad esso vi sono antecedenti o presupposti, come pure forme più alte dello spirito che dalla sua disciplina unitaria rifuggono. Comunque, avere riconosciuto la spiritualità dello stato è il suo grande merito. I suoi problemi riprenderà al principio del secolo presente il neoidealismo italiano, rivivendoli in una esperienza affatto nuova.

Nozione dottrinale e speculativa. - Prima di continuare l'esame dell'evoluzione storica del concetto di stato e avviarlo a quella che noi riteniamo una coerente soluzione, dobbiamo pur dire che di recente non sono mancate dottrine che hanno creduto, con i loro procedimenti scientifici, sostituirsi alla filosofia e darci un'adeguata rappresentazione dello stato. Le scienze naturalistiche da una parte, e tra esse la sociologia, la quale, ritenendo provata la sua legittimità, ha creduto possibile sostituirsi alle particolari scienze sociali, il diritto pubblico, dall'altra, ultimo giunto a maturazione tra le speciali discipline giuridiche, hanno tentato l'ardua prova.

Un primo intendimento dello stato ci viene, dunque, approntato dalle scienze naturalistiche. Si parla pertanto di una dottrina realistica o sociologica dello stato. Realtà fenomenica, anzi complesso di fenomeni, lo stato dovrebbe esaurirsi in una considerazione che quella o quelli sistemi, mostrandone la rispondenza tra le parti, le rispettive funzioni, in una parola l'organizzazione. Tutto ciò senza rimando alcuno a principî metafisici, con un procedimento esclusivamente sperimentale e induttivo. Si vorrebbe cogliere ciò che è costante nella serie fenomenica per enucleare una nozione scientifica. Questa, nonché assoluta, è relativa. Non dunque lo stato in universale è la risultanza dell'indagine, ma lo stato quale appare nel tempo e nello spazio diversamente configurato. La scienza, se può dirci che cosa è lo stato nei limiti che accetta, con riferimento ai presupposti che accoglie, secondo contingenti criterî, non potrà mai dirci che cosa è lo stato senza aggettivi, la statualità che è in tutti gli stati senza esaurirsi in alcuno.

Le incertezze della dottrina cosiddetta realistica cominciano quando si cerca di determinare la materia per indurne la nozione di stato. Quella per i più è data dalla società, poiché lo stato non è che una particolare forma di società, caratterizzata dalla potestà di imperio. Ma quale società? Non certo qualunque società o tutte le società, poiché, se alcune società rientrano nello stato cui soggiacciono, altre, come le società religiose, talvolta più ampie, anzi tendenzialmente universali, lo trascendono. Alcuni scrittori, soprattutto del secolo scorso, ritengono lo stato fondarsi sulla società nazionale, sulla nazione (v.). Per P. S. Mancini, in alcuni punti precorso dal Romagnosi, lo stato non è che l'ordinamento giuridico della nazione. A confutare questa definizione basta in sede storica ricordare quanti stati non hanno mai avuto per base una nazione, e quante nazioni mai sono assurte a dignità di stato. Il vero è che la formula manciniana ha un significato ideale, rappresenta le aspirazioni di un tempo in cui la coscienza nazionale operava e sovvertiva l'Europa. Lo stato, costituendo la più salda unità di vita, esercita un'energica attività accomunativa sui soggiacenti gruppi sociali, fino a generare una comune coscienza, la nazione; questa, se conculcata, reagisce e tende a sovvertire lo stato che ne prescinde, mira a costituirsi essa stessa a stato. Comunque, chiarito ciò, i due termini sono distinti, ancorché operino l'uno sull'altro, e talvolta coincidano. Lo stato non è necessariamente fondato sulla nazione, né la nazione sempre si eleva allo stato.

Molti scrittori hanno ridotto il sostrato sociale dello stato alla meno definita nozione di popolo (v.). Lo stato non sarebbe che il popolo ordinato stabilmente su un dato territorio, in quanto sia unito da un vincolo giuridico. Dunque lo stato si identificherebbe col popolo. Per i Romani populus romanus è ciò che noi diremmo lo stato romano. La collettività dei singoli che lo stato costituiscono è senz'altro lo stato, detenendo essa il potere, secondo le più esasperate teorie contrattualistiche e democratiche. A parte che la dottrina avrebbe valore solo per quei casi in cui lo stato si regga in diretta democrazia, quando si dice popolo e il popolo si identifica con lo stato, si presuppone un'organizzazione, ma l'organizzazione evidentemente non può essere data che dallo stato, dunque da qualcosa anteriore al popolo come somma di individui. Se logicamente lo stato è prima del popolo, non si può identificare con questo.

Non è mancato chi sociologicamente ha risolto lo stato nel territorio. Lo stato è il territorio. Tale soluzione, mentre ripugna alla coscienza moderna, ispira la dottrina patrimoniale, che lo stato considera evidentemente come un bene privato.

È facile intendere come tali dottrine risolvano lo stato pienamente in un dato oggettivo, sia esso popolo sia territorio, o nell'uno o nell'altro insieme secondo eclettiche soluzioni che non mancano. Il potere sovrano è fuori da quelli, anzi sopra di essi. Così M. Seydel ritiene lo stato null'altro che un popolo sopra un territorio, in quanto dominato da un sommo volere. Tale volere sovrano è fuori e sopra lo stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di stato. Lo stato è oggetto della signoria del sovrano e questa signoria è semplicemente il fatto della forza sopra lo stato. Se per il Seydel lo stato è oggetto della sovranità, non mancano scrittori autorevoli che invece puntano sulla sovranità, esteriormente assunta, per qualificare lo stato. K. Bornhak, per es., scrive che stato e sovrano sono concetti identici. Il sovrano, nonché soggetto della personalità dello stato, s'identifica con esso. Analogamente per L. Duguit lo stato non è che l'individuo o gl'individui investiti di fatto del supremo potere politico, della sovranità, e la volontà statuale è di fatto solo la volontà dei governanti, cioè del sovrano. Si parla di sovrano, ma in realtà oramai può ben dirsi governo. Lo stato è il governo. Col Duguit sta il Laski, il quale senz'altro dice che lo stato, in quanto persegue fini pratici, è il governo.

L'incertezza e la contraddittorietà delle soluzioni dovrebbero farci chiara l'insufficienza delle varie dottrine realistiche, le quali nel complesso statuale rilevano solo l'aspetto esterno, quello assumono dato, nei suoi presupposti, non il processo per cui questi vengono risoluti e si costituiscono ad unità. Abbiamo detto presupposti, e invero tali sono popolo, territorio, sovranità per chi lo stato intenda complesso vivente ed operante, unità superiore anzi spirituale.

Quanto abbiamo detto basterebbe per chiudere tale sezione della trattazione, se non convenisse osservare come gli accennati assunti diversamente si colorino nella scienza sociologica dello stato, epperò, pur sistemando sempre l'uno o gli altri a sé o insieme degli elementi accennati. le risultanze siano diversissime. Ci limitiamo a pochi accenni. Complesso di rapporti di produzione o economici per i seguaci del socialismo scientifico (C. Marx, F. Engels, A. Loria, Antonio Labriola), lo stato diviene per L. Duguit, L. Gumplowicz, A. Menger una storica formazione prodotta dalla superiorità di un gruppo umano più forte su un altro più debole. Se per F. Ratzel è un fatto puramente geografico, per G. Ratzenhofer di razza, in una più affinata formulazione diviene fatto fisiopsichico, ma sempre fatto. Il più alto scopo della scienza è quello di intendere questi fatti nella loro unità, di considerare lo stato come organismo, quasi per attingere nell'organismo la vita.

Della inanità degli sforzi è testimonianza la dottrina che ci mostra tutte le teorie organiche in quanto mirino a fondare la cosiddetta personalità dello stato, l'unità personale dello stato. Organismo fisico per gli uni (Planta, K. Frantz), organismo affatto simile all'uomo per altri (F. Rohmer, J. C. Bluntschli, K. S. Zachariae), organismo fisico-etico (Waitz, E. Ahrens, F. A. Trendelenburg, K. D. A. Röder), tutti mirano a sollevare la mole dei fatti alla vita, ma infine non si fa che abbassare lo spirito alla natura, se l'uomo termine del parallelo consueto degli organicisti non è l'uomo morale ma l'uomo fisico.

Insoddisfatti delle contraddittorie soluzioni naturalistiche molti scrittori hanno tentato un approfondimento del problema in sede giuridica. Se la nozione dello stato non ci può essere data dal contenuto, occorre fare ricorso alla forma. Il concetto dello stato è essenzialmente giuridico. Lo stato è persona giuridica, riconoscendo con ciò il diritto ad esso una esistenza diversa da quella dei suoi membri, unità e continuità di vita. Il diritto pone e disciplina i rapporti tra lo stato e i suoi organi, tra gli organi stessi dello stato, tra lo stato e gl'individui, tra gl'individui nell'ambito dello stato.

Non mancano coloro che negano allo stato la personalità giuridica (Bartolomei). Per essi il rapporto giuridico si assolve tra due termini, ogni termine della relazione essendo persona giuridica. Tale non può essere lo stato, se invece è complesso di termini, di relazioni tra loro intercedenti. Il diritto, mentre qualifica il mondo sottoposto al diritto, lascia fuori proprio lo stato. In tal modo, ribattono i critici, la stessa dottrina che rivendica la giuridicità della vita statale, si rivela insufficiente a dominare l'unità sintetica dello stato, rinunciando a definire in sede formale lo stato stesso.

Il vero è che la logica del diritto è strumentale ai fini della scienza, allarga e restringe i suoi strumenti in relazione agli intendimenti che si propone. Donde le soluzioni più diverse. Abbiamo visto come alcuno abbia escluso che il diritto possa intendere lo stato in quanto totalità. Altri di contro (ci riferiamo al Kelsen) ha postulato l'unità convertibile di diritto e stato. Mentre molti autori ritengono il diritto essere anteriore allo stato (Stammler, Del Vecchio), non mancano coloro che il diritto ritengono mera espressione dell'eminente volere dello stato. Tra gli uni e gli altri infine alcuni scrittori parlano di termini coessenziali e contemporanei nello sviluppo storico. Diversità di soluzioni che è conseguenza dell'empiricità delle premesse. La forma giuridica non è forma sintetica o a priori dello spirito, ma generalizzazione di note arbitrariamente distaccate dall'oggetto e unite con provvisorio processo. Lo stato, costruito dalla giurisprudenza, non è categoria universale, ma nozione scientifica, che la scienza arbitrariamente foggia ed assume. Con ciò non neghiamo la legittimità dei procedimenti giuridici per gli scopi pratici della vita, la validità prammatica delle costruzioni e delle nozioni giuridiche, in ordine soprattutto allo stato, contestiamo soltanto che la definizione del giurista valga a qualificare assolutamente lo stato.

Di fronte alle parziali soluzioni delle scienze naturalistiche e di quelle giuridiche, la filosofia contemporanea ha, ricollegandosi a più antiche esperienze filosofiche, novellamente tentato l'arduo tema, riteniamo con più sicure risultanze. Mai come ora, specialmente in Italia, lo stato è reale nell'intendimento speculativo. La filosofia non solo ne ha approfondito l'essenza ideale ma ha contribuito a potenziarlo nella sua funzione storica, promovendone il sentimento nel popolo. Realtà assoluta esso è concetto e realtà, valore e fenomeno, coestensivo alla vita tutta che è pensiero ed azione.

Lo stato è spirito, afferma l'idealismo contemporaneo; pensiero che pone l'essere, essere che è pensiero, coscienza del processo onde si costituisce, autocoscienza; pertanto, libertà, e la sola vera libertà, quella dello spirito. La vita dello stato è dunque tutta vita dello spirito. Lo stato nasce nello spirito e in questo interamente si risolve, lasciandosi dietro ogni naturalezza. Non vi sono presupposti che occorra svolgere preliminarmente per intenderlo. I cosiddetti elementi essenziali, popolo, territorio, sovranità, acquistano senso determinante e costitutivo nello spirito che li conosce, epperò li assume ad aspetti di quella realtà per cui esso stesso si pone come stato.

Le difficoltà dell'idealismo sorgono quando si voglia definire il processo stesso dello spirito in cui lo stato nasce. A quale momento dello spirito pratico appartiene lo stato? Una prima risposta, presentata dal Croce, ritiene lo stato non essere altro che processo di azioni utili di un gruppo di individui o tra i componenti il gruppo. Lo stato vive dunque nell'economia, essendo lo spirito pratico prima economia e poi etica, prima attività volta a fini particolari, poi attività volta a fini universali.

Un primo dubbio sull'adeguatezza della dottrina si ha quando se ne deducano alcune conseguenze. Risolvendosi lo stato in un complesso di azioni utili, rinvia all'agente, al governo, epperò con questo coincide: stato che è governo, governo che è stato. Nella nuova identificazione l'azione si rivela forza, forza spirituale si dice, ma sempre forza, anzi aggiungiamo forza quale può essere intesa nel momento della pura economia. Non mancano tentativi di temperamento, tuttavia è evidente da ciò che si è detto che la dottrina o si accetta tutta o altrimenti, escluso che si possano accogliere le premesse e respingere le conclusioni, tutta è necessario respingere, in una revisione radicale dell'intero processo speculativo cui si appoggia.

Se lo stato non è economia è etica, risponde Giovanni Gentile e con lui molti altri. Lo stato è la stessa realtà etica; lo stesso universale immanente nella vita di relazione. Si costituisce nell'individuo, ma nell'individuo in quanto susciti ex sese i valori assoluti costruendolo e in uno portandolo ad abbracciare gl'infiniti gruppi sociali in cui quei valori si sustanziano. Individuo e stato coincidono in un processo di mediazione, nel sempre nuovo medio dei gruppi sociali. Le stesse aporie hegeliane sono superate. Nulla è presupposto naturalisticamente allo stato, se la società coincide con esso. Nulla parimenti è sopra lo stato, valore più alto di questo. Universale autocoscienza, riassume tutto il processo dell'assoluto.

Contro la dottrina svolta sono state sollevate le più fiere critiche, soprattutto accusandola molti di indifferenza etica. Genuflettendosi dinnanzi a tutte le forme di stato, consacrando tutti gli stati, adeguerebbe la moralità al fatto. Ove bisogna che i critici dimostrino che lo stato cui compete l'appellativo di etico sia fatto e non il processo invece per cui il fatto è lasciato dietro come naturalezza e lo spirito sorge e s'impone nel mondo della pratica.

Lo stato non solo è nell'ethos, ma in questo tutto si risolve, in completa coincidenza. Organismo etico, ignora la naturalezza. I suoi fini sono quelli stessi dello spirito, la più profonda costituzione del soggetto nella sua eminente dignità umana. Pertanto, assolve una missione altissima. Prodotto dell'ethos, avente in sé l'ethos, ne promuove ed attua quegli ulteriori sviluppi, che poi novellamente comprenderà. Non v'è fatto grande nella vita del genere umano che esso ignori. Nonché indifferente nelle lotte che dilacerano la società, di continuo prende partito, suscitando i più alti valori di umanità. Se la precedente filosofia, soprattutto col Kant, poteva concepire uno stato limitato ad assicurare la paritaria coesistenza esterna dei soggetti, la esclusiva tutela giuridica, il nuovo stato il diritto vede forma del più vivo contenuto umano e questo nelle infinite sue guise fa suo. Tutti i fini divengono il fine dello stato, il quale, trasportandosi su un piano che travalica le generazioni, le sottrae alla contingenza. In questo senso lo stato, si è detto, non solo è presente, ma sopra tutto passato, storica tradizione, e futuro, vale a dire speranza e fede di vita nuova. Economia, morale, arte, religione, sono per lo stato, sicure nello stato. La vita stessa nei più nobili tratti, quelli per cui l'uomo più si avvicina a Dio, Dio può celebrare, è condizionata dalla sublime realtà dello stato. Non senza ragione un grande pensatore, lo Spinoza, parafrasando il detto di Hobbes, ebbe a dire solennemente: homo homini deus. L'uomo sociale, che la sua socialità dispiega nello stato, è vicino a Dio, certo di Dio ha l'animo preso e i divini comandamenti fa suoi per celebrarli ogni giorno.

La concezione fascista dello stato. - Alcune delle dottrine che noi abbiamo riassunto ci portano nel clima storico del fascismo, alla formazione ideale del quale hanno fortemente contribuito, come hanno contribuito esigenze e motivi pratici vivi nella coscienza del popolo italiano nel nostro secolo. L'alto senso dello stato che il fascismo caratterizza deriva certo anche dalla rivalutazione speculativa che dello stato l'idealismo ha operato, ma più ancora trae origine dalla necessità di una integrazione relativa allo stato, che, se nell'ordine teorico era già stata intravista, praticamente non aveva avuto quelle realizzazioni che erano da attendersi. Di ciò il fascismo fino dall'inizio ebbe viva coscienza, donde il carattere prammatico della sua dottrina dello stato, che non deve però farci dimenticare l'idealità di esso, al fascismo, come a nessun altro movimento politico, sempre presente.

Uno scritto di Benito Mussolini per l'Enciclopedia Italiana ha definito mirabilmente l'argomento e posto soluzioni rigorose dell'arduo tema, convinto non solo dell'utilità, bensì più veramente dell'essenziale sua necessità. "Non c'è concetto dello stato che non sia fondamentalmente concetto della vita". "Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità".

Innanzi tutto ci preme di rilevare come la concezione fascista dello stato, pur innovando profondamente rispetto al passato, non rappresenti un ritorno a dottrine superate, teocratiche o assolutistiche che siano. Lo stato fascista, sebbene ricco di vita religiosa, che la religione in genere, e nella sua forma storica cattolica in ispecie, assume per mediare in essa come nella morale dei cittadini la sua superiore essenza etica, non è per ciò teocratico, non crede di essere portatore di un trascendente volere, interprete autorizzato di una verità rivelata da imporsi anche coercitivamente. Parimenti non è assoluto, poiché, mentre esclude il personalismo sovrano, non solo nelle forme estreme patrimoniali, ma anche in quelle attenuate del dispotismo illuminato, non disconosce la libertà come tale, sebbene ritenga "la sola libertà che possa essere una cosa seria la libertà dello stato e dell'individuo nello stato", vale a dire una libertà nei termini della sua legge e delle sue eminenti finalità

D'altra parte la nuova dottrina si ricollega pure al passato, da cui assume nell'originalissima sintesi più di un elemento. Opponendosi a due posizioni tradizionali del pensiero politico, il giusnaturalismo liberale e il socialismo, da questi rileva i motivi non perituri e li trasvaluta: Abbiamo visto il giusnaturalismo, da cui derivano le più esasperate tendenze liberali (v. liberalismo), presupporre l'individuo e i suoi diritti allo stato e fare di questo il custode di quelli, e nulla più. Contro di esso il fascismo giustamente afferma l'individuo concreto e storico, essere sociale, anzi statuale, lo stato realtà insopprimibile degl'individui associati, eppero nega esservi diritti fuori dallo stato, che lo stato non configuri e renda efficienti ai fini di una vita non atomisticamente, bensì unitariamente e organicamente intesa. Con che, d'altra parte, si oppone al socialismo (v.), il quale l'individualità soffoca nella burocrazia di uno stato detentore dei mezzi di produzione (lo stato "organizzazione a fini puramente materiali"), in genere ad ogni statualismo che ignori comunque l'iniziativa privata. Se l'individuo fuori dallo stato è una chimera, lo stato non ha senso che per l'individuo. Si comprende quindi il superiore equilibrio della concezione fascista, che alfine compone speculativamente il dualismo di individuo e stato dal pensiero precedente esasperato, come avvia a pratiche soluzioni i dissidî sociali a quell'antinomia ideale corrispettivi.

La composizione del dualismo di individuo e stato è stata possibile, in quanto l'individuo appaia vivo nella famiglia, nell'associazione professionale, nella nazione, lo stato sia inteso non più astratto potere, bensì sintesi organica di tutte le determinazioni sociali dianzi dette. Se individuo e stato ipostaticamente definiti non possono mai incontrarsi, si incontrano, tendono processualmente a coincidere, quando siano assunti su un piano di socialità. L'individuo, nonché negato, viene organizzato in "corpi" sociali ognora più comprensivi, come lo stato, sottratto all'isolamento del despota, è sospinto ad adeguarsi ai corpi sociali in cui l'individuo si organizza. Tutta una serie di "corpi" sociali, aventi le più diverse finalità sociali, si costituisce tra l'individuo e lo stato, e in quei corpi l'uno e l'altro si riconoscono una medesima cosa, individuo "corporato", stato "corporativo". L'essenza dell'individuo vuole che esso tenda alla corporazione, a spiegarsi nell'organizzazione corporativa; l'essenza dello stato ad essere corporativo, a costituirsi unità di vita sociale nelle corporazioni. Entrambi tanto più compiutamente saranno, quanto più promoveranno il reciproco incontro, adeguandosi nei corpi intermedî, vale a dire costruendo una disciplina corporativa. Se sempre, in certa misura, lo stato è corporativo e si fonda sull'esigenza corporativa dell'individuo, poiché il bisogno di una mediazione sociale dei termini individuo e stato è perenne e nella mediazione è la vita storica del genere umano, il fascismo ha il merito di avere intesa più profondamente quella essenza e quell'esigenza, epperò di averla promossa, dispiegandola in originalissimi assetti istituzionali, quali l'Italia conosce attraverso una feconda legislazione dal 1922 in poi e che appaiono suscettivi di sviluppi e di integrazioni.

Abbiamo parlato della corporatività. È questa la nota dominante dello stato fascista, che la nuova dottrina ha veduto nella sua assolutezza speculativa e di cui ha fatto quindi il centro vitale di un nuovo intendimento sociale e politico. Se all'inizio il principio corporativo è apparso vivo nelle relazioni economiche, in quanto nella corporazione, avendo riguardo al superiore interesse nazionale, si è voluto comporre il dissidio tra datori di lavoro e lavoratori, epperò eliminare la lotta di classe, in cui altri aveva creduto irrigidire il movimento storico, più veramente, in seguito, si è rivelato fecondo di determinazioni in ordine al diritto e alla stessa morale, configurando corporativamente la vita in tutte le salienti sue manifestazioni. Si può a rigore parlare non solo di una economia corporativa, ma altresì di un diritto corporativo e di una morale corporativa, e coestensivamente alla suprema realtà umana, lo stato, in cui sono economia diritto e morale, di una politica corporativa. Il corporativismo fascista costituisce la più affinata coscienza di questa essenza assoluta dello stato e lo sforzo più efficiente di una sua realizzazione sul piano storico.

Intendiamo ora perchè lo stato per il fascismo è etico, etico perché corporativo, corporativo perché etico. Se corporatività vuol dire promuovere la vita in forme sociali ognora più alte, esso non può non essere etico. Di questa sua eticità abbiamo più indici. Nulla di ciò che nello spirito e dallo spirito fiorisce è a lui estraneo, dalla filosofia alla religione, all'arte, che in esso sono perché ad esso dànno coscienza e valore. Lo stato non ritiene possibile alienarsi da nessun compito per sublime che sia, bensì tutti i compiti assume e fa suoi. Pedagogo, promuove la cultura in tutti i gradi e le forme, vive ed è presente nelle manifestazioni dell'artista e del pensatore, dell'apostolo e dell'uomo di fede, "ispirazione centrale dell'umana personalità", "anima dell'anima", come ha detto energicamente Benito Mussolini.

Se teniamo presenti queste finalità largamente umane dell'azione dello stato, e quelle economiche sopra accennate, possiamo concludere che la dottrina fascista ha veramente portato lo stato ad adeguare la vita in tutti i suoi ordini. Esso "riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell'uomo", la cui personalità vuol penetrare, sia come intelligenza sia come volere, elevare al suo principio, interiorizzando in tal modo la sua legge. "Lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo".

Comprendiamo, pertanto, il genuino significato della formula mussoliniana: "tutto nello stato, niente al di fuori dello stato, nulla contro lo stato", che significa posizione dell'universalità dello stato negl'individui, non elisione di questi rispetto a un volere ad essi ignoto.

L'individuo, nello stato fascista, infatti, nonché oppresso, è tutelato e protetto, elevato dall'empiria alla sublimità dell'associazione, valorizzato. Questa tutela dell'individuo costituisce uno dei compiti che, assunto dalle vecchie dottrine, il fascismo ha arricchito, realizzandolo in forme nuove. La persona umana, definita in nuovi diritti, quelli relativi al lavoro, esige e ottiene nuove guarentigie. La tutela proclamata va oltre la vita individuale e riguarda l'uomo nella continuità della specie. Il rispetto della vita intrauterina, le provvidenze per l'integrità della razza significano rispetto non solo di quanti sono, ma soprattutto di coloro che saranno, tutela di quell'entità nazionale, che costituisce l'elemento vibrante di fede in cui si compone lo stato. In tal modo lo stato viene inteso non come coesistenza numerica di coloro che in atto ne sono i membri, ma come ente che nella sua organica spiritualità va oltre la generazione e comprende le generazioni. "Lo stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto futuro".

Alla luce di tale concezione ricevono un senso pregnante i principî della Carta del lavoro, i quali certo anche riconoscono in eminente valore l'uomo e il cittadino, ed oltre veggono l'uomo in quanto produce per sé, per il tutto, per l'avvenire, epperò lo tutelano, lo assistono nella salute e nei beni, lo fanno cosciente del suo posto nello stato e quindi nel mondo. Il lavoro "con cui l'uomo vince la natura e crea il mondo umano" è inteso come strumento di elevazione, creatore di umana dignità, via alla morale, "valore essenziale". L'individuo, uomo, cittadino, lavoratore, in una sempre più concreta qualificazione storica, viene non già annullato, bensì moltiplicato nello stato dei cittadini lavoratori. Organizzazione della nazione, articolata nei gruppi sociali, dalla famiglia alla corporazione, lo stato attinge capillarmente la sua essenza etica nei singoli, che veramente ha fatto suoi, riconosciuti suoi attraverso la morale elevazione del lavoro, nelle nuove guise della tutela corporativa, onde le infinite forze spirituali della nazione, convergendo, generano un eminente volere, che è unità e forza.

La forza di cui qui parliamo non è fatto fisico, ma energia del volere, potenza morale. L'idea romana, che è credenza nella continuità di un principio di vita, tradizione, opera attivamente in quanto suscita la fede in un destino comune, addita un'altissima meta, la realizzazione della quale è missione ai cittadini tutti, cui domanda dedizione intera, fino al sacrificio. Lo stato, che rappresenta l'unità vivente in funzione di tale valore da raggiungersi, conosce quindi il cittadino lavoratore e altresì il soldato. Cittadino lavoratore e soldato si convertono assolutamente. Si spiegano alla luce di tal principio concreti ordinamenti militari, che con quelli corporativi dànno il carattere allo stato dal fascismo creato.

Lo stato fascista è stato forte, non solo in quanto "autorità che governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali", ma anche in quanto "potenza" "fa valere la sua volontà all'esterno", la "fa riconoscere e rispettare", "dimostrandone col fatto l'universalità in tutte le determinazioni necessarie del suo svolgimento", infine soprattutto in quanto, "organizzazione ed espansione", intende segnare nel mondo un momento decisivo di civiltà. L'Impero, che è il segno oramai raggiunto di tale indefettibile volere, rappresenta l'efficienza di un più saldo potere a scopo di difesa e di offesa, e soprattutto una fede sentita come missione di civiltà tra i popoli. La concezione fascista dello stato in tal modo attinge i suoi ultimi e più vitali motivi nella umanità.

Alto senso di umanità, che meglio si intenderà quando l'esigenza fondamentale della dottrina, che è quella corporativa, apparirà suscettiva di fecondi sviluppi nell'ordine internazionale, oltre che in quello interno. La corporatività, come ha sottratto l'uomo all'isolamento e lo ha portato ad essere uomo e lavoratore nello stato, che le difformi società ha vincolato nello stato, vincolerà ognora più gli stati, non già paritariamente intesi, bensì concretamente qualificati nelle storiche condizioni di civiltà e di potenza, in rapporti economici e morali, in una parola politici, il cui senso corporativo sempre più sarà chiaro in avvenire. Come lo stato vero è tutto negli individui, tanto più ricco della vita dell'individuo quanto più questo corporativamente è organizzato, e quindi non può non riconoscere nell'individuo il suo principio, parimenti la società degli stati, quale il pensiero fascista promuove, sarà nella più piena ricognizione degli stati non come entità uguali ma come ineffabili e concrete sintesi spirituali dalle varie nazioni, quali la storia ha definito, nella loro solidarietà organizzata, epperò nel pieno rispetto di esse o delle funzioni di civiltà che sono chiamate a svolgere nella storia.

Bibl.: Per la storia del nome, v. E. Löning, Staat, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften, VIII, Dresda 1911, p. 692 segg.; O. Condorelli, Per la storia del nome "stato". Il nome "stato" in Machiavelli, in Archivio giuridico, s. 4ª, V (1923), pp. 223-35; VI (1923), pp. 77-112. Sulla formazione storica dello stato: G. Carle, Genesi e sviluppo delle forme di convivenza civile e politica, Torino 1878; id., La vita del diritto nei suoi rapporti con la vita sociale, Torino 1880; 2ª ed. ampl., ivi 1890; id., La filosofia del diritto nello stato moderno, I, sez. 1ª (sola pubblicata), ivi 1903. Sul cosiddetto stato moderno: H. Krabbe, Die moderne Staatsidee, 2ª ed., L'Aia 1919; R. M. Mac Iver, The modern state, Oxford 1926; H. J. Laski, Liberty on modern State, Londra 1930; trad. it., Bari 1931; G. Mosca, Lo stato-città antico e lo stato rappresentativo moderno, in Saggi di storia della scienza politica, Roma 1927, p. 85 segg. - Per una storia delle idee sullo stato vedi la bibl. alla voce politica. Qui più specificamente: R. v. Mohl, Geschichte und Litteratur der Staatswissenschaften, voll. 3, Erlangen 1855-58; H. Rehm, Geschichte der Staatsrechtswissenschaft, Friburgo in B. e Lipsia 1896; G. Solari, La formazione storica e filosofica dello stato moderno, parte 1ª, estr. da L'erma, Torino 1934, che riprende il tema dall'antichità classica; nonché, tra le opere più significative: F. Filomusi Guelfi, La dottrina dello stato nell'antichità greca, Napoli 1873; E. Troeltsch, Die Soziallehre der christlichen Kirchen, 3ª ed., Tubinga 1923; F. Ercole, La polit. di N. Machiavelli, Roma 1926; G. Solari, La scuola del dir. natur. nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Torino 1904; G. Del Vecchio, Su la teoria del contratto sociale, Bologna 1906; A. Schatz, L'individualisme économique et social, Parigi 1907; G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925. Sulla grande importanza del pensiero hegeliano: G. Gentile, Il concetto dello stato in Hegel, in Nuovi studî di diritto economia e politica, IV (1931), pp. 321-333. Sulle dottrine naturalistiche o altrimenti realistiche dello stato: M. Seydel, Grundzüge einer allgemeinen Staatslehre, Friburgo 1873; E. Lingg, Empirische Untersuchungen zur allgemeinen Staatslehre, Vienna 1896; L. Duguit, l'État le droit objectif et la loi positive, Parigi 1901; M. Siotto Pintor, I capisaldi della dottrina dello stato, I, Roma 1901 (solo pubblicato); L. Gumplowicz, Il concetto sociologico dello stato, versione it. sulla 2ª tedesca, Torino 1904; A. Menger, Lo stato socialista, trad. Olberg, ivi 1905. Per un esame critico: U. Forti, Il realismo nel diritto pubblico, Camerino 1903; A. Nikolaeff, Le concezioni neorealiste dello stato, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, XV (1935), pp. 1-19. Sulle dottrine fisico-geografiche e razzistiche: F. Ratzel, Anthropogeographie, Stoccarda 1882-91, voll. 2; 4ª ed., 1921-22; G. Ratzenhofer, Wesen und Zweck der Politik als Theil der Sociologie und Grundlage der Staatswissenschaften, Lipsia 1898, voll. 3. Sulla concezione socialista dello stato vedi la bibl. riportata alle voci engels; marx; socialismo. Qui basterà segnalare: A. Loria, Teoria economica della costituzione politica, Torino 1886; L. Dal Pane, La concezione marxistica dello stato, con intr. di T. Labriola, Bologna 1924; M. Adler, Die Staatsauffassung des Marxismus, Marx-Studien, IV, ii, Vienna 1922; H. M. Shermann Chang, The marxian theory of the State, Filadelfia 1931. Per le varie teorie organicistiche: A. van Krieken, Della cosiddetta teoria organica dello stato, trad. it., in Biblioteca di scienze politiche, VII, Torino 1891, pp. 1337-1446; F. W. Coker, Organismic theories of the state, New York 1900 (Columbia University, Studies in History Economic and Public Law, n. 101). Sulle concezioni giuridiche dello stato, nella vastissima letteratura, ci limitiamo a segnalare: E. Ahrens, Dottrina generale dello stato, in Biblioteca di scienze politiche, VII, pp. 475-636; R. Gneist, Lo stato secondo il diritto, trad. di J. Artom, Bologna 1884; O. Bähr, Lo stato secondo il diritto, in Biblioteca di scienze politiche, VII, pp. 285-427; A. Maiorana, Il sistema dello stato giuridico, in Antologia giuridica, III (1888), pp. 377-567; G. Jellinek, La dottrina generale dello stato, trad. Petrozziello, con capitolo agg. di V. E. Orlando, Milano 1921; H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1925; A. 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Del Vecchio, Sulla statualità del diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, IX (1929), pp. 1-21, ora in Saggi intorno allo stato, citato, pp. 9-45. Per le dottrine dell'idealismo contemporaneo; A. Ravà, Lo stato come organismo etico, Roma 1914; B. Croce, Elementi di politica, Bari 1925; id., Aspetti morali della vita politica, Bari 1926; G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze 1920; id., I fondamenti della filosofia del diritto, Roma 1923; id., Lo stato e la filosofia, in Introduzione alla filosofia, Milano 1933; F. Battaglia, La concezione speculativa dello stato, estratto dalla Rivista italiana per le scienze giuridiche, Roma 1935, con ampia bibl. cui rimandiamo. Sui fini dello stato: R. Schiattarella, La missione dello stato, in Bibl. di scienze politiche, VII, pp. 429-73; A. Falchi, I fini dello stato e la funzione del potere, Sassari 1914; A. Bonucci, I fini dello stato, Roma 1915.

Sulla concezione fascista dello stato: B. Mussolini, in Enciclopedia Italiana, XIV, p. 847 segg.; A. Rocco, La trasformazione dello stato. Dallo stato liberale allo stato fascista, Roma 1927; G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, ivi 1929; G. Del Vecchio, Stato fascista e vecchio regime. Contro il medievalismo giuridico, 2ª ed., Città di Castello 1932; F. Battaglia, Le carte dei diritti, Firenze 1934; F. Ercole, Il contributo del pensiero italiano alla formazione dello stato moderno, in Civiltà fascista, III (1936), pp. 396-416.

Diritto costituzionale.

Nozione e caratteri distintivi. - Lo stato, come oggetto della conoscenza giuridica, dev'essere considerato soltanto nel suo aspetto di società ordinata e organizzata dal diritto: come tale, esso rappresenta la più complessa e la più perfetta espressione dell'universale principio della solidarietà umana e della tendenza associativa fra gli uomini. Qualunque fine umano, salvo eccezioni non decisive, viene perseguito attraverso raggruppamenti e associazioni di uomini, che da un lato permettono l'unione delle forze e la distribuzione delle competenze secondo le varie attitudini, dall'altro valgono a eliminare la lotta fra i singoli e a rendere possibile la difesa comune contro ogni forza esterna, eventualmente contrastante. Un tale gruppo, società, o corpo sociale, deve essere internamente ordinato mediante la distribuzione di poteri, di posizioni, di compiti e di doveri, che rendano il gruppo e le sue parti idonei e proporzionati al conseguimento dei fini per cui il primo è costituito. Quest'ordine si identifica con l'idea stessa del diritto: per cui ogni società, in quanto ordinata e organizzata, può dirsi un ordinamento giuridico. Lo stato è il più perfetto fra tali ordinamenti, per la quantità dei fini a cui provvede, per la completezza della sua organizzazione, per la forza intrinseca con la quale questa si conserva e agisce. Ciò importa che esso non è l'unico ordinamento sociale. Lo stato infatti non solo fu storicamente preceduto da altre forme associative, ma, una volta costituito e consolidato, per quanto potente sia stata la sua forza d'impero e per quanto vasta la sua sfera d'azione, non fu in nessun tempo l'unica organizzazione destinata a provvedere agli umani bisogni: una quantità di questi, variabile secondo i tempi e le diverse tendenze politiche, seguitò a costituire la base di altre associazioni, alcune variamente collegate con lo stato, altre da esso indipendenti. Di fronte a tale varietà di forme associative, devono essere stabiliti i caratteri che sono esclusivamente proprî dello stato, e che valgono a spiegare la posizione assolutamente unica da esso assunta in confronto di tutta la rimanente realtà sociale. Tali caratteri distintivi sono la territorialità del vincolo associativo e l'originalità dell'ordinamento giuridico.

a) Tutte le società si possono distinguere in due grandi categorie, secondo che sono costituite per fini determinati oppure per fini indeterminati e capaci di indefinita espansione. Questa differenza si riflette sulla stessa composizione delle società: quelle con fini determinati sono composte soltanto dalle persone che si propongono il fine o i fini per cui l'ente è costituito; le altre sono formate da persone che trovano in altre condizioni, diverse da quelle del fine, la causa della loro unione. Tali condizioni possono consistere nell'appartenenza a un determinato gruppo familiare o gentilizio, oppure nell'appartenenza a un'intera popolazione residente sopra un dato territorio: nel primo caso il vincolo associativo è costituito dalla comune discendenza da un unico capostipite, nel secondo dalla residenza sullo stesso territorio, in quanto questa importa l'appartenenza alla popolazione da cui la società è costituita. Da ciò il concetto della società territoriale, che è quella con finalità indeterminate e con base demografica-territoriale. Tale composizione della società influisce sull'estensione dei suoi poteri d'organizzazione e d'impero: questi sono esercitati non soltanto, come in ogni altra associazione, verso i componenti, ma anche verso tutti coloro, che si trovano, anche solo temporaneamente, sul territorio sul quale l'associazione ha la sua sede: quisquis in territorio meo est, etiam subditus meus est.

b) L'ordinamento di qualunque associazione è originario o derivato, secondo che la sua formazione e successiva trasformazione siano indipendenti da ogni altra organizzazione, da ogni potestà o volontà esterna, o siano invece interamente o parzialmente determinate da un potere o da una volontà diversa da quella dei suoi componenti o di coloro fra questi investiti di potestà dalla stessa costituzione sociale. Tale originalità dell'ordinamento, presupponendo un potere dell'associazione non derivato né limitato se non dalla sua stessa costituzione, si identifica col concetto di sovranità. Lo stato ha un ordinamento originario e sovrano nel senso anzidetto. Tale carattere non è esclusivamente proprio dello stato; di esso si citano altri esempî come quello della comunità internazionale, della Chiesa cattolica, di altre associazioni di culto e di alcune associazioni di fatto. Però, tutti questi non sono ordinamenti territoriali; mentre, d'altra parte tutti gli ordinamenti territoriali diversi dallo stato, come nel diritto italiano i comuni e le provincie, mancano del carattere dell'originalità, perché dipendono in tutto o in parte dall'ordinamento dello stato e ripetono da questo ogni loro potestà. Solo lo stato, perciò, riunisce il doppio carattere della territorialità e dell'originalità dell'ordinamento. Il concorso di tali caratteri conferisce allo stato una posizione preminente rispetto a tutte le altre associazioni, le quali appaiono o addirittura comprese in esso, come gli enti pubblici e le persone giuridiche private, o almeno materialmente comprese nel suo territorio o nel territorio di più stati, come la Chiesa cattolica, le associazioni meramente lecite o quelle in contrasto con lo stato.

Intorno alla sovranità, come carattere proprio e costante dello stato, si sono avuti ripetuti dubbî e larghe discussioni, soprattutto a causa della posizione non del tutto indipendente di alcuni stati verso altri ordinamenti: gli stati protetti, gli stati membri di stati federali o di federazioni di stati. L'ostacolo può essere però superato, ove si tenga distinto il problema della posizione dei detti stati nei loro rapporti esterni da quello della medesima per quanto riguarda l'ordinamento interno: sotto il primo aspetto, gli stati protetti e gli stati membri di federazioni versano certamente in una condizione di limitata indipendenza; questa però non riguarda il diritto interno, che viene posto unicamente dallo stato, senza ingerenza delle superiori organizzazioni di cui fa parte. Le limitazioni riguardano lo stato come unità e come membro di una più complessa istituzione: non influiscono perciò sull'originalità dell'ordinamento che è posto dagli organi legislativi proprî dello stato. Una soluzione diversa è stata prospettata per gli stati membri di stati federali: si è ritenuto che questi non siano dei veri stati, ma semplici organizzazioni interne dello stato federale, il quale attuerebbe per loro mezzo un largo decentramento amministrativo e politico. Ciò non sembra esatto, perché i due ordinamenti, sebbene formati da elementi comuni, si mantengono giuridicamente distinti.

Lo stato e il diritto. - Le cose dette in precedenza toccano evidentemente il problema della esclusiva statualità del diritto: problema intorno al quale fervono le più vive discussioni nella dottrina contemporanea. Ammettendo che lo stato sia uno degli ordinamenti giuridici, per quanto distinto dagli altri per decisive caratteristiche, resta implicitamente riconosciuto il carattere della giuridicità anche di altre associazioni o meglio di tutte le associazioni realmente costituite. Tale opinione, che trova così numerose conferme nella realtà sociale di tutti i tempi, è contrastata specialmente da coloro che vedrebbero in essa una menomazione della sovranità dello stato e una negazione del carattere unitario dell'ordinamento giuridico. Tale dottrina non può disconoscere completamente che altre società oltre lo stato sono state talora creatrici di un proprio diritto: ciò però sarebbe avvenuto solo da parte di enti investiti del relativo potere dallo stato stesso, attraverso un atto di delegazione: al di fuori di questo, ossia della volontà dello stato, non si potrebbe parlare di un diritto e di un ordinamento giuridico. Però, gli esempî più importanti di ordinamenti non statuali tolgono valore a queste affermazioni: le corporazioni medievali, la Chiesa cattolica, la comunità internazionale, hanno prodotto un proprio diritto al di fuori di ogni potere conferito dallo stato e talora in contrasto con esso. Lo stato può, in alcuni casi, attribuire al diritto di queste e di altre associazioni un'efficacia più o meno decisiva entro il proprio ordinamento, per mezzo di varî procedimenti, che si estendono dal semplice riconoscimento al rinvio formale, alla recezione e alla completa autonomia. Quando ciò avviene, il diritto di tali associazioni aggiunge alla sua efficacia intrinseca, limitata ai componenti e basata solo sui mezzi di cui l'associazione dispone, un'ulteriore efficacia entro l'ordinamento dello stato, con le garanzie particolari di questo. Ciò però non vuol dire che, quando tale ulteriore valorizzazione manchi, le norme e gli statuti delle diverse associazioni non abbiano quel carattere di giuridicità, fondato sui mezzi che loro sono possibili, naturale di ogni forma organizzativa.

Quanto è stato detto intorno all'originalità dell'ordinamento dello stato è sufficiente per escludere che, entro di esso, possa avere valore di fonte giuridica ciò che direttamente e indirettamente non si collega alla volontà dello stato: nessuna legge i tribunali possono applicare, se non sia considerata tale e come tale imposta dall'ordinamento dello stato. La questione della statualità del diritto si pone evidentemente in modo diverso, secondo che si consideri in ordine al concetto generale di diritto e di ordinamento giuridico o piuttosto in ordine a un particolare ordinamento positivo. Nella soluzione del primo problema, la generalità e universalità del fenomeno giuridico non può essere disconosciuta; in quella relativa al secondo il valore del diritto resta naturalmente limitato entro l'ambito dell'ordinamento positivo che viene considerato: tutto ciò che è al di fuori di questo deve esulare dalla considerazione dell'interprete e del giurista.

I fini dello stato. - Molto studiato è il problema dei fini dello stato, problema prevalentemente filosofico e politico. Dal punto di vista giuridico, dato il carattere di ente con finalità indeterminate, che è proprio dello stato, nessun fine sociale è sottratto alla sua sfera di attività, che può estendersi in modo diretto o indiretto a tutti quanti gli aspetti della vita umana. Si dice di solito che lo stato antico limitasse la sua azione alla difesa esterna e all'amministrazione della giustizia: ma a tutti è noto come in Grecia e in Roma lo stato abbia assunto direttamente la cura della religione e dell'educazione, dell'edilizia e delle arti e, specialmente nel periodo imperiale, la disciplina dell'industria, del commercio e di tutta quanta la vita economica. Il Medioevo è il periodo della riduzione continua dell'azione e dell'autorità dello stato, sia per l'influsso delle tendenze individualistiche del diritto germanico, sia per la formazione di altre potenti organizzazioni sociali, quali la Chiesa, le corporazioni e i comuni, che si sostituiscono allo stato nella cura di numerosi interessi sociali. Lo stato ritrova la pienezza della sua missione storica con gli ordinamenti monarchici del Rinascimento; successivamente tende sempre più ad allargare la sua ingerenza in ogni campo della vita individuale e sociale, sì da giustificare la reazione individualistica che, manifestatasi prima nel campo dottrinale, si tradusse in positivi ordinamenti in seguito alla rivoluzione francese. Tutta la dottrina liberale è improntata alla restrizione delle funzioni dello stato, fino a ridurle alla sola tutela dell'ordine giuridico e dell'ordine pubblico e alla garanzia dell'autonomia e della libertà individuale. Questa politica produsse quel moltiplicarsi di altre forme associative, specialmente nel campo economico, alle quali abbiamo già accennato, e la cui azione si mostrava indispensabile per la cura di quei fini sociali che lo stato aveva inteso di abbandonare all'azione puramente privata dei singoli. Lo stato fascista ha avuto il compito di riaffermare l'autorità dello stato su tutte le forme associative e di estendere la sua azione a molti di quei fini, a cui lo stato liberale era rimasto estraneo: dal progresso economico all'incremento demografico, dall'educazione fisica, morale e politica al culto e alla religione, dall'assistenza materiale all'elevamento morale delle categorie lavoratrici.

Questo rapido cenno dimostra come i fini dello stato siano storicamente variabili e soprattutto come la loro estensione dipenda dalla diversa concezione delle varie tendenze politiche intorno al problema della missione propria dello stato e dei suoi rapporti con le altre società e con i singoli. Giuridicamente, in ogni momento storico è possibile distinguere una quantità di materie, delle quali lo stato direttamente e indirettamente si interessa, da altre che egli lascia fuori da ogni sua considerazione. Quando una materia è assunta entro la sfera di azione dello stato, questi può: a) o curarla direttamente, attraverso quella funzione che si dice amministrazione pubblica e che si svolge per mezzo di una serie complessa di organi e di enti, dallo stato appositamente istituiti e disciplinati; b) o semplicemente regolarla e garantirla come interesse proprio di quei soggetti cui tale materia particolarmente riguarda: questi ultimi acquistano rispetto a questa dei diritti, che lo stato è disposto a tutelare per mezzo dei suoi organi giurisdizionali; c) o infine regolare la materia in modo oggettivo, come un bene generale di tutto l'ordinamento, senza creare per alcuno dei diritti rispetto a essa, ma assicurando egualmente la tutela per mezzo di svariati organi e procedimenti, fra cui principalmente quelli della giurisdizione penale.

La personalità giuridica. - Dalla nozione dello stato risulta come esso costituisca una unità giuridica, in quanto, pur risultando da varî elementi, non si identifica con nessuno di essi né può sussistere senza il loro concorso. Questo carattere, dato sicuro della realtà, non può essere escluso da affermazioni apparentemente contrarie contenute in alcuni ordinamenti positivi: così, nello stato patrimoniale, i poteri proprî dell'ordinamento vengono dal diritto attribuiti al sovrano come diritti suoi proprî, e viceversa nello stato ispirato alle dottrine della sovranità popolare gli stessi poteri vengono attribuiti al popolo. Principe e popolo non possono avere altri diritti che quelli loro conferiti dall'ordinamento giuridico, unico soggetto della potestà dello stato.

Il pieno riconoscimento dell'unità organica di questo si verifica in quegli ordinamenti che considerano lo stato come una persona giuridica, titolare diretto dei suoi diritti e delle sue potestà. Una persona giuridica esiste anche in quegli ordinamenti in cui il principe esercita la sovranità come diritto proprio; tale persona non è però lo stato, ma una fondazione puramente privata, titolare di diritti e obbligazioni patrimoniali, cioè il fisco. Questo dualismo del sovrano, titolare dei diritti pubblici, e del fisco, soggetto dei diritti privati, si perpetua, attraverso la storia, dallo stato patrimoniale allo stato di polizia. Lo stato moderno ha ricostituito l'unità della personalità dello stato: scomparso interamente il fisco e riassunto il sovrano entro l'organizzazione dello stato, questo si presenta come un'unica persona giuridica, titolare di tutti i diritti di sovranità e di proprietà, così pubblici come privati, che in passato erano divisi fra i due soggetti tradizionali.

Che lo stato sia nella maggior parte dei moderni ordinamenti un soggetto di diritto, è riconosciuto da quasi tutta la dottrina contemporanea. Tuttavia, una tendenza, rappresentata da L. Gumplowicz, da C. Bornhak, da M. von Seydel fra gli scrittori tedeschi, da L. Duguit e in parte da M. Hauriou fra quelli francesi, dichiara una pura finzione giuridica la personalità dello stato, il quale non sarebbe in realtà se non il risultato dei complessi rapporti intercedenti fra governanti e governati, oppure si identificherebbe esclusivamente coi primi. Tale dottrina, in omaggio alla realtà sociale su cui si dichiara basata, disconosce completamente un'altra realtà non meno sicura, la realtà giuridica, risultante dai dati dei varî ordinamenti. In essi non solo si parla dello stato come della più importante fra le persone giuridiche, ma si attribuiscono a questo una serie di diritti e di doveri, di manifestazioni di volontà e di attività, che solo in un soggetto di diritto si possono ammettere. Per quanto riguarda il diritto italiano, la dimostrazione è offerta da numerose disposizioni: se l'art. 2 del codice civile, esemplificando una serie di persone giuridiche, non ricorda lo stato, gli articoli 425-430 del medesimo considerano lo stato come proprietario di beni, l'articolo 1957 contempla il medesimo come titolare di diritto di credito, l'art. 2114 si occupa della prescrizione a favore dello stato e contro di esso; lo statuto ricorda le cariche dello stato, le spese e i debiti del medesimo (art. 6, 25, 31); seguono altre leggi sugli impiegati civili dello stato, sull'avvocatura dello stato, ecc. Né può dirsi che la personalità sia limitata al campo del diritto privato, perché molti dei rapporti di cui lo stato è considerato soggetto, rientrano nel campo del diritto pubblico.

È controversa la posizione che può spettare allo stato nella classificazione delle persone giuridiche. Accettando la distinzione tradizionale che, basandosi sulla diversa composizione, distingue gli enti morali in corporazioni, se formate da una collettività di persone fisiche, e fondazioni, se formate da una massa di beni destinata a giovare a una collettività che non fa parte dell'ente, nessun dubbio sull'appartenenza dello stato alla categoria delle corporazioni. Una tendenza più moderna parla, invece che di fondazioni, di istituzioni e pone a base della distinzione, anziché la composizione dell'ente, il modo di formazione della sua volontà, secondo che essa provenga dal seno stesso delle persone che lo compongono o da un soggetto diverso, superiore ed esterno. Le cose dette sul carattere originario dell'ordinamento giuridico dello stato dimostrano che esso deve ritenersi una corporazione, anche se intesa l'espressione in questo secondo significato. Se, infine, la differenza fra i due termini, corporazione e istituzione, si vuol basare sul diverso modo di formazione della volontà entro la stessa persona giuridica, secondoché essa derivi dalla maggioranza dei suoi componenti o solo da un numero ristretto di essi, allora lo stato può rientrare nell'una o nell'altra figura, secondoché il suo ordinamento sia informato a principî democratici o aristocratici. Secondo noi, tuttavia, ritenendo che nella distinzione debba essere tenuto fermo il primitivo criterio, diciamo che lo stato è sempre e in ogni caso da qualificare come una corporazione a base demografica e territoriale.

Distinzione delle forme di stato. - Lo stato può assumere varie forme, le quali si prestano a essere classificate in base a criterî diversi.

a) Secondo la sua struttura, si distingue lo stato unitario dallo stato composto: il primo è costituito soltanto da individui e da enti collettivi non aventi la qualità di stati; il secondo è formato principalmente da stati, sebbene esso abbia come suoi componenti anche gl'individui e le persone giuridiche costituenti la popolazione dei singoli stati. Nello stato unitario il territorio e la popolazione sono elementi di un solo stato; nello stato composto i medesimi sono elementi così di tale stato come degli stati membri che lo compongono. La costituzione distribuisce i poteri e le competenze fra lo stato composto e gli stati membri; le rispettive sovranità restano in tal modo limitate, ma completamente distinte. Tipo principale dello stato composto è lo stato federale (v. federazione) del quale sono esempî attualmente gli Stati Uniti americani, il Reich germanico, la Confederazione Elvetica, l'U. R. S. S. Figura alquanto diversa è l'unione di vassallaggio: stato composto da uno stato dominatore e da altri in condizione di dipendenza, considerati dal primo come suoi elementi costitutivi. Di tale unione non si hanno esempî negli ordinamenti contemporanei.

Conviene accennare, per connessione di materia, alle altre unioni che possono formarsi fra gli stati, sebbene queste non abbiano rapporto con la materia delle forme dello stato. Esse non costituiscono, infatti, degli stati composti, ma soltanto delle associazioni fra stati, che dànno luogo a ordinamenti giuridici non statuali, ma internazionali, sebbene distinti da quello generale della comunità degli stati. Esempio tipico di tali unioni è la confederazione, società perpetua fra due o più stati limitrofi, costituita allo scopo della comune difesa o della pace e solidarietà fra i componenti o altro analogo scopo politico. Secondo l'opinione più accolta, la confederazione non ha personalità internazionale: può però avere organi proprî, le cui deliberazioni sono obbligatorie per gli stati componenti, non così per i loro organi e cittadini, se non in forza di leggi interne conformi a tali deliberazioni. Le confederazioni che si sono avute nella storia hanno avuto non lunga durata, essendosi trasformate in veri stati federali. Altra forma importante è l'unione reale, che si presenta quando due stati monarchici, per meglio raggiungere alcuni loro fini, stabiliscono di avere comune la persona fisica del sovrano, pur restando distinte le rispettive istituzioni: in tali unioni possono essere comuni anche altri organi centrali, come i ministri della Guerra e degli Esteri. Esempî recenti di unioni reali si ebbero da parte dell'Austria e dell'Ungheria, della Svezia e della Norvegia. Altri esempî di unioni sono infine i protettorati, o meglio i protettorati internazionali, che devono essere tenuti distinti dai protettorati coloniali (v. protettorato).

b) Secondo il vario ordinamento costituzionale, gli stati si prestano a varie classificazioni: alcune basate sulle limitazioni istituzionalmente imposte all'esercizio della sovranità, altre sul diverso modo di organizzazione dei soggetti investiti di tale esercizio.

Quest'ultima classificazione, risolvendosi in quella delle forme di governo, trova svolgimento sotto la voce governo. I possibili limiti istituzionali della sovranità valgono a differenziare i tipi storici di stato, che si riassumono nelle figure dello stato patrimoniale, dello stato feudale, dello stato di polizia e dello stato di diritto. 1. Lo stato patrimoniale è quello nel quale la sovranità non viene attribuita all'intero ordinamento, che manca di personalità giuridica, ma alla persona fisica del sovrano, considerato signore di ogni suo elemento. Tale figura è propria dell'Impero Romano dell'ultimo periodo e si riproduce nei successivi ordinamenti medievali: sua caratteristica è la mancanza di limiti giuridici, in quanto il sovrano è soggetto soltanto alla legge morale e religiosa. La concezione patrimoniale della sovranità e dei pubblici poteri rende possibile la sua parziale alienazione e l'investitura di altri soggetti dei pubblici uffici, considerati come beni o benefici. 2. Il risultato di queste investiture, mediante il patto di vassallaggio feudale, è un complesso di limitazioni al diritto del sovrano: egli non può più esercitare i poteri conferiti ai feudatarî. Con ciò, la condizione dei sudditi non riceve, però, alcuna garanzia: essi versano verso il feudatario nella stessa condizione, in cui erano precedentemente verso il sovrano. I poteri di questi diminuiscono ancora, quando egli concede immunità e privilegi ad altre organizzazioni sociali, quali la Chiesa, gli ordini monastici, le corporazioni delle arti e i comuni. È questo il periodo delle autonomie, per le quali l'impero si trova quasi totalmente spogliato dei poteri proprî dello stato. Quando tali poteri siano assunti da corporazioni e da comuni, questi enti se ne valgono per garantire libertà e diritti ai singoli loro componenti: onde il fiorire dei liberi ordinamenti, specialmente in Italia, durante il Medioevo. 3. Col Rinascimento trova nuova affermazione il principio dell'unità dello stato e della sovranità: nelle signorie, nei principati e nelle nuove monarchie, il principe, compresse e soffocate le autonomie feudali e comunali, torna ad accentrare in sé ogni potere. Lo stato assoluto, che così si istaura, non è, però, lo stato patrimoniale, ma un ordinamento che presenta nuove caratteristiche, comunemente riassunte nella formula dello stato di polizia. La sovranità viene concepita come potestà pubblica di governo, completamente distinta da ogni signoria patrimoniale; il principe esercita i relativi poteri non più in nome proprio, bensì in nome dell'istituzione monarchica, che egli rappresenta, e talora dello stato stesso. Nell'esercizio delle sue funzioni si afferma quella differenziazione nelle forme degli atti, che giova ad assicurare la regolarità e legalità nelle attività di governo. Tuttavia, il principio della superiorità della ragion di stato, cioè dell'esigenza politica sopra il diritto e la legalità, toglie alla garanzia delle forme gran parte del suo valore e giunge a giustificare l'arbitrio. 4. Gli ordinamenti costituzionali successivi alla rivoluzione francese, basati sulla pluralità degli organi investiti del governo e sulla distribuzione istituzionale delle competenze fra i medesimi, realizzarono quella forma di stato, che dalla dottrina fu detta dello stato di diritto. Lo stato, in quanto pone il diritto, si concreta in persone e organi distinti dallo stato che agisce per il conseguimento dei fini concreti nella funzione amministrativa e nella giurisdizione: e ciò assicura la legittimità dell'azione dello stato. Il sistema sorse, e si mantenne a lungo, collegato ai principî dell'individualismo liberale e della rappresentanza politica: le riforme costituzionali più recenti, e soprattutto quelle del regime corporativo italiano, hanno dimostrato come esso possa combinarsi anche con altre concezioni politiche, profondamente diverse da quella liberale (v. poteri).

Gli elementi dello stato. - Conviene esaminare lo stato nei suoi elementi costitutivi: la popolazione, il territorio e il governo.

a) La popolazione è il complesso delle persone che compongono lo stato, complesso che non si esaurisce nelle persone viventi in un determinato momento, ma comprende anche le passate e le successive generazioni, che realizzano l'unità e la continuità storica dello stato e concorrono nell'adempimento della sua naturale missione. I componenti la popolazione assumono il nome di cittadini: la cittadinanza è quel particolare status, che consiste nell'appartenenza a una determinata organizzazione politica, e dal quale derivano numerosi effetti giuridici, specialmente nel campo del diritto pubblico. Dalla cittadinanza vera e propria (civitas ex optimo iure) deve essere tenuta distinta quella che lo stato può concedere alle popolazioni di alcuni suoi possedimenti e che importa soltanto un minimo di diritti politici, nonché la sudditanza, che è propria degli abitanti delle colonie e di quei possedimenti cui non è stata concessa la speciale cittadinanza anzidetta. La cittadinanza limitata e la sudditanza coloniale importano l'appartenenza a collettività e a territorî che dipendono dallo stato, ma non sono elementi di esso. Circa le condizioni che determinano la qualità di cittadino, l'acquisto e la perdita di tale qualità, v. cittadinanza.

b) Quando si parla del territorio come elemento dello stato, si deve intendere il territorio in senso stretto, cioè quello detto nazionale o metropolitano, in contrapposto ad altri territorî, che pur possono appartenere allo stato, ma non sono parti integranti di esso, sibbene sue pertinenze o dipendenze. Il territorio in senso stretto non è soltanto lo spazio entro il quale si esplica la sovranità dello stato o lo spazio che misura l'estensione di tale sovranità, come talora è stato ritenuto: tali definizioni non spiegherebbero come lo stato disponga, oltreché dei poteri che si esercitano entro il territorio e che perciò si dicono territoriali, di altre potestà che riguardano i cittadini ovunque si trovino. È necessario perciò ammettere uno speciale diritto dello stato sul territorio, diritto che valga a spiegare la differenza fra la potestà territoriale e le altre potestà spettanti allo stato. La dottrina più antica considerava il potere sul territorio come un vero diritto pubblico reale. Coloro però, che considerano il territorio come elemento costitutivo dello stato, devono escludere la figura del diritto reale, che presuppone come oggetto una cosa distinta dal soggetto ed esterna ad esso: si parla, perciò, di un diritto sopra la propria persona o sopra elementi costitutivi di essa. Tuttavia, anche il presupposto di tale definizione, che il territorio costituisca un elemento dello stato, non è affatto pacifico: l'impossibilità di separare il territorio dalla popolazione in esso residente, l'identità fra l'integrità territoriale e l'integrità della persona stessa dello stato, la circostanza che l'acquisto e la perdita del territorio rendono lo stato più grande o più piccolo, non lo riguardano in ciò che ha, ma in ciò che è: sono questi gli argomenti principali della dottrina favorevole alla definizione del territorio quale elemento costitutivo. Non è possibile diffonderci sulle dottrine opposte: di esse ricordiamo solo l'argomento, basato sopra alcuni esempî storici, secondo cui un popolo potrebbe costituire uno stato, anche se privo di territorio proprio. Gli esempî tuttavia non sembrano giovare allo scopo, in quanto si tratta di perdite del territorio, puramente transitorie e semplicemente di fatto.

Prescindendo dalle definizioni di ordine teorico, è da rilevare come i poteri territoriali dello stato soffrano delle restrizioni, e comportino viceversa degli ampliamenti, in confronto dell'estensione materiale del territorio. Le restrizioni concernono quelle parti che, in forza di norme internazionali confermate da leggi interne, sono in parte sottratte ai poteri giurisdizionali e amministrativi delle autorità dello stato (istituto detto impropriamente della extraterritorialità): in tale situazione sono gli edifici sedi di agenti diplomatici stranieri e, nello stato italiano, quelli appartenenti alla Santa Sede e per i quali il trattato lateranense del 1929 ha garantito analoga immunità. Gli aumenti riguardano le navi dello stato: quando queste si trovano in alto mare, sono soggette alla sovranità dello stato cui appartengono, non così quando si trovano nelle acque territoriali di altri stati, salvo quanto riguarda le navi da guerra.

c) Il governo, terzo elemento dello stato, può dirsi l'istituzione o il complesso delle istituzioni, a cui dall'ordinamento giuridico è affidato l'esercizio della sovranità. Della diversa composizione e delle varie forme che il governo può assumere, è stato detto in apposita voce. Qui resta da parlare delle funzioni esercitate dal governo, che sono le stesse funzioni dello stato, e della figura giuridica delle istituzioni governative, traverso cui lo stato esplica tali funzioni e raggiunge i suoi fini, ossia degli organi dello stato in senso ampio.

Le funzioni fondamentali. - Le funzioni dello stato consistono nelle varie attività ch'esso esplica, sia per assicurare la sua esistenza e continuità, sia per raggiungere i suoi fini. Siccome tali attività hanno per effetto immediato la formazione di norme, di situazioni, di rapporti nel campo del diritto, così le funzioni stesse rappresentano sempre l'esplicazione di una potestà giuridica, intesa come una sfera o una parte della capacità generale del soggetto di cui si tratta. Secondo alcuni, nel caso dello stato, questa potestà è unica per tutte quante le sue funzioni e si concreta nella sua sovranità; secondo altri, invece, essa si specifica in tante potestà distinte, quante sono le funzioni fondamentali: potestà di fare le leggi, di amministrare la giustizia, d'imporre tributi, ecc. La prima opinione si fonda sulla considerazione che la sovranità non esaurisce intieramente la capacità giuridica dello stato, la quale comprende anche altri poteri di supremazia e i diritti soggettivi privati. Possiamo prescindere da tale questione ed esaminare in sé stesse le funzioni fondamentali. Secondo una classificazione già contenuta nelle opere di Aristotele, confermata e sviluppata dalla dottrina moderna, tali funzioni possono ridursi a tre: funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale. La distinzione è basata sulla diversa natura degli atti con cui ciascuna delle tre funzioni si esplica.

a) La funzione legislativa è quella con la quale lo stato pone e modifica il suo ordinamento giuridico: atto tipico di esso è la legge. Molti criterî sono stati proposti per individuare l'atto legislativo rispetto alle altre manifestazioni della volontà dello stato: rinviando per i particolari alla voce legge, possiamo dire che essa è un provvedimento obbligatorio, generale e astratto: obbligatorio, in quanto emana dalla sovranità dello stato e deve essere pienamente osservato; generale e astratto, in quanto rivolto a regolare un numero indeterminato di casi in modo preventivo e oggettivo.

b) La funzione esecutiva (v. anche amministrazione) è l'attività concreta con la quale lo stato cura gl'interessi pubblici da esso assunti nei proprî fini. Come tale, essa si distingue dalla legislazione, i cui caratteri sono l'astrattezza e la generalità; si distingue dalla giurisdizione, in quanto questa non persegue fini pratici dello stato, ma continua l'opera della legislazione, conservando l'ordine giuridico da essa stabilito. La funzione esecutiva comprende due attività per certi aspetti distinte: l'attività politica o di governo, e l'attività amministrativa. Nella prima vengono presi i provvedimenti che hanno la loro causa nella suprema direzione della vita dello stato (rapporti internazionali, rapporti interni fra i poteri dello stato, direzione dell'ordine pubblico), nella seconda rientrano tutti gli atti che provvedono ai singoli interessi pubblici particolari.

c) La funzione giurisdizionale (v. giurisdizione) è quella con cui lo stato attua il suo ordinamento e ne assicura l'osservanza da parte dei varî soggetti. Essa non riguarda interessi proprî dello stato, ma, quando non abbia un valore puramente oggettivo, tutela gl'interessi di coloro che ricorrono allo stato per ottenere giustizia. Essa si concreta in atti di decisione, detti sentenze, che contengono principalmente un giudizio logico risultante dal confronto del caso singolo con la norma giuridica e dall'accertamento della corrispondenza fra quello e il contenuto di questa.

Oltre a tale distinzione, basata sui caratteri oggettivi delle tre attività, altre se ne pongono che hanno per fondamento i diversi gruppi di organi, dai quali ciascuna funzione viene esercitata: tali gruppi, variamente organizzati e fra loro distinti, assumono il nome di poteri dello stato: potere legislativo, esecutivo e giudiziario. La distribuzione delle funzioni fra i tre poteri e la garanzia della reciproca indipendenza di essi costituiscono il principio costituzionale della divisione dei poteri (v. poteri).

Gli organi dello stato e le relative distinzioni. - Qualunque persona giuridica, perciò anche lo stato che negli ordinamenti moderni è riconosciuto come persona, esercita le sue attività per mezzo di persone fisiche, le quali assumono generalmente il nome di organi. In un senso più ampio la parola organo indica l'istituzione, cui tali persone sono preposte e che comprende oltre ai titolari anche la loro competenza e l'insieme dei mezzi materiali dei quali devono servirsi nell'esplicazione della loro attività. La definizione dell'organo come istituzione ha il vantaggio di rendere più evidente la sua continuità e indefettibilità, nonostante il cambiamento e talora la mancanza del suo titolare o di un altro dei suoi elementi. D'altra parte, tale istituzione, non essendo una persona giuridica, può a ragione essere considerata come una parte o un aspetto dell'organizzazione dello stato; questo, come istituzione complessa, risulta internamente formato da numerose istituzioni minori, aventi ciascuna una parziale individualità. Tale individualità permette che fra i varî organi possano svolgersi rapporti giuridici: rapporti, tuttavia, soltanto interni o riflessi, perché compresi entro l'ambito di una unica persona giuridica.

Circa la natura del rapporto fra lo stato e le persone fisiche investite della qualità di organi, due sono le opinioni più largamente sostenute. La prima parla di un rapporto di rappresentanza e presuppone che lo stato, pure essendo soggetto di diritti, manchi della capacità di agire e agisca soltanto per mezzo di altri. Non sembra esatto attribuire allo stato tale incapacità, che resta del tutto superata ove si ammetta che le persone giuridiche esercitano la loro capacità di agire in modo diverso dalle persone fisiche. Inoltre, la rappresentanza importa separazione e dualità di soggetti, fra il rappresentante e il rappresentato, laddove lo stato e il suo organo appaiono come un soggetto unico; il rappresentante pone sempre il rappresentato in rapporto con altri soggetti, laddove l'organo può esaurire la sua attività nell'interno della sfera giuridica dello stato; il rappresentante, ove ecceda i limiti del suo potere di rappresentanza, compie atti di cui risponde personalmente, mentre l'organo, se eccede i limiti della sua competenza, compie atti ancora proprî dello stato, sia pure più o meno gravemente viziati. Per tali considerazioni, l'altra delle due opinioni accennate considera il rapporto organico molto più stretto di quello di rappresentanza: ogni funzionario è parte di un tutto, ossia dell'istituzione complessa attraverso la quale lo stato vuole e agisce. Intorno ai varî titoli, per i quali può essere assunta la qualità di organo, e alle varie figure di quest'ultimo, v. funzionario; impiego: Impiego pubblico; ecc.

Gli organi dello stato vengono classificati in base a diversi criterî.

a) Secondo la diversa posizione, si distinguono gli organi costituzionali da quelli subordinati: i primi derivano i loro poteri immediatamente dalla costituzione, non dipendono da altri organi e sono situati in una condizione suprema rispetto alla rimanente organizzazione dello stato. Negli antichi ordinamenti, solo il sovrano era organo costituzionale; gli ordinamenti moderni sono tutti basati sul principio della pluralità degli organi costituzionali e della ripartizione fra essi delle funzioni fondamentali. Nel diritto italiano sono organi costituzionali la corona, il governo del re, il gran consiglio, il senato e la camera dei deputati: ogni altro organo ha carattere subordinato. Per definizione, gli organi costituzionali devono essere indipendenti non solo da ogni altra autorità, ma anche reciprocamente gli uni rispetto agli altri. A uno di essi, cioè alla corona, è fatta una posizione superiore e attribuito il titolo di organo sovrano: ma tale superiorità è soltanto formale e procedurale.

b) Gli organi, come regola, hanno il compito di porre lo stato in relazione con altri soggetti giuridici: alcuni, però, esercitano funzioni puramente interne, onde la distinzione fra organi esterni e organi interni.

c) Si dicono organi primarî quelli che hanno per legge una propria competenza; secondarî, quelli che non hanno altro compito che quello d'esercitare in tutto o in parte le funzioni di altri organi, in caso di impedimento; sono organi secondarî il reggente e il luogotenente rispetto al re, il sottosegretario di stato rispetto al ministro, il viceprefetto, il vice-podestà, ecc.

d) Si dicono rappresentativi gli organi che vengono scelti entro determinate collettività distinte dallo stato e in quanto esponenti e rappresentanti delle medesime. Non è necessario che tali organi sieno nominati attraverso un'elezione: può trattarsi di nomina governativa basata sopra designazione del corpo che deve essere rappresentato o sulla qualità di organi direttivi, che già in esso occupino le persone che vengono nominate all'ufficio dello stato. Gli organi non rappresentativi si dicono anche immediati.

e) Importante è, infine, la distinzione che deriva dalla diversa composizione degli organi. Si dicono individuali, quelli composti di una sola persona; collegiali, quelli formati da una pluralità più o meno estesa di persone. Bisogna tenere distinto l'organo collegiale da quello complesso: il primo è un organo unico e indivisibile, i cui componenti non possono separatamente formare nessun atto di volontà, ma tutti insieme concorrono, in modo simultaneo e in condizione d'eguaglianza, alla formazione dei medesimi atti; gli organi complessi sono formati da più uffici, siano essi individuali o collegiali, unificati dal ramo di attività a cui provvedono: di solito uno solo di essi ha carattere di organo esterno (così, p. es., il ministro rispetto ai varî uffici del ministero), ma la regola ha molte eccezioni.

Accanto agli organi dello stato bisogna tener conto di altri mezzi, attraverso i quali talora esso ottiene egualmente il raggiungimento dei proprî fini. Fra le organizzazioni sociali, viventi entro la sua sfera, alcune si propongono fini che per lo stato non solo non sono indifferenti, ma coincidono con alcuni dei suoi proprî fini. Lo stato in tali casi, anziché dedicare a questi ultimi appositi organi, si vale dell'azione di detti enti e associazioni, attribuendo loro la qualità di enti pubblici e ai relativi atti la stessa efficacia dei proprî provvedimenti. Altre volte si tratta di persone fisiche o di enti morali privati, che, pure avendo fini distinti da quelli dello stato (p. es. fini di lucro), esplicano, per il raggiungimento di questi, attività che potrebbero essere proprie dello stato, cioè funzioni o servizî pubblici. Abbiamo nel primo caso l'istituto dell'autarchia, nel secondo quello dell'esercizio privato di pubbliche funzioni (v. autarchia; comune; concessione amministrativa; persona: Persona giuridica pubblica; servizi pubblici).

Origine, modificazioni ed estinzione degli stati. - Restano da considerare i modi di formazione, di modificazione e di estinzione degli stati.

a) Si distingue un modo di formazione originario da altri, che possono dirsi derivati. Si ha la formazione originaria, quando un popolo non organizzato, ovvero organizzato in forme sociali inferiori, riesce a comporsi in uno stato, i cui elementi non hanno precedentemente fatto parte di altri stati. I modi di formazione derivata sono la disgregazione e la fusione: la prima consiste nel distacco di una porzione di territorio, con la relativa popolazione, da uno stato e la sua erezione in uno stato indipendente. La fusione è fenomeno inverso: più stati si uniscono in modo da formare uno stato nuovo, che non è la continuazione di nessuno di quelli presistenti.

b) Le modificazioni, che si verificano nello stato, possono riguardare così la sua estensione territoriale come il suo ordinamento giuridico. Le variazioni territoriali importano ampliamenti o restrizioni dello stato stesso. L'ampliamento può verificarsi sia per l'annessione di parti già proprie di altri stati, sia per l'incorporazione d'intieri stati indipendenti: quest'ultima si distingue dalla fusione, perché uno degli stati, quello che s'ingrandisce, continua la sua esistenza e personalità, laddove nella fusione tutti gli stati, che si uniscono, cessano di esistere. La riduzione dello stato si può avere solo per disgregazione parziale, quando una parte del territorio venga separata e annessa ad altro stato o eretta in uno stato nuovo. Le modificazioni attinenti all'ordinamento giuridico non sono quelle quotidiane, dovute alle modificazioni dell'ordinaria legislazione, ma soltanto quelle che involgono la parte costituzionale dell'ordinamento e particolarmente la forma del governo (v. governo).

c) Le cause di estinzione sono soltanto quelle che colpiscono gli elementi naturali e si possono riassumere nella fusione, nella disgregazione totale e nell'incorporazione: la prima è l'unione completa di più stati, in modo da costituire un nuovo stato, nel quale cessano di esistere tutti gli stati precedenti; la seconda ha luogo quando tutte le parti di uno stato si separano fra loro, sia per formare altrettanti stati nuovi sia per far parte di altri stati esistenti. Anche l'incorporazione può considerarsi causa di estinzione per quanto riguarda lo stato che viene incorporato.

Per la formazione storica dello stato italiano v. regno; per la sua costituzione, quale fu originariamente e quale è oggi in seguito alle trasformazioni operate dalla rivoluzione fascista, v. italia; statuto.

Bibl.: E. Ahrens, Dottrina generale d. stato, trad. it., Napoli 1866; M. Seydel, Grundzüge einer allgemeinen Staatslehre, Würzburg 1873; J. C. Bluntschli, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1875; trad. it., Napoli 1879; H. Michel, L'idée de l'état, Parigi 1896; V. E. Orlando, Primo trattato completo di dir. amm., I, Milano 1897, pp. 1-42; id., Recenti indirizzi sui rapporti tra diritto e stato, in Riv. di diritto pubbl., XVIII (1926); F. Racioppi, Forme di stato e forme di governo, Roma 1898; H. Rehm, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1899; trad. it., Torino 1902; L. Gumplowicz, Allgemeine Staatslehre, 3ª ed., Innsbruck 1907; O. Ranelletti, Principi di dir. amm., Napoli 1912, pp. 51-408; id., Istituzioni di diritto pubblico, 5ª ed., Padova 1935; V. Miceli, Principi di dir. cost., 2ª ed., Milano 1913, pp. 100-352; A. Bonucci, Il fine dello stato, Roma 1915; F. Filomusi-Guelfi, Enciclopedia giuridica, 7ª ed., Napoli 1917, pp. 467-573; S. Romano, L'ordinamento giuridico, Pisa 1917; id., Corso di dir. cost., 3ª ed., Padova 1932, pp. 41-170; G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, 4ª ed., Berlino 1922; trad. it., Milano 1921; W. Wilson, Lo stato, trad. it., Torino 1921; R. Carré de Malberg, Contributions à la théorie générale de l'état, I, Parigi 1922; L. Duguit, Traité de droit const., 2ª ed., I-II, Parigi 1923; D. Donati, Stato e territorio, Roma 1924; H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1925; H. Helfritz, Allgemeines Staatsrecht, ivi 1928; H. Wolff, Organschaft und juristische Person, I: Juristische person und Staatsperson, ivi 1933; W. Hamel, Das Wesen des Staatsgebietes, ivi 1933; G. Del Vecchio, Saggi intorno allo stato, Roma 1935.

Riconoscimento internazionale dello stato.

Nel diritto internazionale, non esistendo alcuna autorità di norme e di organi superiori alla volontà degli stati, si ritiene in prevalenza che la loro personalità internazionale si determini inizialmente in virtù di un accordo, col quale il nuovo e i vecchi stati, entrando in relazione fra di loro, dichiarano o dimostrano reciprocamente di volersi riconoscere come soggetti di diritto e di doveri internazionali (D. Anzilotti): per ciò tale atto è detto appunto atto di riconoscimento. Per altri, invece, esso ha carattere unilaterale, in quanto ritengono che l'attribuzione di personalità sia conferita soltanto da parte dei vecchi stati a favore di quelli di nuova formazione (A. Cavaglieri, K. Strupp). Il contrasto più grave però è quello che riguarda gli effetti dell'atto di riconoscimento, che per alcuni ha forza costitutiva, per altri forza dichiarativa (semplice atto di accertamento). Vi ha infine chi afferma che il riconoscimento non riguardi affatto la personalità degli stati (S. Romano, P. Fedozzi) la quale deriva senz'altro da una norma internazionale; come pure sarebbe stabilita dalla stessa legge internazionale, in base al principio di effettività, l'attitudine del nuovo ente all'acquisto della personalità (P. Fedozzi, H. Kelsen, A. Verdross).

La teoria costitutiva è da escludersi.

Questa difatti poggia sulle seguenti considerazioni: 1. non è provata l'esistenza di una norma consuetudinaria che attribuisca allo stato la qualifica di soggetto di diritto internazionale dalla sua nascita, anzi è contraria alla realtà stessa poiché nella pratica internazionale le relazioni giuridiche fra gli stati si iniziano col riconoscimento. 2. Il principio della teoria costitutiva implicitamente è accolto anche dai suoi contraddittori, poiché, se è vero, conforme alla loro premessa, che l'accertamento sull'esistenza del nuovo stato è rimesso alla volontà degli altri stati, da questa verrebbe a dipendere anche la sua personalità, la quale perciò sorgerebbe dall'atto di riconoscimento, come sostengono per l'appunto i fautori della teoria costitutiva. 3. Poiché il diritto internazionale è un diritto convenzionale, ogni sua norma e quindi anche quella attributiva di capacità, non potrebbe avere efficacia per il nuovo stato se non col suo consenso e quindi previo suo accordo con gli altri stati.

A questi argomenti oppone la teoria dichiarativa: 1. anzitutto l'ipotesi che l'atto di riconoscimento sia un negozio bilaterale e reciproco fra vecchi e nuovi stati va contro la realtà, la quale dimostra che l'attribuzione di personalità è rivolta soltanto agli stati di nuova formazione, non a quelli preesistenti, essendo questi già parte della comunità giuridica internazionale e come tali soggetti di diritto di fronte a tutti i suoi componenti, presenti o futuri. Per tale considerazione appunto da qualche fautore della teoria costitutiva fu sostenuto che l'atto di riconoscimento è atto unilaterale (A. Cavaglieri, K. Strupp); ma tale premessa è inconseguente, perché, se atto unilaterale, il riconoscimento non potrebbe più avere la forza di un accordo normativo fra i vecchi e nuovi stati per l'attribuzione della personalità secondo i fondamenti della dottrina costitutiva. 2. Se il riconoscimento è il prodotto di un accordo, è presupposto necessario che ciascuno dei suoi partecipi, e quindi anche il nuovo stato, abbia già una certa competenza o capacità di agire al momento della stipulazione. La sua capacità, quindi, preesisterebbe all'atto di riconoscimento. 3. La realtà dimostra pure che lo stato non riconosciuto ha pur sempre un qualche grado di capacità, poiché il suo territorio anche prima del riconoscimento non è considerato res nullius, i suoi sudditi non sono apolidi, il suo ordinamento anche per l'estero ha rilevanza giuridica, esso è tenuto a certi obblighi verso gli altri stati, la guerra con lui è guerra internazionale, ecc. Contro questa obiezione si è risposto che la situazione dello stato non riconosciuto dipende da un'obbligazione inter se degli altri stati, della quale egli sarebbe il beneficiario. Ma tale spiegazione è pure incoerente, poiché, se si ammette comunque che il nuovo stato possa essere titolare di diritti e di doveri verso gli altri stati anche prima del suo riconoscinento, ciò basta a escludere che tale atto abbia potere creativo. Si è replicato che anche un ente di fatto può essere soggetto di diritti, ma ciò vorrebbe dire che l'effetto del riconoscimento non influirebbe più che sul grado di capacità; quindi la sua efficacia non sarebbe più costitutiva, perché basta la titolarità di un diritto a fondare la capacità generale di diritto. 4. Non si deve confondere l'accertamento sull'esistenza di un nuovo stato da parte degli altri, accertamento che ha il valore di un semplice presupposto, con l'attribuzione della personalità, la quale ha la sua fonte soltanto nella legge. 5. L'argomento invocato dalla teoria costitutiva, che l'atto di riconoscimento segna l'inizio delle relazioni fra gli stati, vale soltanto per quelle di carattere volontario, ma non per quelle di carattere necessario.

Ma su questo punto sta il vero fulcro della questione, perché in sostanza la dottrina costitutiva è tutta dominata dalla premessa che ogni norma di diritto internazionale sia il prodotto di un accordo, donde la conseguenza che anche la norma attributiva di capacità dev'essere il risultato di un accordo fra il nuovo ente e quelli precedenti. Se si considera, invece, che la personalità internazionale dello stato gli proviene da una norma base della società internazionale in quanto non vi può essere ordine giuridico né alcuna sfera di relazioni giuridiche se non fra soggetti capaci di diritto, la dottrina costitutiva è scalzata alla sua base. Il che non toglie che, siccome tale norma regola soltanto il caso astratto, la sua efficacia concreta sia subordinata al verificarsi di determinate condizioni, come quella riguardante la qualità e i requisiti del nuovo ente. Ora, l'accertamento di tali estremi, in difetto di altri organi, procede appunto dagli stessi stati con l'atto di riconoscimento, che perciò ha il valore di un semplice atto di ricognizione e non di concessione. Non sembra, quindi, fondata la teoria che vorrebbe attribuire al riconoscimento soltanto un carattere protocollare, considerando la sua funzione assorbita dal principio di effettività. Tale criterio non è accettabile; esso potrebbe valere soltanto in ordine alla valutazione di quegli elementi, la cui constatazione per la loro materialità è resa dalla stessa evidenza; ma non per l'accertamento di quegli altri elementi, come la stabilità o l'organicità, la cui conoscenza è il prodotto di un giudizio riflesso, fondato su criterî di ragione o di diritto.

Né vale il rilievo che in questo modo il comportamento dei terzi stati costituisca un'illecita ingerenza o sia superfluo, in quanto molte volte, si dice, l'atto di riconoscimento avviene fra gli stati già legati da precedenti relazioni. A questi argomenti si può rispondere che non può costituire un atto d'ingerenza la determinazione dei vecchi stati di stabilire, o no, delle relazioni con lo stato di nuova formazione, nel che si sostanzia appunto l'atto di riconoscimento; e che se, formalmente, la dichiarazione di riconoscimento fosse posteriore all'inizio di tali relazioni, ciò vorrà dire che in questo caso il riconoscimento si è svolto in due fasi, l'una de facto e l'altra de iure, o che semplicemente nella fattispecie si è avuto prima un riconoscimento tacito, poi espresso. Ma altro è il vedere in quale momento si perfeziona il riconoscimento; altro è dire che è un atto infruttuoso.

Il riconoscimento, quanto alla forma, può essere tacito o espresso, semplice o condizionato, individuale o collettivo, di fatto o di diritto. Quest'ultima distinzione ha luogo quando non è sicura la stabilità del nuovo stato: il riconoscimento di diritto è irrevocabile. L'ammissione di un nuovo stato nella Società delle nazioni equivale a un riconoscimento di diritto anche per gli stati che non vi hanno dato voto favorevole.

Bibl.: G. Salvioli, Il riconoscimento degli stati, in Riv. diritto internazionale, 1926, pp. 330-366; Erich, La naissance et la reconnaissance des états, in Recueil des Cours de l'Académie de droit international de la Haye, Parigi 1926, pp. 431-502; D. Anzilotti, Corso di diritto internazionale, 3ª ed., Rom 1928, p. 146; H. Kelsen, La naissance de l'état et la formation de sa nationalité, in Rev. de droit international, 1928, p. 613 segg.; S. Romano, Corso di diritto internazionale, Padova 1929; A. Cavaglieri, Corso di diritto internazionale privato, 3ª ed., Napoli 1933, p. 158; id., La situazione giuridica dello stato non riconosciuto, in Riv. dir. internazionale, 1932, p. 305; G. Diena, Ancora qualche osservazione in tema di riconoscimento di stati, ibid., 1932, p. 465 segg.; P. Fedozzi e S. Romano, Trattato di diritto internazionale, Padova 1933, I, p. 97.

Diritto internazionale.

La nozione dello stato nel diritto internazionale dal punto di vista sociologico non può esser diversa da quella di ogni altro ordinamento. Lo stato, in sé considerato, ha una sua struttura, ha proprî lineamenti, quali sono offerti dalla stessa realtà, e la sua qualifica di stato è data dall'uso comune o dalla teoria generale del diritto, e costituisce un prius rispetto al diritto internazionale. Si comprende quindi che il diritto internazionale non abbia una definizione propria dello stato. Lo stato, invece, come persona giuridica, può anche non avere la stessa qualità nei varî ordinamenti, o può averla in diversa misura. Vi sono stati che non sono soggetti di diritto internazionale come gli stati federali e gli stati vassalli, e vi sono soggetti di diritto internazionale che non sono stati. La equivalenza dei due termini, stato e persona di diritto internazionale, deriva da una vecchia concezione, oramai superata dai fatti, secondo la quale solo gli stati possono essere soggetti di diritto internazionale.

Ma lo stato non è solo soggetto di diritto, è anche costitutore di diritto nell'ordine internazionale. Poiché la comunità internazionale è una società di enti eguali e coordinati, e non esistono organi sovrastanti a cui spetti la potestà di emanare comandi, la funzione normativa spetta agli stessi consociati. Anzi questo è uno degli argomenti più essenziali che adducono i negatori del diritto internazionale per escludere la giuridicità delle sue norme. Ma senza fondamento, perché non bisogna confondere la nozione di diritto col suo processo di formazione. La forza del diritto non dipende dalla posizione dell'organo da cui emana, ma soltanto dalla sua funzione o dalla sua competenza. E questa si può desumere unicamente dalle norme basilari o costituzionali della società internazionale, non potendo esservi al dilà o al difuori di queste norme, che in ogni ordinamento costituiscono il limite del diritto, alcun altro presupposto giuridico. Nella società degli stati esiste appunto una norma che deferisce agli stati stessi e solo agli stati l'esercizio della potestà normativa. Perciò fu detto che nella società internazionale gli stati sono soggetto di diritto optimo iure, a differenza di altri enti titolari di diritti o doveri internazionali. Il che si comprende, poiché solo gli stati sono membri della comunità internazionale, né tale qualifica si può riferire ad altri soggetti, che pur sono destinatarî di norme internazionali, finché non sia cambiato l'attuale assetto della comunità internazionale. Se in questa si potesse fare una distinzione fra diritti civili e politici, apparirebbe lecito il dire che solo gli stati hanno l'esercizio dei diritti politici, quale appunto il potere di emanare norme giuridiche o la facoltà di creare altri organi internazionali, aventi perciò rispetto a essi potestà derivata.

Fu obiettato che questa distinzione non è sempre vera, poiché esistono altre persone internazionali che hanno l'autorità di emettere norme giuridiche (Fedozzi). L'osservazione allude alla competenza di determinati enti, come le commissioni fluviali, la Commissione degli Stretti e la stessa Corte permanente di giustizia internazionale; ma è facile rispondere che, se anche le norme emesse da questi organi nel regolamento dei rapporti a cui presiedono avessero carattere di diritto internazionale, mentre tale qualifica è controversa, la loro competenza, nonostante la loro autonomia, è pur sempre una potestà delegata dagli stati che li hanno creati.

I modi di manifestazione della volontà collettiva degli stati per la formazione di regole giuridiche internazionali sono, com'è noto, i trattati normativi, così denominati per distinguerli da quelli negoziali, e la consuetudine. Taluno ha sostenuto che vi sia una sola fonte, l'accordo, considerando la consuetudine come un patto tacito (K. Strupp). Ma tale criterio è contrario alla tradizione giuridica, che ha sempre distinto l'incontro di volontà che si verifica attraverso l'uso e quello che si determina in virtù di un accordo. D'altronde, la funzione della volontà nella consuetudine è diversa che nell'accordo, poiché nel primo caso la sua manifestazione ha un valore per sé stante, nel secondo la sua efficacia è subordinata al comportamento degli altri consociati. Fu anche detto che l'uso ha soltanto carattere dichiarativo, poiché l'opinio iuris suppone già la preesistenza di una norma giuridica, ma in questo modo si trascura che altro è l'opinio iuris, la quale si forma gradualmente attraverso l'influsso di forze estranee, altro l'atto di volontà che concorre in modo consapevole e immediato alla formazione di un accordo. Nell'ordinamento internazionale, salvo un patto diverso, in base al principio paritario, nessuna norma, all'infuori di quelle di carattere istituzionale che riguardano la struttura stessa della comunità internazionale, può obbligare gli stati che non hanno preso parte alla sua formazione o non l'hanno accettata. Questo principio non può dar luogo a dubbî in ordine alle norme aventi come fonte i trattati. La difficoltà sorge, invece, per le norme consuetudinarie, tanto più che queste nella maggior parte, per il loro carattere generale, regolano rapporti fondamentali di convivenza fra gli stati. Come può conciliarsi, infatti, con le suesposte premesse il principio dell'universalità della consuetudine, secondo il quale non occorre per la sua efficacia il consenso unanime dei consociati, ma basta quello della maggioranza? Se si ammette che ogni consuetudine generale sia obbligatoria anche per gli stati di nuova formazione, indipendentemente dal loro consenso, evidentemente si andrebbe contro quei principî di eguaglianza e indipendenza che sono alla base della convivenza internazionale tra gli stati. Ma il conflitto è solo apparente, poiché per tutte le norme fondate sul consenso comune degli stati, l'accettazione del nuovo stato si presume per il fatto stesso del suo accesso alla comunità internazionale e del riconoscimento della sua personalità internazionale, nel quale di regola è implicita l'attribuzione di quei diritti e doveri che sono i cardini dell'ordine internazionale. Né si dica che in questa sfera il richiamo alla volontà tacita o presunta del nuovo stato costituisca una mera finzione, essendo il suo consenso obbligatorio, sotto pena, in difetto, di rimanere fuori del consorzio internazionale o salvo la sua esenzione dagli obblighi che sono comuni agli altri stati (S. Romano). La risposta è ovvia: quando non si tratta di norme istituzionali che sono al disopra della volontà degli stati, perché riguardano la struttura stessa dell'ente e sono più che altro il prodotto di una determinazione storica, per tutte le altre norme, alle quali è lecita una deroga convenzionale, non vi ha alcuna anomalia che non sia riconosciuta l'obbligatorietà loro da parte di uno stato di nuova formazione. Tale posizione non è per nulla illegittima né incompatibile con la sua appartenenza alla società internazionale. Che poi praticamente la resistenza del nuovo stato finisca per infrangersi contro la volontà prevalente degli altri stati, questo è un altra punto dî vista che non intacca la questione di principio.

Lo stato nell'ordinamento internazionale è, dunque, nello stesso tempo soggetto e costitutore del diritto internazionale. Tuttavia, nell'assetto attuale della convivenza internazionale, il diritto internazionale non ha efficacia diretta nella sfera dell'ordinamento statuale: per la sua attuazione si richiede un atto o provvedimento dello stato che ne impartisca il comando ai proprî organi e ai proprî sudditi. Da questo punto di vista, quindi, i due ordinamenti, interno e internazionale, sono fra di loro autonomi e indipendenti, donde la conseguenza che la validità o l'efficacia delle norme dell'uno non può essere valutata in relazione alle norme dell'altro. Questa è appunto la tesi della concezione dualistica che si distingue da quella monistica, la quale intende che il diritto interno e internazionale facciano parte di un solo sistema giuridico, nel quale, secondo l'opinione prevalente, il diritto interno si troverebbe in posizione di dipendenza rispetto al diritto internazionale. La gravità del problema è dimostrata dal fervore stesso della disputa nella quale si può dire tutta la dottrina internazionalistica si è schierata in due campi.

Non si tratta soltanto di una questione metodologica, ma di una questione che investe giuridicamente e politicamente la stessa posizione dello stato di fronte alla comunità internazionale, poiché di regola coloro che sostengono una concezione unitaria dei due ordinamenti muovono dal presupposto che la stessa potestà dello stato gli sia conferita dal diritto internazionale, onde il complesso dei suoi attributi si risolva in una serie di competenze che formano oggetto di delegazione da parte del diritto internazionale. Noi crediamo peraltro che tale corrente dottrinaria, per quanto fondata sull'autorità di eminenti pubblicisti (H. Kelsen A. Verdross, Bourquin) abbia più che altro un carattere tendenziale, ma senza alcuna rispondenza all'attuale ordine internazionale.

A parte quelle concezioni in cui il diritto internazionale è configurato come un complesso di rapporti interindividuali, di fronte al quale lo stato è solo un soggetto fittizio, in quanto destinatario di qualsiasi norma giuridica è sempre e soltanto l'individuo umano, la dottrina monistica, che rivendica il primato del diritto internazionale, trascura troppo facilmente la circostanza che nessuna norma internazionale può avere efficacia giuridica se non per quegli stati che l'hanno adottata e che i due ordinamenti, interno e internazionale, sono pur sempre distinti fra loro per la diversità delle fonti, se non per quella dell'oggetto e dei destinatarî. Si è cercato di superare questa difficoltà, invocando che il diritto internazionale in quanto impone agli stati certi obblighi, o prescrive un determinato comportamento, viene a costituire un limite all'esercizio della loro attività anche nella sfera interna, in ogni campo di attività, compreso quello del potere legiferante. Ma, ciò pur essendo, non ne deriva ancora alcun rapporto di subordinazione del diritto interno a quello internazionale. Basta ricordare che la forza delle norme di diritto interno è inoppugnabile ancorché queste non siano valide rispetto all'ordinamento internazionale. Fu contrapposto che tale anormalità non ha importanza, tanto è vero che può verificarsi anche nell'ordinamento interno l'esistenza di norme valide, sebbene non conformi alla costituzione. Ma questa circostanza non è affatto probante, in quanto evidentemente essa dipende dal principio accolto in quel dato sistema giuridico, secondo il quale l'inconstituzionalità della norma legislativa, cioè la sua non conformità a norme sovrastanti, non produce la sua nullità. L'unità del sistema non sarebbe in questo caso per nulla alterata. Né vale il rilievo che l'indipendenza dei due ordinamenti ha una ragione del tutto contingente, la quale deriva dal fatto che al diritto internazionale non è ancora riconosciuta un'efficacia diretta nella sfera statuale, ma soltanto indiretta per il tramite dei varî ordinamenti interni, e che pertanto, ove tale condizione venisse a modificarsi e l'autorità della norma internazionale acquistasse un valore endostatuale, la separazione dei due ordinamenti non avrebbe più ragione d'essere.

Il ragionamento manca di logica, perché si fonda su una premessa puramente ipotetica: l'esistenza di una sfera di competenza comune ai due ordinamenti, e perché inoltre trascura che la trasposizione del diritto internazionale nell'ordinamento interno sarebbe già la conseguenza di un atto di volontà dello stato, e non quindi l'emanazione di un potere sovrastante, come sarebbe necessario per concludere che il diritto interno è un diritto derivato o delegato del diritto internazionale. Analogamente non vale l'argomento che la validità degli atti contrarî al diritto internazionale costituisca una norma provvisoria, poiché lo stato colpevole sarebbe pur sempre tenuto, ai fini della sua responsabilità, a rimuoverne la causa o gli effetti, cosicché, ove la violazione consistesse nell'emanazione di una data norma vietata dal diritto internazionale, il suo primo obbligo sarebbe quello di annullarla o di abrogarla. Anche in questo caso si può ripetere il ragionamento precedente, che cioè l'invalidità della norma contraria al diritto internazionale non si produrrebbe che in dipendenza dell'ordinamento a cui la norma appartiene.

Ma è superfluo insistere su questi singoli punti di controversia, poiché sostanzialmente la definizione loro si riporta a quella speciale concezione in cui dalla dottrina monistica è configurata la posizione dello stato di fronte all'ordinamento internazionale. Secondo questa dottrina tutti i poteri dello stato, come si è detto, sono una derivazione del diritto internazionale; da questo si determina in ogni direzione, tanto rispetto al contenuto come all'estensione, la sua competenza; la legge internazionale non funziona soltanto come limite, ma come fonte di ogni suo diritto. In base a questa nozione ogni attività dello stato, anzi la sua stessa costituzione, riceve la propria legittimazione dal diritto internazionale, il quale non solo qualifica il suo ordinamento come diritto delegato, ma qualifica giuridicamente gli stessi rapporti fondamentali, che legano lo stato ai suoi elementi: territorio e popolazione. Questa dottrina che è in contrasto con quella tradizionale, la quale riconosce allo stato una sua potestà per sé stante, indipendentemente da qualsiasi presupposto dell'ordinamento internazionale, si fonda essenzialmente su questi capisaldi: non è mai dalla natura dell'oggetto che si può stabilire se una data materia dal punto di vista del suo intrinseco o da quello spaziale appartenga alla sfera particolare di uno stato o a quella comune cogli altri stati. Tale statuizione è necessariamente subordinata a quella sul regolamento dei limiti fra competenza interna e internazionale: ma poiché questo compito non può essere che di pertinenza del diritto internazionale, così è in questo la sorgente di ogni competenza dello stato. La libertà dello stato ha difatti la sua origine e la sua base nel divieto di intervento col quale il diritto internazionale proibisce in una data sfera di potere a favore di ogni stato qualsiasi atto d'ingerenza o di turbativa da parte degli altri stati. La potestà dello stato non si giustifica quindi come un'affermazione del suo status libertatis, ma come un'eccezione o un limite al diritto d'intervento, il quale costituisce la regola e può essere derogato soltanto in forza della legge internazionale, alla quale perciò spetta di fronte agli stati, come spetta al diritto federale nella sfera dello stato federale, la competenza delle competenze. Ora, contro questa concezione, nonostante i suoi pregi dal punto di vista logico-formale, si presenta ovvia la critica. Conviene infatti ricordare che possono esistere stati i quali non sono persone di diritto internazionale, non sottoposti quindi a questo ordinamento, e che pur tuttavia hanno una propria costituzione e competenza nonché un proprio ordinamento: che, in altri termini, lo stato ha una personalità di diritto proprio diversa da quella internazionale; il dire quindi, che la sua potestà rispetto al proprio territorio, ai proprî sudditi sia un'emanazione del diritto internazionale vorrebbe quanto disconoscere l'esistenza di una personalità statuale al difuori dell'ordinamento internazionale. Occorre pure ricordare che il riconoscimento della personalità internazionale dello stato ha come presupposto l'esistenza dello stato con tutte le caratteristiche che gli sono proprie, fra le quali appunto quella di una propria personalità giuridica.

Fu osservato, è vero, che tale argomento non pregiudica la tesi della teoria monistica; poiché - si dice - come ogni potere giuridico dell'individuo è una concessione dello stato, sebbene la sua esistenza abbia preceduto quella dello stato, così del pari, sebbene l'esistenza degli stati abbia preceduto quella dell'ordinamento internazionale, questo, una volta costituito, può bene divenire la fonte di ogni loro potere o diritto. Ma tale confronto non è decisivo, poiché nella società moderna non vi sono individui fuori del diritto, mentre vi possono essere stati fuori dell'ordinamento internazionale.

Si aggiunga ancora che, se la funzione del diritto internazionale, come quella di qualunque altro diritto, è funzione di limite, ciò non significa ancora che l'attività del soggetto nella parte in cui è libera (il che vale appunto anche per l'individuo) debba considerarsi attività delegata. Né vale il dire che un potere non limitato è un potere permesso o concesso e che anche un'attività giuridicamente irrilevante può considerarsi permessa, se protetta dal diritto, poiché altro è che la legge garantisca a un soggetto il libero esercizio delle sue facoltà, altro che queste assuma in concreto a contenuto di un diritto: nel primo caso oggetto della pretesa è l'inviolabilità o l'esclusività della sfera di poteri non limitata dal diritto contro ogni coercizione esterna, nel secondo sarebbe ogni singola attività di quei poteri, il che è una cosa ben diversa.

Inoltre la potestà che lo stato esercita nella sfera del suo dominio non può essere attività delegata dal diritto internazionale, dal momento che questa, nell'ambito in cui non è limitata o disciplinata dal diritto internazionale, non può essere oggetto di relazioni giuridiche con gli altri stati. Perciò appunto qualsiasi incursione degli altri stati in questa sfera costituisce un limite non conforme a diritto, ed è vietata in base al principio del non intervento. Né varrebbe infine dire che tale garanzia equivale a riconoscimento e che quindi anche l'attività libera debba considerarsi attività permessa o concessa dal diritto, giacché nella sfera in cui l'attività dello stato è autonoma la concessione sarebbe priva di contenuto, poiché sarebbe soltanto una delega in bianco.

Questo principio, del resto, che la potestà dello stato non sia delegata dal diritto internazionale né da questo perciò riceva il suo titolo giuridico, ha già trovato la sua affermazione positiva nello stesso patto societario all'art. 15 che sottrae all'esame del consiglio il regolamento di quelle controversie o materie che siano di competenza esclusiva. A parte ogni discussione su questo concetto di dominio riservato o di domestic jurisdiction, è certo che esso implica l'esistenza di una sfera di poteri che non hanno alcuna derivazione dal diritto internazionale, poiché se ogni attività libera o vincolata dovesse sempre considerarsi un'emanazione del diritto internazionale, non potrebbe mai esistere una competenza esclusiva, una competenza cioè sottratta a qualsiasi disciplina di norme o di organi internazionali.

La prova inoltre, che i poteri dello stato non sono un'attribuzione del diritto internazionale, risulta ancora dal principio generale che lo stato compare di fronte all'ordinamento internazionale unitariamente. Il comportamento dello stato di fronte al diritto internazionale si considera indipendentemente dalle norme interne che regolano il funzionamento dei suoi poteri o dei suoi organi. Ma v'ha di più: gli stessi rapporti, i quali legano lo stato ai suoi elementi essenziali, territorio e popolazione, non hanno nel diritto internazionale la stessa qualifica che nel diritto interno. Il diritto sul territorio, se considerato in senso realistico, conformemente all'opinione prevalente, è caratterizzato diversamente secondoché il potere dello stato si esamina nel confronto degli altri enti o soggetti compresi nel suo ordinamento o nel confronto degli altri stati: sotto quest'ultimo aspetto non può formare oggetto di un rapporto di sovranità come nel primo, ma soltanto di competenza. Anche il criterio di esclusività che pure informa nei due casi l'esercizio di quel potere, nel primo caso è un riflesso del suo diritto di supremazia, che è un attributo della sua stessa personalità, nel secondo un riflesso del suo diritto d'indipendenza, che deriva da un principio base dell'ordinamento internazionale. Così pure il diritto rispetto ai suoi sudditi ha nell'ordine internazionale un contenuto proprio, che si può dire circoscritto normalmente ai rapporti che concernono il trattamento dei sudditi nazionali all'estero e dei sudditi stranieri nel territorio nazionale; salvo quei limiti che derivano da uno speciale titolo internazionale, come lo statuto delle minoranze, che riguarda anche la condizione dei sudditi nazionali nel proprio stato.

Ora è evidente che, se il diritto dello stato sul territorio o sulla popolazione fosse una derivazione del diritto internazionale e non anche l'esercizio di una sua potestà originaria, ogni valutazione del rapporto dovrebbe essere conforme nei due ordinamenti, interno e internazionale, il che è smentito dalla realtà.

In conclusione, lo stato solo come soggetto di diritto internazionale trova in questo ordinamento la fonte dei suoi attributi e dei suoi poteri.

Bibl.: S. Romano, Corso di diritto internazionale, Padova 1929; A. Verdross, Règles générales du droit international de la paix, in Recueil des Cours (Académie de droit international), 1929, V, pp. 275-507; D. Anzilotti, Corso di diritto internazionale, I, Roma 1932; A. Cavaglieri, Corso di diritto internazionale, Napoli 1932; H. Kelsen, Théorie générale du droit international public. Problèmes choisis, in Recueil, ecc., 1932, IV, pp. 121-351; P. Fedozzi, Trattato di diritto internazionale, I, Padova 1933; Scelle, Règles générales du droit de la paix, in Recueil, ecc., 1933, IV, pp. 331-697; K. Strupp, Les règles générales du droit de la paix, ibid., 1934, I, pp. 263-593.

Stato vassallo.

Il rapporto di vassallaggio rappresenta una qualificazione giuridica soggettiva degli stati dal punto di vista internazionale.

Storicamente trova la sua origine nel feudalismo (v.). Il vincolo di dipendenza dello stato vassallo dal suzerain non presenta sempre la medesima intensità e varia in relazione all'epoca storica e ai singoli rapporti di vassallaggio che si riscontrano nella pratica delle relazioni internazionali. Quindi la condizione di vassallo è distinta da quella di semisovrano, giacché non sempre il rapporto di suzeraineté intacca e diminuisce la sovranità dello stato soggetto. Nel Medioevo la dipendenza degli stati vassalli dal papa era sovente così tenue da lasciar persistere per intero la loro sovranità. Ancora deve distinguersi la condizione di stato protetto da quella di stato vassallo: il protettorato si sostanzia in un rapporto convenzionale, per cui da parte del protetto non sussiste alcun obbligo positivo, ma unicamente la rinunzia all'indipendenza nel trattare gli affari esteriori; invece il vassallaggio importa in genere i seguenti obblighi: rispetto simbolico, determinato inizialmente per lo più dall'investitura del capo dello stato soggetto da parte del suzerain; pagamento di tributi; dovere di aiutare lo stato sovrano in caso di guerra; mantenimento di un rappresentante diplomatico presso lo stato sovrano, con limitazione della capacità di conchiudere autonomamente convenzioni. Ciò che caratterizza tipicamente il vassallaggio è la mancanza di potestà diretta del suzerain sui sudditi del vassallo; il suzerain non può rivolgere comandi ai sudditi del vassallo che per mezzo di questo.

Il fenomeno, che dà luogo al vassallaggio, consiste in un'evoluzione o in un'involuzione storica: nel primo caso accade che una provincia si distacchi progressivamente dallo stato in cui essa era incorporata: inizialmente lo stato, di per sé, oppure in base a un trattato con potenze estere, le conferisce una determinata autonomia e la qualifica di stato semisovrano, quindi il rapporto di dipendenza dallo stato sovrano si allenta sino al conseguimento dell'indipendenza piena (l'Egitto nei confronti dell'Impero Ottomano); nel secondo caso si verifica una progressione inversa (caso del Madagascar che, dopo essere caduto nel 1885 sotto la protezione della Francia, divenne a partire dal 1896 colonia francese).

I rapporti di vassallaggio, numerosi in altre epoche, ricomparvero nell'ultimo secolo della dominazione musulmana: odiernamente rappresentano una figura storicamente superata, giacché nell'assetto attuale della società internazionale non esiste più alcun esempio di stato vassallo.

Il trattato di Parigi del 30 marzo 1856 (art. 22 segg.) costituì in stati vassalli i principati di Moldavia e Valacchia e la Serbia, ponendoli sotto la garanzia delle potenze firmatarie del trattato stesso. In virtù del trattato di Berlino del 13 luglio 1878 venne riconosciuta l'indipendenza della Serbia (art. 34 segg.), che divenne regno autonomo il 6 marzo 1882, e della Romania (art. 43 segg.), che divenne regno autonomo il 26 marzo 1881, mentre venne conferita (art. 26 segg.) un'analoga posizione al Montenegro, che in fatto era già indipendente. L'art. 1 dello stesso trattato costituì la Bulgaria, che sino allora era provincia turca, in posizione di vassallaggio verso il sultano: ma i vincoli di dipendenza della Bulgaria divennero via via sempre meno stretti, finché il 5 ottobre 1908 essa proclamò la propria indipendenza, riconosciuta l'anno seguente dalla Turchia e dalle altre potenze.

La reggenza di Tunisi nel 1875 assunse la posizione di stato vassallo nei confronti della Turchia; col trattato del Bardo del 12 maggio 1881 la reggenza accettò il protettorato della Francia senza peraltro perdere la posizione di vassallo della Turchia, che rinunciò a ogni suo diritto soltanto col trattato di Losanna del 24 luglio 1923.

L'Egitto, dopo essere stato provincia turca, in virtù di un firmano del sultano del 15 febbraio 1841 divenne vassallo, e come tale venne riconoseiuto dalla convenzione collettiva di Londra del 13 luglio 1841. Il firmano dell'8 giugno 1873 perfezionò i diritti e gli obblighi reciproci della Turchia e dello stato egiziano; sennonché la Gran Bretagna, occupando nel 1882 l'Egitto, si sostituì di fatto al sultano in posizione di suzerain. Soltanto in seguito allo scoppio della guerra tra la Turchia e la Gran Bretagna, quest'ultima, il 18 novembre 1914, proclamò il protettorato inglese sull'Egitto, che venne riconosciuto con effetto retroattivo dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923 (art. 17), in base al quale la Turchia rinunciò a ogni suo diritto sull'Egitto. Frattanto, con dichiarazione del 28 febbraio 1922 il governo inglese dichiarava la fine del protettorato.

Questi sono i casi più notevoli di vassallaggio: si possono ancora ricordare la condizione della repubblica di Cracovia, venuta meno col trattato del 6 novembre 1846 con l'incorporazione della stessa in una delle tre grandi potenze protettrici (Austria); dello stato delle Sette Isole ioniche estinto nel 1869 con la sua incorporazione nella Grecia; di Samo (dal 1831); di Creta (dal 1899); della repubblica del Transvaal (dal 1881 al 1901); del khānato di Chiva che, dopo la conquista del generale Kaufmann, nel 1872, fu mutato in stato vassallo della Russia. Quanto alla posizione dei cosiddetti stati vassalli indiani (native princes), in numero di circa 700, essi non possono essere equiparati agli stati vassalli di cui si tratta, in quanto che attualmente non sono considerati soggetti di diritto internazionale, anche se lo siano stati un tempo.

Bibl.: Oltre ai cenni più o meno ampî contenuti in tutti i manuali e trattati di diritto internazionale, v. in particolare: H. G. Sirmagieff, De la situation des États mi-souverains au point de vue du droit international, Parigi 1889; P. Heilborn, Das völkerrechtliche Protektorat, Berlino 1891; id., Vasallenstaaten, in Wörterbuch des Völkerrechts, di K. Strupp, III, p. 1 segg.; Kelke, Feudal suzerains and modern sovereignty, in Law. Quarterly Rewiew, XII (1896), p. 215 segg.; M. Boghitchévitch, Halbsouveränität, Berlino 1903; F. Contuzzi, Stato (diritto internazionale), in Digesto italiano, XXII, II, p. 49 segg.; R. Knubben, Die Subjekte des Völkerrechts, in Handbuch des Völkerrechts di Stier-Somlo, II, i, Stoccarda 1928, p. 375 segg.; I. Jennings, Les États indigènes de l'Inde, in Rev. de droit international et de lég. comparée, III (1929); Stimmel, Vasallenstaaten: indische, in K. Strupp, Wörterbuch des Volkerrechts, III, p. 3 segg.; per la condizione giuridica dell'Egitto in special modo: J. Cocheris, Situation internationale de l'Égypte et du Soudan, Parigi 1903; W. v. Grünau, Die Staats- und völkerrechtliche Stellung Ägyptens, Lipsia 1903; H. Lamba, Le statut politique de l'Égpte au regard de la Turquie, in Rev. gén. de droit international public, XVII (1910), p. 36 segg.; P. Arminion e Perret, Die Rechtslage Ägyptens während der Balkanskriege, in Jahrbuch des Völkerrechts, II, 2, p. 425; E. v. Mayer, Die völkerrechtliche Stellung Ägyptens, Breslavia 1914; H. Winterer, Ägypten, seine Staats-und völkerrechtliche Stellung zu England, den Mächten und der Türkei, Berlino 1915; E. Catellani, L'Egitto dal dominio ottomano al protettorato britannico, in Rivista coloniale, XI (1916), nn. 1-2; Rusé, La situation internationale de l'Égypte, in Revue de droit international et de lég. comparée, s. 3ª, III (1922), p. 386 segg.; IV (1923), p. 66 segg.; de Visscher, Le conflit anglo-égyptien et la Société des Nations, ibid., V (1924), p. 564 segg.

Successione degli stati.

Allorquando uno stato si annette un territorio per l'innanzi appartenente a uno stato diverso, si dice che succede a quest'ultimo nel possesso di quel territorio. Si distinguono inoltre due forme di successione: quella totale, quando uno stato si annette tutti i territorî di un altro, il quale cessa pertanto di esistere; e quella parziale, quando uno stato si annette solo una parte dei territori di un altro stato, il quale continua, diminuito, ad esistere.

Molto si è discusso sulla proprietà del termine "successione" adoperato in queste ipotesi, osservandosi da un'autorevole parte della dottrina che vera successione non può mai essere tra gli stati, perché ogni stato esercita sempre la propria sovranità in modo originario, senza derivarla da altri: anche la sovranità, che uno stato esercita in un territorio nuovamente acquistato, non è quella del precedente sovrano del medesimo territorio, in lui trapassata, ma è una sovranità del tutto nuova, propria esclusivamente dello stato che ora la esercita. Trapasso di sovranità e vera e propria successione di sovranità non possono quindi aversi. Questi e altri rilievi hanno portato la dottrina a svolgere profonde indagini, tra cui vanno segnalate particolarmente quelle del Gabba e di M. Huber, per determinare in quale altro senso e in quale campo e in quali limiti possa aversi successione fra stati.

Nella dottrina più recente un punto sembra ben fisso: anche se la sovranità è, come si usa dire, inalienabile e intrasmissibile; anche se, pertanto, non può per la sovranità aversi vera successione, ciò non toglie che, quando uno stato si sostituisce a un altro su territorî che a questo prima appartenevano, egli possa far proprî i diritti e i doveri di quest'ultimo. Il vantaggio, che il nuovo stato ne ricava, per quanto riguarda i diritti di cui così diviene titolare, e ragioni di giustizia, di moralità e di opportunità politica, per quanto riguarda gli obblighi che in tal modo si addossa, fanno sì che ben frequentemente e in non piccola misura lo stato annettente un territorio si consideri successore dell'antico sovrano. Inoltre, vi sono nell'ordine internazionale varie norme consuetudinarie che impongono allo stato, che acquista un nuovo territorio, di addossarsi certi obblighi dello stato preesistente, e che gli consentono di rivendicare certi diritti. Quando poi un territorio viene ceduto in virtù di un trattato, questo non manca di specificare quali diritti e quali doveri lo stato cessionario possa e debba assumersi. Vi sono, dunque, nel diritto internazionale, varie norme, consuetudinarie e convenzionali, a questo riguardo.

Indicando le principali fra queste norme, è anzitutto da avvertire che lo stato, il quale si annette un territorio, succede di pieno diritto in tutto il patrimonio situato in quel territorio e appartenente allo stato predecessore. Se poi lo stato predecessore si è estinto, essendo stati annessi tutti i suoi territorî, lo stato assorbente diviene titolare dell'intero patrimonio dello stato scomparso. Fu in questo modo che il Palazzo Venezia a Roma, di proprietà della repubblica veneta, divenne nel 1814 proprietà dell'Austria, che aveva assorbito la repubblica veneta e ne aveva raccolta la successione.

Un principio indubbio e più volte ribadito dalla pratica del secolo XIX impone agli stati, nel caso di successione totale, di rispettare le obbligazioni patrimoniali di quegli altri stati che siano stati assorbiti: l'intero debito pubblico, le obbligazioni patrimoniali di ogni genere contratte dallo stato assorbito, trapassano nello stato annettente. Nel caso, invece, di annessione di una sola parte del territorio di uno stato, la dottrina ritiene concordemente che nello stato acquirente di quei territorî trapassino solo i debiti aventi un qualche specifico rapporto col territorio ceduto, non invece i debiti generali, per quanto gravosi essi possano divenire allo stato che abbia perduto una parte, fors'anche notevolissima, del suo territorio. Le norme convenzionali, contenute nei trattati di cessione, provvedono però solitamente in questa ipotesi.

Lo stato successore non è invece tenuto a rispettare le concessioni fatte dal precedente sovrano; si disputa solo se, ove non le riconosca, debba concedere una giusta indennità.

Quanto ai diritti e agli obblighi internazionali derivanti da trattati, non si dà del pari alcuna successione, almeno di solito: i diritti e gli obblighi dello stato che ha perduto il territorio si estinguono se detto stato si è estinto; oppure, se continua a perdurare, rimangono a lui, e restano circoscritti ai suoi nuovi e più esigui confini territoriali. Si fa eccezione esclusivamente per certi obblighi internazionali strettamente localizzati nel territorio che ha mutato sovranità, perché stipulati avendo di mira unicamente la condizione oggettiva del territorio, e completamente prescindendo dalla qualità del soggetto che lo deteneva. Tali sono le convenzioni con cui si neutralizza un territorio, con cui si concede agli altri stati la libera navigazione su un fiume, ecc. Gli obblighi di questo genere trapassano a qualunque nuovo sovrano del territorio. Varie considerazioni politiche spingono inoltre spesso gli stati a dichiarare di voler assumere e rispettare varî obblighi internazionali contratti dallo stato predecessore.

La sostituzione di sovranità sopra un territorio è di notevole importanza anche agli effetti della nazionalità. Gli abitanti del territorio ceduto mutano infatti solitamente la nazionalità, perdendo quella del precedente stato che il territorio possedeva, e acquistando quella dello stato annettente. La regola non dà luogo a difficoltà nel caso di estinzione completa di uno stato: in tale ipotesi tutti i cittadini dello stato estinto divengono cittadini dello stato annettente. Varie difficoltà pratiche e varî criterî per superarle s'incontrano invece nel caso di successione parziale sopra una sola parte del territorio altrui. Riesce allora dubbio quali siano gli individui che devono cambiare nazionalità, e quale sia il legame che deve intercorrere tra essi e il territorio a tal fine. Talvolta si fanno divenire cittadini dello stato annettente coloro che sono originarî del territorio annesso, altre volte coloro che vi hanno il loro domicilio, altre volte coloro che riuniscono insieme queste due qualità, altre volte ancora s'invocano altri criterî. Inoltre nei tempi moderni è invalso l'uso di concedere agl'individui una specie di opzione, consentendo loro, entro un determinato periodo, di dichiarare se vogliono conservare la cittadinanza antica. Largo uso di disposizioni di questo genere si è fatto nei trattati di pace susseguenti alla guerra mondiale.

Bibl.: M. Huber, Die Staatensuccession, Lipsia 1898; A. Cavaglieri, La dottrina della successione di stato a stato e il suo valore giuridico, in Archivio giuridico, 1910; id., Note in materia di successione di stato a stato, in Rivista di diritto internazionale, 1924, pp. 26-46 e 236-271; M. Sack, La succession aux dettes publiques d'État, in Recueil des cours de l'Académie de droit internationale, 1928, III; M. Feilchenfeld, Public debts and State succession, New York 1931; M. Udina, La succession des états quant aux obligations internationales autres que les dettes publiques, in Recueil des cours de l'Académie de droit international, 1932.

Delitti contro la personalità internazionale e interna dello stato.

Ogni reato, quale violazione della volontà dello stato intesa a proteggere un interesse della comunità, un bene o interesse pubblico, ossia una condizione di vita o di sviluppo dell'aggregato sociale, costituisce offesa allo stato, e si concreta in un fatto colpevole che in ogni caso ha per soggetto passivo lo stato. Ma i beni che il diritto penale protegge, e che il reato viola, possono distinguersi, in riferimento all'interesse che lo stato vanta alla loro conservazione, in beni diretti e beni indiretti; cioè, in beni di immediata e beni di mediata o riflessa pertinenza statale; beni, in altri termini, la cui violazione direttamente colpisce lo stato, e beni la cui violazione può considerarsi contraria alle esigenze, di un'ordinata e pacifica convivenza sociale, ossia contraria all'interesse statale, solo subordinatamente alla condizione che contraria al proprio interesse la consideri colui che del bene stesso è immediato, diretto titolare. Sempre, però, nella cerchia dei beni di cui lo stato è immediato e diretto titolare, occorre porre in particolare rilievo quelli che attengono alla esistenza e alla speciale forma dello stato, il che porta a distinguere tra delitti che direttamente offendono lo stato nell'esercizio della sua attività giudiziaria o amministrativa e delitti che mirano a colpire lo stato in quelli che sono i presupposti essenziali e fondamentali, in quelle che sono le caratteristiche concrete della sua esistenza: i delitti politici per eccellenza. Sono, questi ultimi, i delitti che il codice penale del 1930 definisce "delitti contro la personalità dello stato", ben diversi, dunque, da altri delitti che l'individuo può compiere contro lo stato stesso, nel regolare funzionamento di quegli organi che mirano in concreto ad attuarne la volontà. Delitti contro la personalità dello stato, e non soltanto contro la sicurezza dello stato (come nel sistema, invece, del codice del 1889), in quanto violatori di norme la cui giuridica oggettività non sempre è la sicurezza dello stato, ma può anche essere costituita da un complesso d'interessi politici fondamentali attinenti al prestigio dello stato, alla sua materiale prosperità.

Non v'è stato momento storico in cui il pubblico potere non abbia inteso la necessità di difendere coi rigori della pena le supreme condizioni di vita, se non anche di sviluppo, dell'aggregato politico. Cambia con il cambiar dei tempi, e precisamente a seconda delle diverse concezioni dello stato e dei rapporti tra individuo e stato, la valutazione politico-criminale dei fatti, cambiano le sanzioni; taluni delitti, sotto l'influsso di nuovi orientamenti politici, assumono maggiore o minore gravità; la sfera dei delitti politici si contrae o si amplia, ma non c'è, attraverso i tempi, e i popoli, legge penale che non colpisca il delitto contro lo stato.

In Grecia, il traditore della patria era punito con la pena di morte, e in Roma pure si punivano con la pena capitale le più gravi forme di perduellio (delitto contro lo stato in genere) o crimen maiestatis (crimen quod adversus populum romanum, vel adversus securitatem eius committitur: Ulpiano, in Dig., XLVIII, 4, ad l. Jul. maiest., 1). Con la morte il diritto germanico puniva i traditori della patria, e gravi pene il diritto della Chiesa sanciva per i colpevoli di delitto maestatico. Pene di particolare crudeltà (es., squartamento, ferro rovente) si applicavano sotto l'impero del diritto comune: "Volevano che il condannato - scrive A. Pertile - venisse trascinato alle forche a coda d'asino, o strappandogli di dosso le carni con ferri roventi; anzi era uso comune di farlo a brani ancora vivo, e appenderne i quarti nei siti più frequentati della terra in cui aveva commesso il delitto". La pena colpiva anche il semplice proposito criminoso (in crimine maiestatis punitur affectus etiam non sequuto effectu; v. Farinacius, De crimine lesae maiestatis, CXII, 6). Sulla fine del secolo XVIII, sotto l'influsso di quelle nuove correnti del pensiero filosofico politico che ricordano i nomi di Montesquieu, Feuerbach, Filangieri, Beccaria, una revisione del regime penale dei delitti contro lo stato s'impose; si proclamò la non punibilità del mero pensiero criminoso, si resero meno atroci le pene (leggi di Maria Teresa, Giuseppe II, Pietro Leopoldo). Si giunse, con il trionfo delle teorie demo-liberali, a eccessi di natura sentimentale; gl'interessi politici dello stato, per essi, non ebbero nella legge penale adeguata tutela. Ma la reazione fascista, lungi da un malinteso umanitarismo, ma anche dalle inutili e impolitiche crudeltà e aberrazioni degli antichi regimi, seppe, e con la legge 25 novembre 1926 per la difesa dello stato e soprattutto con il nuovo codice penale, riparare alle insufficienze del vecchio codice del 1889. Questo codice (come si osserva nella relazione ministeriale, II, n. 241), ispirato ai dogmi di un individualismo ereditato dalla rivoluzione francese, si limitava a contemplare i soli attentati contro la sicurezza dello stato, quasi che oltre tale sfera di protezione minima, la quale coincide col diritto all'esistenza, lo stato non avesse altri e non meno fondamentali interessi da affermare, e fosse in conseguenza lecito all'individuo di svolgere liberamente, in aperto contrasto con detti interessi, ogni sua maggiore attività. Il nuovo codice riflette principî opposti completamente, sì come completamente opposta è la concezione fascista dello stato rispetto a quella demo-liberale. "Non è soltanto la sicurezza dello stato quella che va penalmente tutelata, ma anche tutto quel complesso d'interessi politici fondamentali, di altra indole, rispetto ai quali lo stato intende affermare la sua personalità; interessi che, attraverso sfere gradatamente più ampie, vanno dalla saldezza e dalla prosperità economica al migliore assetto sociale del paese, e perfino al diritto di conseguire e consolidare quel maggiore prestigio politico che allo stato possa competere in un determinato momento storico".

È il titolo primo del libro secondo del codice attuale che contempla i delitti contro la personalità dello stato, distinguendoli in delitti contro la personalità internazionale dello stato (capo 1°) e delitti contro la personalità interna dello stato (capo 2°). Tali delitti (secondo la completa definizione di V. Manzini, IV, 13) "consistono in fatti minaccianti o ledenti l'integrità politico-territoriale, l'indipendenza, la potenza, la pace interna o esterna, la prosperità, il prestigio, il decoro dello stato, la sua suprema rappresentanza e le sue supreme funzioni, i suoi rapporti internazionali". La denominazione "delitti contro la personalità dello stato" è meglio di ogni altra appropriata a indicare il complesso di beni e interessi che questo titolo del codice tutela. La denominazione "delitti contro la sicurezza dello stato" avrebbe continuato a rappresentare la vecchia concezione, abbandonata dal codice; la denominazione generica di "delitti contro lo stato" sarebbe stata imprecisa come quella che può riferirsi anche ad altri ordini di delitti di carattere obiettivamente non politico, quali i delitti contro l'amministrazione pubblica e contro l'amministrazione della giustizia; la denominazione "delitti contro la patria" sarebbe stata egualmente inadeguata, giacché quasi tutti i delitti previsti in questo titolo del codice possono essere commessi anche da stranieri. Così pure impropriamente si sarebbe usata la denominazione di "delitti di alto tradimento", non in tutti i delitti previsti dal titolo primo del codice riscontrandosi la. violazione di un dovere di fedeltà. La ragione della distinzione fra delitti contro la personalità internazionale e delitti contro la personalità interna dello stato è così posta in luce nella relazione ministeriale (II, pag. 8): "Gl'interessi politici fondamentali dello stato, nei quali si riassume la sua personalità, sono di duplice ordine, secondo che riflettono i suoi rapporti con gli stati esteri o, in genere, con l'estero, ovvero i suoi rapporti interni con i cittadini o, in genere, con quanti vivono nel suo territorio. La personalità dello stato può in conseguenza essere considerata sotto un duplice aspetto: quello esterno, o personalità di diritto internazionale, e quello interno, o personalità di diritto interno. In relazione a siffatte premesse, anche gli attacchi diretti contro la personalità dello stato, possono distinguersi in due grandi gruppi, secondo che si tratti di delitti contro la personalità internazionale dello stato, o di delitti contro la sua personalità interna... Vi sono talune figure delittuose di carattere complesso, in cui l'attacco diretto contro la personalità internazionale dello stato si risolve necessariamente in un evento di pericolo o di danno per la sua personalità interna, come nel caso dei delitti relativi all'organizzazione e alla partecipazione ad associazioni internazionali sovversive o anche ad associazioni, sempre a carattere internazionale, ma diverse dalle precedenti non autorizzate dal governo". Questi delitti si collocano nel codice fra gli attentati alla personalità internazionale dello stato, "tenuto conto della prevalenza degli interessi che occorre proteggere: se è vero che, in definitiva, le associazioni sovversive, che sono essenzialmente internazionali, sono dirette a minare le basi stesse dello stato, e le associazioni internazionali, non permesse dal governo, possono essere dirette a comprometterne gli ordinamenti interni; non è men vero, tuttavia, che per ambedue codeste categorie l'attacco alla personalità dello stato proviene dall'estero, e sono rapporti internazionali quelli che la legge prende in considerazione, per farne oggetto delle sue sanzioni a difesa dello stato".

Il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto contro la personalità dello stato è punito secondo la legge italiana, ed è ammessa l'estradizione dello straniero. I delitti in discorso, secondo la loro gravità, possono essere di competenza del pretore, del tribunale o della Corte di assise; però, fino a quando non sarà abolito il Tribunale speciale per la difesa dello stato, la competenza per essi è del tribunale predetto (art. 3, legge 4 giugno 1931), a meno che esso non si valga della facoltà di rimettere il procedimento al giudice ordinario (art. 5, r. decreto 13 marzo 1927, n. 313). Meritano di essere poste in rilievo altre caratteristiche di natura processuale e sostanziale proprie dei delitti contro la personalità dello stato. Dal punto di vista processuale, ben comprensibili ragioni di carattere politico hanno consigliato al legislatore di subordinare la procedibilità contro taluni delitti all'autorizzazione o alla richiesta del ministro della Giustizia, oppure all'autorizzazione di quell'organo costituzionale dello stato che abbia formato obietto di vilipendio da parte del colpevole: "L'autorizzazione a procedere è stabilita per quei delitti i cui elementi costitutivi involgono, per la loro giusta valutazione, un apprezzamento di ordine politico, che il ministro della giustizia potrà fare con maggiore cognizione di causa, quando l'istruzione del procedimento sia già in una fase avanzata (occorre, ad es., l'autorizzazione del ministro della Giustizia nei delitti di disfattismo politico, d'illecita costituzione di associazioni o d'illecita partecipazione ad associazioni aventi carattere internazionale). La richiesta è stabilita così per quei delitti la cui punibilità in tanto è giustificata in quanto ledano effettivamente anche un interesse dello stato, come per quei delitti che, viceversa, sia pure eccezionalmente, e per ragioni contingenti sempre però di natura politica, lo stato può avere interesse a che non siano puniti, e rispetto ai quali sarebbe perciò inutile il procedimento, quanto, infine, per i delitti di vilipendio contro singoli organi costituzionali dello stato, secondo una tradizione legislativa" (relazione ministeriale, II, pag. 111). Dal punto di vista sostanziale è da notare la ragione politica che ha indotto il legislatore a prevedere come reati autonomi fatti che diversamente avrebbero costituito mero materiale preparatorio, e quindi impunibile, di determinati delitti (es., art. 304: cospirazione politica mediante accordo; art. 305: cospirazione politica mediante associazione), e ad anticipare in taluni delitti il momento consumativo, considerando, cioè, come consumati delitti la cui materialità altrimenti sarebbe stata solo sufficiente a concretare la figura del tentativo. "Dati - scrive il Manzini, IV, 614 - gl'interessi essenziali, rilevantissimi e delicatissimi, che sono esposti a pericolo o lesi dai delitti contro la personalità internazionale e interna dello stato, le leggi di ogni epoca non si sono appagate dell'effetto preventivo generale delle comminatorie penali per i delitti medesimi, ma hanno incriminato anche fatti che, pur non costituendo propriamente tentativo, determinano tuttavia condizioni favorevoli alla commissione di tali reati, per impedire o paralizzare, fn nel loro più remoto stadio, le intenzioni criminose esplicate con determinati fatti". Fra i delitti contro la personalità dello stato, cosiddetti "a momento consumativo anticipato", ve ne sono taluni per i quali, data l'eccezionale importanza dell'interesse protetto, identica è la pena che si verifichi o che non si verifichi l'evento criminoso. Così, è punito con la morte colui che commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello stato, o una parte di esso, alla sovranità di uno stato straniero, ovvero diretto a menomare l'indipendenza dello stato; parimente è punito con la morte colui che attenti alla vita, all'incolumità o libertà personale del re o del reggente o del capo del governo. Altri delitti si consumano col semplice attentato, ma il verificarsi dell'evento funziona in essi da circostanza aggravante (v., ad es., gli articoli 243 e 247, del cod. pen.). Largamente utilizzata è, in questa parte del codice, la pena di morte, unica adeguata pena per taluni episodî della speculazione criminale, per quella speciale categoria di delinquenti dai quali, data la particolare natura del fine criminoso, la pena detentiva, anche se perpetua, non potrebbe altrimenti essere pensata che quale mezzo pratico per il conseguimento, nel futuro, di compensi e di gloria. La pena di morte (sostituibile da pena temporanea per effetto di circostanze attenuanti) è comminata, evidentemente per i più gravi delitti, anche se a momento consumativo anticipato. Così, ad es., per l'attentato contro l'integrità o la indipendenza o l'unità dello stato (art. 241), per il delitto di partecipazione del cittadino alla guerra contro lo stato (art. 242), per il delitto di spionaggio politico o militare commesso nell'interesse di uno stato in guerra con lo stato italiano, oppure quando abbia compromesso la preparazione o l'efficienza bellica dello stato ovvero le operazioni militari (art. 257), per l'attentato contro il re, il reggente, la regina, il principe ereditario (art. 276), per l'attentato contro il capo del governo (art. 280), per il delitto d'insurrezione armata contra i poteri dello stato (art. 284), per i delitti di devastazione, saccheggio, strage (art. 285), guerra civile (art. 286), e per gli altri casi previsti negli articoli 243, 247, 253, 255, 256, 258, 261, 262, 263, 287 cod. pen.

Il nuovo codice penale italiano del 1930, che i delitti contro la personalità dello stato contempla negli articoli dal 241 al 313, segna un notevole progresso, anche in questa parte, nei confronti del codice del 1889, non solo perché più adeguatamente provvede alla tutela giuridica della sicurezza dello stato, ma soprattutto, come già accennammo, per gl'interessi politici che mira a difendere, attinenti all'incremento materiale e morale d'Italia. Viene, dunque, ad ampliarsi il quadro delle incriminazioni. Le più caratteristiche fra le nuove figure delittuose, quelle che meglio rivelano l'influsso della concezione fascista dello stato sulla legge penale, sono le seguenti:

a) il delitto di disfattismo politico (art. 265), consistente nel diffondere o comunicare, in tempo di guerra, voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico; o nello svolgere comunque un'attività, tale da recare nocumento agl'interessi nazionali;

b) il delitto di disfattismo economico (art. 267), consistente nell'adoperare, in tempo di guerra, mezzi diretti a deprimere il corso dei cambî o a influire sul mercato dei titoli o dei valori, pubblici o privati, in modo da esporre a pericolo la resistenza della nazione di fronte al nemico;

c) il delitto di attività antinazionale del cittadino all'estero (art. 269), ossia il delitto del cittadino che, fuori del territorio dello stato, diffonde o comunica voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello stato, per modo da menomare il credito o il prestigio dello stato all'estero, o che svolge comunque un'attività tale da recar nocumento agl'interessi nazionali;

d) il delitto di pubblico vilipendio della nazione italiana (art. 291);

e) il gruppo dei delitti (articoli 270 a 274) relativi alle associazioni sovversive o antinazionali, o aventi carattere internazionale;

f) i delitti di attentato alla vita, all'incolumità o alla libertà personale (art. 280) o alla libertà individuale (art. 281) o di offesa all'onore o al prestigio (art. 282) del capo del governo. L'istituzione del capo del governo, chiave di vòlta del regime fascista, è quella che maggiormente caratterizza il nuovo assetto del diritto pubblico italiano; il capo del governo è, dopo la corona, il più importante organo costituzionale: era perciò necessario salvaguardarne nel modo più rigoroso la vita, l'incolumità, la libertà personale e individuale, l'onore e il prestigio;

g) occorre, infine, ricordare, quantunque non incluso nel gruppo dei delitti contro la personalità dello stato, il delitto di omessa denuncia di reato da parte del cittadino, previsto nell'art. 364: "Il cittadino che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello stato, per il quale la legge stabilisce la pena di morte o l'ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all'autorità giudiziaria o a un'altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire mille a diecimila". "Il legislatore fa soprattutto affidamento sul patriottismo dei cittadini, sulla loro solidarietà, senza limiti, per la difesa dello stato. Contro coloro che di tal dovere civico fossero dimentichi nei casi più gravi, è giusto che intervenga il rigore della legge penale" (rel. min., II, 105).

Bibl.: T. Mommsen, Römisches Strafrecht, 1899 (trad. franc. di J. Duquesne, Parigi 1907); A. Pertile, Storia del diritto italiano, V, Storia del diritto penale, 2ª ed., Torino 1892; A. De Marsico, I delitti contro lo Stato nell'evoluzione del diritto pubblico, Bari 1927; G. Sabatini, in Il codice penale annotato articolo per articolo, II, Milano 1933; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV, Torino 1934.

Delitti contro gli stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti.

Nel capo quarto del titolo primo del libro secondo del codice penale italiano, sono collocati i delitti contro gli stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti. Sono anche questi delitti contro la personalità dello stato italiano, ossia delitti, come osserva il Manzini, previsti per l'opportunità di "prevenire e reprimere fatti suscettivi di rendere sfavorevoli o di peggiorare le relazioni internazionali, e quindi di esporre a pericolo lo stato nostro". Con questi delitti "non si lede soltanto la vita, l'incolumità, la libertà, ecc., di un individuo, ma si ledono o si pongono in pericolo la tranquillità, il prestigio, e forse la stessa sicurezza politica o militare dello stato italiano, per le ripercussioni, talora gravissime, che fatti di tal genere possono produrre nei rapporti internazionali" (relaz. min., II, 88).

Nel capo quarto del titolo primo del codice si contemplano i seguenti reati (reati, si noti bene, la cui esistenza è subordinata al fatto di esser commessi nel territorio dello stato): 1. delitto di attentato alla vita, all'incolumità o alla libertà personale del capo di uno stato estero. È il delitto dell'art. 295 per il quale la legge commina grave pena detentiva temporanea, a cui viene a sostituirsi la pena di morte se all'attentato alla vita segue la morte della vittima, la pena dell'ergastolo se la morte della vittima sia conseguenza d'attentato all'incolumità o alla libertà. Se il delitto è commesso fuori del territorio dello stato è considerato come delitto comune (consumato o tentato) di omicidio o lesione personale, ecc.; 2. delitto di attentato alla libertà del capo di uno stato estero (art. 296), intendendosi qui per libertà la libertà individuale, non quella fisica di cui nella precedente ipotesi; la libertà morale, cioè, intesa nel senso più ampio, quella libertà individuale che comprende la libertà nel domicilio, nella conservazione dei segreti. Per questo delitto il codice commina la pena della reclusione da tre a dieci anni; 3. delitto di offesa all'onore o al prestigio del capo di uno stato estero (pena: la reclusione da uno a tre anni, art. 297). In materia di delitti contro capi di stati esteri, è da porre in particolare rilievo che il papa, sebbene indubbiamente capo di stato estero, in senso giuridico, non è però tutelato dalle norme sopra indicate. Essendo parificata la persona del papa a quella del re (v. art. 8 del trattato lateranense), colui che, ad es., attenta alla vita o alla incolumità o alla libertà personale del papa è punito (art. 276) con la pena di morte. Si deve pure rilevare che le norme surricordate si applicano anche se i fatti in esse previsti vengono commessi contro rappresentanti di stati esteri accreditati presso il governo del re in qualità di capi di missione diplomatica, a causa o nell'esercizio delle loro funzioni (art. 298). La legge parla soltanto dei "capi di missione" cioè dei capi che hanno la rappresentanza dello stato estero e non anche degli altri agenti diplomatici che facciano parte della missione come coadiutori; 4. delitto di vilipendio, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, della bandiera ufficiale o di altro emblema di uno stato estero, di cui sia fatto uso in conformità del diritto interno dello stato italiano (art. 299: reclusione da sei mesi a tre anni). Tra le bandiere e gli emblemi degli stati esteri, si comprendono quelli dello stato della Città del Vaticano.

È interessante notare che le suindicate norme relative all'attentato e all'offesa dello stato estero, nonché al vilipendio della bandiera straniera, sono applicabili soltanto in quanto la legge straniera garentisca, reciprocamente, al capo dello stato italiano o alla bandiera italiana parità di tutela penale (intendendo con ciò che lo stato straniero consideri tali fatti criminosi come delitti diversi, per pena e qualificazione, da quelli a cui darebbero vita i fatti medesimi se commessi contro qualsiasi persona o cosa); e che l'indicata equiparazione dei capi di missione diplomatica ai capi di stati esteri è subordinata al fatto che lo stato estero conceda, anche in questo caso, parità di tutela penale ai capi di missione diplomatica italiana. Quando, in tutti questi casi, la parità della tutela penale non esista, si considera il fatto come un reato comune contro la persona (tit. XII del codice) o contro il patrimonio (tit. XIII del codice) con aumento di pena in base all'art. 64.

Bibl.: V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano secondo il codice del 1930, Torino 1934, IV.

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