STEFANO III papa

Enciclopedia Italiana (1936)

STEFANO III (o II) papa

Mario Niccoli

Romano e rappresentante, col fratello Paolo, di una delle più nobili famiglie della città, fu eletto papa il 26 marzo 752, dodici giorni dopo la morte di papa Zaccaria e dopo il brevissimo pontificato di Stefano II. Il nuovo pontefice ereditò una situazione politica estremamente difficile.

Il ducato romano, che aveva costituito in origine una provincia militare bizantina alle dipendenze dell'esarca di Ravenna, col progressivo indebolirsi della potenza bizantina in Italia si era fatalmente avviato a costituirsi, di fatto, come uno stato autonomo che trovava la sua ragion d'essere nella stessa peculiarissima figura dell'autorità che regnava sopra ogni altra in Roma, il pontefice e successore di San Pietro. A rafforzare questo sentimento di autonomia - contro il quale non si sarebbe potuto certo invocare il riconoscimento puramente formale di essere Roma legata tuttora con l'impero bizantino da vincoli di dipendenza che si facevano sempre più inconsistenti - contribuiva d'altra parte la stessa sensazione che i Romani, peculiaris populus di San Pietro e della Chiesa, non potevano ormai contare che su sé stessi per la difesa di questa loro riconquistata libertà. E che questa situazione esistesse, e grave, dovette constatarlo lo stesso papa Stefano.

Al momento della elezione di St., Astolfo, re dei Longobardi e da quasi un anno padrone incontrastato dell'Esarcato, faceva chiaramente intendere con i suoi propositi di espansione al di là dell'Appennino di volere sostituire completamente, anche sul resto d'Italia, il dominio diretto ed effettivo dei suoi Longobardi alla inesistente autorità bizantina. St. cercò di venire a patti. Ma una tregua firmata nel giugno 752 era già rotta nell'autunno seguente: Astolfo pretendeva estendere la sua giurisdizione su Roma e sul ducato e imporre ai Romani un tributo oneroso. Egli ben sapeva che Bisanzio non avrebbe potuto rispondere che con parole all'estremo appello del pontefice e lasciò ripartire, senza avergli dato alcuna soddisfazione, il silenziario Giovanni, che da Bisanzio si era recato alla corte longobarda per protestare contro l'occupazione dell'Esarcato. Per Roma, per i Romani, si profilava la minaccia dell'annessione, contro la quale non potevano fare ostacolo né ragioni religiose, né ragioni di prestigio, giacché i Longobardi, cattolici essi stessi, avevano e avrebbero mantenuto la loro capitale a Pavia. Ma faceva ostacolo quello stesso sentimento d'indipendenza che si era venuto maturando e che rendeva inconcepibile a un romano, consapevole di ciò che significava questa qualità, di diventare longobardo e al vescovo di Roma, erede così del principe degli apostoli come dell'imperatore, "primate dei vescovi del mondo intero, dottore della Chiesa universale", vero sovrano di Roma anche nei riguardi del duca bizantino, di abbassarsi al rango di un vescovo di corte. Solo tenendo presenti queste circostanze si può bene intendere come papa St., seguendo del resto la linea politica già tracciata da Gregorio III, s'inducesse a sollecitare l'intervento dei Franchi. Intervento al quale si deve storicamente far risalire la fondazione di un vero e proprio stato della Chiesa, e, con questa, la mancata organizzazione dell'Italia, per opera dei Longobardi, in un regno unitario, come quello fondato dai Franchi in Gallia e dagli Anglosassoni in Britannia: "il sacrificio dell'unità e della libertà d'Italia fu il prezzo della libertà della Chiesa e dell'unità della civiltà d'Occidente" (A. Dempf). Entrato in trattative con Pipino III il Breve, e assicuratosi dei suoi sentimenti favorevoli, St., il 14 ottobre 753, partì alla volta di Pavia in compagnia del silenziario Giovanni di nuovo venuto in Italia. Astolfo fu nuovamente invitato (e St. in questa occasione parlava in nome dell'imperatore) a restituire l'Esarcato, ma inutilmente.

Il 15 novembre, St. partiva alla volta della Francia e il 6 gennaio 754, nella residenza reale di Ponthion (presso Bar-le-Duc), il papa, questa volta parlando in nome proprio e dei Romani, poteva chiedere a Pipino d'intervenire "ut causam beati Petri et reipublicae Romanorum disponeret". Certamente a Ponthion Pipino promise la sua assistenza, forse (ma le fonti non consentono di asserirlo) il papa reclamò la "restituzione" di Ravenna, dell'Esarcato, della Pentapoli e degli altri territorî conquistati da Astolfo. Certo questa "restituzione" fu stipulata in seguito alla prima campagna di Pipino in Italia.

È chiaro, come ha bene illustrato il Duchesne, che agli occhi del re dei Franchi, non potendo il ducato di Roma né il pontefice avere titoli giuridici per pretendere una "restituzione" di territorî sui quali in diritto non avevano mai esercitato una sovranità (occorre peraltro ricordare l'ipotesi, secondo la quale fino dall'epoca di papa St. circolasse, fabbricato almeno in parte, il famoso costituto di Costantino, v. costantino, XI, p. 606), la cessione dovette essere fatta in base al diritto di conquista che garantiva a Pipino la libera disponibilità di territorî a lui ceduti da un vinto, Astolfo, il quale li aveva legittimamente come frutto della sua conquista.

Intanto l'inverno consigliò St. di ritirarsi nell'abbazia di SaintDenis, dove il papa consacrò solennemente il re, con la regina Bertranda e i figli (28 luglio 754). In questa circostanza Pipino fu insignito del titolo di patricius Romanorum, ma è bene osservare che né il biografo di St., né le fonti franche, fanno cenno di questo, e che mai Pipino, certo desideroso di mantenere i suoi rapporti con l'impero, prese questo titolo nei suoi atti. Caduto malato, e guarito, secondo la Revelatio di Ilduino abate di Saint-Denis, per l'intervento dello stesso S. Dionigi (il Liber Pontificalis non ricorda questo miracolo), il 1° marzo e il 7 aprile 754 St. partecipò alla grande assemblea nazionale franca tenuta a Kiersy-sur-Oise (presso Laon) dove, nonostante una forte opposizione, fu deciso, di fronte all'esito negativo delle ripetute ambascerie di Pipino ad Astolfo, di ricorrere alla guerra. Dopo una prima campagna svoltasi in quell'anno stesso, Astolfo, vinto ai passi delle Alpi e a Pavia, s'impegnò per scritto a cedere al papa i territorî già ricordati e Narni. St., pur non fidandosi della parola di Astolfo, tornò a Roma (fine di ottobre 754) e lasciò partire Pipino. Il 1° gennaio 756 l'armata longobarda, dopo avere devastato la campagna, investiva la stessa Roma che solo un secondo intervento di Pipino doveva liberare. Astolfo dovette, questa volta, cedere anche Comacchio e assicurare l'esecuzione del trattato con la cessione effettiva dei territorî garantita mediante ostaggi. Frattanto un'ambasceria bizantina a Pipino per indurlo a restituire all'impero i territorî tolti ad Astolfo rimase senza effetto. Morto Astolfo e venuti in conflitto per la successione Desiderio e Rachi, il primo, pur di garantirsi l'appoggio di St., promise di rendere alla "repubblica" "civitates que remanserant", cioè Faenza, Imola, Ferrara, Ancona, Osimo, Umana e Bologna.

In realtà, quando St. ebbe indotto Rachi a ritirarsi in un convento, Desiderio si limitò a cedere Faenza e Ferrara. St., che era morto il 26 aprile 757, lasciò al fratello e successore Paolo l'amarezza di questo inganno e la non facile cura di consolidare il neonato stato della Chiesa.

Bibl.: Ph. Jaffè, Regesta, I, Lipsia 1881, pp. 271-77; Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Parigi 1886, pp. 440-462; lettere di St., in Mon. Germ. hist., Ep. Merovingici et Karolini aevi, I, Berlino 1892, pp. 94, 487-507; L. Duchesne, Les premiers temps de l'état pontifical, 3ª ed., Parigi 1911, pp. 21-80; E. Caspar, Pippin und die römische Kirche, Berlino 1914; K. Heldmann, Kommendation u. Königsschutz im Vertrag von Ponthion 754, in Mitteil. d. Inst. f. österreich. Gesch., XXXVIII (1920), pp. 541-570; C. Rodenberg, Pippin Karlmann u. Stephan II., Berlino 1923; F. Kampers, Rome aeterna und sancta Dei ecclesia rei publicae Romanorum, in Hist. Jahrbuch, XLIV (1924), pp. 240-249; J. Turk, in Bogoslovnyj Vestnik, V (1925), pp. 217-224; M. Buchner, Die clausola de unctione Pippini. Eine Fälschung aus dem Jahre 880, Paderborn 1926; id., Das Vizepapsttum des Abtes von St. Denis, ivi 1928; R. Macaigne, L'église mérovingienne et l'état pontifical, Parigi 1929.