STIL NOVO

Enciclopedia Italiana (1936)

STIL NOVO

Salvatore Battaglia

. La designazione di Stil novo e Dolce stil novo risale a Dante (Purgat., XXIV, 57), che così si compiacque di chiamare la lirica della sua giovinezza, quella a cui aveva attinto la prima e feconda educazione letteraria e in cui aveva misurato gli strumenti stilistici della sua arte.

I termini rispondono all'uso retorico medievale, ché la nozione di "stile", cioè il modo di dettare, di scrivere (Convivio, IV, 11; e soprattutto De vulgari eloquentia, II, 111 e iv e passim), ammetteva una triplice distinzione: comico o umile (stile popolare, familiare, empirico), elegiaco o amoroso (ch'era appunto lo stile dolce o soave: "lo mio soave stile, ch'i' ho tenuto nel trattar d'amore", nella canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia, Convivio, IV) e tragico o superiore (lo stile alto, proprio della poesia scientifica e filosofica: Convivio, I, iv, 13).

La denominazione ha soprattutto valore polemico, in quanto intende contrapporre uno stile nuovo, un nuovo ordine poetico a quello ormai consunto dall'uso e impigritosi nell'inerzia spirituale. Ma Dante non pervenne a valutare criticamente la propria poesia se non a gradi, dopo che la sua partecipazione al mondo lirico contemporaneo acquistò chiara coscienza storica, al lume della quale poteva individuare i valori della tradizione poetica italiana. Cosicché l'episodio del Purgatorio, in cui è definita la natura dell'ispirazione stilnovistica, presuppone non solo la Vita nova, come esperienza artistica in atto, ma soprattutto il De vulgari eloquentia, come primo e originale tentativo di sistemazione storico-critica della lirica italiana e, almeno in parte, trovatorica.

Il poeta sentiva di appartenere a una nuova generazione letteraria, che, pur facendo capo al bolognese Guido Guinizelli, si nutriva e si sviluppava in terra toscana, assieme a Guido Cavalcanti e a Cino da Pistoia, i maggiori della schiera. Nella Vita nova è ancora tutto preso dalla novità contenutistica della scuola, le cui formule, che risalgono alla canzone del Guinizelli, conferivano una coloritura concettuale all'ispirazione amorosa fino allora confinata alla fragilissima vita del sentimento erotico. E l'avere innestato al contenuto psicologico e prevalentemente empiricobiografico una veste intellettualistica con attributi morali e perfino religiosi, doveva far credere a uomini del Medioevo di aver sollevato la tradizione lirica a maggiore dignità e di averla avviata verso un pensiero superiore, più aristocratico, pregnante di valori e di significati. Attraverso alla Vita nova in forme essenzialmente liriche, al Convivio in modi scientifici e dimostrativi, al De vulgari eloquentia per vie storico-critiche, e infine mediante la piena coscienza estetica del Purgatorio, Dante ha chiarito la posizione sua e della scuola e ha celebrato l'entusiasmo del poeta che sente di elaborare una realtà fantastica diversa da quella tradizionale:

I' mi son un che quando

Amor mi spira, noto e a quel modo

ch' e' ditta dentro, vo significando (Purg. XXIV, 52-54).

Dante in tal modo superava le considerazioni contenutistiche della poesia per investire le ragioni puramente formali e intuire il mero atto creativo, come celebrazione della più libera e genuina e individuale vita interiore, che si afferma in sé stessa al di là degli schemi e delle norme; e come piena e perfetta identità dell'elemento espressivo con il mondo fantastico, cioè del linguaggio che si fa specchio e tramite fedelissimo dell'interno pensare: ciò che costituisce il vero e proprio "stile". Tuttavia non si può attribuire a questa intuizione del momento artistico un valore romantico e idealista, ma bisogna sempre limitare il canone dantesco come coscienza di un particolare contenuto lirico, quello amoroso, e perciò in senso sentimentale: quasi un misticismo della passione; e invero, come avveniva alla cultura medievale e romanza che si andava formando mediante un processo di laicizzazione del pensiero religioso, Dante ha tenuto presente un mistico, Riccardo da San Vittore (si veda Parad., X, 131): "Quomodo enim de amore loquetur homo, qui non amat, qui vim non sentit amoris? De aliis nempe copiosa in libris occurrit materia; huius vero aut tota intus est, aut nusquam est, quin non ab exterioribus ad interiora suavitatis suae secreta transponit, sed ab interioribus ad exteriora transmittit. Solus proinde de ea dene loquitur, qui secundum quod cor dictat, verba componit... Illum... audire vellem qui calamum linguae tingeret in sanguine cordis: quia tunc vera et veneranda doctrina est, cum quod lingua loquitur, conscientia dictat, charitas suggerit et spiritus ingerit" (prologo del Tractatus de gradibus chdritatis, in Migne, Patr. Lat., CXVI, col. 1195; il passo è stato segnalato e illustrato da M. Casella: v. bibliogr.).

Che perciò il cosiddetto Stil novo si fondasse essenzialmente su una nuova teoria del fatto estetico, sì che ne risultasse un nuovo modo d'intendere l'arte tutta, è un'affermazione che va intesa in senso pslemico e vale soprattutto per Dante e per la sua coscienza artistica; ma l'enunciazione, che ha tuttavia sensibilità moderna, anche se risulta ispirata alla cultura mistica del Medioevo, è una scoperta del poeta maturo, che si compiace di rintracciare le proprie origini nella psesia della giovinezza e a questa attribuisce una consapevolezza di concetti estetici e teorici, allora meno scaltriti e postulati soltanto in seguito con una valutazione retrospettiva. Ancora una volta, cioè, lo Stil novo si rivela per Dante come ricerca del proprio ideale lirico, tanto che nell'episodio di Bonagiunta egli parla di sé (e si riferisce direttamente alla propria canzone: Donne che avete intelletto d'amore) e contrappone sé ai poeti del passato (al "notaro" cioè a Iacopo da Lentino, il più autorevole dei siciliani, e a Guittone, il caposcuola della lirica successiva toscana), senza qui preoccuparsi del Guinizelli e del Cavalcanti, che pure altrove riconosce per suoi maggiori, o per lo meno per suoi iniziatori. Per i poeti dello Stil novo, invece, dal Guinizelli a Cino, dal Cavalcanti al Frescobaldi, valeva soprattutto, rispetto alla poesia tradizionale, una particolare concezione dell'amore e della realtà psicologico-morale, che si configurava nella loro ispirazione con sensi nuovi: nuovi almeno pei il fervido sentimento con cui erano investiti e formulati.

La coscienza innovatrice s'era affermata con la canzone del Guinizelli Al cor gentil ripara sempre Amore, fondata esclusivamente su due lucidissimi concetti: 1. identità di amore e di nobiltà spirituale; e perciò eliminazione e superamento di tutti i residui feudali e cortesi di retaggio trovatorico, sia provenzale e sia siculo-toscano; 2. esaltazione della bellezza femminile e perciò dell'amore, entrambi timidamente riaccostati al senso del divino e commisurati all'esigenza della fede. Forse Guido Guinizelli nel comporre la sua fortunata canzone non sospettava gli ampî sviluppi che ne sarebbero derivati; ma quel che più conta in un movimento letterario è la coscienza di esso, la volontà di differenziarsi dal più recente passato: e certo il Guinizelli moveva dall'esigenza di doversi distaccare dalla poesia tradizionale e specialmente dall'empirico Guittone d'Arezzo, ch'egli fino allora aveva considerato suo maestro. Riportando il sentimento d'amore alla sua più genuina realtà spirituale e trasferendo i concetti di nobiltà e di gentilezza nel terreno della più gelosa e profonda natura umana, al di qua dell'ambiente storico e al di fuori dei privilegi di classe, il Guinizelli isolava e chiariva con più risoluta coscienza quel travaglio lirico a cui tendeva la stessa poesia trovatorica; e s'intende che egli poteva raggiungere questa trasparenza interiore, in quanto italiano, cittadino di una civiltà comunale e tipicamente laica, educato in un clima intellettuale più libero e più aperto alla razionalità del pensiero, e sorretto da una cultura più consapevole dei valori individuali dello spirito.

A questo contenuto che in fondo poneva problemi d'ordine sociale ed etico, oltre che psicologici, e si preoccupava, anche se in modo ancora svagato, della realtà religiosa, si veniva a consertare ben presto una materia psichico-naturalistica che trovava la migliore e più fortunata codificazione nel componimento di Guido Cavalcanti Donna me prega: qui l'amore non è più considerato in quanto fatto morale, ma essenzialmente come fenomeno naturale; una specie di fisica intellettualistica con basi scolastiche, l'unica forma logica del pensare contemporaneo, e che prescinde dai rapporti con le altre manifestazioni del reale.

Il Cavalcanti sottopone la passione amorosa a una ricerca rigorosamente oggettiva: l'amore è "accidente", cioè estrinseco al corpo, non sostanza a sé stante, ma aggiunto al "soggetto" come le passioni all'anima: e tra le passioni è la più "feroce" e "altera"; ha il suo "essere" nella memoria, o meglio nell'anima sensitiva (di cui la memoria è il mezzo trasparente) predisposta originariamente dall'influenza di Marte, il pianeta della lussuria e del martirio, e impressionata da "veduta forma che s'intende" e che perciò rientra sotto il dominio della volontà, cioè dell'elezione intellettiva; perviene naturalmente all'intelletto possibile, dove è perfezione e virtu̇: ma la passione nel suo crearsi e operare rimane al di fuori della virtù, poiché obbedisce a un ideale non universale ma particolare dell'amore, un desiderio perenne che non dà tregua né stabilità, con una fatalità angosciosa che finisce con l'invadere tutta la realtà del poeta amante: "L'essere è quando lo voler è tanto ∣ ch'oltra misura di natura torna; ∣ poi non s'adorna di riposo mai. ∣ Move, cangiando color, riso e pianto ∣ e la figura con paura trema; ∣ poco soggiorna..." (vv. 43-48): cioè l'essenza dell'amore si rivela nell'intenso trasmodato e travolgente desiderio di ciò che si ama; e non concede mai riposo, despota assoluto del nostro riso e del nostro pianto, arbitro capriccioso del nostro mutevole aspetto, esso stesso mobilissimo.

ll Cavalcanti ha individuato un aspetto del dualismo in cui oscilla l'ispirazione arnorosa; ma è un dualismo che non investe per ora la coscienza critica del poeta, il quale considera i due aspetti della passione come necessaria alternativa di stati d'animo, e perciò li risolve di volta in volta nel momento psicologico; cosicché l'amore che è esaltazione dell'umanità dell'amante e l'amore che rimane forza oscura e mortificante, non vengono a contrasto nello spirito del poeta, ma si sviluppano e si distinguono su due piani diversi: l'uno rappresenta il momento della lucidità spirituale, quando la passione si esalta e sta in funzione di idealità superiori e costruttive, l'altro costituisce la passione che avvolge l'animo e tormenta il corpo come elemento della natura, e perciò di carattere sensuale, affettivo, mobilissimo perché sfugge al dominio della volontà, perturbatore e angoscioso perché non ha finalità.

Sono due canzoni diversissime e antitetiche, entrambe però destinate a informare di sé la cultura lirica di circa un secolo; l'una, quella del Guinizelli, è immaginifica, tutta accesa di luce intuitiva; mentre l'altra del Cavalcanti è rigorosamente dimostrativa, conseguenziaria, aridamente sintetica, senza distrazioni fantastiche, ferma alla sua indole dottrinale, secondo il "modo scientifico e veridico, tratto da' comandamenti della scienza naturale e morale" (dal volgarizzamento, anch'esso trecentesco, del commento latino di Dino del Garbo). La prima, più lirica e perciò più fragile, sarà ben presto assorbita, e in Dante troverà larghi sviluppi e una maggiore applicazione al mondo morale e scientifico (Amor e cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittato pone; e si veda specialmente la canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia e tutto il quarto trattato del Convivio); la seconda si conserverà più tenacemente, per i suoi caratteri dottrinali e filosofici, e farà testo sulla natura d'amore, confortata da ampî commenti (uno, assai noto ai contemporanei, e caro al Boccaccio che lo ha ricopiato, è dovuto a Mastro Dino del Garbo, l'altro, molto autorevole, si attribuisce a Egidio Romano), non senza propaggini nel Quattro e Cinquecento (si 1icordino il commento di fra Paolo del Rosso e di Girolamo Frachetta), anche quando cioè l'imitazione petrarchesca aveva sopraffatto ogni eco stilnovistica e la cultura platoneggiante sembrava volgere le spalle all'aristotelismo del Duecento.

Si delineava, anche in queste proposizioni poetiche, un'accentuazione in senso intellettualistico, e però laico, dell'ispirazione amorosa e della coscienza con cui è assunto il fatto passionale: la sensibilità del poeta è destinata dunque a oscillare tra l'amore redentore, fonte di bene e di gioia, tripudio delle facoltà spirituali, tramite alla contemplazione divina, e l'amore che è fatalità naturale, dolorosa, legata al senso, piuttosto presaga della morte anziché memore della vita. Si vengono così a costituire alcuni luoghi comuni in seno alla "maniera" stilnovistica: situazioni, motivi, schemi, formule attraverso cui è facile riconoscere la comune atmosfera lirico-culturale. Da un canto una mistica sentimentale che s'illumina di estatiche seppur fuggevoli visioni: lo sguardo di madonna che risplende e redime, il suo passaggio che spira grazia e purezza lungo le vie della città e in mezzo alla gente ignara, il suo saluto sovrumano e quasi angelico che sembra portare la nostalgia dei cieli e aprire spontaneamente e quasi inconsciamente le sublimi vie del bene, l'improvvisa apparizione della sua bellezza, dinnanzi agli occhi o nel chiuso dell'anima, tormentosa ed esaltatrice; e in tal guisa, si formano brevi e timide sensazioni, che pur nella loro fragilità occupano tutte le facoltà dell'essere e trasfigurano il senso dell'intera vita: gioia suprema che inonda lo spirito e lo avvolge in un dolce oblio di sé e del mondo, stupore contemplativo che ferma il sangue nelle vene e brucia tutti i pensieri, attesa trepida, insonne, egrotante come l'aspettazione di un miracolo che ad ogni attimo si ripete ed è sempre nuovo, desiderio assiduo e infinito di cantare e di celebrare le "lodi" dell'angelica sembianza e della verginale purezza femminile e di esaltare le misteriose forze della sottile e insidiosa potenza d'amore. Ma, d'altra parte, si stilizzano in forme generiche alcuni scarni concetti di uno psicologismo dottrinario, ridotto a un processo fisiologico e quasi meccanico, per cui la "mente", il "cuore", l'"animo", gli "occhi", il sorriso" diventano la sede e il tramite di speciali sentimenti e sensazioni con i relativi "spiriti" e "spiritelli", fino a stabilire una particolare e assai circostanziata casistica amorosa, che va dall'innamoramento al distacco, dal rifiuto crudele alla benigna accoglienza, attraverso a una gradazione di affetti, alternative, oscillazioni per lo più obbligata.

Tutto ciò portava a una più meditata intimità del sentimento e a sentire gli stati d'animo come condizione del tutto interiore, individuale, sorta come per autogenesi, al difuori di quelle considerazioni sociali esteriori e accessorie che invadevano l'ultima lirica provenzale e permanevano in quella siciliana e s'erano perfino accentuate nella maniera guittoniana. E nello stesso tempo l'ispirazione si adeguava con più ariosa chiarezza alla vita passionale, il linguaggio si snelliva, si snodava, aderiva alla trasparenza psicologica del poeta-amante, s'interessava più direttamente ai puri valori sentimentali, coglieva con un senso più vivo le immagini, i colori, i movimenti dell'anímo, finiva in tal modo con l'allargare le finzioni fantastiche e le possibilità del canto: tanto che la definizione di Dante - se è considerata nella sua necessaria coscienza critico-storica, in quanto si contrappone ai siculo-toscani e non già alla poesia tutta del Medioevo, e tanto meno a quella provenzale nella quale Dante poteva riconoscere i proprî postulati teorici - può accettarsi nel suo valore formale anche per gli altri poeti stilnovisti, senza impegnarsi a doverli ritenere tutti privilegiati e sempre liberamente mossi "dall'Amore che ditta dentro".

Ma questa stessa intimità soggettiva e solitaria, che in un certo senso sembrava purificare l'ispirazione dalle incrostazioni retoriche ed esornative della tradizione, segnava anche i limiti della poesia stilnovistica, tutta chiusa in un giro ristretto di situazioni, con un'alternativa di stati d'animo che si ripetono, fondata prevalentemente su alcune notazioni psicologiche che pare debbano frantumarsi ad ogni approfondimento: sospiri, desiderî, sgomenti, promesse, attese, pentimenti; accenni analitici e frammentarî, subito circoscritti e come strozzati, anziché sviluppi organici e sintetici.

La tanto affermata concretezza dello stil novo va ricercata soltanto nell'adesione all'interna sofferenza, ricondotta, di contro alle stilizzazioni dei guittoniani, ai suoi motivi sentimentali originarî, e non consiste già, come erroneamente si suol ripetere, in un realismo dell'elemento rappresentativo, secondo cui la donna riceverebbe un proprio volto e sarebbe sentita come una viva e autonoma individualità. Ma la poesia degli stilnovisti difficilmente, e solo in via eccezionale, riesce a ricomporre quadri di linee e di colori; di solito prevale nel poeta una condizione di sogno, egrotante e visionaria, che ambisce soltanto a forme incorpioree, lievi e fugaci, di proposito immemori di ogni determinazione realistica, e rapite quasi sempre in un'atmosfera di stupore e di miracolo (la situazione lirica è quella di Dante: Guido, i' vorrei che tu e Lapo e io - fossimo presi per incantamento...); le immagini, nelle migliori poesie (specie le canzoni di Guido Cavalcanti e della Vita nova), provengono da una trasparenza ideale, in uno stato di grazia o di incubo (si ricordi la canzone dantesca Donna pietosa e di novella etade), da cui esulano i riferimenti empirici e biografici e si dissolve il mondo della vita concreta, quotidiana, storica. È una poesia che ha inteso isolare i momenti essenzialmente psicologici della passione nel loro tenue tessuto, e in fondo non ha dimenticato la lezione dei provenzali e degli stessi siciliani a creare una reallà differenziata da quella comune, e alla fine anch'essa aristocraticamente letteraria e antipopolare: cosicché, per un verso, ci appare come la poesia della squisita e univoca sentimentalità, con il fascino della sua acerbità aurorale e verginale, che, specie in confronto dell'esperienza del prossimo Petrarca, pare tremare ancora d'inabile incertezza e di timido primitivismo; mentre, per altri aspetti, rivela una sua tecnica adulta e un po' consunta da una cultura libresca, non sempre riassimilata e rielaborata, che spesso dimentica l'urgenza della passione e ozia e si attarda fino a giocare con i piccoli concetti e le brevi annotazioni, piuttosto vaga e madrigalesca anziché necessaria e travagliata, compiaciuta dalla tenue e forzata brevità del sonetto o dalla svagata e labile musicalità della canzone.

La "scuola" portava con sé un particolare patrimonio linguistico e soprattutto uno speciale uso stilistico, conlorme ai concetti, ai sentimenti, agl'interessi di un lirismo per sé stesso limitato; le parole comuni, ripetute attraverso l'uso e l'abuso della scuola, erano arricchite e accentuate di significato, come trasfigurate dall'accesa atmosfera poetica di cui erano la rivelazione; non c'è dubbio che "amore", "donna", "gioia", "salute", "vita", "morte", "mente", "cuore", e così dicendo, acquistassero per gli stilnovisti, come prima per i trovatori provenzali, un'accezione particolare: più intima, più spirituale, più pregnante, commisurata ai simboli lirici; non già violentata e deformata, a guisa di gergo settario ed ermetico (come ha voluto arbitrariamente generalizzare qualche critico), ma soltanto messa a fuoco e investita dei valori aristocratici della cultura lirica: quel tanto cioè di linguaggio tecnico e figurato che si determina e si differenzia da un ambiente all'altro, e che è naturalmente più profondo di risonanze e più capace di rilevazioni interiori quanto più originale e robusta è la sensibilità lirica e più evoluto è il grado culturale di cui si fa espressione. In Dante, in cui l'elemento filosofico e intellettualistico diventa più invadente a mano a mano che si orienta verso la concezione della Divina Commedia, anche il linguaggio della lirica amorosa si viene trasformando, e da sensibile e affettivo qual è ancora nella Vita nova, si fa dialettico e scientifico nel Convivio, fino a razionalizzarsi nel Paradiso: ma in Dante sono palesi i trapassi da una realtà passionale e puramente sentimentale a un'altra più concettuale, più robusta, più logica, anche se profondamente lirica.

Sono decisamente stilnovisti, per i mezzi della loro espressione e per la coscienza della scuola, anche Gianni Alfani, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi e, a loro maggiore, Cino da Pistoia, nei quali le comuni idealità sentimentali si atteggiano diversamente secondo il ritmo individuale della loro ispirazione; ma, dell'intero movimento lirico, meritano un posto a parte per una più sicura personalità Guido Cavalcanti e Dante. Il primo ignora o disdegna i problemi che trascendono il puro fenomeno della passione amorosa; egli è il poeta in cui più decisamente l'amore si manifesta come forza fatale, che non dà tregua, senza letizia, se non per fugacissimi e obliosi intervalli: un dolore assiduo che va dal sentimento della pietà (A me stesso di me pietate vene) al senso della morte (Morte gentil, rimedio de' cattivi, mercé, Mercé a man giunte ti cheggio), e si comunica alle cose (Mi sian le tristi penne isbigottite) fino a diventare atteggiamento di eterna fissità (Anima, e tu l'adora sempre...); la sua lirica è forse il frutto migliore dello stil novo, certo è la più personale per la viva, tenace e sgomenta insistenza dei motivi più nostalgici e più dolorosi della passione: sbigottimento di tutto l'essere, tremito vago e indefinito dell'anima, paure inconscie dello spirito, disfacimento d'ogni energia umana, struggimento della vita che si scolora e si dissolve come cera ardente, acuto e sottile presentimento della morte annullatrice d'ogni umanità. E così anche il linguaggio è il più caldo e originale della scuola: dovizia di vocaboli e di espressioni che possano rendere l'interna tenerezza del cuore, l'angosciosa trepidazione del sentimento, quel perenne desiderio di morire, di confondersi con tutto ciò che è debole indifeso, instabile (si vedano soprattutto: I' prego voi...; Quando di morte...; La forte e nova mia disaventura; Perch'i' no spero...): perfetta corrispondenza, perciò (e generalmente sfuggita o di proposito negata dalla critica), del sentimento lirico con la concezione della canzone Donna me prega.

Dante è il più complesso, anche in seno alla scuola, e il più inventivo: la Vita nova attesta il tentativo, assolutamente originale, di ricomporre architettonicamente una serie di frammenti e ricostruire una "storia", laddove l'ispirazione era originariamente svagata e astratta; e forse l'elemento che è destinato ad avere tanta fortuna è l'inserzione della "morte" di madonna, come motivo vitale e risolutivo.

Già con la canzone Al cor gentil ripara sempre Amore, il Guinizelli aveva introdotto l'idea della morte o per lo meno aveva trasportato l'amore terreno e passionale in cospetto al giudizio eterno, come risveglio da una lunghissima e dolcissima illusione durata quanto la vita; il Cavalcanti ha sentito la morte al difuori del problema religioso e come limite estremo della sua dolorosa esperienza sentimentale: il senso della morte ha accentuato i motivi d'indefinita trepidazione e d'inconscio smarrimento che tremano nella sua poesia; Dante, già nella Vita nova, ricompone in senso cattolico la duplice natura dell'amore per tramite appunto della morte, che per lui ha valore catartico e redentore: la morte di Beatrice (e più tardi anche la morte di Laura) realizza veramente quell'unione dell'uomo a Dio, che Guido Guinizelli aveva soltanto adombrato in una fugace immagine.

In questo senso l'amore stilnovistico, e in modo specifico la realtà estetica della Vita nova, rappresenta per l'esperienza dantesca l'avvio alla trasfigurazione simbolica di un mito passionale e alla risoluzione in senso intellettualistico e universalistico di un mondo sentimentale, autobiografico e frammentario.

Con Petrarca è superato lo stil novo, ché egli ha risolto nel suo potente lirismo i residui e i limiti della scuola; ma nell'ultimo Trecento e nel primo Quattrocento il petrarchismo non è ancora così invadente da far dimenticare immagini e cadenze stilnovistiche; solo più tardi, quando l'imitazione petrarchesca si farà più rigorosa e assoluta, i canzonieri anteriori cadranno in oblio, come pallidi e balbettanti precedenti di una poesia che in sé li aveva tutti compresi e sublimati.

Bibl.: Per la tradizione manoscritta, si veda M. Barbi, Studi sul Canzoniere di Dante, Firenze 1915. Per i testi, oltre alle edizioni dei singoli poeti: E. Casini, Le rime dei poeti bolognesi del secolo XIII, Bologna 1881; E. Rivalta, Liriche del dolce stil novo, Venezia 1906; L. Di Benedetto, Rimatori del dolce stil nuovo, Torino 1925; G. Zaccagnini, Lirici dell'età di Dante, Firenze 1927. Per la critica: G. Carducci, Guido Cavalcanti, Opere, X, Bologna 1936 (il saggio è del 1865); G. Salvadori, Il problema storico dello "Stil novo", in Nuova Antologia, ottobre 1896 (ora in Liriche e saggi, a cura di C. Calcaterra, II, Milano 1933, pagine 155-166); id., G. Guinizelli e le origini del dolce Stil novo, in Fanfulla della Domenica, XXIV (1904), n. 28 (ora in Liriche e saggi, cit., III, 1933, pp. 341-357); per alcuni precedenti culturali: C. De Lollis, Sul canzoniere di Chiaro Davanzati, in Suppl. Giorn. stor. d. letter. ital., I (1898); id., Dolce stil novo e "noel dig de nova maestria", in Studi medievali, I (1904) (ormai superato); V. Cian, I contatti letterari italo-provenzali e la prima rivoluzione poetica della letteratura italiana, Messina 1900; L. Azzolina, Il "dolce stil nuovo", Palermo 1903; K. Vossler, Die philosophischen Grundlagen zum "süssen neuen Stil", Heidelberg 1904; V. Rossi, Il "dolce stil nuovo", in Le opere minori di Dante, Firenze 1906 (ora nei suoi Scritti di critica letteraria, I, ivi 1930, pp. 19-90, con appendici); P. Savj-Lopez, Il dolce stil nuovo, in Trovatori e poeti, Palermo 1906; E. G. Parodi, Il "dolce stil nuovo", in Bull. d. Soc. dantesca, XIII (1906), poi in Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1921; G. Bertoni, Il dolce stil nuovo, in Studi medievali, II (1907); id., Elementi artistici della poesia del "dolce stil nuovo", in Poesie, leggende, ecc., 2ª ed., Modena 1927, pp. 119-143; id., il Duecento, 2ª ed., Milano 1930, pp. 246-67; id., Il "dolce stil nuovo" e la donna angelicata, in L'Italia letteraria, marzo 1932: id., Intorno alla poesia ital. delle origini, in Archivum Romanicum, XV (1932); A. G. H. Spiers, Dolce stil nuovo, in Publications of the Modern Language Assoc. of America, n. 5, XVIII (1910), pp. 657-675; E. Rho, Il dolce stil nuovo e G. Cavalcanti, Arezzo 1922: id., Discussioni metodologiche a proposito dello "Stil nuovo", in Nuova Italia, 1932; F. Pellegrini, La "Canzone d'amore", di G. Guinizelli, in Nuovi studi medievali, I (1923), pp. 119-137; L. Mascetta Caracci, La canzone "Al cor gentil" di G. Guinizelli, in Archiginnasio, XXVII (1932), pp. 216-232 e 344-359; F. Torraca, La canzone "Al cor gentil", in Atti R. Acc. di archeologia, ecc., di Napoli, XIII (1933-34); F. Montanari, La poesia del Guinizelli come esperimento di cultura, in Giorn. stor. d. letter. ital., LII (1934), pp. 241-253 (saggio astratto); N. Sapegno, Dolce stil novo, in La Cultura, IX (1930), pp. 331-341; id., Dal primo al secondo Guido, ibid., pp. 409-424; id., Il Trecento, Milano 1934, pp. 11-64; F. Figurelli, Il dolce stil novo, Napoli 1933: ma si veda l'esauriente recensione di M. Casella, in Studi danteschi, XVIII (1934), pp. 105-126 (dove è riferito per esteso il passo di Riccardo da S. Vittore). Per i commenti alla canzone Donna me prega del Cavalcanti: Rime di G. C., aggiuntovi un volgarizzamento antico del comento di Dino del Garbo, Firenze 1813; La canzone d'Amore e le Rime del Cavalcanti, a cura di Celso Cittadini (con "l'esposizione di Egidio Colonna"), Siena 1602; la stessa canzone con il commento di fra Paolo del Rosso, Firenze 1568; la stessa con la "sposizione" di Girolamo Frachetta, Venezia 1585. Per quanto riguarda la critica eterodossa di L. Valli (Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d'Amore", I, Roma 1928; II, ivi 1930), si cfr. B. Croce, in La Critica, settembre 1928; N. Sapegno, in Archivum Romanicum, XIII (1929), pp. 22-309; L. Azzolina, in Convivium, II (1930), pp. 801-31; G. Bertoni, in Giorn. stor. d. letter. italiana, XCI (1928), pp. 175-178.