STILICONE

Enciclopedia Italiana (1936)

STILICONE (Flavius Stilicho)

Alberto Gitti

Uomo politico e generale. Era figlio di un valoroso vandalo, che sotto l'imperatore Valente aveva comandato un corpo di cavalieri germanici. La madre era probabilmente romana: San Girolamo lo chiama infatti semibarbarus. Ci è ignoto l'anno della sua nascita, ma si può assegnare al più presto al 360.

Entrò molto giovane in un corpo scelto, probabilmente nei protectores, e vi fece regolare ma rapida carriera. Con Sporacio nel 383 si recò ambasciatore alla corte persiana: era il momento in cui Teodosio aveva bisogno di concludere la pace con la Persia per risolvere la questione gotica e per combattere l'usurpazione di Massimo in Gallia. Dalla sua missione St. uscì con molto onore, il che lo rafforzò sempre di più nel favore di cui godeva presso l'imperatore, che gli diede in moglie la propria nipote Serena. Da quest'epoca comincia ad avere una posizione preminente alla corte di Costantinopoli. Sin da ora fu probabilmente comandante della guardia imperiale (comes domesticorum). Al comando supremo deve essere giunto verso il 392, ma già prima di esser magister militum fu di fatto tra i più importanti generali del suo tempo. Si distinse specialmente nella guerra contro l'usurpatore Massimo (388) e nella campagna del 391-392 contro i Visigoti. Quando Teodosio, nel 394, mosse nuovamente verso l'Occidente a combattervi Arbogasto ed Eugenio, St. lo accompagnava e dopo la vittoria del Frigido venne con lui in Italia.

Quivi il 17 gennaio 395 moriva Teodosio in Milano e St. riceveva da lui la raccomandazione di tutelare i suoi figli e successori. Da questo momento l'ingegno e il valore di St., di tanto superiori non solo a quelli dei suoi pupilli, ma anche degli altri dignitarî suoi pari, sorretti dal consiglio e dall'opera di Serena, ne fanno l'arbitro quasi assoluto dell'Impero d'Occidente. Molto si è parlato dei lati negativi del suo carattere, soprattutto della doppiezza che si è creduto di scorgere nella sua politica, specialmente nei suoi rapporti con Alarico. È un fatto però che al suo lealismo verso la casa del gran Teodosio si deve forse se egli non afferrasse per sé o per i suoi discendenti il diadema.

La missione affidatagli da Teodosio fu da St. intesa nel senso che l'unità dell'impero non avrebbe dovuto rompersi, ma Arcadio e la sua corte erano signoreggiati da uomini, nemici acerrimi di St., che in lui avversavano non tanto il nemico personale, quanto il protettore dei barbari annidati nell'impero e barbaro esso stesso. È una reazione romana e senatoria scoppiata dopo la morte di Teodosio alla sua politica filogermanica. A questa corrente, che a poco a poco doveva farsi strada anche in Occidente, St. doveva finire per soccombere.

Il primo sintomo d'una tale condizione di cose si ebbe appunto nella profonda separazione tra i due governi dell'impero che si verificò dopo la morte di Teodosio. L'occasione fu data dalla grande rivolta dei Visigoti. Teodosio li aveva sistemati su di una zona confinaria lungo il Danubio, nelle provincie di Mesia e di Dacia; un gran numero poi serviva nelle armate imperiali qua e là disperso. Nel 395 tutte queste masse si concentrano nuovamente ed acclamano re Alarico che, già distintosi sotto Teodosio, pretende ora un alto comando nell'Impero. Contro di lui accorre St., oltre che per difender la Pannonia e l'Italia minacciate dagl'insorti, anche per la convinzione che le due parti dell'impero dovessero agire come per l'innanzi con unità di piani e di strategia. Ma a Costantinopoli si era ben lontani da una tal concezione. A Tessalonica, dove si era collocato sbarrando la strada ad Alarico, che sempre più si vedeva costretto a ripiegare verso mezzogiorno, gli giunse l'ordine di licenziare immediatamente le truppe dell'armata orientale e di ritirarsi oltre l'Illirico con le truppe dell'Occidente. Un simile ordine era l'affermazione da parte della corte di Bisanzio che si voleva la secessione dall'Occidente: St. non osò disobbedire, si affrettò ad eseguire l'ordine e si ritirò dall'Illirico (395). Non trascorsero però molti mesi che si dovette di nuovo ricorrere ai suoi servigi. Avendo infatti Alarico devastato orribilmente la Grecia ed essendo stato nel frattempo tolto di mezzo a Costantinopoli il più fiero nemico di St., Rufino, egli marciò col beneplacito dell'Oriente contro Alarico, che si trovava nel Peloponneso. Ma non essendo riuscito a schiacciarlo né ad impedire che i Visigoti si stabilissero in Epiro, cadde nuovamente in disgrazia e la rottura con l'Oriente fu ora completa e definitiva. Accusato di connivenza col visigoto, fu dichiarato a Bisanzio nemico pubblico e i suoi beni furono confiscati.

Da allora St. perse ogni ingerenza in Oriente, ma in compenso si dedicò con più energia all'Occidente, dove poté affermarsi con più fortuna. Il giovanetto Onorio, al quale nel 398 aveva dato in moglie la propria figliuola Maria, era completamente sotto l'influsso suo e di Serena. Il governo e l'amministrazione interna, a cui St. dedicò molte cure, tornano a suo onore. Curò il benessere del paese con il restauro di strade rovinate e di edifici cadenti. Represse le violenze e gli abusi di soldati, giudici ed esattori di tasse. Moderazione ed equilibrio, rispetto verso il senato, ancora in gran parte pagano, tolleranza verso i culti non cattolici e verso i pagani ispirano la sua politica religiosa. I pagani furono lasciati liberi di celebrare le loro feste, ad eccezione dei sacrifici, sempre proibiti, e si impedì l'invasione dei templi. Del resto egli fu quasi sempre impegnato in quelle guerre di gigantesca portata che si scatenarono negli anni che governò l'Occidente.

Ne apre la serie la rivolta di Gildone in Africa, che fu preoccupante per l'interruzione nei rifornimenti di granaglie (398). A questa seguirono le irruzioni dei Goti e d'altri barbari in Italia (invasioni di Alarico del 400, e di Radagaiso del 405), dei Vandali, degli Alani e di altri barbari nella Gallia (406-409), né mancarono le usurpazioni, principale quella di Costantino. St. vinse Alarico con lunghe e geniali manovre a Pollenza (6 aprile 402), schiacciò a Fiesole Radagasio (primavera del 405); ma l'immane sforzo per difendere il vecchio centro dell'impero indebolì questo sempre di più, lasciandone necessariamente sguernite le frontiere fuori d'Italia. Così la Britannia e la Gallia furono quasi totalmente abbandonate a sé stesse; la buona fede dei Franchi, guadagnati alla causa imperiale dalla diplomazia di St., difese in un primo momento la Gallia dai Vandali, che premevano minacciosi sull'alto Reno; ma poi, visti inutili i loro sforzi, si unirono anch'essi agl'invasori della Gallia, in cui si videro irrompere, oltre a loro e ai Vandali, Burgundî, Svevi ed Alani. Con tutto ciò St. non sembrò disperare e, mentre i suoi nemici gli muovevano le più gravi accuse e preparavano la sua rovina, egli meditava di servirsi di Alarico, al quale aveva sempre evitato di assestare un colpo mortale. Ma purtroppo l'opposizione stava ormai guadagnando l'imperatore stesso, ed era proprio forse con questo piano che St. scopriva maggiormente il fianco ai colpi degli avversarî, dato che il suo contegno di fronte ad Alarico non era stato mai incontestatamente approvato, e ora si gridava apertamente al tradimento. La posizione di St. si faceva perciò sempre più critica verso il 408, e varî elementi concorrevano alla sua rovina. Gli si rimproverava di aver provocato e reso insanabile il conflitto con l'Oriente; inoltre agli elementi più ortodossi poco piaceva la sua tiepidezza nelle questioni religiose. Era ancora l'odio da vario tempo accumulatosi contro i Germani e contro l'elemento militare. St. si difendeva sempre come meglio poteva. Morta l'imperatrice Maria, diede l'altra sua figlia Ermanzia in sposa ad Onorio, al figlio Eucherio fidanzò la giovane ed intelligente sorella di Onorio, Galla Placidia; morto Arcadio nel 408, aveva già ottenuto il consenso dell'imperatore per recarsi in persona a Costantinopoli a regolare la successione. Si diceva ora che egli mirasse a soppiantare i Teodosidi e a collocare sull'Oriente, cinto del diadema imperiale, il figlio Eucherio. Un giorno tra le truppe romane di stanza in Ticinum, sobillate dai suoi nemici, scoppiò una rivolta, durante la quale furono massacrati i dignitarî suoi amici o creature. Egli si trovava a Bologna: le truppe germaniche a lui fedeli avrebbero voluto marciare sugl'insorti, decisione che egli non volle prendere. Si ritirò invece a Ravenna. Anche qui rinunziò ad ogni resistenza e si rinchiuse in un asilo. Ne fu tratto con false assicurazioni, e dopo un processo sommario giustiziato (22 agosto 408).

Bibl.: Tra le opere generali sull'impero e sul tardo impero, v. specialmente: E. Stein, Geschichte des spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928, p. 346 segg.; più specialmente poi su St.: P. Schultz, De Stilichone iisque quae de eo agunt fontibus Claudiono imprimis et Zosimo, Diss., Königsberg 1864; A. Thierry, Trois ministres des fils de Théodose, Parigi 1865; R. Keller, Stilicho, Berlino 1884; Th. Mommsen, Ges. Schriften, IV, ivi 1906, p. 516 segg.; U. Costanzi, La rivolta di Pavia e la catastrofe di St., in Boll. della Soc. Pavese di st. pat., IV (1904), p. 482; A. Solari, La crisi dell'Impero Romano, III, Milano-Napoli 1935, p. 83 segg.

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