Storia delle donne: culture, mestieri, profili

Storia di Venezia (2002)

Storia delle donne: culture, mestieri, profili

Nadia Maria Filippini

Premessa

Nel considerare la storia delle donne del primo Novecento non si può non partire da quell’evento epocale che fu la prima guerra mondiale, assumendolo come punto di riferimento importante dal quale riguardare al dipanarsi dei successivi avvenimenti, non per dare rilievo, secondo una convenzione implicita, agli eventi bellici e alle loro cronologie (ampiamente messi in discussione dalle storiche), ma perché questo ha inciso profondamente sui rapporti sociali e di genere, sull’immaginario ed il simbolico collettivo. Gli storici hanno discusso a lungo sugli effetti che la guerra ha avuto nella vita degli uomini e delle donne come esseri sessuati, con tesi contrapposte. Una lettura del suo effetto emancipatorio sull’esperienza delle donne è stata seguita da più recenti interpretazioni tese a sottolineare, al contrario, i suoi risvolti conservatori, volti a distinguere ancora di più i ruoli sessuali, gerarchizzandoli e riproponendo gli archetipi dell’uomo-guerriero e della donna-madre, cui è affidata, oltre che la continuazione della vita, la cura e la salvezza materiale e spirituale(1). Qualcuno ha parlato in questo senso anche della prima guerra mondiale come di una «guerra maschile», contrapposta alla seconda, «guerra femminile», per quel diffuso coinvolgimento delle popolazioni civili nel conflitto(2).

Quel che è certo è che la massiccia partenza degli uomini per il fronte (tra i pianti o le più rare condivisioni delle madri) provocò o accelerò importanti mutamenti nella vita delle donne, spingendo molte di loro per la prima volta oltre la soglia di casa, nei settori produttivi non solo tradizionalmente femminili (nelle fabbriche, negli uffici, nei trasporti), chiamandole ad un ruolo e ad una responsabilità direttiva e organizzativa, in precedenza sempre mediata(3). Molte anche partirono per il fronte, con i «fratelli» soldati, condividendo per la prima volta, come crocerossine, il rischio dei bombardamenti, il disagio degli ospedali militari, l’orrore delle ferite e della morte.

Era tutto ciò il segnale di una nuova epoca di parità o l’estrema manifestazione di una dicotomica divisione dei ruoli di derivazione ottocentesca? Di certo fu questo l’aspetto enfatizzato nelle manifestazioni ufficiali, con la simbologia della madre dell’eroe riproposta nelle statue e nei discorsi, con l’enfasi della consegna delle medaglie per il figlio deceduto, con le cerimonie di ringraziamento degli eroi difensori da parte della popolazione femminile, con la creazione delle associazioni delle madri dei caduti. Più difficile dire cosa passò invece nella coscienza, a livello di identità, di rappresentazione, quale bagaglio di immagini e di consapevolezza le donne si riportarono a casa. Furono probabilmente differenti e molteplici, come diverso e disomogeneo appare l’universo femminile, solcato da divisioni assai più profonde di quelle del passato, con una spaccatura che divide anche il movimento delle donne, non sulla questione del suffragio, ma su un tema ancor più cruciale da un punto di vista simbolico come quello della guerra, a smentire un’estraneità femminile al conflitto, un pacifismo largamente presentato come componente intrinseca della femminilità. È a partire da questa frattura che molte femministe (anche tra le più impegnate) inizieranno quel percorso che le porterà a diventare militanti fasciste. Il che mostra questo periodo tutt’altro che parentesi estranea o incidentale nella storia delle donne, come sostenuto da alcune letture storiografiche, ma del tutto a questa interno, permeato di esperienze e percorsi femminili.

La firma dei trattati di pace coincide non casualmente con un’importante riforma legislativa, che «proclamava l’uguaglianza completa della donna all’uomo nell’ammissione all’esercizio di tutte le professioni e di tutti gli impieghi pubblici», cancellando l’arcaica norma sull’incapacità giuridica («imbecillitas sexus») cui s’intrecciava l’autorizzazione maritale(4). Una ratifica che appare, più che come un esito delle lotte di emancipazione del secondo Ottocento, come l’implicito ed inevitabile riconoscimento del ruolo svolto dalle donne durante il conflitto.

Nonostante ciò, anzi in aperta contraddizione, il ritorno dei reduci significò allontanamento delle donne dalla produzione, almeno a livello di aspettative maschili diffuse; molto meno nella realtà dei fatti e con aperti conflitti, se è vero che a detta, più che degli storici, dei protagonisti del tempo, quegli anni aprirono una vera «lotta economica tra i sessi», la prima a memoria d’uomo così esplicitamente dichiarata(5). Ma anche qui i distinguo sono quanto mai opportuni: quali donne, di quali classi sociali? Non certo le proletarie, per le quali il lavoro di fabbrica era per così dire ‘legittimato’, oltre che dal bisogno familiare, dalle leggi ancor più ferree del capitale. Per loro l’occupazione extradomestica continua come prima della guerra e con lo stesso divario nei salari, gli stessi meccanismi di sfruttamento. Le condizioni di vita delle donne delle classi popolari nell’immediato dopoguerra non appaiono molto diverse da quelle di fine Ottocento; ma anche in questo caso forse occorre guardare più in profondità: distinguere tra ritmi e organizzazione familiare e aspettative, modelli e forme di identità. Ciò che apparentemente sembra uguale può risultare allora diverso. Non si spiegherebbe altrimenti l’antifascismo crescente tra le donne delle classi popolari, l’identità di classe, germogli certo della propaganda socialista dei primi anni del secolo, ma alimentati dal nuovo immaginario della rivoluzione russa, dal mito quasi tangibile di una società ‘giusta’ di uomini e donne, resi uguali dal lavoro. Come non si spiegherebbero peraltro certe aspettative di promozione sociale, abilmente canalizzate dal fascismo nella direzione di un modello familiare piccoloborghese alla portata di tutti (la casetta con la sua piccola ‘regina’) o nei riti apparentemente egualitari della società militarizzata.

Di certo tutto ciò segnalava la necessità e l’urgenza di una ridefinizione dei ruoli sessuali, comunque alterati dalla guerra, che il fascismo colse ed alla quale cercò di rispondere in maniera meno grezza di quanto è stato a lungo descritto, con un abile equilibrio di promozione di singole donne e di riproposizione di modelli tradizionali, di appello alla mobilitazione e di gerarchizzazione di ruoli, di valorizzazione pubblica e di enfatizzazione della maternità, con un lavoro di mediazione sociale affidato in primo luogo alle donne(6).

Questi aspetti molteplici, complessi e contraddittori della storia delle donne risaltano con particolare evidenza in una realtà come quella veneziana, che appare nel panorama nazionale del primo Novecento come un contesto periferico, ma tutt’altro che decentrato da un punto di vista politico, assunto anzi a nuova crucialità culturale e simbolica(7). Con il fronte alle spalle e il confine ad oriente, Venezia è una delle città che vive più intensamente il dramma della guerra; è la città di D’Annunzio, dove l’irredentismo attecchisce, alimentando un seguito non irrisorio di presenze femminili; è la città dove si creano e si diffondono modelli femminili sia canonici che trasgressivi, palcoscenico di differenti realtà e rappresentazioni dell’essere donna; è la città dove i contrasti tra le classi sociali risultano più visibili per le particolari condizioni di vicinanza e contiguità che la connotazione urbana impone; dove gli aspetti della modernizzazione si intrecciano più profondamente con quelli della tradizione, anche sul versante femminile; dove le differenze e le contraddizioni si mostrano con stridente evidenza. Non è un caso che qui nascano alcune delle dirigenti fasciste più importanti d’Italia (Margherita Sarfatti, Elisa Majer Rizzioli, Maria Pezzè Pascolato), che qui vengano sperimentate alcune istituzioni educative e assistenziali d’avanguardia, che i salotti rivivano la loro ultima stagione, ma che prenda il via anche uno dei movimenti socialisti femminili più importanti del Veneto, che arriva ad esprimere nell’immediato dopoguerra una propria rappresentante nella giunta comunale.

Le donne del ‘popolo’

La figura tipica della donna del popolo veneziana nel primo Novecento è ancora lei: l’infilatrice di perle (l’impiraressa) ritratta in tante stampe e incisioni, fissata dall’obiettivo dei fotografi, immortalata nelle cartoline postali vendute ai turisti, decantata nelle canzoni e nelle poesie («semo tute impiraresse») per la natura focosa e la bellezza, assimilata, in un gioco di facili metafore, allo splendore del materiale di lavoro (le scintillanti conterie), alla magia della città, essa stessa, al femminile, più bella tra tutte, di una bellezza nobile e immortale: «Eccola eretta, la popolana: in armonioso stile […] vera nobiltà di sangue è la sua e dalle gote stesse e dagli occhi, oltre che dal movimento della persona vi traspare […] la veneziana bella è universale di bellezza fisica e psichica»(8). Un mito, quello della bellezza delle veneziane, alimentato dalle storie raccontate nei crocicchi, trasmesse di madre in figlia, del re che si innamora di una popolana di Castello o del duce che conta tra le veneziane più di un’amante o più semplicemente del nobile che s’innamora del canto di una fanciulla e se la sposa(9).

Nessun’altra figura come quella dell’impiraressa ha nell’immaginario collettivo un così forte radicamento, una continuità così persistente da arrivare quasi intatta agli anni Sessanta. A contribuire alla sua pregnanza simbolica, alcuni elementi analizzati dagli studi recenti: la grande diffusione del lavoro nei sestieri popolari della città, la sua permanenza nella vita quotidiana delle donne e nella biografia femminile, la sua visibilità esposta agli sguardi dei turisti e dei visitatori, la sua peculiarità di mestiere unicamente veneziano, legato alla lunga tradizione dell’antica arte del vetro(10).

Impiraresse sono nel primo Novecento soprattutto le donne di Castello, di Cannaregio, della Giudecca, i quartieri popolari più immediatamente collegati con Murano dove si fabbricano le conterie. Non c’è famiglia che non conti al suo interno una donna esperta nel mestiere, come non c’è calle o campo in cui non si notino al passaggio donne sedute con la sessola («a Castello tute fora dalla porta le giera che lavorava le perle»)(11). Impiraresse si è fin da bambine e ancora da vecchie, a «consumarsi gli occhi» sulle perle fini che richiedono di esser infilate in mazzi, a garanzia del prodotto, prima di prendere la via dell’esportazione verso i paesi dell’Africa e dell’Oriente per finire nelle mani di altre donne(12).

Chiusa la parentesi della guerra, è dunque innanzitutto il ricomparire delle impiraresse nelle calli a segnare a Venezia il ritorno alla normalità, la ripresa delle attività produttive; una ‘normalità’ che presenta aspetti di profonda continuità con gli ultimi decenni dell’Ottocento. A scorrere le statistiche ed i resoconti economici degli anni Venti si ha l’impressione che «ripresa» significhi appunto, anche nelle aspettative sociali, ritorno ai livelli di produzione e di lavoro dei primi anni del secolo.

Così nel resoconto economico steso dalla Camera di commercio nel 1926 si ripete, come nella relazione di Luigi Sormani Moretti del 1881(13), che l’attività è molto diffusa, anche se difficilmente quantificabile. La cifra approssimativa calcolata è di circa 24.000 addetti, quasi il doppio di quella indicata a fine secolo, perché la produzione conosce, proprio negli anni del dopoguerra, «un nuovo rilevante sviluppo, in seguito alla vivissima richiesta di prodotti ed all’introduzione di nuovi articoli di gusto migliore e talvolta più pratico»(14).

La moda degli anni Venti, con le sue frange e decorazioni, alimenta un’intensa produzione di perline per abat-jour, per vestiti ed arredi, per corone di fiori, borsette, collari, bottoni, ecc., tanto che il lavoro delle perle si moltiplica in una gamma quanto mai varia di produzioni di piccole imprese artigianali o addirittura familiari, che sfuggono ad ogni controllo o quantificazione:

A Murano, oltre ad una trentina di laboratori, vi sono otto importanti fabbriche di conterie che nel 1924 si calcola abbiano avuto una produzione di oltre 3 milioni e mezzo di Kg. […]. Parte della materia prima, in perle e canna, viene adoperata in una speciale industria casalinga o in piccole industrie di genere svariato (infilatura delle perle, confezioni di piccoli oggetti decorativi, borsette, fiori, braccialetti, ecc.). Una sola ditta che occupa oltre 1200 operai interni dà lavoro anche a 2500-3000 operai esterni(15).

Anche la produzione tradizionale del merletto, organizzata su scala industriale negli anni Ottanta dell’Ottocento con la creazione della scuola di Burano e la nascita della ditta Jesurum a Venezia, ha un momento di importante crescita a metà degli anni Venti, gonfiata dalla particolare affluenza dei pellegrini per l’anno santo (1925), che il regime cerca di sostenere anche negli anni successivi all’interno della politica di incentivazione delle manifatture tradizionali(16). L’attività risulta «largamente sviluppata in tutta la provincia» e di «grandissima importanza». Anche in questo caso nella relazione della Camera di commercio si osserva che:

La lavorazione in gran parte si fa a domicilio, per conto di ditte veneziane ed americane e si ritiene che in tempi normali possano essere impiegate in quest’industria fino a 20.000 persone [...]. Anche il computo della mano d’opera impiegata in quest’industria è difficilissimo perché, come abbiamo detto, l’enorme maggioranza delle merlettaie lavora a domicilio (cottimiste) ed il loro numero è continuamente oscillante(17).

Sul fronte delle grandi fabbriche a manodopera femminile, dopo la fase di ricostruzione e superata la grave crisi del 1921, si ritorna ad una produzione «normale e regolare», termini che alludono in maniera evidente quanto implicita, come detto, ad un confronto alla distanza con la produzione del periodo prebellico.

La Manifattura Tabacchi nel 1925 dà lavoro a 1.341 operai, in larghissima maggioranza donne (gli uomini sono solo 169 di cui 29 «minorati di guerra», come sottolinea la relazione; erano 1.200 nel 1901). Anche nella fabbrica di fiammiferi Baschiera (circa 800 addetti agli inizi del secolo) il lavoro ritorna «regolare». In calo risultano invece la produzione e l’impiego nelle Cererie e nel Cotonificio Veneziano, entrambi distrutti da un bombardamento nel 1916: assommano a 1.000 gli operai impiegati nei tre cotonifici della provincia; cifra toccata nel 1901 solo da quello di Venezia, riservato alla tessitura. In crescita per contro l’occupazione nelle industrie della Giudecca; la Jung;hans si afferma come la «seconda fabbrica d’Italia» nella produzione degli orologi, che raggiunge il ciclo completo, con una crescita dell’occupazione notevole: circa 500 operai (per metà donne) nel 1925, contro i 300 del 1911(18). Attive anche la fabbrica di tappeti Casimiro Gaggio e la fabbrica di maglierie Herion (180 operaie)(19). Quanto al Mulino Stucky, si avvia ad essere uno «tra i maggiori, se non il maggiore d’Italia […] e tra i migliori anche in confronto alle altre nazioni», con un’occupazione di 160 operai nel 1925, che risulta più che raddoppiata a distanza di soli cinque anni (581 addetti nel 1935, di cui 357 operai e 113 operaie)(20). Secondo la politica di riorganizzazione urbana e produttiva la Giudecca diventa uno dei poli più importanti della produzione industriale: alla fine degli anni Venti, viene anche aperta una grande filanda (500 operaie), impostata secondo i più aggiornati criteri, con maestre fatte venire espressamente da fabbriche dell’entroterra veneto. La sua fondazione corrisponde al progetto economico di un rilancio della produzione della seta su scala nazionale (la «battaglia della seta») condotto anche a livello familiare, nei piccoli centri della campagna veneta. Per questo la fabbrica diventa un po’ il fiore all’occhiello della nuova produzione industriale, inserita nei percorsi delle visite ufficiali. L’imperatore del Kaffa, piccolo regno sul golfo di Aden (tale Angelo Vianello, originario di Castello), racconta di esservi stato condotto e di esserne rimasto «letteralmente ammirato»(21).

Tra le nuove fabbriche anche l’industria del cuoio artistico, che vanta in città «uno stabilimento che è tra i primi del genere in Italia dove viene completato tutto il ciclo della lavorazione del cuoio, dalla rifinitura e tintoria della pelle greggia al finimento degli oggetti vari»(22). Intorno a questi grandi poli industriali appare completamente rifiorita la diffusa rete delle piccole industrie, che sul versante femminile annovera gli scialli, i mosaici, le stoffe artistiche e soprattutto le sartorie, rinvigorite prima dalle manifestazioni mondane, poi dalle sanzioni e dalla moda autarchica, che chiude la strada degli ateliers di Parigi e dirotta le richieste sui sarti nazionali(23). Una rete difficilmente penetrabile, come osserva l’Istituto per il lavoro per le piccole industrie, di sartine, pellicciaie, ricamatrici, tessitrici, ecc. ruota intorno al settore moda(24).

L’occupazione femminile nelle industrie risulta dunque analoga a quella del periodo prebellico, con una sostanziale continuità nella connotazione della manodopera. Questo significa che l’espulsione delle donne dalla produzione, oggetto di una massiccia campagna anche locale alla fine della guerra, non sfiora questi settori, ‘protetti’ da forti interessi capitalistici. Anche la fascista Maria Pezzè Pascolato intervenendo sulla questione sottolinea che la proposta (della sostituzione della manodopera maschile a quella femminile) «non è così semplice» da attuare, specie nelle industrie, chiedendosi «se gli stipendi che bastano a certe signorine basterebbero poi ad un capo-famiglia […] e se il datore di lavoro vorrebbe poi o potrebbe fissare uno stipendio maggiore»(25).

Lo sfruttamento economico è tangibile nei racconti delle operaie, con i salari che risultano ancora regolati dal cottimo, falcidiati dalle multe, colpiti dalle disfunzioni delle macchine, oltre che dalle periodiche flessioni di commesse (staje), così frequenti proprio nei settori portanti delle conterie.

In cotonificio lavoravimo anca 11 ore al giorno, in piedi dala matina ala sera, che i primi giorni che lavorava ’ndava a casa pianzendo; disevo: ‘giero stanca morta no ghe xe gnanca ’na carega da sentarse’. […] gavevimo ’na vestaglieta blu co le maniche corte sempre, inverno e istà e un fassoletto in testa, ma in alto gavevimo dei tubi de fero co’ busi, li ciamava i ozeleti, come che li bagna adeso le piante, me vegniva tutto in copa, in testa, sta umidità… De inverno de le volte ’ndavimo ala matina e i ne mandava indrio perché le machine giera tutte de fero e no andava le cinghie, parchè l’ogio giera ingelà […] i ne dava mezz’ora da far merenda, se portavimo ’na borsetta, un toco de pan e se sentavimo ’na mezz’ora par tera, puzai su le machine […]. Co’ vegniva l’ingegner ne vardava i gropi. Se i giera massa longhi ne dava la multa […] come che gierimo ciapae (26)!

Il decollo del settore turistico, accentuato dalla diffusione della moda balneare, con la spiaggia del Lido prima per importanza in Italia, alimenta negli anni Venti un’attività commerciale ed un’industria alberghiera che si avvale di una manodopera femminile diversificata e ramificata anche a domicilio(27). Accanto alle tradizionali figure delle venditrici ambulanti (le fioraie, le venditrici di limoni, di uova, di latte, ecc.)(28), è una folla di serve, cameriere, stiratrici, lavandaie quella che riceve lavoro (quanto mai saltuario) dai grandi alberghi, dalle piccole locande, dai ristoranti. Donne di famiglia che si portano a casa il bucato da lavare o da stirare (far masteo è uno dei mestieri più pesanti), o ragazze che si impiegano stagionalmente come personale interno. Queste serve e cameriere, «in grande maggioranza giovanette dai 15 ai 20 anni», vengono in larga parte dalla campagna e la loro affluenza diventa così consistente da porre un problema pubblico di tutela. Nel febbraio del 1930 il segretario alla moralità sottoscrive un accordo con l’Istituto cattolico Ciliota per la loro accoglienza e ospitalità nei giorni festivi, con l’intento di sottrarle alle insidie della città e a «quelle distrazioni meno conferenti alla loro primitiva semplicità dei costumi appresa nella loro educazione familiare»(29).

La vita delle donne del popolo si dipana dunque in una vasta gamma di occupazioni ed impieghi, mestieri attentamente pianificati lungo l’arco della giornata, come in quello della vita, a trarre il massimo vantaggio da un mercato del lavoro che continua ad essere instabile, come ammette la pur ottimistica relazione di Ugo Trevisanato del 1924, in cui anche l’attività industriale, oltre che quella alberghiera, è in balia delle mode, degli equilibri internazionali, dell’andamento dell’economia delle colonie(30).

Precise strategie familiari definiscono l’attività dei membri in una società in cui la famiglia continua a funzionare ancora come unità di produzione ed in cui sono le madri a dover assicurare il livello minimo di sussistenza, come d’altro canto i margini minimi di guadagno(31). Sono in genere le ragazze che vengono impiegate nelle industrie o nei laboratori fuori casa, secondo una tendenza che il varo delle leggi a protezione della maternità, a partire dagli anni Dieci, accentua, come osserva Maria Vittoria Ballestrero, prima ancora che il fascismo radicalizzi la tendenza con la campagna di condanna morale della madre-operaia e con le leggi di espulsione delle donne da alcuni settori professionali(32).

Una volta sposate le donne in genere si licenziano, assumono uno o più lavori a domicilio, spesso dalla stessa fabbrica che le ha impiegate prima, alternandoli alle cure della casa e all’educazione dei figli, in cambio di un salario più basso e più precario. Unica eccezione le operaie dei Tabacchi, che continuano a presentare una percentuale di sposate superiore alle altre fabbriche, sicuramente in virtù dei salari più alti e delle migliori condizioni di lavoro garantite della fabbrica statale(33). Ai bambini ed ai vecchi è lasciata la mansione di sorveglianza, di apprendistato, di una collaborazione che si esplica in una serie di varie attività. La raccolta del ferro (come di altri materiali riutilizzabili), prima di diventare attività patriottica, «dono alla patria» premiato con tanto di foto sul «Gazzettino dei Ragazzi»(34), è un’occupazione peculiare dei bambini, in città come in campagna. Così la cura dell’orto e degli animali, che ancora numerosi popolano non solo le isole, ma i cortili di Venezia («se gaveva comprà le galine parchè se rancurava li schei dei vovi», racconta una testimone di Cannaregio(35)).

Ma le bambine ed i bambini collaborano anche al lavoro delle perle, imparando ad infilare le più grosse e le piccole conchiglie utilizzate per collane e borsette (i bovoleti) ed occupandosi del trasporto delle perline sfuse e dei mazzi («noialtre soto que mureta in primavera e d’istà, de sera e de mesogiorno fesevimo le borsettine de bovoletti, piturai in celeste e rosa, fasevimo le cinture e le colane»(36)).

È così l’alternarsi dei lavori a segnare le tappe dell’esistenza, a tal punto che perfino il racconto autobiografico si snoda lungo il Leitmotiv dei mestieri fatti, caratterizzando la rappresentazione autobiografica di queste donne ed evidenziando i modelli a questa sottesi.

La me vita… go comincià da diese ani a far sto lavoro dele perle, dieci anni […] dopo xe venia la guera, so ’ndada in fabrica, se lavorava, no se lavorava; andava a far mastei, fava la lavandaia. Dopo me ghò sposà, so’ mama de siè fioi [...] ghò avuo anca tanto bisogno e dise el proverbio: ‘El bisogno lo fa far’... e lavorava anca de note. Le paghe le giera misere; tanta disocupassion, tanti fioi... ghò sempre lavorà(37).

Il «saper fare di tutto» è la caratteristica fondamentale della brava donna del popolo, che assomma ad una competenza professionale specifica la capacità (e la disponibilità) di svolgere mansioni e attività molto differenti («mi gò fato tuti i mestieri, tuti fora de queo bruto»(38), «me mama no se sa quanti mestieri gà fato»), caratteristica che rende la manodopera femminile più adatta ad un mercato del lavoro come quello veneziano, proprio in virtù della sua flessibilità e mobilità. Sono così proprio le donne a garantire il livello minimo di sopravvivenza della famiglia nelle fasi di disoccupazione maschile, soprattutto nelle sacche di sottoproletariato.

Un altro elemento di continuità con il passato è dato dalla vita comunitaria, in una società in cui non solo le reti parentali, ma quelle di vicinato sono molto strette e compongono un tessuto quanto mai vivo: la distinzione tra pubblico e privato è fluttuante, segnata dai confini della calle o della corte più che dalle porte delle singole abitazioni. Lo spazio adiacente alla casa non è che un prolungamento della stessa, come quello interno curato, arredato, vissuto e difeso. In calle e nel campo (forse più ancora che negli interni bui e umidi e precari) si lavora, ci si riposa, ci si raccoglie in gruppo, si gioca, si vive. Una tendenza accentuata probabilmente anche dalle cattive condizioni delle case, con i pianterreni umidi e bui ancora sovraffollati, con i magazzini abitati, con il degrado di ambienti malsani ancora privi di acqua potabile, con le drammatiche condizioni messe in luce dall’inchiesta della Camera del lavoro del 1903 e da quella comunale del 1909(39).

La vita comunitaria risulta ambivalentemente sospesa tra la conflittualità e la solidarietà. Come nelle commedie di Goldoni, in questo mondo si sa tutto di tutti, si baruffa spesso e platealmente, ma altrettanto frequentemente ci si aiuta, specie nei momenti salienti delle malattie, della morte o della nascita, in un’epoca in cui il parto si svolge ancora essenzialmente a domicilio(40). La vicina di casa può essere all’occorrenza infermiera, balia, maestra di lavoro. Quelle con i figli cresciuti, più libere ed intraprendenti, spesso «si ingegnano»: aprono piccoli laboratori di mestiere o trasformano le case in piccoli asili privati. Le «scolette» (asili tenuti per lo più da donne anziane), assai diffuse nell’Ottocento, rappresentano una realtà ancora viva nel primo Novecento:

Una certa Belina custodiva una mezza dozzina d’infanti per alcune ore al giorno […] in quel piccolo locale umido che dava nel campiello c’era addossata al muro una bassa panchina, con sotto alcuni vasetti di terracotta o di ferro smaltato. Naturalmente la Belina non faceva questo per filantropia, ma solo, e ne aveva bisogno, per realizzare mensilmente qualche lira(41).

Dalla rete di rapporti paritari che caratterizzano il vicinato, emergono alcune figure femminili che gestiscono, in maniera più o meno evidente, piccole forme di potere e di privilegio nel quartiere: la levatrice, la mistra (intermediaria tra le fabbriche e le impiraresse) e la tenutaria della cassa peota, una forma di risparmio peculiare della realtà veneziana, che consolidava appartenenze di mestiere, di residenza e di genere(42).

In questo mondo così ancorato alle tradizioni nei ritmi e nelle attività quotidiane serpeggiano modelli di modernizzazione che traspaiono qua e là nei racconti delle testimoni: fermenti, aspirazioni, inquietudini, nuove immagini femminili veicolate dal confronto alla distanza con le signore, «servite» nei palazzi o incrociate nei percorsi urbani, o dalle riviste femminili diffuse anche tra il proletariato(43). È il fascino della moda, l’aspirazione all’eleganza, la volontà di apparire ben vestite e curate (perfino quando si va a lavorare), il piacere del ballo, un desiderio di mobilità e di libertà che le madri faticano a contenere: «andavimo a balar su le case qua darente coi fioi de la nostra età... col gramofono, coi dischi. Mi più che altro giero bona col ciarleston… me papà me sigava, mi cussì picola in mezo a ’sti tosi a balar ciarleston»(44).

«Una volta so’ andada al Lido co le amighe, gavevo 14 ani e gò rancurà ste margherite e le gò portae a mia mama tuta contenta. ‘Chi xe che te le gà dae?’ ‘No mama, so’ andada al Lido con la Lisa, con quela, co staltra’. ‘Al Lido?’ Ghe ne gò ciapae tante, ma tante che gò dito basta, al Lido basta!»(45).

La diffusione della macchina da cucire diventa in questo contesto non solo uno strumento di guadagno o di risparmio, ma un’occasione appunto di modernizzazione e di promozione sociale. Con due stracci si vestono i figli, si fanno i vestiti alla moda, si trasforma la propria apparenza. Le sartine, con le loro riviste e cartamodelli, diventano il punto di riferimento tra le giovani di gusti e tendenze non solo esteriori. «Gavevo, me ricordo, un vestito che m’aveva fato ’na cugnada, el giera bianco a fiorellini, el corpeto streto, streto e 3 balze cussì, tre volani filetai de bianco…»(46). «I ne ciamava le modernissime»(47).

Si tratta di aspirazioni che il fascismo tenta di incanalare e, suo malgrado, diffonde con i laboratori di cucito, con i corsi di economia domestica, con l’enfatizzazione dello sport, con le gite del Dopolavoro, opportunità unica nella vita di queste ragazze di allontanamento dalla famiglia e di confronto con altri ambienti. È il mito della casetta piccola, ma lustra, del balcone in fiore, dei figli puliti e ben vestiti, della brava massaia, preparata e formata, che risparmia e lavora, senza mai allontanarsi dal suo «focolare» («giera l’ambission dele muranesi de star a casa quando che le se sposava»)(48), insomma di una famiglia proletaria organizzata secondo il modello borghese, miraggio di una promozione sociale alla portata di tutti, alimentata dalle iniziative del Fascio femminile, dalle premiazioni pubbliche dei migliori lavori di artigianato, delle massaie ideali, delle spose povere ma «illibate» nella «festa delle Marie»(49).

Mito o sogno destinato a scontrarsi con la grave crisi degli anni Trenta quando la depressione internazionale prima, e le sanzioni poi, mettono in ginocchio un’economia ed una produzione industriale dipendenti dall’esportazione. La mancanza di commesse si traduce in disoccupazione anche nei settori di manodopera femminile, dalle perle al merletto, in fabbrica come a casa. Viene meno così quel «contributo minimo», «indispensabile» al fabbisogno familiare, come scrive al podestà un’impiraressa di Castello a nome di 4.000 donne, in una petizione volta a chiedere con toni strazianti non aumenti salariali, come in altri periodi, ma solamente lavoro:

Ci accontentiamo almeno di quel poco che si aveva ultimamente, ma del tutto lasciarci prive [...] con poco si può far qualcosa, ma niente, proprio niente ci toglie la forza della vita, che non si farebbe caso se si fosse sole, ma i figli, l’innocenti da sfamare […] questo è il guaio, questo è il tormento nostro! L’affanno che ci dilania e ci opprime(50).

Negli anni Trenta anche nelle grandi fabbriche i licenziamenti si fanno consistenti: nel gennaio del 1930 la Baschiera licenzia 162 operaie; nel giugno dello stesso anno il Cotonificio sospende 245 donne. Nel marzo 1931 sempre al Cotonificio sono licenziate 282 operaie (saranno ridotte dei due terzi negli anni Quaranta), mentre la cifra dei disoccupati raggiunge le 13.117 unità nella sola città di Venezia(51).

Comincia allora per le donne la guera, combattuta sul fronte interno della sopravvivenza, della lotta contro la fame e il freddo, rievocata con i termini di un combattimento quotidiano («’na lota, ’na vita de lota»(52)) alla ricerca di qualsiasi espediente per mettere insieme il pranzo con la cena.

Miseria giera… fame, tanta fame… vegniva casa mia mama che giera a servissio da ’na contessa a S. Elena co’ dele patate americane e le meteva suso e ne dava un piato paromo de ste patate. E mio moroso diseva: ‘Ma i ga pena magnà e i magna tute ste patate?’. Ma mama che se vergognava ghe diseva: ‘Parchè i xe mati par le patate’. Invece giera el nostro magnar, che gierimo in miseria poareti, tanto… Gavevo un par de scarpe che mia mama me impegnava al luni e ’ndava a tormele al sabo… E no gavevo gnente da metarme adoso… ’na sera me lavo la blusa de fustagno rosso e la cotola nera e la meto fora su la tagia e la note vien su un temporal, ’na piova che la matina fasso par tirarme dentro la roba e la xe bagnada. E alora me mama la ga messo ’na carega sul fogher che sta blusa e sta cotola le se sugasse, ma gnente(53)!

Né bastano le opere di carità e gli interventi (peraltro attivi) delle visitatrici fasciste, che raggiungono nel 1931 la significativa cifra di 3.200 visite domiciliari(54), né le cucine popolari o i sussidi di carità, distribuiti d’altronde, come sottolinea la stessa testimonianza, in maniera mirata, come premi di fedeltà politica.

Riemergono allora le manifestazioni e le proteste pubbliche. Il 3 febbraio del 1931 a Burano 50 merlettaie disoccupate manifestano in occasione della visita del conte Marcello. In aprile c’è una grande manifestazione di operaie del Cotonificio: in un centinaio si recano davanti agli uffici dei sindacati fascisti, a S. Stefano, a chiedere lavoro.In autunno analoghe manifestazioni coinvolgono Murano, dove un gruppo di donne occupa gli uffici del Comune(55). Si tratta di evidenti segnali di un montare delle agitazioni e del malcontento che tocca anche la piccola borghesia, dove il fascismo raccoglie più consensi. Una lettera anonima del gennaio 1936 inviata al prefetto e firmata «cittadini veneziani», denuncia i «troppi pesi che a [sic] il popolo di Venezia per sopportare oltre lo sfruttamento degli stipendi» e fa presente che questi «appena bastano per un solo pasto in molte famiglie d’impiegati», sottolineando che a lagnarsi è «chi tace e soffre anche volentieri per la patria e per Colui, mandato da Dio per soccorrere i destini dell’Italia da lui rinnovata»(56).

Si fanno allora più intensi il controllo e la repressione, con l’espulsione dalle fabbriche degli elementi più ribelli, con le intimidazioni, le minacce e gli interventi della polizia. Per quanto pacifiche le manifestazioni di piazza sono sciolte dalla polizia, che non esita a ricorrere all’uso della forza, arrestando ed identificando le manifestanti.

La sorveglianza si fa capillare e mira a reprimere ogni possibile sospetto antifascista. Può così capitare che anche una canzone come Le disgrazie di un disoccupato diventi «corpo del reato». Le ragazze Alice Torcellan e Luigia Tagliapetra, operaie disoccupate del Cotonificio sorprese a leggerne il testo presso l’Ufficio di collocamento, il 20 aprile 1934, vengono arrestate, condotte in questura e gli autori condannati come responsabili di vilipendio e di agitazione con l’accusa di aver voluto «far rilevare l’impotenza dell’Ufficio di collocamento a dar lavoro agli operai, diminuire il prestigio di questo, eccitare i disoccupati col riferire episodi quali conseguenze della disoccupazione e ciò evidentemente per provocare incidenti»(57).

Reato grave questo, in un momento in cui le lunghe e umilianti code alle cucine popolari segnalano la sconfitta del mito autarchico del nazionalsocialismo.

Le signore dei salotti

C’è una figura femminile che domina incontrastata la scena pubblica veneziana del primo Novecento, centro indiscusso, nelle testimonianze dei contemporanei come nelle memorie dei posteri, di ogni evento culturale, mondano, artistico che interessi la città: è Annina Morosini, discendente da una famiglia di nobiltà dogale, «la parona», come la chiama Maria Damerini, usando un epiteto che era proprio delle grandi dame del Settecento, come Caterina Dolfin Tron(58); «la dogaressa», come la definisce Alvise Zorzi, primadonna «incontrastata» della Venezia «ritrovata» degli anni Venti e Trenta del Novecento(59). Non c’è personaggio pubblico, uomo di cultura, ambasciatore o principe che venendo in visita a Venezia non si rechi a renderle omaggio e non c’è evento di una certa rilevanza che non la veda protagonista e che non sia accompagnato e sancito da un suo ricevimento. Essa «riceve» appunto gli ospiti illustri in visita a Venezia, come li «ricevono» le pubbliche autorità, in una specie di accoglienza ‘altra’, sicuramente diversa da quella ufficiale, ma non meno pubblica, né importante.

Nel 1912, ad esempio, il Kaiser Guglielmo II di Germania, «giunto in bacino di S. Marco con lo yacht imperiale ‘Hohenzollern’ si reca in lancia a 8 remi, accompagnato dal cancelliere dell’impero, principe Bülow, a rendere omaggio alla più bella tra le donne veneziane, la contessa Annina Morosini»(60). Rimane evidentemente colpito dal fascino, dalla bellezza dei suoi capelli rossi e dei suoi occhi verdi, e lo dimostra in maniera così evidente da diventare oggetto degli strali della «Norma» (alias Elia Musatti) sul «Secolo Nuovo»(61). Dalla sua casa passano dopo di lui, negli anni del dopoguerra, principi e regnanti d’ogni nazione: dal duca d’Aosta al duca di Genova, dai principi del Piemonte al re di Grecia, dal re di Romania al duca di Windsor.

D’Annunzio ha per lei «un’ammirazione sconfinata, una amicizia fedele, una cavalleresca devozione»(62). Durante il suo soggiorno a Venezia, negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, dalla Casetta Rossa si reca spesso a farle visita e quando ne è impossibilitato le invia fiori e regali; dal fronte le manda lettere affettuose («mia cara amica, le bacio le mani teneramente») e piccoli ricordi delle sue imprese, ma le spedisce anche in anteprima la copia del suo Notturno per averne un parere autorevole. Così Rilke, Sabatier, Pirandello, Joyce, Stravinskij, Proust e quanti altri artisti e letterati arrivano a Venezia, ridiventata meta di viaggi letterari e di eventi culturali.

Durante l’estate, negli anni Venti e Trenta, riceve all’aperto, ad ore fisse in un tavolino «molto onorevole» del Caffè Florian, a lei riservato come un palchetto della Fenice, a cui si avvicina con esitazione perfino una Olga Brunner Levi, ed al quale si fermano «almeno per un saluto, per un drink o caffè freddo» i signori e le signore che si recano alle spiagge del Lido, secondo la nuova moda del tempo che porta all’Excelsior, e alla sera nei saloni dello Chez-Vous, tutta la società bene, facendo delle «capanne» un secondo importante punto di aggregazione cittadina(63). Riceve tutte le settimane, a giorni fissi, e straordinariamente il suo salotto rimane sempre aperto nei giorni della Biennale d’arte, del cinema o del teatro, per ospitare gli artisti ed il seguito di critici e giornalisti che li accompagnano. Ricevimenti importanti segnano scadenze particolari del calendario, come il Capodanno.

È lei l’ultima vera salonnière di Venezia, testimonianza evidente della permanenza di una tradizione di lunga durata che, a differenza di altri contesti europei, arriva in città quasi intatta fino alla seconda guerra mondiale, scalfita appena dalla distinzione degli spazi pubblici e privati, evidenziata e rinvigorita piuttosto dal ruolo di centro culturale internazionale che Venezia torna a svolgere, dal fiorire delle grandi iniziative, che la ricollocano in primo piano sulla scena culturale, dal rilancio di un turismo di lusso e di cultura che negli anni Venti-Trenta conosce la sua più bella stagione, gli «ultimi anni del Leone». Come nel passato il salotto svolge la funzione, tutt’altro che secondaria, di selezionare e definire un’élite culturale, non meno rigorosa di quella di classe; di sanzionare un’appartenenza ed un riconoscimento sociali, che alimenta e produce l’opinione pubblica, come osserva Mariuccia Salvati(64). Maria Damerini ricorda l’emozione del primo invito fatto da Annina Morosini a lei, giovane sposa di Gino, ben consapevole del significato profondo del gesto. Come d’altra parte sottolinea con decisione che «Mussolini non era ricevuto», non perché fascista o borghese, ma perché non appartenente a questa oligarchia di sangue e di cultura, a differenza di Margherita Sarfatti Grassini, sempre presente ai ricevimenti nei giorni della Biennale(65). In questo senso le analogie con i salotti di fine Settecento risultano profonde: stesso stile interclassista, che mescolava un Foscolo ad un lord Byron; stessa magnificenza e grandezza; stesso intreccio di discussioni colte e di divertimenti(66). Se Stendhal nelle memorie dei suoi viaggi sottolineava la magnificenza dei salotti veneziani, tale da far impallidire quelli di Parigi, altrettanto sfarzosi risultano, nel primo Novecento, quelli di Paolina Giustinian o di Nerina Volpi, con centinaia di invitati e camerieri vestiti in costume, anche tripolino (appena un omaggio alla politica coloniale del fascismo).

I rituali appaiono molto simili: anche questi salotti sono aperti a giorni fissi, settimanali o mensili. Anche in questi si tengono concerti, si ascolta della buona musica, si discute d’arte e di cultura, si progettano iniziative culturali, si commentano libri; ma c’è spazio anche e soprattutto per il ballo («si ballava sempre e ovunque»(67)), secondo una nuova moda che dà a questi un tono di mondanità e festa meno presente in quelli dei secoli precedenti e che paradossalmente continua anche durante il periodo bellico(68). Piccole differenze connotano ogni salotto caratterizzandolo. Accanto ai più importanti di Annina Morosini e di Nerina Volpi, quello di Olga e Ugo Levi si distingue per la qualità della musica; quello di Pia Valmarana per la presenza di intellettuali; quello di Costanza Mocenigo per la grande allure; quello di Nana Mocenigo Rocca per la presenza di personalità del mondo ebraico. La mappatura che traccia Maria Damerini individua, accanto ai salotti di Elisabetta Widmann Rezzonico, di Marisa Marcello, anche quelli israeliti e quelli più «politici filofascisti» di Mina Brogliato Bentivoglio, dove si potevano incontrare personaggi come Ricci e Bottai(69). D’estate i salotti si trasferivano in campagna, non più sulle rive del Brenta, ma sulle colline di Asolo, rese famose da Eleonora Duse, dove intorno ad Anna Malipiero si raccoglieva una vera colonia di inglesi ed americani.

Il ruolo pubblico di queste salonnières continua dunque ad essere molto importante(70). Esse gestiscono un potere reale di mediazione, a livello cittadino, che ancora non è stato puntualmente analizzato: è attraverso di loro che la città ‘si apre’ alla presenza esterna ed è attraverso di loro che si entra in quel tessuto sociale di relazioni che compone la cittadinanza. Esse hanno un peso non secondario negli orientamenti culturali e nel processo di formazione dell’opinione pubblica, anche se ovviamente meno rilevante del passato, perché affiancato dai partiti e dalle associazioni pubbliche. Sostengono iniziative culturali (ma anche politiche), non esitando all’occorrenza ad esporsi pubblicamente. Nel 1919 la contessa Morosini, coadiuvata da Costanza Mocenigo e Ortensia Treves de’ Bonfili, presiede un comitato di donne che raccoglie ben 43.739 firme di ringraziamento in onore del duca d’Aosta per l’opera di difesa della città da lui svolta al comando della III Armata sulle rive del Piave. Gli viene offerta come segno tangibile una riproduzione in bronzo dei cavalli di S. Marco, con la dedica: «Al Duca D’Aosta la piccola vittoria che ogni donna veneziana portò per lui su la cima del cuore»(71). La «grandiosa cerimonia» (come la definisce «Il Gazzettino») di consegna del riconoscimento in piazza S. Marco (27 luglio), alla presenza di D’Annunzio, si trasforma in una manifestazione irredentista pro Fiume, che trascina una folla immensa(72). E sempre in onore del duca, la Morosini organizza un importante ricevimento a palazzo Da Mula a S. Vio il 4 agosto(73). È anche tra le promotrici e animatrici delle «Veglie azzurre», feste e spettacoli organizzati dai nazionalisti per raccogliere fondi.

Ogni iniziativa culturale di rilievo è preceduta dalla costituzione di un comitato femminile di sostegno, tanto rituale da esser allegato agli atti ufficiali della manifestazione: nel 1932 si costituisce un comitato di «patronesse» per sostenere la Biennale del cinema e due anni dopo, nel settembre 1934, Annina Morosini è alla presidenza di un altro comitato di 50 «patronesse» che sostengono il I Festival di musica contemporanea, inviando un appello alle autorità(74).

La dissonanza del profilo di queste donne con i modelli femminili cattolici o borghesi è evidente: sono estranee al ripiegamento sul focolare domestico quanto alla subalternità dei ruoli familiari. Annina Morosini è separata, vive con una figlia e riceve «sola», come nel Settecento Isabella Teotochi Albrizzi, senza che questo intacchi minimamente la sua credibilità o la sua rilevanza sociale. Altrettanto stridente è il contrasto con lo stereotipo della «nuova italiana», moglie e madre ideale, teorizzato dal fascismo, modello buono per le masse femminili piccoloborghesi, proletarie e contadine, non certo per le aristocratiche.

Sono donne colte, ricche, indipendenti, che viaggiano, fanno sport, secondo la moda del tempo (golf nel nuovo campo del Lido o equitazione), in grado di conversare con qualsiasi personaggio pubblico in più lingue straniere (quando Hitler incontra Mussolini a Venezia nel 1934, nei ricevimenti ufficiali che accompagnano l’evento, è affiancato da Marina Valmarana, ottima interprete oltre che sincera estimatrice del dittatore tedesco). Donne libere, già emancipate, tanto da non capire il senso della battaglia che altre donne fanno per la loro liberazione; donne legate ad una appartenenza di classe che non conosce solidarietà femminile.

A mettere in crisi il loro mondo non è il fascismo, né le sanzioni che appena si ripercuotono in nuove scelte di moda e di abitudini (sarti e spumanti italiani in luogo di quelli francesi)(75), ma la stretta logica delle alleanze di guerra e la politica antisemita del regime, che d’improvviso trasformano in «nemici», oltre agli ebrei, gli amici francesi, inglesi, americani, rompendo l’internazionalismo che caratterizza la loro società e riorganizzando il mondo secondo logiche di stretta appartenenza razziale e nazionale.

Al di là dei salotti (non tutte tengono «casa aperta») la vita delle aristocratiche e delle borghesi si dipana in una serie di attività pubbliche e private che vanno dalla direzione del palazzo alla cura della parentela, dalle attività di beneficenza alla presenza pubblica.

Governare un palazzo richiede capacità amministrativa e di direzione nei confronti di un personale vario, dalle molteplici mansioni e competenze. Tra camerieri, cuochi, governanti, balie da latte e asciutte, istitutrici, gondolieri, portinai, una famiglia poteva raggiungere anche una decina di persone di servitù. Solo per convocarle c’era bisogno di un’apposita suoneria collegata ai diversi piani e stanze: «Avevamo una suoneria con 7-8 campanelli per chiamare la servitù, la balia, il gondoliere o la cameriera… ogni campanello corrispondeva ad una stanza… sa, casa grande!»(76).

Il palazzo si configura come un microcosmo dove convivono diverse classi sociali, gerarchicamente ordinate sotto il controllo dei signori, secondo una gradualità che si riflette nell’architettura stessa degli spazi. Le balie e le istitutrici occupano una posizione superiore rispetto al resto della servitù: dormono e mangiano con i figli dei signori, in tavole separate. C’erano dunque tre tavole, corrispondenti a tre livelli di importanza sociale: «la tavola dei genitori con i nonni, la tavola del personale e la tavola dei bambini... i miei genitori mangiavano quaggiù, di sopra c’era una stanza, un tavolo con i seggioloni e la balia… e poi c’era dall’altra parte il tavolo del personale»(77).

Tradizioni di lunga durata sopravvivono quasi integre fino al secondo dopoguerra: la balia continua ad essere una figura centrale nelle famiglie aristocratiche, come dimostra Daniela Perco, anzi la sua presenza paradossalmente si espande durante il fascismo, quando la moda della balia in casa guadagna le classi borghesi, come status symbol. La grande campagna dei medici ed igienisti dell’Ottocento contro il baliatico mercenario ottiene il risultato dell’assunzione dell’allattamento da parte delle madri, di un più rigido controllo medico sulle balie e di una più rigorosa organizzazione di questo mercato (attraverso precise agenzie e figure di intermediari). Le balie dunque sono soprattutto asciutte, ma per il resto continuano ad occuparsi totalmente dei bambini, dalla pulizia, ai giochi, alle passeggiate («faceva tutto lei per quanto riguarda i bambini: lavava, stirava… il bambino era affidato completamente a lei»(78)). I bambini dormono con loro, mangiano con loro, stanno con loro «sempre, Pasqua, Natale, non c’erano domeniche, non c’erano feste»(79). Imparano il loro dialetto, ascoltano «come fiabe» le storie di povertà dei loro paesi, i piccoli centri del Feltrino e del Bellunese da cui ancora provengono ed a cui poi ritornano: «Una delle cose che mi raccontava [rievoca un ‘figlio di latte’] non era una fiaba, era la storia della grande guerra, quando gli austriaci erano venuti e quindi tutta la vita che avevano fatto nel suo paese sotto la occupazione austriaca e la miseria che avevano dovuto sopportare. Quella era una specie di fiaba per me»(80).

Negli anni Quaranta l’avvicinamento politico con la Germania diffonde la moda delle balie nordiche, le austriache e le «vigilatrici» di Trento, formate in un’apposita scuola, meno «grezze e più istruite» delle balie contadine, secondo la definizione delle signore, ma anche più severe, formali e consapevoli di alcuni elementari diritti. In questo senso il mestiere si professionalizza. Anche presso la scuola professionale «Vendramin Corner» viene attivato, nel 1930, un corso di puericultura, con annesso asilo nido, per la formazione di «Vigilatrici dell’Infanzia»(81).

C’era una scuola specializzata per neonati, e che in Italia non c’era ancora, subito al di là del confine, a Lienz e allora lì io e tante amiche qui a Venezia facevamo venire queste Schwester che venivano vestite da infermiere col cappellino inamidato bianco ecc. e loro tenevano i bambini(82).

Io [dice una madre] ho preferito le vigilatrici alle balie, perché le balie erano donne grezze, in fondo; la vigilatrice era invece istruita(83).

Quando sono più grandi i bambini vengono educati da istitutori o istitutrici, soprattutto stranieri (francesi, inglesi ed in particolare tedeschi), continuando una tradizione di educazione familiare di lunga durata che arriva fino agli anni Quaranta. La scuola pubblica o privata si affianca a queste figure, non le sostituisce.

Quando ero in prima elementare c’era uno strano personaggio qui a Venezia, che era un misto tra la balia e l’istitutrice ed era un’anziana signora tedesca, che aveva sposato un italiano, era rimasta vedova e aveva la stazza direi di una balia, di quelle grandi, sempre vestita di vestiti neri e grigi e cominciò a insegnarmi il tedesco. E allora si insegnava più frequentemente il tedesco. E mi ricordo che di pari passo imparavo l’alfabeto nostro e l’alfabeto gotico tedesco(84).

C’è stato un certo momento [riporta un’altra testimonianza] che c’erano sette figli e quattro signorine, perché c’era la balia per uno, la signorina per quell’altro, il precettore… c’erano dei precettori che venivano ogni tanto. Ai tempi di mio padre ce n’erano due di precettori(85).

Anche Francesca Tonetti, figlia del «conte rosso», riceve un’educazione esclusivamente familiare: «Mai andata a scuola [ricorda] mio padre e mia nonna non hanno mai voluto che andassi nella scuola pubblica […]»(86). Alcuni vengono messi in collegio: i maschi al collegio «Ravà», le femmine dalle suore del Sacro Cuore o in quelle di Nevers (dove si parlava francese).

I momenti di incontro tra genitori e figli erano dunque limitati, scanditi e normati da regole precise: il saluto mattutino, la passeggiata, il giro in gondola, il saluto serale. Una testimone ricorda di esser stata ammessa al tavolo dei genitori solo all’età di 18 anni, dopo il fidanzamento, senza per questo cessare di dare del «voi» alla madre e al padre. La cura e l’educazione dei figli occupava dunque solo una piccola parte della vita quotidiana di queste donne, anche se più rilevante di quella delle loro antenate. Per il resto c’erano le visite, a rinsaldare rapporti familiari e di vicinato, e gli appuntamenti pubblici, numerosi nella città: dalle inaugurazioni alle feste, dai ritrovi alle conferenze.

C’era sempre gente a casa [ricorda un conte] venivano per il té, bevevano una tazza di té o il limone, più che altro la limonata e dei baicoli e facevano conversazione; intelligente colta era, fior fior di gente colta e poi come ringraziamento mandavano la famosa cabinet [fotografia], il santino là insomma, e ne ho un’altra collezione anche di quella. Quindi c’era sempre un via vai…(87).

Per molte c’è anche la beneficenza, che rappresenta uno spazio d’azione pubblica importante, controllato dalle donne in particolare a partire dall’Ottocento, soprattutto per quanto riguarda l’assistenza e l’educazione dell’infanzia povera. Alla direzione dell’Asilo per bambini lattanti e slattati «Giobatta Giustinian», aperto da Elisabetta Michiel Giustinian nel 1877 nei pressi della Manifattura Tabacchi, si susseguono altrettanto attive contesse: Maria Contin Venier e Giulia Persico Della Chiesa(88). Nell’elenco dei benefattori figurano Annina e Morosina Morosini, Luisa e Ginetta Persico Licer, Elisabetta Nani Mocenigo, Renata Treves. Nerina Volpi apre un asilo modello che porta il suo nome a Marghera, opera per cui viene insignita di medaglia d’oro(89). La contessa Luisa Valier è vicepresidente della Società veneziana contro la tubercolosi, che all’inizio del Novecento attiva alla Giudecca un padiglione per figli dei tubercolosi, con relativa scuola all’aperto(90). La contessa Elisabetta Nani Bentivoglio D’Aragona apre nel 1923 una scuola convitto per giovani infermiere ed assistenti sanitarie presso l’Ospedale Civile di Venezia(91). Paolina Giustinian è una delle patronesse più attive delle Visitatrici di S. Vincenzo, che oltre alla raccolta di fondi si dedicano alle visite settimanali di poveri ed infermi(92). La contessa Clotilde Etli di Rodeano, presidente dell’Associazione nazionale madri e vedove dei caduti in guerra (sezione di Venezia), attiva un ospizio per vedove povere nella città, intitolato poi a Rosa Maltoni(93). Costanza Mocenigo è ispettrice della Croce Rossa, altra associazione che conosce una grande adesione proprio tra le aristocratiche ed altoborghesi (vi figurano iscritte nel dopoguerra le contessine Tiepolo, Valmarana e Dadà Albrizzi)(94).

Io ero infermiera della Croce Rossa ed ero anche ispettrice [racconta una contessa] andavo spesso all’ospedale al mare dove c’erano i naufraghi e prima andavo all’Ospedale di Sant’Anna, all’ospedale militare, sa che c’era l’ospedale militare pieno di marinai… questo era un po’ prima della guerra e allora avevo molto da fare, però mi fidavo della balia e di questa cameriera anziana e affezionata che un po’ dirigeva la casa se non c’ero io(95).

Iniziative sostenute tutte dalla carità privata attivata attraverso lotterie, feste, danze (dai «tè danzanti» alle «feste dei fiori»). Iniziative filantropiche che stridono in maniera evidente con lo stile di vita di queste signore ed i rapporti con la servitù del loro palazzo e che hanno come finalità il consolidamento del consenso sociale ed il mantenimento di una dialettica tra classi sociali. In questo senso, anche al di là della consapevolezza delle stesse protagoniste, l’attività filantropica delle donne ha ancora, come nell’Ottocento, un risvolto di pregnanza politica tutt’altro che trascurabile, in una Venezia caratterizzata dalla diffusa miseria e da drammatici squilibri tra le classi sociali(96).

Le fasciste

La prima e la più importante è lei, Margherita Sarfatti, «l’altra donna del Duce», come l’hanno definita i suoi biografi Cannistraro e Sullivan(97), la vera donna del fascismo, se dal piano di un rapporto intimo col duce si guarda a quello politico, volutamente occultato poi da Mussolini e per molto tempo inspiegabilmente anche dagli storici del fascismo.

Giornalista affermata del «Popolo d’Italia», dove tiene una rubrica fissa, e prima dell’«Avanti», oltre che della «Gazzetta di Venezia» e dell’«Adriatico», dirige per dieci anni la rivista fondata da Mussolini «Gerarchia», giornale non di informazione, ma di cultura politica, che si pone l’alto obiettivo, come scrive, «di formare la mentalità fascista […] di riconquistare il primato nel mondo spirituale»(98).

È lei, la prima biografa autorizzata di Mussolini, ad avviare con il suo Dux (1926) la costruzione immaginaria del duce quale capo carismatico, rigeneratore e rifondatore dell’Italia, erede delle migliori tradizioni e della grandezza di un passato imperiale. Geniale intuizione e gestione moderna del ruolo dell’immaginario nella politica, come sottolinea Luisa Passerini(99), abilmente giocata sul piano di una propaganda che diventa formidabile arma di consenso nazionale ed internazionale, oltre che di coesione interna, che la Sarfatti gestisce fin dal 1922 dal ruolo di responsabile del servizio stampa con l’estero.

Donna di vasta cultura (parla correttamente più lingue), eclettica, sicura di sé, abile oratrice, è l’unica figura femminile ad essere presente nelle manifestazioni ufficiali, a ricevere ed esser ricevuta da uomini di Stato, a prendere la parola in contesti pubblici e politici ancora del tutto maschili, segno di una posizione, certo individuale, ma mai raggiunta fino a quel momento da nessuna donna in Italia (aspetto forse poco analizzato dagli storici). Al congresso degli intellettuali fascisti di Bologna, nella primavera del 1925, è l’unica donna in mezzo a 250 intellettuali e 24 oratori maschi a tenere una relazione su L’arte e l’economia nazionale. Ed è sempre lei a fondare l’Accademia d’Italia, gotha dell’intellettualità italiana, dove fa entrare la sua amica di sempre: la poetessa Ada Negri(100).

Veneziana d’origine, figlia di Amedeo Grassini, uno dei maggiori imprenditori ebrei del primo Novecento, allieva di maestri illustri (Pompeo Molmenti, Antonio Fradeletto, Pietro Orsi), con Venezia (lasciata nel 1902) mantiene legami importanti, non soltanto in virtù della rete di conoscenze che conserva ed alimenta, delle vacanze fugaci, in compagnia o meno del duce (famosa quella del 1919, quando vengono spiati dalla polizia), o della frequentazione dei salotti buoni, ma soprattutto in virtù del ruolo culturale che gioca la città sul piano nazionale. Le varie Biennali e manifestazioni d’arte la vedono immancabilmente presente, più che come critico d’arte, come promotrice di tendenze artistiche, paladina del gruppo Novecento, che propone ed ‘impone’ come nuova arte italiana negli anni Venti. Nel 1909 scrive una lettera a Fradeletto per raccomandare il giovane Boccioni(101). Alla Biennale del 1924 lancia Novecento e quattro anni più tardi, in quella del 1928, pretende per i suoi artisti il rilievo di una sala apposita, mettendo in non poco imbarazzo il sindaco Pietro Orsi, suo ex maestro.

La sua biografia descrive una parabola comune a molte altre donne di questa generazione, che dalla militanza socialista e femminista passano a quella fascista, attraverso l’interventismo ed un patriottismo dagli accenti sempre più nazionalisti; un aspetto che attende ancora di esser miratamente analizzato dalla storia delle donne(102).

Margherita Grassini, infatti, non è soltanto una delle poche donne a fondare la sezione veneziana del P.S.I. (Partito Socialista Italiano) con Elia Musatti ed il futuro marito Cesare Sarfatti, ma una delle femministe più attive nella città ed a livello nazionale. Nel 1901 da Venezia collabora con l’«Unione Femminile», rivista fondata a Milano dalla Lega femminile milanese, poi con la «Rassegna Femminile» di Firenze, infine con «La Difesa delle Lavoratrici», fondata dall’amica Anna Kuliscioff nel 1911, sul cui modello nasce a Venezia «Su Compagne! Giornale di Propaganda Socialista tra le Lavoratrici»(103). Si batte, come tutte le femministe socialiste, per l’emancipazione, per il diritto di voto e per la modificazione del diritto di famiglia (ricerca della paternità), distinguendosi per combattività e forza oratoria, tanto da meritare l’appellativo di «vergine rossa», in ricordo dell’eroina francese Louise Michel. Né la maternità ferma questa militanza. Un osservatore straniero fissa l’immagine insolita di lei che tiene un animato discorso in piazza S. Marco, in piedi sul tavolo di un lussuoso caffè, accanto alla carozzina del figlio(104).

Nei primi anni del fascismo porta ancora avanti questa battaglia, anche se in forma individuale. Nel 1924 lancia da «Gerarchia» una campagna per ottenere il sostegno dei leaders politici sul suffragio femminile: anche l’ex presidente del Consiglio Orlando scrive in tal senso un articolo. Il 14 maggio 1923, al IX congresso dell’Alleanza internazionale per il suffragio femminile, Mussolini annuncia la sua intenzione di presentare una legge per la concessione del voto alle donne: la Sarfatti gli è accanto e traduce in inglese il suo discorso.

È intimamente convinta di poter intrecciare femminismo e fascismo, di poter convertire all’emancipazione un Mussolini recalcitrante per un innato maschilismo, prima ancora che per le ragioni ideologiche che matureranno negli anni successivi.

Una convinzione, la sua, condivisa da molte «femministe fasciste» della prima ora, come Elisa Majer Rizzioli, «archetipo perfetto di queste donne» come la definisce Denise Detragiache, altra veneziana ad occupare un ruolo di primo piano nella nomenclatura femminile fascista(105). Discendente dell’antica famiglia nobile dei Marin, arriva al fascismo attraverso l’irredentismo. Crocerossina nella guerra di Libia e nella prima guerra mondiale, sostiene l’impresa dannunziana non solo economicamente, ma diventando legionaria fiumana e fondando il Comitato nazionale della Dalmazia. I suoi romanzi dedicati alla guerra irredentista (Fratelli e sorelle. Libro di guerra 1915-18; Accanto agli eroi) riscuotono un grande successo. Nei primi anni del fascismo, con la triestina Amalia Besso e la padovana Carmelita Casagrande, è tra le fondatrici dei Fasci femminili, di cui diviene ispettrice generale, entrando così, con una non facile battaglia, nel direttorio nazionale del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Nel gennaio del 1925 fonda a proprie spese la «Rassegna Femminile Italiana. Bollettino dei Fasci Femminili», una rivista redatta interamente da donne, come nella tradizione femminista, nella quale cerca di conciliare appunto, sempre più faticosamente, le richieste emancipazioniste e le aspirazioni di autonomia di molte donne della sua generazione con l’ideologia fascista, come dimostra l’attenta lettura di Elisabetta Mondello(106). È a lei che spetta l’organizzazione dell’importante prima Mostra femminile d’arte pura, decorativa e di lavoro, che si tiene nel 1929, grande vetrina della produzione artistica femminile.

Verrà messa bruscamente da parte, proprio per le sue idee troppo avanzate, per la sua eccessiva autonomia non riducibile al silenzio, tra il 1925 ed il 1927, quando la politica di Mussolini sulla questione femminile si precisa in termini di subalternità e di un ruolo materno finalizzato agli obiettivi di incremento demografico dello Stato fascista(107). Un destino che condivide con Margherita Sarfatti, ‘sacrificata’ sull’altare di una nuova alleanza con la Chiesa, di un’immagine del duce ad essa più consona (Mussolini trasferisce la famiglia a villa Torlonia nel 1929) e colpevole di essere una donna troppo libera ed emancipata, oltre che ebrea.

La vera donna del Fascio veneziano tuttavia è un’altra, uscita dallo stesso milieu culturale e coetanea di queste due: Maria Pezzè Pascolato (1869-1933). Figura di grande spessore e rilevanza, a differenza di loro da Venezia non si allontanerà mai, svolgendo però da qui un’attività destinata ad avere un’influenza ed un rilievo nazionali che attendono ancora di esser compiutamente analizzati(108). Circoscriverne il profilo all’attività politica è certamente limitante. Come le altre due donne è un’intellettuale, una figura di grande cultura e solida formazione. Dal padre, Alessandro Pascolato, direttore di Ca’ Foscari, deputato e ministro giolittiano, eredita l’amore per la cultura; dalla madre, Fanny Restelli, la filantropia. Un impegno condiviso col fratello Mario, assessore con referato alla beneficenza nella giunta Grimani(109). La sua attività e produzione letteraria è notevole: traduce Ruskin, Strindberg, Andersen, Schmidt, Hauff e, per la prima volta in Italia, Carlyle; scrive novelle e racconti per ragazzi, come Lilliroi. Romanzo per i ragazzi (1915) e Pif-Paf. Romanzo per i ragazzi (1916)(110). Fonda a Venezia il Circolo filologico (1900), insegna Letteratura italiana a Ca’ Foscari. Con Margherita Sarfatti condivide l’amicizia e la collaborazione con Antonio Fradeletto, che affianca nell’insegnamento a Ca’ Foscari, nonché la passione per l’arte e l’attività di giornalista, che la porta a scrivere (sotto lo pseudonimo di Vieuxjeu) sulla rivista «Roma Letteraria». È lei una delle pochissime donne alle quali la Sarfatti concede una presenza nella rivista «Gerarchia».

Ma a questo interesse intellettuale affianca un’intensa attività pedagogica e sociale (tratto caratteristico della sua biografia), che la porta ad occuparsi in particolare dell’infanzia, non solo da un punto di vista teorico, ma concreto, dando vita ad una serie così vasta di iniziative, che è possibile soltanto frettolosamente elencare in questa sede. Nel 1896 è tra i fondatori della Pro Schola, associazione filantropica che promuove asili e organizza refezione e doposcuola per i bambini poveri(111). Nel 1904 è ispettrice onoraria degli asili infantili e dell’Educatorio per bambini rachitici «Regina Margherita» e due anni più tardi patronessa della Società di mutuo soccorso per le giovani operaie. Nel 1906 istituisce la Società di pubblica assistenza Croce Azzurra, per il trasporto dei malati poveri in ospedale (assorbita poi nel 1920 dalla Croce Rossa Italiana). Nel 1910 fonda con Max Ravà e Rosa Zenoni Politeo la Mutualità scolastica veneziana, istituzione dalle molteplici attività e diramazioni di sostegno alla scolarità e di organizzazione del tempo libero dei bambini (ottiene la medaglia d’argento all’Esposizione di Torino del 1911). Nel 1913 apre presso i Gesuiti un asilo per il ricovero degli alcolizzati e delle alcolizzate(112).

Questa attività sociale, rivolta in particolar modo all’infanzia povera, la pone in stretta continuità con quel movimento filantropico femminile emancipazionista che aveva avuto una stagione particolarmente vivace nel secondo Ottocento a Venezia e a Padova, e che aveva trovato appunto il suo nucleo di aggregazione nella teorizzazione della «madre-cittadina», cioè di un ruolo sociale femminile volto all’educazione e alla formazione, quale estensione sociale di una funzione materna ontologicamente assunta come caratteristica del femminile, se pur interpretata all’interno di una nuova rilevanza pubblica(113). Non a caso è allieva di Rosa Piazza, una delle fondatrici del giornale «La Donna», che riconosce come propria maestra di vita, a cui dedica una biografia e da cui eredita la direzione della scuola professionale femminile «Vendramin Corner», assunta temporaneamente nel 1897(114).

Se gli elementi di continuità in questo impegno sociale risultano evidenti, quelli di differenziazione sono da lei stessa rimarcati sia per quanto riguarda il significato dell’azione sociale, sia per quanto riguarda il ruolo femminile. Distingue con insistenza la «filantropia», tipica dello Stato liberale, dall’«assistenza», riconoscendo al fascismo il merito di aver compiuto questo passaggio nell’iniziativa verso i poveri, con un’azione non solo più concreta ed incisiva, al di là del verbalismo dei liberali, ma sostenuta da una progettualità più ampia ed articolata:

Da anni [scrive in un articolo sui Fasci femminili] si dissertava sul dovere di educare il popolo e si proclamava la necessità di difendere la famiglia, di salvare la razza, la buona razza italiana dai morbi e dal decadimento; si parlava dell’importanza che ha per l’educazione e per l’economia di un popolo la preparazione delle madri, delle maestre rurali, delle buone massaie; si parlava di scuola gioiosa per i piccoli e di onesti passatempi per il riposo dopo il lavoro degli adulti; si parlava… Ma soltanto il fascismo s’è accinto a tradurre in azione le vecchie sapienti parole dei secoli, affrontando tutti insieme questi problemi con la foga irruenta della giovinezza […]. Tutto ciò non si attua con l’antica beneficenza elemosiniera; anzi richiede mezzi meno materiali che spirituali: vera fraternità e buon senso, amore. Tutto ciò s’ha da fondere in una sola, in un’armonica azione educativa(115).

Per quanto riguarda il ruolo femminile, si dissocia dalle spinte più avanzate del movimento femminile dell’Ottocento, interpretandone e sviluppandone invece gli aspetti moderati, intrecciandoli strettamente ai valori cattolici ed elaborando così, lungo la linea di una differenza asimmetrica, in maniera compiuta, quel profilo della donna fascista, «donna nuova» (secondo la pubblicistica del tempo), che tanto consenso ottiene tra le gerarchie fasciste: «colta sì, fervente patriota, fascista operante, ma donna nel senso più squisito della parola, signora della casa, sposa e madre modello, custode della più sante tradizioni e pur socialmente educata ad alto spirito di solidarietà umana»(116). Una donna ancorata ai ruoli tradizionali, concentrata sulla famiglia e sui figli, ma nello stesso tempo al ‘servizio’ della patria, nel senso più proprio del termine, che allude ad una disponibilità di lavoro e di prestazioni totalmente gratuita (il termine «sacrificio» ritorna spesso nei suoi scritti). In un articolo di «Gerarchia» sui Fasci femminili, chiarisce bene questa posizione di ‘mezzo’ tra una concezione tradizionale della donna interamente subalterna (e del tutto rinchiusa nella sfera privata), condivisa a suo dire da molti fascisti, e quella femminista, tanto emancipatoria da cancellare una ‘differenza’ caricata da lei di contenuti ontologici:

Per gli uni eravamo troppo avanzate: donne che parlano di economia domestica, ma vanno fuori di casa loro a parlarne; che assistono a riunioni e a sedute e prestano servizio di turno negli ambulatori, nelle colonie climatiche, nei nidi, nelle biblioteche popolari; e visitano le case dei poveri, gli ospedali, gli istituti di educazione e di beneficenza, gli stabilimenti industriali e persino le carceri. Per gli altri eravamo retrograde. Donne che si occupano di economia domestica, di allevamento dei figlioli, di polli, di bachi; e seguono la moda, ma senza sfarzo e senza esagerazioni; e non adoperano profumerie esterne e non sono per nulla americanizzate; non parlano di politica, non si curano di voti o di suffragi e neppure di psicoanalisi(117).

La promozione sociale della donna dunque, in nome della differenza, si esplica in quella che Gisela Bock chiama «maternità sociale», servizio pubblico, rivolto al bene dello Stato, che si arresta alle soglie della politica(118). D’altra parte anche la padovana Erminia Fuà Fusinato, autorevole esponente del gruppo de «La Donna», aveva sostenuto, nel secolo precedente, una simile posizione, prendendo le distanze dal suffragismo e ponendo una cesura precisa tra «patriottismo» (ambito di comune impegno maschile e femminile) e «politica» (ambito esclusivamente maschile)(119). Per la Pezzè Pascolato il merito del fascismo in termini di politica di genere era proprio quello di aver «richiamato la donna a quei doveri che sono più in armonia con le sue attitudini»(120), valorizzandoli sul piano non solo familiare, ma nazionale:

Il fascismo, spazzando via le concezioni repugnanti al nostro senso latino della misura, vuol che la donna torni donna e le apre nuove vie ma nel campo per cui essa ha vere attitudini e speciali energie, nel campo in cui può davvero collaborare al rinnovamento della Nazione. Così il problema femminile è impostato come problema politico, nel senso più alto della parola(121).

Conseguente la sua posizione sul lavoro femminile, tema scottante e oggetto di grandi discussioni in quegli anni: la donna può e deve anzi, secondo lei, lavorare fuori casa solo se la famiglia ne ha stretto bisogno, altrimenti deve dedicarsi al lavoro domestico, il quale «ha un valore economico e sociale, oltre che morale e familiare [ed è] indubbiamente più utile non soltanto alla famiglia, ma alla patria, ma alla società umana»(122). Netta dunque la condanna del lavoro extradomestico delle borghesi. Un punto di vista che sviluppa ed esemplifica in Semplici verità per le donne del popolo (1911) e soprattutto in Cose piane (1922), libro di formazione per giovanette, una specie di manuale di comportamento nel quale codifica in modo molto preciso lo stereotipo della donna ideale, con una serie di insegnamenti dettagliati che vanno dall’organizzazione della vita quotidiana, alle letture, al tempo libero, alla beneficenza, all’economia domestica(123). Un libro «mirabile» secondo il giudizio del tempo, di grande successo e diffusione, che fa della Pascolato una delle teoriche più importanti a livello nazionale della «nuova donna», oltre che esempio vivente della «donna ideale» fascista, «pratica» ed «antifemminista»(124).

Significativa, in questo senso, l’interpretazione data delle finalità della scuola professionale femminile «Vendramin Corner», da lei riorganizzata e della quale continua ad essere «patronessa» fino alla morte. L’istruzione pratica delle ragazze non è più finalizzata all’inserimento professionale, ma all’economia domestica, cioè ad un adempimento migliore del compito femminile nell’ambito della casa. A questo scopo s’inventa una premiazione singolare, dal profondo significato simbolico: quella della miglior allieva diplomata che, rinunciando all’impiego fuori casa, si dedica «esclusivamente al governo della famiglia, dimostrando con la serietà dei costumi e lo spirito di sacrificio di aver messi in pratica gli insegnamenti ricevuti»(125).

Famiglia, servizio sociale ed azione concreta sono le sue parole d’ordine e ne dà prova in maniera esemplare fin dall’inizio della prima guerra mondiale, quando il suo interventismo non si limita alla stesura di racconti, appelli e proclami (Appello per la propaganda civile, 15 agosto 1914; Appello alle lavoratrici, 1917), ma si traduce immediatamente in azione: nell’organizzazione di un laboratorio di confezione di indumenti militari alla Fenice, che arriva ad impiegare in una rete di lavoro a domicilio 5.000 donne. Attività per cui viene insignita di medaglia d’oro dal sindaco Grimani(126).

Ed ancora nell’immediato dopoguerra, nel 1920, la sua adesione al fascismo si concretizza nell’organizzazione di «squadre d’azione femminili», non impegnate in scontri armati, ma che contrastano i socialisti boicottando gli scioperi e sostituendo i lavoratori assenti. La sua instancabile attività di organizzatrice politica si esplica soprattutto in direzione delle donne: d’intesa con l’amica veneziana Majer Rizzioli dà vita a Venezia ai Fasci femminili, di cui diventa «fiduciaria provinciale» e teorica(127). È lei stessa a definire ed organizzare concretamente il campo d’azione delle militanti fasciste, nella triplice direzione dell’educazione, della propaganda e dell’assistenza:

[Il fascismo] ha affidato a noi donne l’educazione dei piccoli, la buona propaganda igienica e morale tra il popolo, l’assistenza ai poveri, ai malati ai derelitti, ai pericolanti […] le nostre fasciste in Venezia e provincia hanno entusiasticamente collaborato con l’ONMI nelle cucine materne, per dar da mangiare alle madri gestanti ed allattanti […] nella propaganda delle norme più sane di allevamento, nella distribuzione di latti e di indumenti, nelle refezioni ai bambini ad ai ragazzi […]. Dirò prossimamente delle iniziative culturali educative: racconto della domenica, conversazioni e dibattiti, biblioteche popolari circolanti, biblioteche dei ragazzi, biblioteche all’aperto, corsi di economia domestica, di puericultura, di dizione artistica, gare di lettura, audizioni musicali, giardinaggio…(128).

In qualità di fiduciaria provinciale fa parte del comitato provinciale del P.N.F. e tiene su «Italia Nova. Bollettino della Federazione Provinciale Fascista» una rubrica fissa dedicata alla vita dei Fasci femminili veneziani, che diventano modello nazionale con un riconoscimento pubblico dei vertici del P.N.F., come lei stessa orgogliosamente sottolinea(129).

Altro suo vanto l’organizzazione delle «visitatrici fasciste», impiegate particolarmente nell’opera assistenziale cui è affidato «un lavoro delicato e faticosissimo nelle trattorie popolari, nelle cucine, nei laboratori di indumenti, e per la distribuzione dei buoni di ranci popolari, che le visitatrici portano casa per casa, e per la compilazione degli schedari i quali saranno la base di un coordinamento durevole di tutte le istituzioni assistenziali e per le minuzie contabili»(130).

In realtà le visitatrici svolgono, attraverso l’assistenza, un ruolo sociale e politico assai importante: quello del controllo sociale del sottoproletariato e delle sacche di emarginazione, non solo attraverso una presenza capillare ed una frequentazione quotidiana, ma per mezzo di una schedatura sistematica degli assistiti. Nel marzo 1931 verranno sottoposte alla direzione dell’Ente Opere Assistenziali, istituzione preposta al coordinamento di tutte le iniziative di beneficenza pubblica e privata(131).

Nel 1925 fonda i doposcuola fascisti delle piccole e giovani italiane, per le quali scrive anche il testo della Promessa, che appare veramente, come sottolinea una sua collaboratrice, come «un programma di vita», di dedizione alla causa nazionale: «prometto di aver costantemente in fondo al cuore ed in cima ai pensieri non già il mio personale vantaggio, ma il bene di tutti, senza cupidigie e senza vanità. Prometto di non aver altro orgoglio se non quello dell’Italiana e di adoperarmi col più fervido entusiasmo, con la più tenace volontà per meritare, per riconquistare ogni giorno l’onore di essere figlia d’Italia»(132).

Nello stesso anno (il 5 maggio) inaugura la Biblioteca per ragazzi, «una delle prime e più care istituzioni del fascio femminile di Venezia», prima in Italia, costruita secondo il modello delle children’s rooms da lei visitate in America nel 1920, ospitata nelle prestigiose sale di Palazzo Reale e nel cortile di Palazzo Ducale nelle domeniche d’estate(133). Struttura d’avanguardia, ammirata e additata ad esempio in Italia e in Europa, consentiva ai bambini un accesso diretto alle letture, con scaffali aperti, indicazioni di lettura e giochi a questi abbinati.

In sintonia con altri enti (Patronato e Mutualità scolastica) dà impulso alle colonie ed ai campi solari, per la cura e la prevenzione della mortalità infantile: se ne contano ben ventidue nel 1931, gestiti direttamente dall’Ente Opere Assistenziali per un totale di 1.500 bambini accolti; anche qui un primato, abilmente giocato sul piano della propaganda (Il partito per i figli del popolo, titola un articolo di «Italia Nova»(134)). All’inaugurazione di quella di Feltre, dedicata al «martire» fascista Gian Vittore Mezzomo, nel 1926, interviene, oltre alla madre Olga Mezzomo Zannini, fiduciaria del Fascio femminile di Padova, anche la responsabile nazionale dei Fasci femminili, Elisa Majer Rizzioli.

Il suo credito cresce a livello nazionale, con progressivi riconoscimenti: se le viene negata la libera docenza in Didattica nel 1924, nello stesso anno il Ministero dell’Educazione nazionale le affida però il delicato incarico di scegliere tra i libri in uso nelle scuole quelli più adatti alle idee formative del fascismo. Nel giugno del 1927 le viene affidato da Roma l’incarico di dirigere l’O.N.M.I. (Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia) provinciale, dopo una parentesi di gestione fallimentare. Un compito che assume forzatamente, già gravata da numerosi incarichi, «per spirito di ubbidienza», come scrive in una lettera al podestà di Venezia l’11 agosto 1927 («da buona fascista non posso non accettare il gravoso incarico»), ma che porta avanti con le capacità già ampiamente dimostrate nelle precedenti iniziative(135).

In soli tre anni vengono istituiti: tre consultori per lattanti (1.472 bambini visitati nel solo 1930) e sedici refettori materni, di cui nove solo a Venezia (per un totale di 535 madri assistite nel 1930); due nidi per bambini lattanti: uno presso le carceri, l’altro presso la scuola «Vendramin Corner», funzionante come nido-scuola per le allieve, primo del genere in Italia(136). A S. Elena viene aperta la Casa dei ragazzi, per raccogliere i bambini più miseri delle baracche del quartiere, sottraendoli «anche per mezzo dei vigili» ad un vagabondaggio e ad una questua «che aveva assunto proporzioni allarmanti» (60 bambini e 20 bambine accolti nel 1930). Nella stessa isola viene aperta una Casa dei bambini, asilo d’avanguardia impostato secondo il metodo Montessori, a cui verrà annessa successivamente anche una foresteria fascista per le comitive dopolavoristiche femminili, sotto la direzione della contessa Olga Pisani.

Uno sforzo particolare viene fatto nella direzione dell’assistenza alle madri nubili e ai figli illegittimi: dai 393 bambini assistiti nel 1927 si passa ai 2.172 nel 1930. Ma il ‘fiore all’occhiello’ delle iniziative dell’O.N.M.I. è l’apertura del grande complesso «Principessa di Piemonte» a Castello, «vero centro materno», comprensivo di asilo nido (40 posti), «casa dei bambini» (70 posti), refettorio per le madri, consultorio pediatrico ed ostetrico. Presso questo ed altri asili vengono istituiti anche «laboratori materni», dove si tengono corsi di taglio e cucito gratuiti per le mamme.

Altra importante realizzazione la grandiosa Colonia agricola fascista di villa Patt (20 ettari) presso Sedico Bribano (Belluno), ribattezzata poi con il suo nome, dalla capienza di 530 persone, che ospita, oltre alle colonie estive per balilla, piccole italiane e giovani operaie, anche una scuola permanente per massaie rurali. Iniziative affiancate da celebrazioni e feste, così importanti nell’organizzazione del consenso. Accanto alla «festa della Madre» (istituita a livello nazionale il giorno 24 dicembre) vengono promossi: la «festa delle Marie», la «settimana del fanciullo», i «premi di lettura», i «premi per il buon allevamento dei bambini», i premi per la «sorella maggiore e casalinga», ecc.(137). La morte intervenuta nel 1933 interrompe la sua intensa attività ed ascesa politica, ma l’impronta da lei data al settore dell’assistenza e dell’educazione continua a dare a distanza i suoi frutti, divenendo modello ed esempio a livello nazionale.

Le molteplici iniziative rivolte all’infanzia, l’opera da lei svolta in tutti i campi dell’assistenza e dell’educazione, fanno sì che il fascismo possa vantare a Venezia un primato nazionale quanto ad iniziative che «aiutano la scuola elementare a raggiungere i suoi fini di educazione del nostro popolo e di rinnovamento fisico e spirituale degli italiani», come sottolinea Gino Pignatti nel 1926 («la nostra città non è seconda a nessun’altra in queste fervide e vivide opere»)(138).

Quanto al sostegno alla maternità e infanzia, l’O.N.M.I. dispone, all’inizio degli anni Quaranta, di sette consultori ostetrici e pediatrici nella città di Venezia, dove vengono visitati, nel solo 1939, ben 16.310 bambini e nei cui refettori si recano 18.096 madri, mentre gli ammessi all’assistenza nel primo anno di vita arrivano quasi a 4.000 (3.932), secondo i dati forniti al sindaco Marcello dal delegato Bianchini, successore della Pascolato nella direzione dell’ente(139).

Ma chi sono le sue seguaci, collaboratrici ed allieve, le donne che compongono l’esercito del Fascio femminile e che continuano la sua attività tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta?

Donne per lo più della borghesia, piccola e media, come traspare dal profilo che lei stessa ne traccia parlando delle visitatrici: donne con tanto di cappello e pelliccia (ma «la pelliccia non la portano in ufficio perché se ne vergognano davanti a certi poveri cenci»), «che hanno una bella casa comoda e ben riscaldata», impiegate, «molte insegnanti di scuola media», ma soprattutto le maestre elementari («Care, brave maestre!»), che dobbiamo immaginare proprio tra quelle più impegnate dal punto di vista pedagogico, tra le più innovatrici in campo didattico, pronte come lei a sperimentare il metodo Montessori o percorsi didattici d’avanguardia(140). Altra base forte di consenso è la scuola «Vendramin Corner», con le sue numerose allieve e docenti: le dirigenti che si susseguono alla direzione (Clotilde Tiboni e Margherita Deleuse) figurano tra le sue più strette collaboratrici e non è casuale che a Margherita Deleuse (direttrice nel 1932) sia affidato il compito di tracciare un profilo della Pascolato per il bollettino della federazione, in occasione della sua morte(141). Accanto a loro figurano i nomi di Olga Longega (laboratorio femminile a S. Samuele), Clara Della Cella (doposcuola), Lina Passarella Sartorelli (collaboratrice in biblioteca e sua biografa), Nahyr Marsich, moglie di Piero Marsich, fondatore dei Fasci di combattimento a Venezia (responsabile della sezione per il folklore). Non mancano le aristocratiche, come Marina Valmarana, Olga Pisani, Mina Brogliato Bentivoglio(142). Ed è proprio una di loro, Vendramina Marcello, a ricevere l’incarico di dirigente provinciale dei Fasci femminili dopo di lei, negli anni Trenta.

La sua opera va nella direzione di un rafforzamento e di un’espansione delle iniziative già consolidate dalla Pascolato, con una maggiore attenzione a livello organizzativo: a Venezia vengono nominate otto «fiduciarie», responsabili dei gruppi di sestiere, ed una responsabile delle giovani fasciste, Clementina Pomarici(143). Per quanto concerne la campagna vengono nominate due ispettrici di zona: Lina Giacomini ed Anna Perale. Dirigenti che proseguono nella direzione di aprire colonie e campi solari, di attivare laboratori e cucine popolari, di organizzare le «befane fasciste», di occuparsi delle attività del Dopolavoro, ecc. La novità della direzione della Marcello sembra invece l’impegno per una maggior diffusione del fascismo nella provincia: «La mia fiduciaria Provinciale aveva dato la consegna e le direttive [scrive Lina Giacomini su «Italia Nova»]. Bisognava passare di paese in paese, di borgata in borgata, far conoscere alle contadine l’idea nuova del Duce, l’opera grandiosa di redenzione del fascismo […]»(144). Ha questo senso il grande raduno delle «massaie rurali» nell’aprile del ’34 a Mestre, alla presenza dell’on. Marinelli: 1.500 convenute dalla provincia in rappresentanza delle 3.000 «massaie rurali» iscritte (ancora una minoranza nel quadro delle 12.000 iscritte della provincia), a cui vengono affidati anche compiti di definizione del prezzo di mercato di alcuni prodotti agricoli e di allevamento(145). Un’altra direzione di attività, dopo la conquista dell’Etiopia, va nella creazione di una cultura coloniale e nell’educazione della donna-imperialista: vengono a questo scopo attivati appositi corsi di «preparazione della donna alla vita coloniale» e addirittura attivati campi di soggiorno in Libia(146). Una iniziativa che ha una sua specularità nella creazione del giovane-imperialista, con la nascita del «Gazzettino dei Ragazzi» di Venezia, che riserva uno spazio importante proprio alle informazioni sulle colonie e sui bambini africani(147).

Dopo Vendramina Marcello è Clementina Pomarici, «l’attiva ed entusiasta» dirigente delle giovani fasciste, ad occupare l’incarico di fiduciaria provinciale dei Fasci femminili nell’ultima stagione del regime. Di lei sappiamo poco, ma a lei toccherà la sorte di esser arrestata e condannata dalla Corte straordinaria d’Assise di Venezia a trent’anni di reclusione, nel giugno del 1945, nell’ambito dei processi ai fascisti(148).

Le antifasciste

L’antifascismo aveva la sua roccaforte nei quartieri popolari (Castello, Cannaregio, Giudecca), in particolare in quei settori del proletariato anche femminile nei quali era cresciuta, tra la fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, con la diffusione delle idee socialiste, una più consapevole coscienza di classe. Ne erano avvertiti i vertici del partito fascista, i quali, ancora nel ’33, sottolineavano la necessità di tenere sotto controllo soprattutto le operaie: «Le operaie, numerosissime nella grande industria [si legge nel bollettino della federazione provinciale] si organizzano, facile preda degli agitatori marxisti e, doloroso a dirsi, si propagano fra di esse con sorprendente facilità persino le teorie malthusiane»(149).

I contesti più significativi erano le grandi fabbriche femminili: il Cotonificio, le Conterie ed in particolare la Manifattura Tabacchi, dove più accese erano state le lotte nel periodo prebellico e dove si era consolidata una forte organizzazione sindacale: nel 1904 avevano ottenuto la giornata lavorativa di otto ore ed il riconoscimento del diritto di sciopero, diventando un punto di riferimento per la classe operaia. Nel 1913 avevano fondato la Lega delle tabacchine che, assieme a quella delle impiraresse e delle operaie del Cotonificio, aveva aderito alla Camera del lavoro e nell’anno successivo avevano dato vita ad uno dei più imponenti scioperi della storia del sindacato veneziano, un’agitazione «ferma e dignitosa», come l’aveva definita il «Secolo Nuovo», che si era protratta per ben due mesi, dal 7 aprile fino al 14 giugno, sotto gli occhi esterrefatti di un’opinione pubblica incredula (a destra, ma anche a sinistra) della capacità di resistenza e di organizzazione delle donne, arrivate al punto di trasferire in campagna i figli (presso famiglie socialiste di Dolo), per «resistere» più a lungo(150).

In queste lotte era cresciuta Anita Mezzalira, la figura femminile più importante dell’antifascismo veneziano, tra i politici più votati del dopoguerra; una figura così significativa da risultare trasfigurata, nell’immaginario delle donne e degli uomini comunisti, in una specie di «mito», emblema di forza, inflessibilità, coraggio; una «bandiera» della lotta politica e sindacale, secondo la definizione del sindaco Giobatta Gianquinto(151).

«La fiera e ardente maestra delle tabacchine», «la propagandista rossa», come l’aveva chiamata la stampa degli anni Dieci(152), usciva da una famiglia di ferventi patrioti e socialisti: il padre, Cesare Mezzalira, aveva combattuto con Garibaldi a Bezzecca e dopo il suo rientro a Venezia, diventato gondolier de casada, si era attivato nella fondazione e nel sostegno di varie società operaie, sempre presente alle manifestazioni con la sua camicia rossa(153). Assunta alla Manifattura all’età di quindici anni, nel 1910 Anita si era iscritta al P.S.I., incominciando un percorso di impegno e di mobilitazione sempre più forte, che la porta ad investire in questo campo ogni energia, rinunciando, forse conseguentemente, ad altre dimensioni della vita personale ed affettiva (non si sposerà mai).

Distintasi nelle lotte sindacali del periodo prebellico, riconosciuta dalle operaie come una delle dirigenti più capaci, dopo la guerra viene eletta segretaria della Lega Tabacchi, prima donna a Venezia a ricoprire un incarico sindacale, che la porta ad entrare sia nel comitato direttivo del P.S.I. (1919), sia più tardi nell’esecutivo della Camera del lavoro (1921). La sua autorevolezza all’interno della fabbrica è molto forte: lo sciopero proclamato dai socialisti contro la pace di Versailles, il 20-21 luglio 1919, ottiene nella Manifattura una massiccia adesione, segno di una consapevolezza e di un impegno non solo di tipo rivendicativo. La sua mobilitazione sul lavoro, volta ad ottenere migliori condizioni lavorative e aumenti salariali adeguati all’inflazione, è accompagnata dall’impegno politico nelle file del P.S.I., che fin dal 1913 aveva dato vita anche ad una sezione femminile, animata, tra le altre, anche da Emma Leanza, moglie di Elia Musatti(154).

Al congresso della federazione socialista del 1919 Anita Mezzalira tiene una relazione sui problemi del lavoro femminile, primo importante appuntamento di una serie di incontri pubblici che la portano, negli anni successivi, in città ed in provincia. Ormai è «uno dei maggiori esponenti della locale sezione socialista», come la definisce il direttore della fabbrica in una lettera al Ministero del 1919, tracciandone un profilo:

L’operaia Mezzalira Anita è ben nota in Venezia quale uno dei maggiori esponenti della locale sezione socialista, che professa e propaganda le sue idee politiche con notevole vivacità. Una zitella di 40 anni, si può ben dire che abbia dato tutta se stessa al partito, nel quale si è fatta una posizione cospicua, che lusinga assai la sua ambizione di donna e operaia [...]. Essa è stata favorita in questa sua carriera politica dalla sua qualità di organizzatrice delle operaie della manifattura Tabacchi, essendo questo lo stabilimento più importante di Venezia e a maestranza molto numerosa [...] infatti non c’è stato in questi ultimi anni sciopero politico al quale le sigaraie non siano state obbligate a partecipare(155).

Dopo l’avvento al potere del fascismo è tra i primi oppositori ad essere colpita. Nel 1923 (4 febbraio) è arrestata assieme ad altri undici dirigenti del partito socialista, tra cui Igino Borin, all’interno di una serie di provvedimenti repressivi che colpiscono, con Amadeo Bordiga, tutti i maggiori dirigenti nazionali. Scarcerata il 15 febbraio, rimane disoccupata, come il fratello Giuseppe, macchinista ferroviere, anch’egli espulso dalla ferrovia per le sue idee politiche.

Riammessa al lavoro alla fine dello stesso anno, più per considerazioni di opportunità politica che per magnanimità («si ritiene sia più pericolosa fuori di manifattura che in manifattura [scrive il direttore] ed il suo licenziamento potrebbe apparire un provvedimento eccessivo»(156)), pur mostrandosi «perfettamente disciplinata ed esperta operaia», non smette di manifestare il suo antifascismo, rifiutando di aderire ad ogni manifestazione ufficiale: «Mantenne sempre un atteggiamento deciso ed esplicito di non adesione al regime nazionale fascista. Non si permise alcun atto di propaganda o di palese opposizione, ma si astenne da ogni manifestazione, non solo di adesione al Partito fascista ma eziandio di carattere patriottico. Così essa non contribuì al monumento ai caduti, né intervenne alla funzione di inaugurazione di esso, non partecipò alla sottoscrizione per il dollaro, né a quella del prestito del Littorio […]»(157). Dopo la promulgazione delle leggi speciali, nel gennaio 1927 riceve un’ammonizione ufficiale come «elemento pericoloso per l’ordine nazionale e per la sua condotta informata a principi anti-patriottici e sovversivi». Il suo è l’unico nome femminile a figurare nel voluminoso dossier di oppositori di tutte le correnti che il prefetto compila nel febbraio 1927. Ormai si valuta se inviarla al confino o sorvegliarla in loco. Di certo non si può tollerare che continui a far parte di un’azienda di Stato, come scrive il direttore al Ministero il 5 maggio del 1927; un mese dopo è definitivamente espulsa dalla fabbrica, dove ritornerà solo dopo la Liberazione.

Il suo allontanamento non muta il clima politico all’interno della fabbrica. Ne è prova la solidarietà che dimostrano le compagne, organizzando una specie di «soccorso rosso», che le garantisce, nella povertà, un minimo sostegno economico. Una denuncia siglata «Gruppo Italiano fascista», del 15 aprile 1929, sollecita la direzione della fabbrica a mettere un freno alle «sue partiggiane che si sono prese la cura di alleviare il castigo di questa donna col mezzo che ogni quindicina venga di nascosto per i laboratori a radunare dei quattrini»(158).

Anche negli anni del periodo bellico la fabbrica è una delle prime a rispondere alla mobilitazione, come nello sciopero generale del 1944(159).

Anita Mezzalira è la donna più carismatica dell’antifascismo veneziano, figura emergente di un gruppo più anonimo di donne mobilitate fin dall’inizio contro il regime, di cui la memoria restituisce appena alla storia nomi, profili, gesti. ‘Manovali’ della politica, appartengono tutte al P.C.I. (Partito Comunista Italiano) o al P.S.I., di cui occupano i gradini più bassi dell’organizzazione. I partiti della sinistra non sono in questo molto diversi dagli altri, rovesciando le gerarchie di classe, non ancora quelle di sesso. Le donne rimangono anche per loro, come osserva Giovanni De Luna, essenzialmente «madri», «madri-lavoratrici», a differenza delle madri fasciste, ma ugualmente subordinate nella famiglia come nell’attività politica(160). La realtà veneziana non fa eccezione rispetto al contesto nazionale: nessuna delle compagne intervistate da Bianca Guidetti Serra ha ricoperto cariche politiche di rilievo(161). Per questa marginalità all’interno del partito, pochi dei loro nomi figurano nelle liste degli oppositori e raramente contro di loro vengono adottati provvedimenti severi: nell’elenco di antifascisti veneziani in vario modo condannati per attività politica prima del 25 luglio 1943, su 500 nomi figurano appena 11 donne(162).

Ciò che le accomuna è l’appartenenza ad una famiglia dissidente, l’«essere inserite in un contesto familiare politicizzato»(163). Per tutte l’approdo alla militanza antifascista avviene in virtù di un legame familiare forte (il padre, il fratello, il marito); risulta al tempo stesso espressione di un’istanza paritaria e manifestazione di una fedeltà e solidarietà interna alla famiglia e al gruppo amicale, con il quale simbolicamente il partito finisce per coincidere («giera come ’na fameia»)(164). Alcune portano impressa questa provenienza nel nome, quasi come un’eredità ideale: Anita, Libertà, Tosca, Darvinia. Come per Anita Mezzalira, anche per Tosca Siviero, giudecchina, è il padre Giovanni il tramite dell’approdo alla politica, prima del marito Michele Fagherazzi («Mio papà giera un apostolo, me gà spiegà la lota operaia»)(165). Per Angelica Turzi invece è il marito Attilio Spina, la cui osteria è uno dei più noti ritrovi antifascisti. Per Elisa Bugatti è il fratello Enrico (poi volontario in Spagna), con cui partecipa alla fondazione, nel 1921, della prima sezione del P.C.I. veneziano:

Ghe giera mio fradeo che giera socialista grande [ricorda] e alora el me diseva: ‘Ti sa cossa vuol dire el comunismo? Se ga da essar tuti uniti…’. Mio fradeo me diseva e cussì gò scominzià… ciama questa ciama quea… Ciò femo el partito comunista noialtre dai! El partito dei lavoratori. E co’ me gò sposà mio fradeo, invesse de mandarme i fiori bianchi, me ghà mandà tutti fiori rossi(166).

Non si tratta di un dato nuovo, come sembra trasparire da alcune interpretazioni storiografiche, ma di un elemento di forte continuità col passato: la storia risorgimentale è costellata di patriote che si uniscono ai mariti ed ai fratelli, spinte oltre la soglia del privato dall’attivazione di reti di relazione familiari e locali, come osserva Simonetta Soldani(167).

L’altro aspetto comune è una forte identità di classe, che traspare dai racconti autobiografici, ed un’autorappresentazione trasgressiva, i cui attributi sono dati dalla «forza», dal coraggio, dalla «ribellione», caratteristiche che denotano una assimilazione al maschile anche sul piano dell’identità (oltre che su quello della lotta politica), a volte apertamente esplicitata. Se di Anita Mezzalira le compagne dicono che «era come un uomo», di sé in uguale sintonia raccontano di non aver conosciuto la paura, di esser state decise, ribelli e battagliere. È questa autorappresentazione, divergente rispetto ad altri modelli femminili più tradizionali, che le porta a raccontare con fierezza della battaglia politica anche i risvolti più materiali, gli scontri fisici con gli avversari, non in chiave di vittime, ma di vere ‘militanti’. In qualche testimonianza, come nel caso di Elisa Bugatti, sono proprio questi episodi ad aprire il racconto autobiografico, connotandolo fin dall’inizio:

Mi gero comunista, tendevo al lavoro e st’altro giera fasista; sul terso scalin del ponte dele Guglie el me ghà tagià el colo e co’ sto sangue che perdevo lotavo… e ghe xe sta uno, poareto, che me ghà portà in farmacia, e i me ghà ciamà el dotor. Mi ghò sempre lottà, sempre lottà, co’ xe sta el tempo del fasismo più de bote no e giera... Una volta un fasista me gha dà dee parole brute… e alora mi ghe gò dà do sciafi e lassando sti do sciafi, voltandome cussì gò sentio uno sciafo qua e gera uno dea Questura in borghese…(168).

Un’altra testimone racconta:

La prima volta che me ghò butà in mezo gavevo 16 ani, a S. Margherita ghe giera una bataglia grosa tra i nostri e i fasisti. Mi ghe sporsevo i tochi de asfalto. Un compagno me ghà vantà par ea copa e me gha dito: ‘va a casa che ti xè picola’. E mi gò dito: ‘Go dirito anca mi de difendar i operai’. Ormai lo gavevo nel sangue(169).

Anche Angelica Turzi non esita a menar le mani contro gli squadristi che prendono di mira il marito e i figli: rimane famoso l’episodio di lei che cade in acqua con un fascista, continuando in canale la contesa. È durante uno di questi scontri, nel 1924, che muore, colpita da infarto alla vista del figlio Ribelle pestato a sangue(170).

Scontri a parte, l’impegno antifascista femminile risulta caratterizzato da un paziente lavoro di tessitura nel sociale, di divulgazione, di organizzazione, di testimonianza. L’accusa più frequente con la quale vengono diffidate o condannate al carcere o al confino le donne è quella di «discorsi contro il regime» (Elena Baessato), di propaganda antinazista (Maria De Fanti), di «offese al capo del governo» (Amelia Diana, Amelia Tommasini), di «diffusione di libelli antifascisti» (Aurelia Fiorani) o di «principi e comportamenti sovversivi o antifascisti» (Luisa e Annamaria Zecca, Elena Mattei), segno di un’attività sistematica di opposizione. In questo, d’altra parte, si concretizza il lavoro politico descritto da testimoni come Elisa Bugatti: un lavoro capillare, casa per casa, calle per calle, lungo reti di relazione prevalentemente femminili: «tante volte, de sera metevo in leto i fioi e andevimo fora, gierimo in do, tre, e andevimo fora… nee case… e parlava… se ghe diseva de star unite noialtre done, par el lavoro, che i nostri omeni ghà bisogno de brassa... E ’na volta i ne ghà arrestae, parchè gavevo distribuio i manifestini…»(171).

Un lavoro pericoloso, fatto in nome dell’ideale di una società più giusta, senza classi, nella quale anche la subordinazione femminile risulta implicitamente azzerata. «Ricordo mio padre quando, uscito dal carcere, attorno al focolare ci raccontava perché era comunista, ci parlava di un grande paese socialista dove non vi erano sfruttati, dove tutti erano uguali e liberi, dove non c’erano i capitalisti, dove quello che si vedeva era di tutti, dove i ragazzi studiavano senza distinzione. E vedevo i suoi occhi brillare»(172).

Sulla fine degli anni Trenta questo movimento si allarga anche sul versante femminile: la promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, con l’espulsione degli ebrei dalle scuole e dai pubblici uffici(173), e l’entrata in guerra dell’Italia allontanano dal fascismo anche donne di diversa provenienza sociale e fede politica, attivando un dissenso ed un’opposizione che sfociano nel 1943 nell’adesione aperta alla Resistenza.

I percorsi attraverso i quali matura questa decisione sono molteplici. Per qualcuna è la consapevolezza della responsabilità nei confronti delle giovani generazioni: è il caso di Elena Bassi, che interpreta in questo senso il proprio impegno e la propria etica di insegnante all’Accademia di Belle Arti(174). Per altre è volontà di condividere fino in fondo il percorso di familiari o amici e di contribuire alla loro salvezza: è il caso di Ginetta Ponti o di Francesca Tonetti, figlia del «conte rosso», che entra nella Resistenza dopo l’arresto del padre(175). Per altre ancora è il senso di solidarietà nei confronti degli ebrei e dei perseguitati politici ad attivare iniziative di assistenza e di protezione che si trasformano poi in consapevole adesione alla Resistenza. Per altre infine è la considerazione degli orrori della guerra, la vista della sofferenza e della morte. È con la descrizione delle disumane condizioni degli italiani arrestati dai tedeschi e caricati sulle navi che si apre il libro di Ida D’Este, Croce sulla schiena, l’unico diario femminile pubblicato:

Nel porto di Venezia erano ancorate le prime navi stipate di prigionieri italiani affamati. Ci avvicinammo con una barca carica di minestra e di altro cibo. I tedeschi ci hanno promesso di non sparare. La nave brulica di uomini che dagli oblò urlano e invocano. C’è qualcosa che urla anche nei nostri cuori: questa nave di italiani umiliati e sofferenti è ora la nostra patria(176).

Sono molte le donne che si impegnano attivamente, aderendo alle diverse formazioni partigiane, anche se una storia della Resistenza femminile veneziana attende ancora una puntuale ricostruzione(177). Proprio in quanto donne (più facilmente sottratte al controllo e alle perquisizioni), alle partigiane vengono affidati spesso incarichi delicati di collegamento, di trasporto d’armi, di diffusione di materiale propagandistico, accanto ai più tradizionali compiti di copertura e soccorso, con una divisione di ruoli che prevede per uomini e donne mansioni distinte anche nella lotta partigiana, come in quella risorgimentale(178).

Molte di loro pagano questo impegno con la morte, l’arresto, la prigione. Ada Salvagnini, cugina del comandante partigiano Giuliano Lucchetta, staffetta del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, rimane gravemente ustionata nel trasporto di bombe molotov da Padova a Mestre. Libertà Spina, figlia di Attilio Spina, viene arrestata dalla Brigate Nere per aver organizzato con Gigetta Velluti l’evasione dalla caserma di S. Lorenzo di alcuni detenuti politici. Anche le staffette Iride e Jone Calò, Vittoria Dorigo, Ada Besutti Mazzotti ed altre finiscono in cella. Nei primi mesi del ’45 oltre a Marcella Bertolini viene catturata anche Ida D’Este, trasferita poi nel campo di concentramento di Bolzano(179).

Quanto in questo impegno fosse implicita una aspettativa di miglioramento della condizione femminile è difficile dirlo; una generalizzazione di questa speranza sarebbe altrettanto sbagliata di una sua esclusione. Per quanto occorra stare attenti ai meccanismi di distorsione della memoria, nelle testimonianze di alcune protagoniste traspare chiara, tra le altre motivazioni, una lettura sessuata della libertà e della democrazia, che include tra gli obiettivi politici quello del riconoscimento della parità(180).

La Liberazione pone fine alla lotta armata, non all’impegno e alla mobilitazione che continuano sul versante femminile nella direzione dell’assistenza, della cura degli orfani, dei senza casa, dei reduci, in una Venezia fortemente provata dalla disoccupazione e dalla miseria, in cui già il 15 giugno prende il via il primo sciopero generale per un aumento dei salari. Mentre il Fronte della donna, formato da rappresentanti di tutte le forze politiche, organizza l’accoglienza dei reduci, con campi di smistamento e servizi di informazione, le associazioni femminili del P.C.I. e della D.C. (Democrazia Cristiana) si attivano distintamente nella direzione dell’assistenza ai bambini orfani e poveri. Già nella primavera del ’45 l’Unione Donne Italiane di Venezia aveva dato vita al Comitato pro-infanzia presieduto da Libertà Spina(181). Nei mesi successivi le sezioni di sestiere soccorrono centinaia di famiglie con sussidi e pasti caldi e, all’arrivo dell’inverno, 110 bambini vengono inviati presso altrettante famiglie comuniste della Romagna (Ferrara e Rovigo) nell’attesa dell’arrivo dei soccorsi, effettivi dall’inizio del 1946(182). Il Centro italiano femminile, presieduto da Maria Monico, distribuisce viveri e coperte e organizza le «domeniche liete», provvedendo all’accoglienza domenicale di bambini poveri e al loro trasporto invernale presso famiglie dell’entroterra veneziano. L’organizzazione della carità è poi assunta più direttamente dalla P.O.A. (Pontificia Opera Assistenza), presieduta a Venezia da Emilia Nordio. Dall’aprile al novembre 1945 vengono distribuite 180.000 minestre e da novembre a dicembre 9.000 minestre giornaliere in diciassette cucine della Caritas, i «refettori del papa». Ma non è solo nella direzione della cura materiale che si lavora. L’idea di operare per un’educazione nuova, per una scuola «degli uomini per gli uomini; dell’umanità per l’umanità», progettata da partigiani e partigiane comunisti, si concretizza nel 1947 con la creazione dell’Istituto protezione orfani patrioti «Francesco Biancotto», palestra di nuovi rapporti e modelli pedagogici e sociali(183).

Nell’ottobre 1945 si tiene alla Giudecca, alla presenza di Emilio Sereni, il V congresso provinciale del P.C.I.; per la prima volta la presidenza dei lavori è tenuta da una donna: Anita Mezzalira, rientrata a Venezia dopo la Liberazione. È un segnale importante non solo di un riconoscimento personale, ma anche del nuovo spazio che le donne si sono conquistate in campo politico, del loro accesso alla cittadinanza finalmente sancito dalla Costituzione, con il riconoscimento della piena parità anche nel campo dei diritti politici, dopo un secolo di rivendicazioni. Nella tornata amministrativa delle prime elezioni a suffragio universale, l’8 aprile 1946, vengono elette in consiglio comunale 6 donne (4 nelle liste della D.C., 2 nelle liste del P.C.I.), una percentuale bassa, ma straordinaria se confrontata con i dati dei decenni successivi; superiore a quella registrata nel 1998(184). Anita Mezzalira ottiene un forte successo personale, risultando seconda, in preferenze, soltanto al capolista Gianquinto. È lei la prima donna a far parte di una giunta municipale, anche se con l’incarico di «assessore supplente» e significativamente all’assistenza. È una tappa importante nella storia delle donne veneziane, pur se il riconoscimento dei diritti politici non si traduce immediatamente in una piena partecipazione delle donne alla vita politica, né in un’effettiva parità sul piano sociale e politico. Il percorso di emancipazione femminile appare ancora lungo e difficile, inceppato da pesanti eredità del fascismo, da modelli tradizionali enfatizzati dai cattolici, ma sostenuti largamente anche dai partiti della sinistra, da una concezione della differenza fortemente gerarchizzata e caricata di contenuti ideologici, che sembra ancor più acuirsi negli anni Cinquanta(185). Nel 1954, in occasione della festa dell’8 marzo, in uno dei rari interventi in consiglio comunale, Anita Mezzalira sottolinea questo limite ed il successivo traguardo:

Le donne entrando nella vita politica non hanno finito il loro compito: esse si rendono conto che molti altri diritti sono a loro contesi. Noi sappiamo che la vita che vogliamo seguire è effettivamente sancita dalla Costituzione e chiediamo il diritto che finalmente gli articoli sanciti dalla Costituzione vengano applicati; chiediamo per le donne l’apertura delle carriere per le quali hanno la capacità e l’idoneità, perché l’articolo terzo della Costituzione dice chiaro che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge [...]. Oggi questo articolo è inoperante, perché ancora alle donne si nega il diritto di accedere a determinate carriere, a determinati uffici e noi rivendichiamo per noi donne la possibilità di adire a tutti i livelli della vita lavorativa(186).

Per un più profondo cambiamento delle gerarchie sociali, delle mentalità e del rapporto tra i sessi occorrerà aspettare il movimento femminista degli anni Settanta, con la sua critica radicale ai ruoli sessuali, ai modelli familiari, alla distinzione pubblico/privato, con un nuovo discorso che coniuga finalmente la differenza e l’uguaglianza.

Una reale trasformazione della politica invece attende ancora una propria storia.

1. È questa la tesi, per esempio, di Françoise Thébaud, La grande guerra: età della donna o trionfo della differenza sessuale, e Introduzione, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di Ead., Roma-Bari 1992, pp. 25-90. Sulla simbologia maschile della guerra e l’immaginario del guerriero cf. Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bologna 19974. Cf. su questo tema il libro di Barbara Curli, Italiane al lavoro (1914-1920), Venezia 1998, dove questo dibattito storiografico è ripreso e riassunto.

2. Cf. su questo Ernesto Galli Della Loggia, Una guerra ‘femminile’? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di Anna Bravo, Roma-Bari 1991, pp. 3-27.

3. Barbara Curli osserva che «durante la prima guerra mondiale le donne non sostituirono gli uomini partiti per il fronte»: il mito della «sostituzione fu creato e amplificato durante la guerra». Si trattò tuttavia «di una esperienza di mobilità femminile che non aveva precedenti nella storia delle società europee» (B. Curli, Italiane al lavoro, p. 13).

4. Si tratta della l. 17 luglio 1919, nr. 1176. La citazione è tratta da Maria Vittoria Ballestrero, La protezione concessa e l’uguaglianza negata, in Storia delle donne in Italia. Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari 1996, p. 458 (pp. 445-469).

5. Di «lotta economica dei sessi» parla Margherita Deleuse, raccontando così questa fase storica: «Finito il grande cimento gli uomini ritornarono al focolare amareggiati per la stroncata vittoria e per le condizioni del paese […]. La donna, abituatasi al lavoro fuori di casa, al guadagno, maturatasi nelle nuove responsabilità per anni abilmente sostenute, più sicura di sé, più conscia dei propri diritti, stenta a rinunciare a quanto la rialzò ai propri occhi e ad abbandonare le posizioni con sacrificio conquistate. Aspra, nel doloroso dopoguerra, la lotta economica tra i sessi; pericoloso lo sprezzante risentimento maschile, più pericolosa ancora la china su cui molte, troppe donne stavano per abbandonarsi, dimentiche della loro missione» (Margherita Deleuse, Il regime per l’educazione femminile, «Italia Nova», 6, 1933, nr. 2, p. 9).

6. Una più attenta lettura del rapporto donne-fascismo è stata oggi introdotta da alcune ricerche sulle donne fasciste. Cf. in partic. su questo: La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, a cura di Marina Addis Saba, Firenze 1988; Stefania Bartoloni, Il fascismo femminile e la sua stampa: la «Rassegna femminile italiana» (1925-1930), «Nuova DWF», 21, 1982, pp. 143-169; Helga Dittrich Johansen, Le donne dell’idea, tesi di dottorato, Università degli Studi di Torino, a.a. 1999-2000; Ead., La ‘donna nuova’ di Mussolini tra evasione e consumismo, «Studi Storici», 36, 1995, pp. 811-843.

7. Cf. su questo, in partic., Mario Isnenghi, L’Italia del fascio, Firenze 1996; Id., L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano 1994; Id., La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482.

8. Gino Bertolini, ‘Italia’, II, L’ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912, pp. 772 e 839. Cf. sulla figura dell’impiraressa: Irene Ninni, L’impiraressa, Venezia 1893; Ugo Facco De Lagarda, Morte dell’impiraperle, Venezia 1967; Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990.

9. Il racconto è riportato in G. Bertolini, ‘Italia’, II, pp. 839-840.

10. Cf. su questo aspetto in partic. Maria Teresa Sega, ‘Più perle de le perle che impiré’. Immagine e immaginario dell’impiraressa come tipo della popolana veneziana, in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, pp. 47-66.

11. Elisa, classe 1895, test. 1BA. Queste interviste sono state raccolte e schedate (con sigle numeriche e alfabetiche) in occasione della ricerca per la mostra storico-documentaria «Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900».

12. Cf. sul commercio e l’uso delle perle nei paesi del terzo mondo: La vita sociale delle perle. Produzione materiale, usi simbolici e ruoli sessuali: da Murano all’Africa e al Borneo, a cura di Nadia M. Filippini-Lidia Sciama, «La Ricerca Folklorica», 34, 1996.

13. Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Venezia. Monografia statistica, economica, amministrativa, Venezia 1880-1881.

14. Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia negli anni 1924-25, Venezia 1926, p. 50. Cf. su questo anche: Id., Caratteristiche economiche della provincia di Venezia. Con cenno storico sulla Camera di Commercio e notizie demografiche sulla circoscrizione. Risposta alla circolare 105 del Ministero dell’economia, Venezia 1924.

15. Id., L’attività economica della provincia di Venezia, p. 50.

16. Sul merletto cf. Alessandra Mottola Molfino, I merletti della scuola di Burano tra Ottocento e Novecento, in La scuola dei merletti di Burano, catalogo della mostra, Venezia 1981, pp. 37-56; Doretta Davanzo Poli, Il merletto veneziano, Novara 1998, e Ead., Il merletto a fuselli di Pellestrina, in Il merletto di Pellestrina, Venezia 1986, pp. 65-125.

17. Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia, p. 48.

18. «Fino a qualche tempo fa gli stabilimenti della Giudecca si limitavano alla montatura dei pezzi di orologio che venivano importati dalle Fabbriche estere, però dal 1923 essi hanno incominciato la fabbricazione completa degli orologi», ibid., p. 56.

19. Cf. sulle fabbriche della Giudecca anche: Sicinio Bonfanti, La Giudecca nella storia, nell’arte, nella vita, Venezia 1930.

20. Questi dati relativi al 1935 sono tratti da un’ampia relazione della stessa ditta dal titolo Pro-memoria Ditta Stucky a Venezia, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1925-1932), b. 41.

21. L’imperatore del Kaffa, che ritorna tra molti onori per una visita ufficiale nel 1930, scrive alla moglie: «Mi spiegarono che mentre in tanti piccoli luoghi del Veneto e della Lombardia abbondavano le filande con rozze operaie tolte dai campi, suonava male che a Venezia non ne avesse neppure una […] ove le donne del popolo son pur tanto svegliate e suscettibili alle industrie più fine ed ove era facilissimo provvedersi dei filugelli che tutto il Veneto in gran copia produce» (Giorgio Moscarda, Venezia nel 1930, Venezia 1898 [ma 1938], p. 83).

22. Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia, p. 75.

23. Cf. su questo Natalia Aspesi, Il lusso e l’autarchia: storia dell’eleganza italiana, Milano 1982. Cf. anche le interessanti pagine di Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988.

24. La cifra stimata di addetti nel solo comune è di 4.000 persone, ma comprensiva di più settori (Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia, p. 101).

25. Maria Pezzè Pascolato, La donna e gli impieghi, «Italia Nova», 3, 1931, nr. 5, p. 27. La realtà locale riflette quella nazionale (cf. B. Curli, Italiane al lavoro).

26. Iside, classe 1914, test. 12B.

27. I turisti che vengono alloggiati negli alberghi toccano la considerevole cifra di 917.000 presenze nel 1922 (Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia, p. 79).

28. G. Bertolini, ‘Italia’, II, pp. 214-216 (Bertolini le fotografa e riporta i nomi delle più famose). Cf. su questo aspetto dell’emigrazione anche: Nadia M. Filippini, Contadine, operaie, emigranti. Aspetti del lavoro femminile nella provincia di Venezia tra Otto e Novecento, «Venetica», 11, 1994, nr. 3, pp. 13-40.

29. L’iniziativa è del febbraio 1930. Le carte sono contenute in un consistente fascicolo che riguarda appunto la moralità e gli interventi di censura, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1927), b. 16.

30. Camera di Commercio e Industria di Venezia, Caratteristiche economiche della provincia di Venezia. Che la relazione sia di Trevisanato è scritto all’interno.

31. Cf. su questo lo studio di Alessandro Casellato, in questo volume. Per un confronto con altre realtà urbane cf.: Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari 1984.

32. M.V. Ballestrero, La protezione concessa e l’uguaglianza negata, p. 450.

33. Su questo v. Anna Bellavitis, Il lavoro femminile nel- l;a manifattura Tabacchi di Venezia e l’inchiesta Angelo Celli sulle condizioni igieniche e sanitarie dei tabacchifici in Italia. 1906, seminario di storia sociale (dattiloscritto), Università degli Studi di Bologna, a.a. 1979-1980, e Laura Guadagnin, La manifattura come mondo a sé delle donne. Competenze, corpi, identità. Testimonianze orali raccolte attraverso interviste, in Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, «Quaderni di Storia delle Donne Comuniste», 1989, nr. 4, pp. 39-46. Si tratta di una tendenza più generale, come ha dimostrato Paola Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Roma 1986. Cf. su questo anche: Luciana Spinelli, Disciplina di fabbrica e lavoro femminile: le operaie delle Manifatture Tabacchi (1900-1914), «Società e Storia», 28, 1985, pp. 319-372; Giorgio Pedrocco, Le operaie delle Manifatture Tabacchi, in Comune di Carpi, Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino 1992, pp. 353-362.

34. Il «Gazzettino dei Ragazzi», la prima rivista specifica per ragazzi stampata a Venezia a partire dal 1935, riporta le fotografie dei ragazzi di Venezia che si sono distinti appunto nella raccolta e nella donazione di ferro e oro alla patria.

35. Iside, classe 1914, test. 12B.

36. Ibid. Cf. su questo Nadia M. Filippini, Organizzazione del lavoro, ruoli sociali e familiari nei racconti delle infilatrici di perle (1910-1950), in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, pp. 28-46; Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Un lavoro a domicilio a Venezia: l’infilatrice di perle, in Comune di Carpi, Operaie, serve, maestre, impiegate, a cura di Paola Nava, Torino 1992, pp. 179-190.

37. Ilde, classe 1913, test. 9B.

38. Ibid.

39. Cf. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 323-380. Nel 1909 era stata promossa un’altra inchiesta da parte del Comune, da cui era emerso che il 46% delle case era privo di acqua potabile: Raffaele Vivante, Il problema delle abitazioni a Venezia, Venezia 1910. Cf. su questo la ricerca di A. Casellato in questo volume.

40. Cf. su questo aspetto della cultura della nascita a Venezia nel primo Novecento: Mariuccia Giacomini, Il parto in casa. Resoconti orali di ostetriche veneziane, in Nascere a Venezia: dalla Serenissima alla prima guerra mondiale, a cura di Lia Chinosi, Torino 1985, pp. 129-140.

41. Emilio Pardo, Luci e ombre, Roma 1965 (cit. in Gadi Luzzato Voghera-Lia Finzi-Susanna Szabados, L’educazione del bambino ebreo, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 145 [pp. 141-149]).

42. Cf. Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Un’economia femminile a Venezia. Gerarchie di lavoro e forme di prestito tra le infilaperle, «Memoria. Rivista di Storia delle Donne», 21, 1987, nr. 3, pp. 24-44.

43. Cf. su questo aspetto del ruolo giocato dalle riviste femminili nel processo di modernizzazione e di nuova identità femminile: H. Dittrich Johansen, La ‘donna nuova’; Ead., Dal privato al pubblico: maternità e lavoro nelle riviste femminili dell’epoca fascista, «Studi Storici», 35, 1994, pp. 207-242; La corporazione delle donne.

44. Fedora, classe 1917, test. 14B.

45. Elisa, classe 1895, test. 1BA.

46. Iside, classe 1914, test. 12B.

47. Gigia, classe 1911, test. 5BA.

48. Romilda, classe 1909, test. 18BA.

49. Sul mito della casetta cf. Vanna Fraticelli, Parva sed apta mihi: note sulla cultura e sulla politica della casa negli anni Venti in Italia, «Nuova DWF», 19-20, 1982, pp. 39-47; Mariuccia Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Torino 1993. L’Ente Autonomo Case Popolari sostiene a Venezia l’organizzazione dei laboratori femminili voluta dai Fasci femminili: «L’Ente Autonomo Case Popolari favorisce in tutto quello che può questi laboratori del Fascio Femminile, perché ha avuto modo di constatare come le sue inquiline che li frequentano riescano a tener con più ordine la casa» (I laboratori popolari del Fascio di Venezia, «Italia Nova», 7, 1935, nr. 4, p. 17).

50. La supplica è del 24 maggio 1928 (in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, III-6-2), cit. in N.M. Filippini, Organizzazione del lavoro, p. 43.

51. Questi dati sono desunti da: Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 414-417 (pp. 317-509), e da Maria Dri, Porto e industrie del centro storico veneziano tra economia di guerra e ricostruzione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 115-161.

52. Nelia, classe 1909, test. 7B.

53. Vittoria, classe 1910, test. 13B.

54. Cf. Le opere assistenziali nel mese di dicembre, «Italia Nova», 4, 1931, nr. 2, p. 18.

55. I resoconti di questi scioperi si trovano in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, b. 93, fasc. C1. Cf. su questo: Nadia M. Filippini, ‘Su compagne!’. Lavoro e lotte delle donne dall’Unità al fascismo, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 247-262.

56. La lettera è seguita da un’indagine volta alla ricerca dei mittenti, in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1925-1932), b. 41.

57. Il voluminoso fascicolo contenente l’inchiesta di polizia, gli interrogatori dei responsabili e le conclusioni del questore si trova in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, b. 93, fasc. C1; vi è allegato il corpo del reato, cioè il testo a stampa della canzone.

58. M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone.

59. Alvise Zorzi, Venezia ritrovata, 1895-1939, Milano 1995.

60. Ibid., p. 28.

61. «E chi l’è quell’uomo che non ci piace la dona spesialmente se la è bela? Lè un mincione e al imperatorre la ci piace la sua amica che tutti a devono dire che l’è una più gran belessa che mai e ci vorrei vedere anca vuialtri ciocialisti se ve la dasse la sua amicizia di lei» (Le lettere della Norma, «Il Secolo Nuovo», 1° maggio 1904, cit. in Emilio Franzina, Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 275-306).

62. Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992.

63. M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone.

64. Sui salotti in Italia cf. Mariuccia Salvati, Il salotto, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari 1996, pp. 173-196. Per un confronto con l’Europa cf.: Maurice Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della socialità nella Francia borghese (1810-1840), Roma 1993; Luoghi quotidiani nella storia dell’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993; Verena Von Der Heyden-Rynsch, Salons européens. Les beaux moments d’une culture féminine disparue, Paris 1993. Per un confronto con la realtà veneziana dell’Ottocento cf. anche i saggi di Mario Fincardi, I luoghi delle relazioni sociali, e Nadia Maria Filippini, Figure, fatti e percorsi di emancipazione femminile (1797-1880), in questo volume della Storia di Venezia.

65. Per la stesura di questo paragrafo mi sono avvalsa di testimonianze orali di protagoniste del tempo, di famiglie nobili o altoborghesi, tra cui Maria Damerini. Ho utilizzato anche interviste raccolte da Daniela Perco nell’ambito della ricerca sulla storia dell’infanzia condotta in occasione della mostra allestita a Venezia presso la Fondazione Querini Stampalia tra il dicembre 1999 e il febbraio 2000 (contraddistinte dalla sigla V 1999). Per ragioni di riservatezza e su richiesta delle intervistate le stesse verranno citate con sigle. Ringrazio Daniela Perco per avermi messo a disposizione le testimonianze integrali.

66. Cf. su questo N.M. Filippini, Figure, fatti.

67. M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone, p. 87.

68. ‘A Venezia si gioca e si balla’, in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 203.

69. Testimonianza di Maria Damerini.

70. Per un confronto con altre realtà locali del Nord, in cui il salotto continua fino al Novecento con altrettanta rilevanza sul piano culturale, cf. Roberto Curci-Gabriella Ziani, Bianco, Rosa e Verde. Scrittrici a Trieste fra ’800 e ’900, Trieste 1993.

71. Cit. in G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 167.

72. 43.739 firme per il Duca d’Aosta e la III armata, «Il Gazzettino», 23 luglio 1919. Quanto alla cerimonia, «Il Gazzettino» parla di una «larghissima rappresentanza delle donne del Comitato per l’omaggio al Duce a capo della Contessa Morosini e Mocenigo» (Venezia al Duce e agli eroi della III armata. Grandiosa cerimonia in Piazza S. Marco, ibid., 28 luglio 1919). Cf. su questo anche G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 250.

73. I duchi tra le donne veneziane, «Il Gazzettino», 4 agosto 1919.

74. L’elenco di «patronesse» figura anche nel carteggio relativo all’istituzione del Festival, che si trova in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1926-1934), b. 16.

75. Cf. su questo: N. Aspesi, Il lusso e l’autarchia.

76. Testimonianza V 5, 1999 (C).

77. Daniela Perco, Balie da latte e balie asciutte. Figure femminili nelle famiglie aristocratiche e borghesi, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 34 (pp. 23-37). Cf. anche Ead., Balie da latte. Una forma peculiare di emigrazione temporanea, Feltre 1984.

78. Testimonianza V 5, 1999 (C).

79. Cit. in D. Perco, Balie da latte e balie asciutte, p. 32.

80. Ibid., p. 34.

81. «Presso la nostra fiorente Scuola Professionale femminile Vendramin Corner, l’Opera Nazionale Maternità e infanzia ha istituito un nido per le lezioni di puericoltura teorico-pratica così da poter rilasciare un diploma di ‘Vigilatrici dell’Infanzia’» (Delegazione fasci femminili-Foresteria fascista. Nido-scuola, «Italia Nova», 3, 1930, nr. 1, p. 6 [l’articolo allega anche una foto degli interni]).

82. Testimonianza V 2, 1999 (A.R.).

83. Testimonianza V 10, 1999.

84. Testimonianza V 3, 1999 (A.C.).

85. Testimonianza V 3, 1999 (G.M.).

86. Testimonianza di Francesca Tonetti, agosto 1998.

87. Testimonianza V 3, 1999 (G.M.).

88. Cf. Asilo per i bambini lattanti e slattati Gio: Batta Giustinian, Venezia 1930. Cf. su questo ed altri asili: Nadia M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Ead.-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 91-112. Per uno sguardo complessivo cf. La donna nella beneficenza in Italia, a cura di Emilio Bruno-Virginia Roggero Sanvito, I-IV, Torino 1910-1913: II, pp. 201-217.

89. Gli atti relativi, in Venezia, Archivio Storico Comunale,  Archivio Municipale, 1936-1940, VI-3-4, sono purtroppo stati stralciati.

90. Cf. su questo Fabio Vitali, La società veneziana contro la tubercolosi, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 4, 1925, nr. 6, pp. 240-248.

91. Cf. su questo Gino Sorteni, La scuola convitto ‘Nani’ per signorine infermiere e assistenti sanitarie, ibid., 6, 1927, nr. 1, pp. 1-7.

92. M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone, p. 65.

93. «Italia Nova», 3, 1931, nr. 4.

94. Sulla Croce Rossa e la sua diffusione in Italia cf.: Michela De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Roma-Bari 1992, pp. 112-118.

95. Testimonianza V 2, 1999 (A.R.).

96. Per un confronto più generale: Stuart Woolf, Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna, Roma-Bari 1988; Bronislaw Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Torino 1988; Piercarlo Grimaldi-Renato Grimaldi, Il potere della beneficenza: il patrimonio delle opere pie, Milano 1983.

97. Philip V. Cannistraro-Brian R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del Duce, Milano 1993.

98. Margherita Sarfatti, Nel decennale: orientamenti e presagi, «Gerarchia», 12, agosto 1932, p. 878.

99. Luisa Passerini, Mussolini immaginario. Storia di una biografia, 1915-1939, Roma-Bari 1991.

100. Sull’attività culturale della Sarfatti cf. in partic.: Anna Nozzoli, Margherita Sarfatti organizzatrice di cultura: «Il Popolo d’Italia», in La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, a cura di Marina Addis Saba, Firenze 1988, pp. 227-272.

101. Venezia. Gli anni di Ca’ Pesaro, 1908-1920, catalogo della mostra, a cura di Chiara Alessandri-Giandomenico Romanelli-Flavia Scotton, Milano 1987 (v. voce Margherita Sarfatti).

102. Un tentativo di analisi di questo «femminismo fascista» e del passaggio di alcune femministe al fascismo attraverso l’irredentismo è stato fatto da: Denise Detragiache, Il fascismo femminile da San Sepolcro all’affare Matteotti, «Storia Contemporanea», 14, 1983, nr. 2, pp. 211-251; S. Bartoloni, Il fascismo femminile e la sua stampa; H. Dittrich Johansen, Le donne dell’idea.

103. Sull’attività femminista di Margherita Sarfatti nel primo decennio del Novecento cf. anche: M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi.

104. P.V. Cannistraro-B.R. Sullivan, Margherita Sarfatti, p. 47.

105. D. Detragiache, Il fascismo femminile.

106. Su di lei cf.: Elisabetta Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del ventennio, Roma 1987; Marina Addis Saba, La donna muliebre, in La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, a cura di Ead., Firenze 1988, pp. 1-71; D. Detragiache, Il fascismo femminile.

107. Il «discorso dell’Ascensione» (26 maggio 1927), con il quale Mussolini dà il via alla campagna demografica e di difesa della razza, è considerato come il punto di svolta nella politica di genere del regime (cf. Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia 1993, pp. 69-111; Pietro Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Roma-Firenze 1975).

108. L’unica biografia di una certa ampiezza è quella tracciata alla sua morte dall’allieva e seguace Lina Passarella Sartorelli, Maria Pezzè Pascolato, Firenze 1935; Ead., Primi appunti su Maria Pezzè Pascolato, Venezia 1933; O. Asiello, Il concetto della vita in Maria Pezzè Pascolato, «L’Educazione Nazionale», 11, 1929.

109. Il padre Alessandro è il fondatore della Società regionale veneta per la pesca e l’aquicoltura (1893), che si proponeva di risollevare le sorti dei pescatori poveri (cf. Società regionale veneta per la pesca e l’aquicoltura, Per l’inaugurazione della nuova sede sulla nave ‘Scilla’ della scuola Veneta di pesca in Venezia coll’annesso Asilo pei figli derelitti dei marinai-pescatori dell’Adriatico, Vicenza 1906). Sul profilo del fratello Mario cf. Gino Bertolini, ‘Italia’, I, Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, Venezia 1912, pp. 82-83.

110. Cf. su questa produzione di libri per ragazzi il saggio di Tiziana Plebani, Il bambino nella storia della lettura. Dalla biblioteca dell’oralità al catalogo delle letture, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, p. 179 (pp. 167-181).

111. Cf. Relazione dei revisori dei conti del patronato Pro-Schola, con discorso introduttivo di Maria Pezzè Pascolato, Venezia 1899.

112. Su questa istituzione cf. in partic. Gino Pignatti, Istituzioni scolastiche ed integrative, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 5, 1926, nr. 7, pp. 305-319.

113. Cfr. su questo Liviana Gazzetta, Madre e cittadina. Una concezione dell’emancipazione alle origini del primo movimento politico delle donne in Italia, «Venetica», 11, 1994, nr. 3, pp. 133-161, e N.M. Filippini, Figure, fatti.

114. A lei dedica una breve biografia Maria Pezzè Pascolato, Rosa Piazza, Venezia 1914.

115. Ead., Fasci Femminili, «Italia Nova», 1, 1929, nr. 1, pp. 12-14.

116. Per dirla con le parole di Margherita Deleuse, sua stretta collaboratrice, che da lei eredita la direzione della scuola professionale femminile «Vendramin Corner» (M. Deleuse, Il regime e l’educazione femminile. Cf. sul modello della donna fascista: P. Meldini, Sposa e madre esemplare; Maria Antonietta Macciocchi, La donna ‘nera’. Consenso femminile e fascismo, Milano 1976).

117. Maria Pezzè Pascolato, I fasci femminili, «Gerarchia», 12, febbraio 1932, p. 115.

118. Gisela Bock, Il nazional-socialismo: politiche di genere e vita delle donne, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di Françoise Thébaud, Roma-Bari 1992, pp. 176-208.

119. L. Gazzetta, Madre e cittadina, pp. 133-162.

120. «È vanto del fascismo avere impostato il problema femminile come problema politico (politico nell’alto significato classico della parola), affermando il valore della collaborazione femminile nell’opera di rinnovamento civile e nazionale» (M. Pezzè Pascolato, I fasci femminili, p. 115).

121. Ead., La donna e gli impieghi.

122. Ibid.

123. Ead., Cose Piane. Libro per le giovanette, Firenze 1921.

124. «Ebbimo in Maria Pascolato l’artista e la donna pratica, cioè la donna ideale, antifemminista per eccellenza in un’epoca che vorrebbe chiamarsi femminista ad oltranza» (R. Chiminelli, Maria Pezzè Pascolato, «Le Tre Venezie», 10, 1934, nr. 1, p. 143).

125. M. Pezzè Pascolato, La donna e gli impieghi.

126. Scrive anche: Ead., Piccole storie e grandi ragioni della nostra guerra, Milano 1918. Su questa sua attività nel periodo bellico cf.: Ettore Bogno, Per la guerra, in Lina Passarella Sartorelli, Maria Pezzè Pascolato, Firenze 1935, pp. 67-79.

127. Cf. V. De Grazia, Le donne nel regime fascista. Cf. anche Ead., Il patriarcato fascista: come Mussolini governò le donne italiane, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di Françoise Thébaud, Roma-Bari 1992, pp. 141-172. Ma la sua figura non viene adeguatamente valorizzata.

128. M. Pezzè Pascolato, Fasci Femminili, pp. 12-14.

129. Ibid., p. 12.

130. Ead., I fasci femminili, p. 117.

131. Cf. sulle finalità dell’Ente Opere Assistenziali e sulla sua struttura: Ente Opere Assistenziali. Le provvidenze dell’anno X, «Italia Nova», 5, 1933, nr. 4, pp. 3-26.

132. Citato in Emma Gavagnin, Per la gioventù femminile e fascista, in Lina Passarella Sartorelli, Maria Pezzè Pascolato, Firenze 1935, pp. 31-32.

133. Convegno di segretarie e fiduciarie della provincia dei fasci femminili, «Italia Nova», 3, 1930, nr. 2, p. 10. Cf. su questo anche: Maria Pezzè Pascolato e la Biblioteca dei ragazzi, ibid., 7, 1934, nr. 5, pp. 25-28.

134. Il partito per i figli del popolo. Il primato di Venezia. Le colonie marine e montane. I campi solari, ibid., 3, 1931, nr. 10, pp. 2-5.

135. Il carteggio relativo alla sua nomina si trova in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1925-1932), b. 41.

136. Questi e i successivi dati sull’attività dell’O.N.M.I. vengono pubblicati in un ampio resoconto nel bollettino della federazione fascista: Maria Pezzè Pascolato, Opera Nazionale Maternità ed infanzia, «Italia Nova», 3, 1931, nr. 7, pp. 16-25.

137. Cf. sulla «festa delle Marie», in questo volume, il saggio di Marco Fincardi, I fasti della ‘tradizione’: le cerimonie della nuova venezianità.

138. G. Pignatti, Istituzioni scolastiche ed integrative, p. 305.

139. Questi dati si trovano in una relazione dattiloscritta del 16 maggio 1940 inviata al sindaco Marcello dal delegato provinciale dell’O.N.M.I., Bianchini, in occasione della visita congiunta compiuta nelle varie istituzioni dell’Opera (in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1936-1940, II-9-10). È uno dei pochi documenti dell’O.N.M.I. conservati nell’Archivio Storico Comunale dopo un massiccio stralcio avvenuto negli anni 1960.

140. M. Pezzè Pascolato, I fasci femminili, pp. 115 e 117.

141. Margherita Deleuse, Maria Pezzè Pascolato, «Italia Nova», 5, 1933, nr. 5, pp. 16-22.

142. Si tratta delle nobildonne contro cui si scaglia il Supplemento al n. 4 (marzo 1944) dell’Italia giovane organo della Gioventù Studiosa e lavoratrice dell’Alta Italia («Attenzione all’aristocrazia bacata: le cosidette nobildonne Da Sacco, Casagrande, Di Sangro, Mocenigo, Brogliato, che prende luce dal pavone Capasso Torre e dai vari Maglioni […]»), cit. in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 83.

143. Questi ed i successivi dati sono contenuti nella relazione-discorso che la Marcello tiene sul Piave, in un’adunata commemorativa di 6.000 fasciste (Seimila fasciste radunate presso il sacro Piave, «Italia Nova», 7, 1934, nr. 1, pp. 22-26).

144. Lina Giacomini, Le nostre contadine fasciste, ibid., nr. 3, pp. 24-25.

145. Il raduno delle massaie rurali, ibid., nr. 6, pp. 15-20.

146. Preparazione della donna alla vita coloniale, ibid., 12, 1939, nrr. 156-160.

147. Il «Gazzettino dei Ragazzi» comincia ad esser pubblicato a Venezia nel 1935. Ogni numero è ricco di notizie, storie e fotografie sulla vita delle colonie.

148. Sentenza del 6-9 giugno 1945 (viene poi amnistiata nel 1946). Con lei vengono condannate altre sei donne: tre ausiliarie dei Fasci femminili (Trevisan Leder, Rosita Carasì e Gisela Santi) e tre informatrici della federazione fascista (Maria Teresa Rosina, Ottorina Martini, Arminia Serra); cf. Alessandro Reberschegg, La Corte straordinaria d’Assise di Venezia, «Venetica», ser. III, 12, 1998, nr. 1, pp. 133-160; Marco Borghi-Alessandro Reberschegg, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia (1945-1947), Venezia 1999. Cf. anche su quest’ultimo periodo del fascismo a Venezia: Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-160.

149. M. Deleuse, Il regime per l’educazione femminile, p. 9.

150. Cf. su questo N.M. Filippini, ‘Su compagne!’, pp. 247-262.

151. «Chi xè l’Anita? Un mito. Una donna combattiva ma dolcissima, gentile, comprensiva» (cf. su questo Maria Teresa Sega, Anita e le compagne: identità, relazioni, valori delle donne comuniste, in Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, «Quaderni di Storia delle Donne Comuniste», 1989, nr. 4, p. 49 (pp. 47-54).

152. Franca Trentin, Le lotte delle tabacchine e di Anita Mezzalira nella stampa d’epoca (1911-1923) (ricerca sui giornali del tempo), ibid., pp. 23-32.

153. Cf. su questo Mario Balladelli, Anita Mezzalira (1886-1962). Una vita per la democrazia e per il socialismo, Venezia s.a., pp. 9-11.

154. Cf. su questo N.M. Filippini, ‘Su compagne!’, p. 257.

155. Lettera del direttore al Ministero, del 19 settembre 1919, conservata in Venezia, Archivio della Manifattura Tabacchi (cit. in Anna Bellavitis, Anita in fabbrica, in Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, «Quaderni di Storia delle Donne Comuniste», 1989, nr. 4, pp. 33-38. A. Bellavitis ha avuto modo di consultare l’archivio della Manifattura prima della chiusura della fabbrica, nel 1987-1988. Attualmente l’archivio, entrato in possesso dell’A.S.V., attende di esser catalogato e non è accessibile al pubblico).

156. Ibid.

157. Ibid., p. 37.

158. M. Balladelli, Anita Mezzalira, p. 43

159. Cf. La Resistenza nel Veneziano, II, p. 442.

160. Gianni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana, 1922-1939, Torino 1995, p. 87.

161. Bianca Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino 1977; cf. anche: Laura Mariani, Quelle dell’idea. Storie di detenute politiche, Bari 1982; La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Anna Bruzzone-Rachele Farina, Milano 1976.

162. Cf. Comune di Venezia-ANPPIA-ANPI, Antifascisti a Venezia prima della Resistenza, Venezia 1996 (l’elenco è ricavato dalle schede del casellario politico generale).

163. G. De Luna, Donne in oggetto, p. 131.

164. Cf. sulla persistenza di questo immaginario che identifica il partito con una famiglia ideale il libro di Tina Merlin, Siamo tutti una famiglia. Cronache di lotta operaia nel paese della ceramica: le Nove di Bassano, aprile-luglio 1971, Vicenza 1982.

165. M.T. Sega, Anita e le compagne, p. 52.

166. Elisa, classe 1895, test. 1BA.

167. Simonetta Soldani, Donne della nazione. Presenze femminili nell’Italia del Quarantotto, «Passato e Presente», 46, 1999, pp. 75-102.

168. Elisa, classe 1895, test. 1BA.

169. Citato in M.T. Sega, Anita e le compagne, p. 52.

170. Cf. su questo: Marco (Giuseppe Turcato), Gli Spina (storia di una famiglia durante il fascismo), in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 339-344.

171. Elisa, classe 1895, test. 1BA.

172. La testimonianza è di Remigio Pavanello, cit. in G. Paolo Sprocati, Antifascisti alla Giudecca, Venezia 1990, p. 26.

173. Cf. su questo Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di Renata Segre, Venezia 1995.

174. Elena Bassi, Venezia 1943-45. Appunti, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 467-476. Elena Bassi è stata da me intervistata in occasione della ricerca preparatoria alla mostra sulla storia della Resistenza organizzata dal Comune di Venezia nell’aprile 1995, nella ricorrenza del cinquantenario della Liberazione, a cura di Sergio Barizza: «Venezia 1945. Epilogo di una dittatura. Immagini e testimonianze di un decennio di vita in città fra apoteosi e caduta del regime fascista, guerra e occupazione tedesca, resistenza e insurrezione».

175. Francesca Tonetti, Alla ricerca di mio padre. Pagine di diario, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testomianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 353-358. La storia del suo legame con il padre è descritta nel libro: Ead., Il vento del Quarnero, Roma 1994.

176. Ida D’Este, Croce sulla schiena, Roma 1966, p. 15; Ead., Un gruppo di giovani che attendono dal cielo, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 507-513. Cf. sulla sua figura: Silvio Tramontin, La Chiesa veneziana dal 1938 al 1948, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 469 (pp. 451-501); Giovanni Ponti, Ida D’Este, staffetta partigiana, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 335-336.

177. Su alcune di queste figure femminili cf. il breve saggio di Vincenzo Brunello, Donne della resistenza, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 359-362. Alla partecipazione delle donne alla Resistenza è stato dedicato il convegno «Resistere. Memoria e vissuto delle donne nella guerra di Liberazione», organizzato a Venezia da Società Italiana delle Storiche, Associazione Storiamestre, Gruppo Mneme, nel maggio 1995. Nell’occasione hanno portato la loro testimonianza: Elena Bassi, Graziella Bellini, Libertà Spina, Aida Tiso, Francesca Tonetti, Franca Trentin, Ester Zille.

178. Questo problema era stato al centro di un aperto dibattito nel 1848, quando alcune donne avevano chiesto ufficialmente al comando della guardia civica che fosse loro concesso l’uso delle armi, con la formazione di un battaglione femminile, per partecipare pienamente alla difesa di Venezia. Cf. su questo il contributo di N.M. Filippini, Figure, fatti.

179. Cf. su queste esperienze di prigione: I. D’Este, Croce sulla schiena, pp. 137-188.

180. È quanto traspare ad esempio dal racconto autobiografico di Tina Merlin, La casa sulla Marteniga, Padova 1993.

181. Gli atti di questa associazione sono in A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1947-), b. 18.

182. Per queste notizie cf. S. Tramontin, La Chiesa veneziana, pp. 491-492, e Giorgio Santarello, La giunta popolare Ponti, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, p. 134 (pp. 125-155).

183. Cf. su questo: Lia Finzi-Girolamo Federici, I ragazzi del collettivo. Il convitto ‘Francesco Biancotto’ di Venezia, 1947-1957, Venezia 1993.

184. Risultano elette nelle liste della D.C. (che ottiene 23 consiglieri): Rosa Zenoni Politeo, Maria Santi, Ida D’Este, Emilia Nordio. Nelle liste del P.C.I. (17 consiglieri): Anita Mezzalira, Lucia Braicovich (cf. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, p. 254, e G. Santarello, La giunta popolare Ponti, Appendice I, p. 175).

185. Per rendersene conto basta leggere la trascrizione del dibattito svoltosi in consiglio comunale l’8 marzo 1954, dove, tra le risate generali, il sindaco Angelo Spanio in persona, commentando l’intervento di Anita Mezzalira, afferma di «esser d’accordo nei diritti delle donne fino a quando, coi mezzi ormonici che abbiamo oggi non sarà possibile dare alle donne che lo desiderano il modo di diventare uomini» (cf. Lia Finzi, La presenza di Anita in Consiglio Comunale, in Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, «Quaderni di Storia delle Donne Comuniste», 1989, nr. 4, pp. 18-19).

186. Ibid., p. 18.

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