Storiografia e societa

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Storiografia e società

Giuseppe Galasso

Origini ed età antica

La formazione, la conservazione, la trasmissione, l'aggiornamento della memoria storica sono aspetti - distinti fra loro solo nel corso della storia - di una funzione sociale che, nei modi più vari, viene sempre assolta in qualsiasi comunità umana e in qualsiasi condizione di civiltà. Una tale universale esperienza fa pensare a ragioni fondamentali sia di natura pratica che ideale. Fa pensare, ad esempio, all'identità comunitaria o all'azione da svolgere nel presente, delle quali è riferimento inevitabile l'informazione storica, ossia una qualche nozione del passato, una qualche codificazione dell'esperienza già vissuta, a cui l'essere e l'agire nel presente si legano o si contrappongono. Altrettanto universale è la veste mitica o leggendaria in cui il passato è elaborato, alle origini, in frequentissima simbiosi con l'ambito del numinoso, se non del divino, e col patrimonio delle credenze e delle prassi religiose, di cui l'informazione storica fa organicamente parte presso quasi tutte le popolazioni delle quali si ha un minimo di documentazione. L'importanza di questa constatazione è accresciuta dal fatto che essa si impone sia quando si tratta di comunità umane a un livello elementare di sviluppo tecnico e culturale, sia quando si tratta di regni e imperi della massima consistenza: la tribù amazzonica come il gigantesco 'impero di mezzo' nell'Asia orientale, gli Aborigeni dell'Oceania come gli imperi 'indiani' del Messico o delle Ande. E dalla stessa constatazione deriva pure quella parallela, anzi in tutto combaciante, di un ricorrente affidamento della funzione storiografica al 'clero' caratteristico di ciascun ambito di civiltà o a speciali figure di 'chierici' - sia all'interno del 'clero' che distinti da esso - o, ancora, alle guide politiche e militari quando, o nella misura in cui, rivestono panni religiosi o, infine, ad autorità, per così dire, 'civili' che tali guide, a seguito di particolari sviluppi storici, affiancano in varia posizione e con vario ufficio o, ancora, in alcuni casi a queste stesse guide.

Tuttavia, non è solo un pregiudizio occidentale a far ritenere che la storiografia intesa nel senso moderno abbia avuto la sua origine nel mondo ellenico. La filiazione moderna rispetto a tali origini è fin troppo evidente in una serie di questioni teoretiche e in alcuni modelli storiografici di tenace fortuna. Basti pensare alla questione fondamentale - già discussa da Aristotele, e ancora così viva alla fine del XX secolo - se la storia debba o non debba essere considerata sotto il concetto generale dell'arte; e, in caso affermativo, se vi sia un carattere distintivo della rappresentazione storica rispetto alle rappresentazioni artistiche; e se questo eventuale carattere possa essere visto, ad esempio, nell'interesse della storia per il 'vero' rispetto a quello per il 'verosimile' proprio della rappresentazione artistica. Basti pensare - ancor più - alla pregiudiziale razionalizzazione derivante dall'aver assunto l'indagine quale base specifica della rappresentazione storica. Il termine stesso di 'storia' è, come ben si sa, di conio ellenico: ἱστοϱία, da una radice εἴδω che riporta al vedere e, dunque, al conoscere e al sapere attraverso il vedere (dalla stessa radice, dunque, del tedesco moderno Wissen, cioè appunto sapere, e dell'antico sanscrito veda, il sapere per eccellenza).

Ellenico egualmente è il modello della 'storia prammatica', ossia della storia come successione causale razionalmente indagabile, conoscibile e rappresentabile dei fatti in cui consistono eventi e processi storici specificati insieme nel loro ordine cronologico e nella loro distribuzione spaziale, per cui cronologia e geografia sono i due occhi della storia: modello storico indubbiamente più praticato, e di gran lunga, rispetto ad ogni altro in tutta la tradizione storiografica che fa capo all'Ellade e, altrettanto indubbiamente, il più radicatosi nell'opinione e nella cultura corrente di tutte le civiltà in cui quella tradizione è stata assunta, proseguita e sviluppata. Ellenico è il modello biografico che - in connessione fortemente significativa con lo spirito di quella civiltà quale già si era espresso nell'epica e nel teatro - fissa nell'individuo, specie se assunto in proiezione eroica, come si vede in Plutarco, il protagonista delle vicende umane e della storia del mondo. Ellenico è, inoltre, anche il modello della storia che, al di là del livello biografico o prammatico e come suo supporto o premessa, mira agli usi e ai costumi dei popoli (basti pensare a Erodoto o a Polibio) e si pone come lontano antenato di una storiografia a base etnografica, se non proprio antropologico-culturale. Ellenico è, ancora, il modello della storia come teatro di lotta fra le classi diverse della popolazione, e innanzitutto fra aristocrazia e popolo, lontano antenato, a sua volta, della moderna storia sociale. Ellenica, infine, con Polibio (ma precedenti se ne potevano trovare in Eforo e Teopompo), la costruzione di un modello inteso ad accentrare intorno a una determinata potenza o forza storica dominante (nella fattispecie polibiana, Roma) il racconto delle vicende di un'ampia area geografica e di un lungo periodo di tempo, allo scopo di trovare così un punto centrale di gravitazione nella molteplicità, altrimenti caotica, degli agenti e degli eventi di cui si doveva narrare la storia, conferendo una non arbitraria unità al proprio oggetto storico e conquistando un'autentica prospettiva di 'storia universale': altro lontano antenato di problemi e soluzioni storiografiche moderne. E ciò senza contare che almeno le storie scritte da Erodoto e da Tucidide, da Plutarco e da Polibio sono rimaste tra i classici più reputati della letteratura universale e della storiografia in particolare e hanno, anzi, avuto spesso una notevole efficacia ben al di là dello stretto ambito disciplinare della storiografia, fornendo anche riferimenti fondamentali, ad esempio, alla riflessione politica e morale o (come, in particolare, nel caso di Plutarco, con le sue biografie viste quali modelli di vita) la base di ideali eroici ed etici.

Con la storiografia ellenica nascevano, così, più cose insieme. Si fissava la natura critica del lavoro storiografico, il suo approdo dalla poesia alla prosa, il suo distacco dal mito e dalla leggenda, il suo fondamento nella ricerca e nella riflessione ragionata e, soprattutto, la sua autonomia disciplinare. Ciò significava una laicizzazione e, insieme, una individualizzazione della prospettiva storiografica.Sarebbe difficile pensare a svolgimenti di tanto rilievo - sia da un punto di vista culturale più generale, sia dal più specifico punto di vista storiografico - senza connetterli intrinsecamente con tutta la vicenda politica e civile del mondo ellenico. Soprattutto i due aspetti della laicizzazione e della individualizzazione riconoscibili nella storiografia ellenica appaiono dipenderne con una evidenza memorabile. Lo storico è qui, per quanto possa essere legato a centri di potere o all'osservanza di posizioni di parte, innanzitutto e soprattutto una individualità che ragiona, discute, approva, respinge, propone, dubita, giudica: svolge, insomma, per intero il ruolo di un elemento autonomo del processo culturale e civile di cui la storiografia è un momento. La sua autorevolezza non dipende dalla tradizione, e neppure dalla tesi che sostiene; dipende dalla forza argomentativa e stilistica con cui costruisce il suo testo. Ogni eventuale precedente orientale o episodio pre-ellenico o altro svolgimento coevo nella stessa direzione - si può pensare, in particolare, ai Fenici e a Cartagine - appare non solo superato, ma trasfigurato da quanto, al riguardo, accade nel mondo ellenico.

Nel momento più alto di questa esperienza per quanto concerne lo svolgimento di scienze e ricerche, ossia nell'epoca ellenistica, il disegno di una politica culturale da parte dei pubblici poteri sembra assumere caratteri più forti e, soprattutto, più rispondenti e più sinergici rispetto al complesso degli elementi di cui si è finora parlato. Lo sguardo ellenico si allargò come mai prima a tutto l'orbe conosciuto. Iniziativa e committenza pubblica sembrano sposarsi spontaneamente e armoniosamente con interessi e iniziative individuali. Le corti dei sovrani ellenistici diventarono, a loro volta, formidabili centri di propulsione in tal senso. La dimensione 'scientifica' del lavoro intellettuale si affermò oltre ogni limite precedente. La decisione di Tolomeo Filadelfo di far tradurre in greco i libri e le storie disponibili di tutte le genti conferma, nello stesso tempo, da un lato, l'universalità dello sguardo storico (del geschichtliches Ansicht, verrebbe fatto di dire) a cui l'esperienza ellenica era giunta, e che appare anch'essa come qualcosa di originale rispetto a qualsiasi altra esperienza svoltasi fino ad allora in qualsiasi ambito, anche delle maggiori civiltà orientali; dall'altro lato, la convergenza di pubblico e di individuale (che era anche convergenza di politica e cultura), che ugualmente sembra caratterizzare in modo originale la stessa esperienza ellenica.

Nel caso di Roma - la cui vicenda si saldò con quella ellenica e fece con essa un tutto organico -il nesso tra storiografia e potere appare in forme, se possibile, ancora più evidenti. Basti pensare a una delle caratteristiche più note della sua storiografia: la tesi, cioè, per la quale in tutte, senza eccezione, le guerre da essa combattute Roma aveva affrontato un bellum justum, una guerra giusta, nel senso che si trattava di una guerra che la città aveva il diritto di combattere e che nasceva da un'offesa altrui al diritto (alle norme convenute) da cui erano regolati i rapporti fra i Romani e gli altri. Una storia in cui la dimensione militare aveva un rilievo enorme e decisivo perdeva così l'aspetto, che avrebbe potuto assumere, di un ininterrotto esercizio della violenza. Perdeva - ben più - l'aspetto di un'assurda concatenazione di battaglie, marce, assedi, assalti, difese, per assumere quello di una nobile, costante, inflessibile tutela della santità di ciò che da Roma e con Roma si era stabilito come norma della convivenza e dei rapporti tra le genti. La giustizia delle guerre romane non era, quindi, di ordine ideale astratto, conforme, cioè, a un ideale teoretico di equità e di bene, bensì di ordine storico e pratico; nasceva dalla storia stessa in quanto risultato di guerre precedenti o di pacifici accordi o di semplice e inoppugnata consuetudine nelle relazioni dei Romani con gli altri. Lo scrittore romano di storia era, perciò, vincolato ab origine a una 'filosofia' della storia della sua città che era più di un condizionamento culturale.

Le forme più arcaiche della letteratura storica romana - fasti e annali - curate da collegi sacerdotali e in sede pubblica riflettevano del resto, in maniera molto pregnante e significativa, l'antichissima, diffusa, analoga e già notata consuetudine di una storia ufficiale per iniziativa e sotto controllo pubblico. Lo svolgimento successivo è certamente in tutto conforme ai precedenti ellenici. Tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C. una storiografia dai grandi nomi - Sallustio, Cesare, Livio, Tacito, per fare solo i nomi maggiori - si affiancò, in quello che poi sarebbe stato il patrimonio storiografico europeo e moderno, alla tradizione dei grandi storici greci, esercitando una pari, se non addirittura una maggiore, influenza sulla storiografia moderna.

Non che a Roma, secondo una nota e vieta veduta, ci si limitasse a una pedissequa imitazione dei modelli ellenici. Forse ancor più che in altri campi della vita civile, l'originalità romana risalta nel campo storiografico con una evidenza che induce a riportarla senz'altro all'eccezionale rilevanza complessiva dell'esperienza politica e imperiale di Roma. La grande evoluzione dall'originaria prevalenza del concetto di bellum justum come motivo ispiratore e dinamico della storia di Roma al concetto dell'alta missione morale e politica assegnata ai Romani dai Fati ("tu regere imperio populos ...") tracciò un cammino esemplare, trasvalutando su un piano etico-politico di robusta ispirazione la già grande intuizione di Polibio circa la centralità e la primazia da lui ravvisate nella storia di Roma rispetto a quella dei popoli e delle civiltà dell'universo di cui, in Grecia come in Roma, si sentiva di far parte. Il riferimento a Polibio induce pure a ricordare come lo sviluppo della potenza romana formasse, al più tardi tra il III e il II secolo a.C., uno stimolo precipuo alla riflessione storica da parte dei gruppi dirigenti e delle grandi gentes che costituirono a lungo lo scheletro della società e della vita politica di Roma. Questo sembra essere avvenuto allora soprattutto in 'circoli' (come quello degli Scipioni, con cui Polibio fu in rapporto) che rappresentarono un tipo originale di gruppo di potere e di pressione solo parzialmente riportabile all'esperienza ellenica. Dei caratteri di quest'ultima a tale riguardo si è accennato. Se ne trae l'impressione di una minore forza e consuetudine complessiva di coesione e di aggregazione politica: donde anche la maggiore forza, in Grecia, di 'scuole' e di maestri rispetto alla tradizione romana di inserimento di circoli e gruppi nell'organismo dello Stato e, per lo storico, di un compito più vasto e socialmente più rilevante di quello ristretto a una pedagogia storica per l'attività politica.

Nella politica culturale di Augusto una specifica 'filosofia della storia' avrebbe dato a tale compito un rilievo ancora maggiore. L'ortodossia romana sarebbe stata appoggiata definitivamente su due saldi pilastri: da un lato, la missione fatale di Roma; dall'altro, la fede nell'imperium sine fine che di quella missione rappresentava il visibile epilogo. Le variazioni individuali rispetto al canovaccio ortodosso possono essere, peraltro, cospicue, pur senza toccare l'insieme della dottrina. Possono andare dalle simpatie repubblicane di Livio alla critica morale e politica di un certo tipo di potere imperiale in Tacito e alla facile notazione di costume che riporta alla più comune e meno suggestiva umanità le figure degli imperatori in Svetonio. E ciò conferma, in un quadro tanto più definito e prospetticamente chiuso e disciplinato di quello ellenico, l'importanza assunta dall'elemento individuale e dalla considerazione critica grazie, appunto, all'esperienza ellenica.

L'esperienza europea dei 'secoli bui': il Medioevo della storiografia

Uno squarcio poderoso nella tela ellenistico-romana fu operato, in seguito e innanzitutto, dall'irruzione del cristianesimo tra i massimi fattori storici nati in quel mondo. Uno squarcio anche materialmente enorme fu, inoltre, provocato dal progressivo deterioramento del fondamento etico-politico, nonché della struttura, dell'attrezzatura materiale e dell'organizzazione civile del mondo romano.

Con il cristianesimo - è ben noto - una vera e propria rivoluzione veniva operata nella filosofia della storia o, se si preferisce, nella visione storica del mondo in cui esso sorse e, dunque, nel pensiero storico maturato in quel mondo. Il segno della rivoluzione era di impronta squisitamente e totalmente religiosa. Ciò non significava in nessun modo un ritorno a concezioni e ispirazioni mitologiche. Il pensiero cristiano comportava una storicizzazione completa, conchiusa della storia: Dio, creazione, caduta, redenzione, giudizio universale formavano la catena dell'apertura e della chiusura del Tempo nell'unica realtà dell'Eterno. Pur così perentoriamente definito e fatto coincidere con la vicenda del Tempo, il corso della storia si distaccava, nell'interpretazione cristiana, da precedenti e posteriori visioni di analoga assonanza di termini e di concetti. Non era, quella cristiana, una dottrina del ciclo di impronta più o meno naturalistica, e tanto meno della indefinita ripetizione ciclica. Non era una dottrina del passaggio da stadi parziali a stadi universali dell'esperienza civile dell'umanità, come a suo modo lo era stata la 'dottrina delle quattro monarchie' che, in una serie di progressive variazioni (entravano in gioco Assiri e Babilonesi, Medi e Persiani, Macedoni e Romani), aveva individuato nell'Impero di Roma lo stadio conclusivo, 'universale', della via via più ampia esperienza politica del mondo mediterraneo e circostante. Né era la professione di una casualità combinatoria che presiedesse all'azione degli elementi e delle forze in cui consiste la vicenda delle cose e degli uomini, come nel pensiero materialistico (soprattutto atomistico) di impronta democritea ed epicurea; e neppure l'espressione di un auspicio, più che di una certezza, di intrinseca razionalità e di degna e apprezzabile positività del corso delle cose umane grazie a un'implicita presenza divina animatrice di bene e di giustizia, come nel pensiero stoico. La storia era vista piuttosto come un dramma, conchiuso nel Tempo come il Tempo nell'Eterno.In nessuna visione precedente la storia come tale - unica, nuova, irripetibile - aveva avuto un tale rilievo, neppure nel diretto antecedente del cristianesimo, ossia nel giudaismo. Nella trascrizione cristiana la dottrina del popolo eletto, della Terra promessa, del Messia e del Regno riceveva una fondazione che ne innovava e ne trasvalutava completamente il senso, e trasformava una religione etnica in una delle religioni con maggiore respiro universalistico mai apparse. Nasceva l'insieme di una teo-antropologia, che non annullava la trascendenza assoluta e inattingibile di Dio, ma nel mistero della Trinità e dell'Incarnazione dava luogo alla Creazione e al Riscatto, e quindi all'universo storico che in tal modo si apriva e si chiudeva.

Così intesa, la storia diventava però, nello stesso tempo, opera della Provvidenza più che dell'uomo, se non opera della Provvidenza nel suo senso complessivamente fausto e positivo e opera dell'uomo nei suoi aspetti di opposto segno. La Provvidenza divina emergeva perciò, a sua volta, quale protagonista e, insieme, quale senso della storia: è essa che dà luce alla catena degli eventi, altrimenti consegnati al caos della violenza e del male. Ma tanto più, quindi, perché opera della Provvidenza, la storia diventa un argomento di Rivelazione, e quindi di fede, piuttosto che di ricerca e di critica. Anzi, la ricerca e la critica assumevano un senso in quanto si muovevano entro l'orizzonte della Rivelazione. Le fonti autentiche per lo studio del senso della storia erano ormai i libri sacri, l'Antico e Nuovo Testamento, la Bibbia, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli. Nel testo in cui la nuova istituzione storica e storicistica del cristianesimo trovò più alta espressione e sistemazione, ossia nell'agostiniano De civitate Dei, il nesso fondamentale di queste articolazioni venne chiarito in maniera tanto più rilevante (oltre che geniale) in quanto in Agostino le antinomie e le aporie della disparità insanabile tra Tempo ed Eterno, tra Dio e uomo, tra Rivelazione e mistero non venivano affatto celate dall'empito della fede. L'opposizione tra Città di Dio e Città dell'Uomo non era semplicemente un'opposizione tra bene e male. L'umano presentava i suoi aspetti di virtù e di bene. La libertà era problematica al cospetto dell'onnipotenza e onniscienza divina. La salvezza dell'uomo era possibile solo in virtù della grazia divina, ma non lo esimeva dalle sue responsabilità. Il disegno provvidenziale della storia traeva forza, appunto, da queste tensioni, dalla loro drammatica conflittualità.

Ciò premesso, diventava sostanzialmente impossibile distinguere lo storico dal teologo e dall'uomo di fede. Quando si osserva che gli schemi e la vigorosa ispirazione di Agostino decadono negli scrittori cristiani posteriori in ingenua apologetica, in schemi a volte perfino risibili di storia universale, in meccanismi sprovvedutamente fideistici, in disegni tanto ampi e solenni quanto vuoti di senso concreto della storia, si dimentica che la professione storiografica di questi scrittori non fa che esplicitare nella sua pienezza l'imprigionamento cristiano della storia fra Rivelazione e Provvidenza, secondo una linea che nella tradizione europea si continuerà almeno fino a Bossuet, più di dodici secoli dopo Agostino. Su questa linea era facile, a prescindere da ogni altra circostanza concorrente, ritenere limitato il compito dello storico alla semplice notazione, senza alcuna elaborazione, degli avvenimenti locali e non locali che pervenivano a sua notizia, giacché il senso generale di tutto quanto accadeva o poteva accadere di veramente importante e decisivo era fissato in anticipo e non aveva bisogno di essere sottratto al rischio dell'oblio e ricordato.La coerenza di un tale atteggiamento con le sue premesse fideistiche non può essere negata. La cronaca, perciò, è davvero la forma mentis storica più consona al nuovo tempo. Il suo andamento annalistico non deve ingannare, e neppure la maggiore o minore ricchezza o addirittura la scheletricità delle sue notazioni. La preoccupazione fondamentale della mens cronachistica non è la scansione annuale degli eventi (possono passare più anni senza notazioni); e che la notazione sia più o meno diffusa e articolata dipende solo dalla personalità del cronista o dalle tradizioni e dalle relazioni del luogo in cui egli scrive. Alla base della mens cronachistica vi è la convinzione della fondamentale irrilevanza di quanto accade nel mondo ai fini del destino dell'uomo. È un atteggiamento del tutto opposto a quello, ad esempio, dell'annalistica romana. Perciò prodigi, eventi fuori dell'ordinario, mostri e mostruosità, miracoli e portenti, catastrofi e rovine vi hanno molto più spazio di quanto ne abbiano eventi più ordinari, la cui attesa è scontata e cade nella banalità della vicenda umana e naturale. E questo vale tanto se l'uomo e il mondo sono visti nell'ottica del contemptus da riservare a ciò che sta al di sotto dell'Eterno, quanto se sono visti nell'ottica della laudatio da elargire a ciò che è opera dell'Eterno e ne porta il segno. E sempre, infine, in questo è la ragione per cui la dimensione dello spirito cronachistico è presente anche nelle scritture storiche di maggiore impegno, nelle quali la struttura materiale della cronaca o degli annali può essere superata da impostazioni e tagli narrativi di tutt'altro ordine, ma resta fermo il punto che si tratta in ogni caso di storia dell'uomo e di uomini, con tutte le implicazioni teo-antropologiche di cui si è detto.

Da ciò un'altra caratteristica, e meno paradossale di quanto si possa pensare, di questa storiografia: la sua ottica, cioè, prevalentemente umana, al di fuori - con ben poche eccezioni - di suggestioni naturalistiche o strutturalistiche, di interessi istituzionali e sociologici, tecnici ed economici. Se labile è il confine tra storia e teologia, ancor più labile è il confine fra etica e storia, su un piano, esso sì, paradossalmente umanistico, per cui la dimensione del racconto storico è sempre quella della storia di un'anima, di anime, che nuotano nell'oceano del male e del bene, del giusto e dell'ingiusto, della pietà e dell'empietà, della carità e della ferocia. Per di più, su questa falsariga, e in evidente rapporto con le condizioni dell'Europa di allora, intorno al V-VI secolo, la prospettiva dominante fu quella di una vecchiaia del mondo (mundus senescit) e della remissione alla speranza e/o al timore della fine dei tempi; e tale sarebbe rimasta all'incirca per un altro mezzo millennio.

Un tale rovesciamento di prospettive e di valori non avrebbe avuto il senso e la portata che ebbe se non si fosse accompagnato all'accennata contemporanea rovina materiale della civiltà imperiale romana. La distruzione e la perdita di grandissima parte del patrimonio culturale greco e latino, la riduzione ai minimi termini delle istituzioni e delle attività scolastiche, la dilagante analfabetizzazione delle stesse classi dirigenti, l'impoverimento estremo delle conoscenze linguistiche e grammaticali, l'avvento di lingue nuove e la trasformazione profonda del latino nelle lingue neolatine, il quasi monopolio della cultura e dell'istruzione (e già dell'alfabeto) da parte del clero e dei suoi centri di attività (episcopî e monasteri), lo stato rudimentale della cultura scritta e di una tradizione colta presso i popoli che invasero l'antico territorio imperiale romano e vi si stabilirono, le difficoltà enormi di una loro rapida acculturazione anche al livello del così decaduto grado di cultura dei paesi già romani e, anzi, l'instaurarsi di un livello di 'bassa cultura' comune ai vecchi e nuovi popoli dell'ambito romano furono fenomeni complessi, simultanei e sinergici, che si manifestarono in particolare, come è noto, nella parte occidentale dell'Impero, e caratterizzarono egualmente la più ampia area in cui tra il V-VI e il X-XI secolo cominciò a delinearsi la geografia storica dell'Europa moderna. Il cronista monaco o diacono o prete o vescovo fu allora la figura pressoché esclusiva dello scrittore di storia, e questo si vide accadere non solo nell'Europa 'barbara e infedele', quale allora appariva a musulmani e bizantini, bensì assai spesso anche nell'ambito bizantino, dove la dispersione, se non la perdita, del patrimonio culturale antico non fu, col tempo, molto minore che nel nuovo Occidente romano-germanico.

Sta il fatto che era mutata, ormai, la prospettiva del rapporto fra storia e società. La prospettiva agostiniana, dominante al di là della sua pur imponente materiale presenza e influenza, ispirava racconti e giudizi e rendeva il piano storiografico molto meno importante di quello della considerazione morale e religiosa dei fatti del mondo. Tanto più importante, perciò, è il rilievo dell'opera che allora fu svolta per saldare la storia romana a quella dei nuovi tempi e soprattutto, in questo quadro, per stabilire una personalità storica e per formare una coscienza storica delle nuove realtà etniche e politiche del mondo post-romano, nonché del nuovo grande soggetto storico costituito dalla Chiesa di Roma. La storia dei Goti a cui attesero Cassiodoro e il vescovo di Ravenna Jordanes nel VI secolo; il Chronicon scritto dallo stesso Cassiodoro su richiesta del suo sovrano, l'ostrogoto Teodorico, per fornire un quadro della storia di Roma attraverso la serie dei suoi consoli e imperatori; la storia dei Franchi narrata da Gregorio di Tours e quella dei Germani nella penisola iberica trattata da Isidoro di Siviglia ancora nel secolo VI; il Chronicon merovingico dovuto al borgognone Fredegario nel secolo VIII; l'Historia ecclesiastica gentis Anglorum del monaco Beda e quella dei Longobardi di Paolo Diacono nell'VIII secolo; la biografia di Carlomagno e gli Annales Francorum di Eginardo; gli scritti anglosassoni del re Alfredo il Grande; l'Historia ecclesiastica o Liber Pontificalis di Anastasio, bibliotecario pontificio, nel IX secolo e le opere di Liutprando di Cremona sull'Europa carolingia e sull'Impero di Ottone I, nel X secolo, sono una testimonianza imponente dei nuovi compiti a cui l'attività storiografica era e si sentì chiamata. Le corti dei sovrani romano-germanici - così come quella degli imperatori dell'Impero rinnovato in Occidente da Carlomagno in poi e come quelle dei sovrani che si affermarono nell'ambito o ai margini del nuovo Impero -, nonché, è appena il caso di notarlo, la Curia pontificia e quelle vescovili e gli scriptoria degli innumerevoli monasteri allora attivi furono, quindi, i centri di elaborazione e di svolgimento, secondo lo spirito e le forme del tempo, di una storiografia che assolveva a suo modo alla irrinunciabile funzione propria del momento storiografico in ogni specie di vita civile. Poco importa che si partisse dalla creazione del mondo, o che si seguisse una cronologia di storia universale conforme alle condizioni e ai contenuti della cultura dei tempo, o che il livello dell'analisi critica (per non parlare di grammatica e di stile) fosse davvero scarsissimo rispetto alle precedenti tradizioni elleniche e romane o che, in seguito, l'utilizzazione di questa letteratura storica in quanto fonte narrativa, per i temi da essa trattati, sarebbe risultata assai problematica. Conta poco perfino il fatto che nel quadro di questa storiografia potesse avere luogo logico e metodologico la falsificazione consapevole e l'invenzione volontaria di fatti e documenti. Negli scrittori ecclesiastici questo poteva configurarsi come pia fraus. Il falso non era nato allora; apparteneva, anzi, alle tecniche più antiche della memorizzazione e della prassi storiografica, e non sarebbe mai stato assente neppure in seguito. L'uso medievale del falso, tuttavia, fu particolare e non trova molti riscontri in altri tempi e in altre culture. Esso, in effetti, fa pensare a un nesso stretto con la molto scarsa considerazione del fatto storico al di fuori o al disotto della storia vera, quella della caduta e del riscatto dell'uomo. Quale importanza poteva avere, rispetto a tali processi umani e divini della storia universale, il fatto che questo o quel dato delle cronache umane suonasse in un senso o nell'altro e venisse affermato o negato? Piccoli e grandi interessi potevano dar luogo a falsificazioni documentarie o testuali di rilievo diverso. Quella relativa alla pretesa donazione della parte occidentale dell'Impero di Roma ai papi da parte di Costantino era una falsificazione in grande, ma la sua logica non era diversa da quella dell'umile fraticello cronista di uno sperduto monastero che nelle sue scarne pagine introduceva false notizie utili a incrementare diritti e proprietà monastiche o particolari culti e devozioni o cause e rivendicazioni del più vario ordine. Non è un caso, del resto, che l'autonomia disciplinare della storiografia venga sostanzialmente a perdersi, in assai larga misura e come accade anche per altre discipline, nel contesto del sistema dottrinario dominato dalle istanze etiche e religiose del tempo. Essa non risorgerà nemmeno quando, dal XII-XIII secolo in poi una nuova, originalissima istituzione, ossia l'università sorgerà a dare alla cultura europea un assai cospicuo futuro. Nell'istruzione del tempo la storia sarà costantemente dispersa fra le discipline del 'trivio' e del 'quadrivio', i due cicli di base della formazione culturale delineatisi nella crisi del mondo culturale greco e romano e destinati a durare ancora per secoli.Ecco, dunque, perché ciò che poi in realtà conta, nella vicenda storiografica di cui parliamo, è il fatto che - pur nel quadro di mutamenti materiali e morali così profondi e sconvolgenti come quelli del mezzo millennio tra papa Gregorio I e papa Gregorio VII (due papi il cui nome è legato strettamente alle vicende del patrimonio ideale e culturale del tempo) - si sia trovata comunque la via per fare storia e si sia riusciti, in una forma così particolare, a rispondere ad esigenze sempre fortissime di proiezione di un'immagine e di elaborazione di una identità etico-politica, politico-religiosa, ecc., pur nella debolezza della trama politica a cui gli svolgimenti e i mutamenti della vita di quella che ormai era l'Europa avevano portato. Esigenze, anzi, tanto più forti quanto più questa trama si indeboliva, come appariva anche nel noto contrasto, tipicamente medievale, tra grandi spinte alla costruzione di 'poteri universali' e di forti aggregazioni politiche e le simultanee, opposte e ancor più forti spinte all'inarrestabile processo particolaristico che trovò nella frammentazione feudale del potere la sua cifra più rivelatrice e più rilevante. E qui è pure da osservare che l'iniziativa storiografica non sembra aver trovato allora nel mondo specifico della feudalità un suo forte centro. Si ricorda, tra i primi, intorno al 1100, Giovanni di Marmoutier per scritture al riguardo che, peraltro, sono certamente di corto respiro. Una capacità in materia sembra, in effetti, affermarsi solo quando le signorie feudali stesse diventano nuovi 'poteri forti', nuovi centri di ristrutturazione del tessuto politico e durano come tali. E perciò la prevalenza dei 'poteri universali' (Impero, Chiesa) o di 'poteri forti' (monarchie, come poi città e Comuni) è, allo stesso riguardo, un dato da sottolineare.

La portata e la fecondità di un tale enorme travaglio del mondo cristiano dell'Europa occidentale rimasero a lungo del tutto oscure. Già, tuttavia, avrebbe meritato una particolare attenzione il fatto che in ambienti allora ben più avanzati, come quelli di Bisanzio e dell'Islam, la storiografia non sembra aver assunto il rilievo sperimentato nell'Ellade e a Roma. Di una storiografia musulmana di notevole profilo non sembra potersi parlare prima del secolo X e di un autore come Ibn Ḥawqal. A Bisanzio tradizioni ancora vive nel VI-VIII secolo sembrano avviate già da allora a un più debole proseguimento. Quando nel XIX secolo alla storia della storiografia fu riconosciuto un interesse storico generale rilevante, qualcuno calcolò che tra il 550 e il 1100 era possibile noverare, nel triangolo Islam-Bisanzio-Europa, non più di 34 scrittori storici di media o grande importanza; che di essi 28 erano sacerdoti o monaci e 6 laici, e di questi 6 solo uno latino, 4 bizantini e uno arabo, mentre dei 34 un po' più di un quarto (9) aveva scritto in greco, 22 in latino, uno in anglosassone, uno in arabo e uno in lingua slava; e che gli scrittori europei erano tutti ecclesiastici, tranne l'anglosassone Alfredo, unico, nello stesso tempo, a non usare il latino. Calcoli certamente approssimativi e molto opinabili, e soprattutto propri di un'epoca in cui con la cultura islamica e con quella bizantina non si erano ancora fatti tutti i conti storiografici dovuti; e, tuttavia, non privi di una loro suggestione e di una loro, per così dire, rozza validità. Si annunciava in effetti, in quei 'secoli bui', il ruolo che - riprendendo anche la lezione dell'Ellade e di Roma - la storiografia avrebbe assunto nel mondo europeo. Ben più: si annunciava la forte petizione per cui l'Europa moderna avrebbe considerato se stessa e il mondo innanzitutto sub specie historica e la storicità sarebbe diventata una forma mentis europea per eccellenza. Al di là, poi, delle frontiere dell'Islam e di Bisanzio, negli altri mondi storici di cui l'Europa sarebbe venuta via via a conoscenza, funzioni e tradizioni storiografiche non sarebbero andate oltre le forme e le prassi, per quanto possano essere state incrementate e sviluppate, che erano maturate, presso tutti i popoli, col passaggio dalla tradizione orale a quella scritta. A suo tempo, sarebbero stati gli Europei a dare forma scientifica e moderna alla storia prossima e remota di quei mondi; e quanto conti questo dato di fatto non è necessario sottolineare. Basti aggiungere che ciò vale egualmente per paesi e culture di altissimo rilievo come la Cina, dove anche la storia rimase incastonata in un quadro di prassi e valori contrassegnati da un fortissimo tradizionalismo, pur presentando svolgimenti non molto difformi nelle loro spinte, benché non pari nei loro effettivi conseguimenti, a quelli del mondo ellenico e romano.

Fondazione della storiografia moderna

'Clericus' continuò a equivalere a lungo, nella tradizione europea, a letterato, e 'laico' a illetterato, anche quando, dall'XI secolo in poi, iniziò quella formidabile crescita che avrebbe contrassegnato il secondo millennio dell'era cristiana come il tempo dell'Europa. Un tempo caratterizzato ugualmente - è ben noto - da un'altrettanto formidabile ripresa della cultura laica e civile dalle sue condizioni nei 'secoli bui' del mezzo millennio precedente, una cultura nuova anche rispetto ai precedenti ellenici e romani, per quanto su questi precedenti largamente e indissolubilmente fondata.

Si cominciò allora ad avere nuovamente una storiografia su pubblica committenza per conservare memoria dei fasti e dei diritti di potenze nuove, come le grandi città marinare italiane: così a Genova già nella prima metà del XII secolo, e successivamente a Venezia. Un cavaliere francese, Villehardouin, iniziò, nello stesso XII secolo, una tradizione storiografica che si può definire intrinseca e congeniale al nuovo mondo feudale e che avrebbe avuto in seguito in Joinville (XIII secolo) e in Commynes (XV secolo) prosecuzioni di grande interesse. Nella lotta per le investiture sarebbe fiorita intorno ai sovrani germanici (specialmente della Casa di Svevia), tra il XII e il XIII secolo, una storiografia imperiale e ghibellina di nuova ispirazione, a cui si sarebbe opposta una storiografia pontificia, ecclesiastica e guelfa di non minore rilievo. La monarchia di Sicilia sarebbe diventata più precocemente di altre un centro sempre più robusto di produzioni storiografiche notevoli; ma i suoi percorsi sarebbero stati ben presto ricalcati, e superati per alcuni aspetti, dalle storiografie legate ad altre corone europee, a cominciare da quella francese. In alcuni Comuni italiani e in varie città europee sarebbero state ugualmente seguite le orme precoci di Genova, e già dalla fine del XIII secolo comincia a delinearsi il grande ruolo di Firenze in questo campo.

Può apparire singolare che proprio nello stesso periodo in cui l'Europa si avviava alla sua trionfale carriera planetaria, e proprio mentre essa rapidamente sovvertiva i rapporti di forza col mondo islamico e con quello bizantino, in questi mondi avviati a un più o meno lento declino, e specialmente in quello islamico (basti pensare a Ibn Khaldù'n), si siano avuti episodi storiografici di rilievo. L'uccello di Minerva che si leva al tramonto? Più importante è notare che tali episodi non alterano il già ricordato quadro generale del rapporto fra storia e società in quegli ambiti: un rapporto che in sintesi e sia pure con qualche approssimazione si potrebbe definire di tipo ellenistico, se non fosse che, sia nella tradizione bizantina sia, ancor più, in quella islamica, la componente confessionale giocava un ruolo di incidenza analoga a quella che allora aveva nella tradizione europea, per quanto, specialmente fra i Musulmani, non legato al semi-monopolio culturale del clero. Notevole è pure che, sempre in questo periodo, cominci a disegnarsi una parte nuova della cultura e della tradizione ebraica quale fonte - ben più che per il passato - di mediazione, di informazione e di sollecitazione per la cultura europea in tutti i suoi aspetti, e non escluso, quindi, quello storiografico.

Solo, però, dal secolo XV in poi, coi grandi avvii italiani dell'Umanesimo e del Rinascimento, il sempre più copioso panorama storiografico europeo prende le direzioni decisive della sua modernizzazione. Individualismo e laicismo sono ancora una volta i binari centrali dello sviluppo in questione. La critica della donazione di Costantino ad opera di Lorenzo Valla alla metà del XV secolo (per quante riserve si vogliano fare al riguardo) segna una data inaugurale. Non si trattava soltanto di una prima, grande reazione all'uso medievale del falso, ma anche, e ancor più, di un attacco - rispondente a un'idea personale dell'autore pur se inquadrabile nelle lotte di potenza italiane del tempo - a una dottrina ufficialmente professata dalla Chiesa. Un valore simbolico ed effettuale non minore va, inoltre, riconosciuto alle polemiche, profondamente permeate di cultura storica, sviluppatesi nel corso di quelle stesse lotte di potenza pro o contro soluzioni unificanti della frammentata area politica costituita dall'Italia già comunale. E strettissimo appare, infine, il rapporto fra sviluppi della storiografia e vicende del potere nelle signorie e nei principati del tempo. Per questi ultimi la fondazione storica della relativa sovranità e il resoconto e l'esaltazione delle imprese del signore-principe costituirono un elemento non secondario nella loro ricerca di una legittimazione ideale e pratica del potere conquistato, di norma, per vie puramente di fatto. Ed erano, già tutti questi, aspetti rilevanti dell'importanza che la prospettiva storica veniva assumendo.I mezzi erano quelli resi consueti da procedimenti logici e da tecniche antichissime: genealogie ad usum delphini, nobilitazioni ideologiche del più vario ordine, preterizioni e manipolazioni dei fatti anche clamorose, cura particolare della qualità e dell'efficacia letteraria dell'esposizione, forte incentramento della stessa esposizione sulle personalità eminenti e sulle imprese dei costruttori e dei prosecutori delle fortune signorili, per cui la dimensione storica perseguita è soprattutto quella dei memorabilia e dei viri illustres. Il rapporto di tale storiografia con i postulati culturali e retorici dell'Umanesimo è evidente, così come evidente è il protagonismo dell''umanista', ossia del nuovo tipo di intellettuale affiorato nella vicenda complessiva del tempo. Non è una semplice ripetizione di moduli socio-culturali precedenti (augustei, ad esempio). È, in realtà, una situazione nuova. La relazione fra cultura storica e potere è stretta, ma non vede una dipendenza umanistica altrettanto stretta. Nella relazione agisce la spinta creativa complessiva, fortissima, della cultura umanistica. Patronato, committenza e mecenatismo signorili non spiegano tutto, né coprono per intero il campo di movimento della nuova cultura. Accadrà altrettanto, quando, molto tempestivamente, il modello italiano in materia verrà recepito e fatto proprio dalle grandi monarchie e dalle nuove potenze europee. Per queste monarchie la funzione storiografica non è tanto di contribuire a fondare (semmai, è di rafforzare) una legittimità che, nella massima parte dei casi, ha radici storiche lontane quanto di contribuire a sostenere le pretese e le rivendicazioni espansive del potere sovrano all'esterno più che all'interno, a giustificare e a far valere i titoli di sovranità vantati su altre corone e altri territori. Ma la logica della cultura umanistica tende a orizzonti molto più ampi. Essa si esplica, infatti, non solo e non tanto nella esaltazione dei memorabilia e dei viri illustres legati alle varie storie dinastiche quanto nella ricostruzione e costruzione di tutto un vasto arco di discipline sussidiarie e complementari del puro e semplice lavoro storico di ricostruzione e di narrazione: filologia, erudizione, linguistica, etnografia, diplomatica, archeologia, paleografia, numismatica, sfragistica, araldica, cronologia, epigrafia, topografia, geografia, ermeneutica...Il segno della modernità comincia così a emergere vistosamente. Razionalizzazione e individualizzazione ne rappresentano la cifra in maniera nuova anche rispetto ai modelli classici - greci e romani - ai quali ci si appellava. Tale richiamo ai classici si configura, nello stesso tempo, sia come un fine che come uno strumento. Per la storiografia ciò si traduce in un ritorno e in un nuovo e originale potenziamento della sua autonomia disciplinare: autonomia che era invalsa di fatto nella cultura ellenica e romana, si era dispersa nei già ricordati cicli del trivio e del quadrivio dell'istruzione medievale e acquistava ora una fisionomia istituzionale specifica e duratura quale non aveva avuto neppure nello stesso mondo ellenico e romano, in cui era vissuta sotto il segno del suo nesso con l'oratoria e la retorica.

Proprio sul terreno storiografico la modernità della nuova situazione ebbe un riconoscimento precoce. Già al XV secolo risale un'articolazione della cronologia storica diversa da quella fino ad allora invalsa e destinata anch'essa a una fortuna duratura. Dopo le più complesse seriazioni dell'antico mondo mediterraneo (come quella già ricordata delle 'quattro monarchie') e dopo la radicale semplificazione apportata dalla cultura cristiana con l'esclusiva e fondamentale bipartizione in storia prima e dopo di Cristo, viene ora affermato uno schema tripartito (antichità, Medioevo, età moderna), inizialmente limitato alla storia delle lettere e delle arti e poi esteso all'intero complesso della vita civile. L'adozione di questo schema avrà un enorme e duplice valore, proiettando la funzione della storiografia molto addentro alla vita sociale e ai suoi svolgimenti. Da un lato, esso fungerà da veicolo di una concezione sciolta dal monopolio del riferimento religioso, e quindi tendenzialmente laicizzante e razionalistica; dall'altro, rappresenterà uno dei canali attraverso i quali la suggestione e l'istanza della modernità si affacceranno e si faranno più strada. Nella nuova storiografia la politica è il centro che monopolizza (o quasi) l'interesse degli storici. Anche in questo non si trattava di pura imitazione di modelli antichi; non si riproponeva semplicemente il modulo della 'storia prammatica', né quello della biografia plutarchea. Tra le vette antiche di un Tucidide e di un Tacito e quelle nuove di un Machiavelli e di un Guicciardini le differenze di spirito e di forma nell'atteggiarsi del lavoro storico non sono piccole. Esse possono forse ridursi, però, essenzialmente, alla presenza esplicita nei due scrittori moderni di una riflessione politica sistematica. Perciò il momento storiografico tende sempre ad assumere, in entrambi, un valore propositivo e costruttivo. Non è solo esemplare nel senso degli antichi, e cioè di una esemplarità conclusa in se stessa e valida come paradigma ripetitivo di una natura umana immutabile. Tanto meno ha l'esemplarità nel senso medievale della storia concepita come ammonitrice dimostrazione del bene e del male dal punto di vista dell'etica cristiana. La storia è qui esemplare nel senso di fornire alla mente e allo spirito dell'uomo indicazioni indispensabili e decisamente illuminanti, ma le sue indicazioni valgono solo se sono integrate dall'esperienza delle cose presenti, senza la quale la lezione delle cose antiche non darebbe luogo ad alcun avanzamento né nella teoria, né nella pratica. Lo spirito dell'Umanesimo, insomma, con le sue implicazioni di dignità e di libertà dell'uomo, e quindi anche di sua responsabilità e iniziativa non solo in senso morale, bensì anche, appunto, storico, è lo spirito che sta al centro della nuova storiografia e ne determina i moduli ricostruttivi e le concettualizzazioni, con ripercussioni altrettanto evidenti sul ruolo sociale della storia. Del resto, nulla vale forse a denotare questa profonda radice umanistica meglio del vero e proprio primato tenuto da Firenze nel quadro della storiografia europea del XV e del XVI secolo, in correlazione con la parte della città toscana in tutto l'arco del pensiero e dell'arte europea nel Rinascimento.

Non sorprende, quindi, che su questa base la storia cominci a diventare, come non lo era mai stata prima, un luogo tra i principali del confronto politico e culturale nel mondo moderno. Lo si vide subito nello scontro fra cattolicesimo e protestantesimo. La contrapposizione tra l'opera dei Centuriatori di Magdeburgo e gli Annales ecclesiastici del Baronio è, da questo punto di vista, esemplare, così come lo è quella tra la storia del Concilio tridentino del Sarpi e la storia dello stesso Concilio scritta dallo Sforza Pallavicino. Ma, in realtà, lo scontro storiografico per la grande secessione religiosa europea del XVI secolo è solo un episodio, sia pure centrale ed eminente, del nuovo corso assunto dalla storiografia in quanto campo e fattore della lotta politica e sociale. Storie dinastiche, storie di paesi e di corone, storie di istituzioni civili, storie di ordini religiosi e di ordini cavallereschi, storie di feudi e di casate feudali, storie di chiese e di monasteri, storie di città e di ceti cittadini, storie di guerre e di conquiste compongono un panorama sempre più folto di opzioni storiografiche, la cui matrice erudita non è mai disgiunta da intenti pragmatici, politici, etico-politici. Lo sguardo storico si allarga. Si prende coscienza, ora, della fondamentale unità storico-culturale da cui si procede, e si avrà col Giambullari la prima storia d'Europa denominata come tale e fatta iniziare, con una scelta cronologica assai significativa, dall'incoronazione imperiale di Carlomagno nell'800. Inoltre, si cerca subito di prendere, per così dire, possesso storiografico delle terre di nuova scoperta delle quali ci si era appropriati con la conquista e la colonizzazione, nonché dei paesi coi quali comunque, in ogni parte del mondo, si stringevano legami molto più stretti di un tempo (Sepulveda e Postel, Gomera e Las Casas, Maffei e Garcilaso de la Vega, Raleigh e Oviedo, Castanheda e Benzoni, Herrera e Bernal, Horn e Solis, Ricci e Mendoza: e non sono che una parte dei nomi indicabili nello spazio di meno di un secolo e mezzo, tra il 1500 e il 1650). Analoga fu, d'altra parte, l'estensione dell'interesse storiografico al mondo delle antichità più remote, da quelle caldee a quelle egiziane ed ebraiche, per non parlare della preistoria: che - a dispetto di tutti gli errori e le ingenuità e di tutti i pregiudizi e i condizionamenti ricorrenti in questi come, del resto, in ogni altro campo storiografico affrontato secondo la prassi del tempo - erano manifestazioni di uno spirito (quello della nuova Europa) del quale l'applicazione storiografica rappresentava solo una delle molte manifestazioni. E da questo punto di vista va pure segnalata la tempestiva estensione dell'impulso storiografico moderno a campi per nulla o ben poco frequentati fino ad allora: del 1696 è l'Histoire de la médecine di Daniel Le Clerc, del 1716 l'Histoire du commerce et de la navigation des Anciens di Pierre-Daniel Huet.

Nello stesso periodo, la riflessione teorica accompagnò anch'essa come mai prima l'esplosione di questa primavera della storiografia moderna. Fu, infatti, questa l'ora dell'ars historica e dei suoi trattatisti. La ratio studiorum dei nuovi tempi, non solo quella gesuitica e controriformistica, cominciò a comportare le discipline storiche tra le sue materie fondamentali. Le cattedre universitarie di storia sacra e profana si moltiplicarono. Dalla relativa professionalizzazione connessa alle fortune dell'intellettuale umanista si cominciò a passare a una professionalizzazione più specifica, e questo anzi cominciò ad accadere ancor più per le discipline storiche sussidiarie e complementari. Apparve sempre più diffusa la funzione del 'regio storiografo' come della 'pubblica storiografia'. L'iniziativa individuale rimase come punto acquisito di questi sviluppi. La scelta degli argomenti trattati da un Machiavelli o da un Guicciardini non obbedì ad alcuna committenza, né nacque in relazione con alcuno specifico gruppo di pressione o di potere. Il già ricordato Giambullari non solo scelse in modo egualmente autonomo un soggetto in sé peregrino e nuovo qual era ancora la storia d'Europa, che egli intendeva trattare dall'800 al 1200, ma a tale scopo si procurò a sue spese una serie di libri in molte lingue sia antiche che moderne, finché la morte ne arrestò l'opera all'888. Ma già suonava l'ora anche delle grandi opere collettive, delle grandi raccolte documentarie da proseguire di generazione in generazione, delle grandi collezioni di storici e cronisti dei vari paesi. Cominciò, ad esempio, nel 1630 la pubblicazione degli Acta Sanctorum a cura del gesuita fiammingo Jean de Bolland, che ne vide cinque volumi prima della sua morte nel 1665, ma la cui pubblicazione proseguì fino a raggiungere due secoli dopo la consistenza di circa 60 volumi in folio e restò il caso, forse, nel suo genere, più noto e più illustre.Alle università e alle loro cattedre si affiancavano, intanto, accademie e società costituite a fini scientifici, di iniziativa sia pubblica che privata, e in queste sedi il lavoro di documentazione e di riflessione poté svolgersi senza il peso e il condizionamento di obblighi didattici, come invece accadeva nell'università. Si poteva, cioè, cominciare a parlare di una nuova organizzazione degli studi, di cui indubbiamente gli studi storici furono tra i principali beneficiari. La modernità di questi sviluppi era, inoltre, indicata dal fatto che la fioritura storiografica seguì puntualmente le vicende della vita politica, sociale, economica e culturale dell'Europa moderna. I paesi che tra il XVII e il XIX secolo acquistarono il predominio nel continente e divennero gli antesignani della modernizzazione furono pure i paesi che si posero all'avanguardia degli studi storici, sostituendosi all'Italia nel primato che essa aveva mantenuto fino agli ultimi tempi del Rinascimento. Inghilterra, Olanda, Francia, Germania divennero progressivamente, da questo punto di vista, centri di altissima qualificazione. Né la fioritura dell'uno soppiantò o escluse quella dell'altro, poiché un segno della modernità fu dato pure dalla simultaneità e dal sommarsi delle varie tradizioni di studio che nei singoli paesi si affermarono, mantenendo nell'Europa moderna quella comunanza e circolarità di sviluppi nella vita intellettuale e quella consuetudine degli scambi e del dialogo culturale che, eredità del mondo ellenistico-romano, la Chiesa aveva successivamente mantenuto e l'Umanesimo e il Rinascimento avevano potenziato.

A più ricca storia, più ricca storiografia: è quanto sembra potersi, quindi, sostenere, a conferma di una esperienza osservabile in ogni contesto storico e a conferma, altresì, di come e quanto la funzione storiografica inerisca dal di dentro e largamente alla realtà sociale. Neppure in questo caso, beninteso, sussiste o si manifesta, così come non sussiste e non si manifesta in alcun'altra epoca, un nesso univoco o deterministico tra fioritura politica e sociale e fioritura della ricerca e della riflessione storiografica (o, più in generale, tra condizioni della vita politica e sociale e sviluppo della cultura). Proprio le esperienze moderne attestano che casi di vigore della riflessione e di sagacia della ricerca si possono pur sempre ritrovare in ambiti storici marginali o in via di emarginazione. Inoltre, via via che altri paesi si sono affacciati o sono ritornati alla ribalta della storia europea, anch'essi sono diventati o ridiventati centri promotori attivi e cospicui del grande movimento degli studi storici europei: è il caso dell'Italia e della Spagna, della Russia e della Polonia. E, tuttavia, appare indubbio che una relazione generale sussista e si manifesti tra l'intensità, l'ampiezza e il dinamismo della struttura civile propria del mondo moderno e i grandi sviluppi della funzione e dell'attività storiografica nello stesso mondo moderno. Una conferma evidente ne è pure il carattere fondamentale che storiografia, storicità, storicismo hanno assunto nel patrimonio culturale europeo, fino a configurare la storia, come si è detto, quale dimensione europea per eccellenza nella considerazione dell'uomo, del mondo, della realtà in generale. Conferma evidente e, certo, non casuale (avremo modo di tornare su questo punto), e tanto più se si pensa alla parte centrale e unificante che l'Europa e la sua cultura hanno finito con l'avere nella storia dell'umanità.Il panorama strutturale e funzionale degli studi storici moderni appare, comunque, saldamente e pienamente costituito al più tardi, nella prima metà del XVIII secolo. Mancherebbe, però, ad esso una pietra angolare tra le più essenziali se non si ricordasse l'importanza avuta al riguardo dall'invenzione della stampa. Non si trattò solo di un mutamento e di un progresso tecnico. Come in altri campi, il nuovo ritrovato comportò, dalla seconda metà del XV secolo in poi, modificazioni profonde nella fisionomia e nella dinamica sociale del lavoro intellettuale applicato alla storia. La circolazione di manoscritti continuò intensa ancora per un paio di secoli, ma già alla fine del XVII secolo la circolazione dei testi a stampa divenne, con eccezioni sempre più rare, quella universalmente praticata. Ciò significò, in primo luogo, la scomparsa di figure sociali importanti come quella del copista e di centri di attività del genere degli antichi scriptoria. Accanto a quella del tipografo, e a lungo indistinta da essa, sorse una figura sostanzialmente nuova, per quanti precedenti più o meno analoghi se ne possono ritrovare: la figura, cioè, dell'editore. Agente e promotore di produzione culturale, l'editore si impose specialmente nella dimensione del suo rapporto con un mercato, che l'invenzione della stampa ampliò molto al di là di qualsiasi precedente esperienza. Il profitto dell'editore divenne anche per i libri di storia una condizione inevitabile della produzione. Cominciarono a sorgere, più o meno a breve scadenza, problemi insospettati, da quelli della proprietà e del diritto d'autore a quelli della relativa partecipazione al profitto editoriale.

La politica culturale di qualsiasi centro di potere o di pressione ne dovette tenere ampio conto, e tanto più in quanto il diffondersi sempre più rapido dell'alfabetizzazione connessa allo sviluppo della società moderna comportava un parallelo ampliamento del mercato culturale. Grandi imprese erano ormai possibili su questo piano, sia che fossero sostenute da finanziamenti pubblici o privati erogati ai fini più vari, sia che diventassero, insieme, anche grandi imprese commerciali (fu tale anche l'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert). All'iniziativa di qualsiasi parte (privata o pubblica, individuale o collettiva, laica o ecclesiastica...) presero col tempo - già largamente nel XVIII secolo - a corrispondere le aspettative e le richieste del mercato, e la produzione culturale, anche nell'ambito storiografico, cominciò a esserne condizionata. La stampa significò, inoltre, una crescente prevedibilità e regolarità dei tempi della produzione e, quindi, della messa in circolazione del prodotto stampato; una capacità di far circolare singoli fogli con scritture di ogni genere e con una non trascurabile influenza informativa e formativa su un folto pubblico di lettori; una possibilità di pubblicazioni a periodicità più o meno regolare, come dal XVII secolo in poi cominciarono a essere giornali e riviste (1679: Acta eruditorum a Lipsia; 1700: Bibliothèque universelle et historique ad Amsterdam). E anche da ciò sarebbero derivati elementi importanti per l'evoluzione del mestiere di storico, così come in generale per ogni attività e professione intellettuale.

La storiografia nella società industriale

L'insieme delle condizioni delineate in precedenza non subì in seguito modificazioni radicali, almeno rispetto a come esse si erano assestate alla fine del XVIII secolo. Il loro sviluppo andò piuttosto nella direzione di una forte accentuazione e complicazione dei loro elementi secondo le sollecitazioni e i caratteri propri della nuova società industriale che nel XIX e nel XX secolo si venne compiutamente affermando.

Si rafforzò soprattutto il carattere scientifico di tutte le discipline storiche fino all'uso di tecniche e di strumenti (dalle statistiche alla datazione col metodo del radiocarbonio 14, dallo studio di manoscritti coi raggi ultravioletti alla fotografia aerea, dal microfilm prima leggibile e poi anche stampabile al computer, ecc.) che hanno dato alla ricerca storica, pur senza essere esclusivamente suoi, la possibilità di costruire un'area di dati 'oggettivi' quale in passato non si era mai data. Si rafforzò ugualmente il carattere professionale dell'attività storiografica: sullo storico che aveva un tale incarico da parte del sovrano o comunque da parte pubblica, sullo storico che seguiva condottieri ed esploratori con il compito esplicito di narrarne le imprese, sullo storico che esercitava il suo ufficio per una particolare committenza privata o corporativa, sullo storico che veniva indotto o dedicato al suo ufficio dal proprio contesto istituzionale (civile, militare, ecclesiastico), sullo storico che faceva storia per propria libera iniziativa, ma che (come nei casi precedenti) non necessariamente doveva essere del mestiere, prevalse nettamente la figura dello storico appunto di mestiere.

Non c'è dubbio che l'università, innanzitutto e soprattutto, sia stata il centro ritenuto più autentico di formazione e di accertamento della professionalità storiografica. In quello storico, non meno, se non addirittura di più, che in altri campi l'università ha assunto, infatti, il ruolo che ne ha fatto una delle articolazioni fondamentali della società industriale: l'istituzione, cioè, che ricerca, accumula, conserva, trasmette, prosegue, fornisce e attesta il sapere tecnicamente attendibile sul quale, in quanto valore e in quanto strumento, la civiltà industriale si fonda. La sua esclusività non è stata assoluta. Altri centri di attività intellettuale hanno via via gareggiato con essa nella configurazione della professionalità, nel nostro caso, storiografica: uffici storici di ministeri e di stati maggiori o di altre istituzioni; archivi e biblioteche; centri specializzati nell'uno o nell'altro settore di ricerca; uffici pubblici di cura del patrimonio culturale; centri di studio di aziende private; società e associazioni di cultori della materia, scuole o istituti superiori o di perfezionamento extrauniversitari o postuniversitari; istituti deputati su scala nazionale o internazionale (o anche locale) alla ricerca scientifica e così via. Per queste strade si è spesso determinata, e appare sempre sussistere almeno a livello potenziale o latente, una notevole contrapposizione, per non dire rivalità o conflittualità, tra quel che è consacrato dall'università e quel che è al di fuori di essa, ma non si ritiene di minore dignità e valore. In questi stessi casi, tuttavia, il primato universitario sembra in qualche modo continuare a sussistere, sia perché sono in generale i titoli universitari (lauree, diplomi) a dare accesso alle sedi extrauniversitarie, sia perché l'autorevolezza istituzionale dell'università raramente è sembrata messa davvero in questione, almeno sino alla fine del XX secolo.

Il 'mestiere di storico' ha ottenuto, così, un riconoscimento di specificità e di autonomia di nuovo tipo, del quale sono evidenti il parallelismo e la simultaneità con l'analoga vicenda di ogni altro 'mestiere', intellettuale e non intellettuale, secondo la logica e nelle forme proprie della società industriale che, nel contesto di quest'ultima, sono diventate requisiti ineludibili. Alla cattedra universitaria - quale luogo privilegiato della professionalità storiografica - che nel corso del XIX secolo e per buona parte del XX secolo ha toccato da questo punto di vista l'apogeo delle sue fortune, si è peraltro affiancato col tempo, data la contrapposizione sopra accennata, un libero esercizio professionale, per lo più cumulato e integrato con la docenza, ma anche da essa sempre più distinto, e alla fine ad essa addirittura alternativo. Una lunga vicenda si snoda, per quanto riguarda questo esito, dai tempi dell'Umanesimo in poi. L'umanista aveva rappresentato - vale la pena di insistere su questo punto - la prima figura moderna di intellettuale caratterizzato dall'esercizio di una libera iniziativa individuale. In Pietro Aretino, con implicazioni che, pur se in via non primaria, riguardarono anche gli interessi storiografici della sua età, si ritrova la prima, o comunque la più esemplare, figura dell'età umanistica, per cui il lavoro intellettuale divenne una vera e propria ditta individuale, un'azienda personale, in diretta corrispondenza con le nuove caratteristiche del 'mercato' intellettuale determinate dall'avvento della stampa e dalla sua già ricordata capacità di circolazione. Su questa via si era poi proseguito, a ritmo comunque molto placido, con iniziative memorabili, quale, a suo tempo, la pur essa già ricordata Encyclopédie nel XVIII secolo. Solo nel XX secolo, però, si è giunti davvero alla maturità di questi sviluppi.

L'intellettuale free lance diventa ora più che mai impresario di se stesso. Dalla collaborazione a case editrici, a giornali, riviste o a 'grandi opere' promosse (anche su sua segnalazione e progetto) e realizzate dalle case editrici, da pubbliche istituzioni o da istituti privati fino alla redazione di libri specifici su temi particolari, ugualmente di propria ideazione o commissionati, è tutta una vasta gamma di attività che progressivamente si è aperta all'attività dello storico. Dopo la metà del XX secolo è sempre più frequente il caso dell'autore di libri di storia che riserva a se stesso il copyright della sua opera. Il diritto di autore, a sua volta sempre più formalmente riconosciuto e tutelato nella sua durata e nel suo esercizio, diventa l'oggetto di contratti ben più complessi di quelli di semplice cessione della proprietà letteraria che per oltre un secolo, dalla prima metà del XIX secolo, ne avevano rappresentato la forma quasi esclusiva. La cattedra o, comunque, la qualificazione universitaria, pur conservando la sua già ricordata posizione di privilegio, finisce così col trovarsi esposta (come, ad esempio, in tutt'altra misura, nelle professioni mediche, ingegneristiche, di architettura, ecc.) a una concorrenza libero-professionistica via via più efficace, e soprattutto efficace, poi, nel caso segnalato di cumulo e integrazione tra posizione universitaria e posizione extrauniversitaria.

Una salvaguardia della sua condizione di privilegio l'università ha, semmai, trovato in un altro aspetto degli stessi sviluppi. Le tecniche più avanzate e numerosi fattori derivanti dall'allargamento dei campi e dei temi della ricerca storica e quindi dalla sua crescente complessità hanno, infatti, posto anche per la storia il problema di finanziamenti, attrezzature, personale a loro volta sempre più cospicui. Il rapporto fra Stato e università, anche nei paesi in cui l'ordinamento universitario non è solo né per intero statale, o non lo è che in piccola parte (come nei paesi anglosassoni), ha fatto sì che l'università abbia potuto essere, in via diretta o (soprattutto attraverso il costituirsi di organismi pubblici per la ricerca) in via indiretta, beneficiaria privilegiata pure nell'intervento statale in materia. E, tuttavia, ordinamenti particolari, presenza e attività di altri protagonisti e promotori, sponsorizzazioni di vario altro tipo ne hanno, comunque, inficiato e attenuato il quasi monopolio raggiunto nel corso del XIX secolo.Tutto questo non avrebbe potuto aver luogo se tra attività intellettuale e mercato i rapporti non si fossero intensificati in una misura che, prevedibile o imprevedibile, è risultata nella seconda metà del XX secolo assai notevole. Il ruolo di sollecitazione e di disponibilità che, come si è detto, è stato esercitato dal mercato fin dall'inizio delle fortune della stampa è diventato nel XIX e nel XX secolo un ruolo ben altrimenti determinante. È frequente l'osservazione che questo suo carattere determinante abbia assunto la forza di un'obbligazione vincolante del lavoro intellettuale e dei suoi indirizzi e tendenze. Ciò, in effetti, per motivi diversi è accaduto, ma, per quanto riguarda la ricerca scientifica e, nella fattispecie, quella storica, non è mai stato, in fondo, veramente così. La ricerca ha seguito sempre, in sostanza, la linea di svolgimento dettata dalle sue particolari esigenze e dai suoi sviluppi. L'autonomia guadagnata dal lavoro storico (come dal lavoro intellettuale in genere) nella società moderna non solo non è venuta meno, ma si è rafforzata proprio grazie al contestuale consolidamento della modernizzazione in tutti i suoi aspetti. La società industriale si è, poi, fondata fin dall'inizio su un nesso indissolubile, anzi genetico, con la scienza e con la tecnica come nell'esperienza del passato non era mai accaduto. Sarebbe stato davvero difficile, per non dire impensabile, che una tale interna e potente logica venisse alterata, nella sua essenza, sia pure ad opera di un fattore come il mercato, che con essa ha avuto e ha, ugualmente fin dall'inizio, un'eguale correlazione di reciprocità. E, infatti, l'azione del mercato non si è esercitata, per quanto qui ci interessa, in una direzione modificatrice o attenuatrice della logica e dell'autonomia della ricerca, se non in misura sicuramente marginale, bensì - e questo sì, largamente - in direzione di un innegabile condizionamento della comunicazione, divulgazione e fruizione dei temi della ricerca e dei loro progressivi svolgimenti a livello della 'grande società' in cui la società industriale si è tradotta. Da questo punto di vista, anche per la storiografia si è perciò formato, rispetto alla società, un vincolo reciproco - per così dire - di condizionamento condizionato, di sollecitazione e richiesta sul versante sociale e di sollecitazione e offerta sul versante storiografico: un vincolo via via irrobustito dalla diffusione dell'istruzione, dalle possibilità economiche e tecniche di accesso a un'informazione sempre più ampia, dalle esigenze di ampliamento dell'orizzonte intellettuale medio.

Una spinta potente è stata data qui dall'avvento dei grandi mezzi di comunicazione di massa che, dal cinema in poi, si sono aggiunti alla stampa e l'hanno anche scavalcata nell'efficacia del rapporto con il 'pubblico', ossia, in ultima analisi, con il mercato. Dal film alla televisione e, in ultimo, all'enorme campo del 'virtuale', la storia si è subito imposta tra i protagonisti maggiori sia della domanda sociale che della 'industria culturale' (come efficacemente è stata definita). Oltre che come collaboratore e come consulente di giornali e di case editrici nel campo - come suol dirsi - della 'carta stampata', lo storico si è imposto a sua volta come consulente, autore, sceneggiatore, interlocutore, giudice, ecc. dei più vari progetti, programmi e realizzazioni di argomento storico nel campo cinematografico, televisivo, informatico. La stampa stessa - in particolare quella quotidiana e periodica - è stata a sua volta condizionata e, almeno in parte, alterata dalla presenza dei mezzi della comunicazione audiovisivi, facendo registrare mutamenti di impostazione e di tono tali da ripercuotersi in non lieve misura sui modi e sugli esiti della formazione dell'opinione e dei gusti correnti anche in materia culturale, e più specificamente storica.

Opinione e gusti potentemente sollecitati d'altra parte, su tutt'altro versante, per il posto centrale assunto - come si è già accennato - dalla storia nel quadro del pensiero, dei valori e dell'esperienza europea nel corso del XIX secolo. Su questa centralità sono frequenti gli equivoci, soprattutto perché si ritiene che lo storicismo sia solo una corrente fra le altre del pensiero europeo, e che la sua maturazione abbia coinciso coi tempi e con le vicende dello spirito romantico nella prima metà del XIX secolo. In realtà, questo è un modo di vedere le cose non sbagliato nelle sue indicazioni di fatto, ma lontano dal cogliere tutto il rilievo che la dimensione storica ha assunto nel pensiero europeo, fino a diventarne la già ricordata caratterizzazione fondamentale che risalta anche nelle sue tendenze apparentemente più aliene da essa. La storia prammatica del modello ellenistico-romano, la storia sacra del modello medievale e cristiano, la storia aperta a un sempre più ampio orizzonte umano dai tempi del Rinascimento in poi erano già avvii potenti a vedere sia il segno dell'uomo nella storia, sia, ancor più, il segno della storia nell'uomo. La stessa età illuministica, della quale viene messa nella massima evidenza la contrapposizione della natura o della ragione alla storia, fu ben lontana dall'atteggiamento astorico o antistorico convenzionalmente imputato ad essa. Nella sua ottica la storia, che aveva visto trionfare l'irrazionale e quindi il male, avrebbe visto anche il movimento inverso. Illuminato dalla ragione circa la vera essenza della natura, l'uomo sarebbe diventato signore della storia e avrebbe preso nelle proprie mani il suo destino. La storia e l'azione storica dell'uomo venivano più che mai confermate come le dimensioni eminenti da un punto di vista anche più generale. La continuità tra il XVIII secolo e l'epoca seguente è, su questo piano, fortissima. E continuità vi è pure tra la prima e la seconda metà del XIX secolo, quando allo spirito romantico subentrò la ventata positivistica. Anche per quest'ultima si parla di antistoricismo, laddove per essa forse ancor più che per il periodo illuministico vale l'osservazione circa la fondamentale storicità attribuita alle vicende della natura e dell'uomo.Non può, quindi, sorprendere che un netto carattere storico abbiano avuto anche le idee-guida della vita politica e sociale dalla fine del XVIII secolo in poi: progresso e rivoluzione, libertà e democrazia, popolo e nazione, clericalismo e laicismo, conservazione e reazione, oppressione e giustizia, aristocrazia e borghesia, capitale e lavoro, ecc. Tutte queste condizioni apparivano determinate, secondo la prospettiva sopra accennata, nella storia e dalla storia. L'educazione in questo senso dell'opinione pubblica, della classe dirigente, della cultura corrente, della popolazione scolastica, degli attivisti della lotta politica e sociale, degli intellettuali in qualsiasi ufficio o posizione e, in una parola, dell'uomo europeo penetrò nel profondo della coscienza collettiva e individuale. La storia e gli storici divennero protagonisti ora davvero tra i più centrali sia della vita politica che della vita sociale. L'esemplificazione riuscirebbe pletorica ancor più che facile. Basti pensare alla discussione francese sulla 'grande rivoluzione' del 1789, o alle ripercussioni dell'opera di storici come Guizot e Thiers, Michelet e Quinet nella Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo; oppure alla non meno accesa discussione storiografica tedesca tra il 1820 e il 1870 sull'alternativa tra il grande impero tradizionale includente l'Austria e un nuovo impero senza Austria, e intorno alla Prussia, quale dimensione del movimento nazionale germanico; o ancora all'esortazione di Foscolo affinché gli Italiani coltivassero le storie per trovarvi la base più sicura del loro risorgimento o, infine, alle opere di Cesare Balbo e agli scritti di Carlo Cattaneo sulla tradizione nazionale italiana. Nella lotta sociale l'impulso storicistico agì, forse, addirittura in misura maggiore sia da parte conservatrice o liberale che da parte democratica o rivoluzionaria. Da questo punto di vista l'intonazione storicizzante del marxismo - come nasceva su un terreno già profondamente arato nella stessa direzione dalla 'filosofia classica tedesca' (in sostanza lo hegelismo), dal pensiero economico inglese e da quello francese tra il 1815 e il 1848 - esercitò così, a sua volta, un'influenza fortissima nell'accentuare l'analoga generale propensione della cultura europea. Un'immagine e un'idea della storia propria e altrui, della storia più generale e di quella più specifica fu, quindi, un elemento primario, eminente al di là di qualsiasi precedente, dell'identità e della coscienza di tutte le realtà e di tutte le forze politiche e sociali agenti sulla scena europea del XIX e del XX secolo. La storia divenne, del tutto comprensibilmente, uno dei terreni culturali su cui l'urto delle forze in campo fu più forte, e il confronto più incise sull'andamento complessivo dello scontro.

Perché una tale propensione alla storia? La domanda non può non essere avanzata. Abbiamo già osservato che in nessun'altra cultura umana la storia ha occupato un posto pari a quello occupato nella cultura europea in misure e in maniere via via più cospicue, fino a configurarsi come il modo più tipicamente europeo di atteggiare la realtà e di atteggiarsi rispetto ad essa. Anzi, fino ad adombrare una vocazione oltre che una grande forza creativa e una corrispondente capacità di plasmare e dominare la realtà nel segno di una razionalità intesa molto variamente, ma sempre molto efficace nei suoi effetti e possente nel suo respiro. Certo è che l'arma storiografica, se ha rappresentato per l'Europa una delle principali misure della vita interna, ha anche rappresentato uno dei principali strumenti della sua affermazione e del suo dominio mondiale. Non è facile evitare il giudizio che la conquista e l'elaborazione europea della dimensione storiografica ai livelli della massima consapevolezza e del massimo vigore intellettuale abbiano segnato una svolta irreversibile sul piano complessivo di tutta la vicenda umana. Al confronto regge, in effetti, soltanto l'ancor più imponente edificio che l'iniziativa e il pensiero europei hanno costruito con le scienze matematiche e naturali, e che ha segnato nella vicenda umana una svolta di cui non c'è bisogno di sottolineare le complesse, profonde e potenti ripercussioni. Per queste ragioni la storicità, come la scientificità, ha finito col costituire nella società europea un condizionamento culturale primario e imprescindibile. Storicità della scienza e scientificità della storia si sono, anzi, strettamente congiunte fra loro come termini di certezze e di dubbi, di affermazioni e di problemi sentiti di primaria importanza non soltanto sul piano delle relative discipline e degli studi che esse coltivano.

Singolare può essere considerata, premesso ciò, la forte insistenza del pensiero europeo su una visione storiografica legata allo schema triadico antichissimo della perfezione originaria, della caduta e del riscatto. Così è, per fare solo qualche esempio, in uno schema come quello rousseauiano; così nello schema marxistico; così in uno schema come quello del Risorgimento italiano. Lo schema lineare del progressus ad infinitum è stato anch'esso molto presente nella tradizione europea, ma con forza che si direbbe alquanto minore di quella connessa al pathos drammatico dello schema triadico. Schema che certo non è soltanto europeo, ma che nei suoi svolgimenti europei ha trovato una traduzione in idea-forza di grande incidenza. Ciò, forse, anche perché - se non si vuole risalire a più antiche stratificazioni culturali, quale quella indoeuropea postulata da Dumézil - l'indissolubile nesso tra la nascita e la formazione dell'Europa moderna e gli sviluppi del cristianesimo ha fatto assorbire il principio trinitario cristiano tra le principali convinzioni europee. La laicizzazione complessiva a cui - come si è più volte accennato - l'esercizio della funzione storiografica ha portato non è, però, venuta meno per questo nesso teoretico con la religione con cui l'Europa si è più immedesimata. Può, anzi, averne avuto una sollecitazione ulteriore.Alla fine del XX secolo la relazione fra storia e società appare, comunque, più che mai fortemente impregnata dei caratteri e dei problemi di un tempo che è sembrato e sembra porre all'uomo e alle comunità umane i problemi epocali di una transizione tra le più significative della loro storia. La storiografia ne porta il segno in un travaglio interno che si esprime in una discussione serrata sulla sua natura, senza, peraltro, che appaiono alterati nel fondo i termini della sua consapevolezza di sé: scienza o arte? e quale tipo di scienza o arte? o puramente e semplicemente storia, ossia qualcosa di diverso, autonomo, autosufficiente, un autovalore? Le suggestioni dell'epoca, corrispondenti ai suoi problemi, hanno posto esigenze sempre più forti di risorse, attrezzature e tecniche; hanno prospettato come ineludibile la prassi del lavoro di équipe, dell'interdisciplinarità a discapito non solo dell'individualismo, bensì, in alcune proiezioni esterne, dell'individualità stessa dello storico; hanno imposto il tema del rapporto fra storia e scienze sociali come problema di fondo di costituzione e di riconoscimento dell'identità storiografica. Nello stesso tempo, la pressione del mercato ha alimentato una domanda e un'offerta di 'prodotto storiografico' in misura ancora superiore a quella che già appariva così cospicua a metà del XX secolo, con una corrispondente intensificazione degli effetti di cui si è già parlato sugli storici e sul loro lavoro. L'accelerazione dei tempi dello sviluppo tecnico, economico e sociale ha reso, anzi, questa, per così dire, 'mercificazione del prodotto storico' in certo qual modo più intensa, con interi cicli televisivi, con riviste divulgative specializzate, con le fortune di generi particolari come la biografia, con la frequentazione degli oggetti storici più peregrini (fino agli odori e ai profumi), con l'insistenza sui particolari della quotidianità e del costume come sui fulgori rutilanti delle armi e delle guerre, con il riferimento ai popoli e alle civiltà più lontane nel tempo e nello spazio. E, inoltre, con il rilievo assunto dalla pubblicità, con l'importanza della economicità e della competitività del 'prodotto', con le innovazioni tecniche giunte fino alla 'multimedialità'.È stata, però, soprattutto la storia politica del XX secolo a ingenerare nel rapporto fra storia e società di questo periodo le complicazioni maggiori. Il tempo dei grandi totalitarismi e delle grandi lotte ideologiche ha mostrato fino al paradosso la limitazione insuperabile dell''intellettuale organico' e della storia intesa come storia di partito ancor più che di parte. L'esemplificazione ne potrebbe essere inesauribile: basti pensare alla crociata antiebraica condotta sulla base di falsi clamorosi come i Protocolli dei Savi di Sion, o alle storie di partito che da una edizione all'altra, a distanza di appena qualche anno, santificavano o demonizzavano i medesimi eventi o personaggi o, ancora, alle glorificazioni storiche e alle certezze di immancabile avvenire delle cause più diverse (e non di rado a firma degli stessi storici). Le possibilità di manipolazione delle informazioni acquisite grazie all'impressionante progresso tecnico dell'epoca hanno fatto constatare con grande evidenza ed entro limiti amplissimi che né un tale progresso, né l'osservabilità in tempo reale risolvono il problema dell'attendibilità dei dati storici. L'informazione (e, con essa, la ricerca) storica è diventata così, in analogia con ogni altro settore, un caso significativo di sociologia della conoscenza, ponendo più specificamente, forse, che per altri settori il problema dei rapporti fra cultura e potere (e non solo potere politico, ma anche potere sociale in generale), del quale, come si è detto, nella storiografia si è sempre fatto esperienza.

Che, tuttavia, e sia pure con tutte queste e con le altre complicazioni a cui si potrebbe accennare, la funzione storiografica non solo non abbia perduto, ma abbia anzi visto addirittura accrescersi la sua pregnanza sociale, è più che evidente. Popoli e paesi extraeuropei hanno trovato nella storia non solo le loro 'radici', ma anche il loro diritto a essere se stessi e a farsi valere anche nel presente e nell'avvenire, e ciò in misura per nulla inferiore a quanto per se stessi popoli e nazioni d'Europa avevano fatto in precedenza. Il crollo dei totalitarismi ha determinato un'esigenza di reazione alla cosiddetta 'crisi delle ideologie' con una rivisitazione della storia recente al fine di una nuova e aggiornata possibilità di aggregazione sociale e politica. Nello stesso tempo problemi analoghi ha posto la crisi, vera o presunta che sia, dello Stato nazionale, nel cui quadro il consenso e la disciplina sociale e i processi definiti di 'nazionalizzazione delle masse' avevano trovato nella storia, nei valori ad essa riportati e attinti, un riferimento di grande ed efficace rilievo. Si può anzi osservare per inciso, per quanto riguarda l'Europa, che una delle ragioni di difficoltà e di incertezza ravvisabili nel processo di integrazione e unione europea può anche essere vista (o simboleggiata) in una indubbia scarsezza di richiami storici svolti a livello davvero europeo e tali da configurare, per così dire, una 'opinione pubblica storiografica' o una 'cultura storiografica' relativa all'Europa considerata come unità. L'esito del confronto tra le superpotenze globali dopo la seconda guerra mondiale ha fatto parlare di una 'fine della storia', che sembrerebbe postulare una globalizzazione della funzione storiografica da contrapporre al particolarismo, sempre vigoroso, degli interessi storici che si manifestano sia a livello di mercato culturale che a livello della ricerca e dell'elaborazione scientifica. A loro volta, sia la 'crisi delle ideologie' sia gli sviluppi culturali complessi dell'epoca hanno ripetutamente messo in questione la categoria stessa della storicità, configurandone, se non un superamento, almeno una sostanziosa metastasi disciplinare.

È possibile vedere in questi processi un aspetto della crisi radicale subita dall'Europa nel XX secolo per quanto riguarda il suo primato mondiale? La domanda è più che legittima. Peraltro, una domanda non meno essenziale è dettata, a proposito dell'accennata discussione circa la categoria della storicità, dagli sviluppi della storiografia nella seconda metà del XX secolo con l'irruzione, nel suo campo, delle scienze sociali o di ottiche e concetti allogeni (strutturalismo, modellismo, controfattualità, ecc.) o di problematiche suscettibili di svolgimenti fortemente fuorvianti rispetto alla specificità storiografica (come, spesso, quelle che si connettono all'idea della 'lunga durata'): la domanda, cioè, circa la possibilità che alla storiografia possa essere sottratta la serie delle sue funzioni più proprie in quanto componente primaria dell'identità culturale e civile, della coscienza sociale ed etico-politica. Ma quelle accennate e ogni altra domanda non dovrebbero poter ricevere risposta diversa da quella che la storia e la storiografia suggeriscono, e cioè che la fine di un mondo storico è sempre connessa al determinarsi di un altro mondo storico, e che la diversità dei modi storici in cui la relazione fra storia e società si esplica non toglie nulla alla onnipresenza e alla rilevanza di tale relazione. (V. anche Storia, teorie della; Storia comparata).

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