Stranieri. Recenti sviluppi nel diritto penale dell'immigrazione

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Stranieri. Recenti sviluppi nel diritto penale dell’immigrazione

Stefano Zirulia

L’evoluzione in atto delle norme penali in materia di immigrazione si connota per una sempre più marcata influenza da parte del diritto dell’Unione europea. In particolare, il diritto penale dell’immigrazione è stato recentemente investito dalle riforme che hanno trasposto le dir. 2008/115/CE (meglio nota come “Direttiva rimpatri”) e 2009/52/CE (che è intervenuta sul fronte dell’occupazione lavorativa di stranieri irregolari); nonché dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la quale, attraverso le sentenze El Dridi e Achugbabian, ha dettato principi che hanno profondamente inciso sulle scelte politico-criminali dei legislatori nazionali, e verosimilmente continueranno a farlo in futuro. I temi cardine sono dunque rappresentati dalle politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, sul duplice fronte della messa in atto di efficaci procedure di rimpatrio e della lotta al lavoro clandestino, nonché dalla predisposizione di un efficace apparato sanzionatorio.

La ricognizione. L’impatto della normativa europea sul diritto penale dell’immigrazione

Esaminando l’influenza dell’ordinamento europeo sulla legislazione interna, risulta agevole individuare le più importanti novità che, nell’anno trascorso, hanno contrassegnato, dal punto di vista del contrasto all’immigrazione irregolare, il diritto penale italiano.

Procedendo in ordine cronologico, viene anzitutto in rilievo il d.l. 24.6.2011 n. 89 (convertito in legge, con pochissime modificazioni, dalla l. 2.8.2011 n. 129), che ha dato attuazione alla dir. 2008/115/CE, meglio nota come “Direttiva rimpatri”, recante Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. L’intervento ha apportato rilevanti modifiche al Testo Unico sull’immigrazione, incidendo principalmente sui suoi artt. 13 e 14, i quali dettano la disciplina dell’espulsione dello straniero irregolare e prevedono un complesso apparato di sanzioni penali per le condotte che, a vario titolo, ostacolano o comunque interferiscono con quel procedimento amministrativo. Tale riforma, benché già oggetto di un primo esame “a caldo” nella precedente edizione del Libro dell’anno del diritto1, merita di essere nuovamente presa in considerazione, sia nell’ottica di ripercorrerne i tratti essenziali alla luce della successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sia al fine di mettere a fuoco le questioni problematiche nel frattempo emerse, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

Il secondo intervento legislativo che ha segnato la materia de qua nell’anno trascorso, è rappresentato dal d.lgs. 16.7.2012, n. 109, il quale ha dato attuazione nell’ordinamento italiano alla dir. 2009/52/CE, recante Norme minime relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Anche questa riforma ha inciso su una disciplina penale in parte già esistente, ossia il reato di occupazione di stranieri irregolari di cui all’art. 22, co. 12, t.u. imm., introducendovi nuove circostanze aggravanti, nonché estendendo la relativa responsabilità anche alle persone giuridiche.

La focalizzazione

Occorre a questo punto esaminare nel dettaglio i contenuti delle citate riforme, concentrando l’attenzione sui profili di novità di maggiore rilievo.

2.1 La legge di trasposizione della direttiva rimpatri

Nell’ottica del penalista, le novità di maggior rilievo introdotte dal d.l. n. 89/2011 in attuazione della direttiva rimpatri riguardano la fase esecutiva del procedimento espulsivo: le disposizioni contenute negli artt. 13 e 14 del t.u. imm. sono state, sul punto, quasi interamente riscritte. Rinviando ad altre sedi per la ricostruzione dettagliata della nuova disciplina amministrativa2, ci si limiterà, nel prosieguo, a segnalare le novità che hanno investito il versante penalistico dell’intervento riformatore, e che hanno riguardato le sanzioni applicabili allo straniero a fronte di condotte che ostacolano o comunque interferiscono col procedimento espulsivo.

Il d.l. n. 89/2011, anzitutto, ha introdotto nel testo unico sull’immigrazione due fattispecie incriminatrici di nuovo conio, che non avevano omologhi nella disciplina antecedente al recepimento della direttiva. Vengono infatti punite, con la multa da 3.000 a 18.000 euro, le condotte che, senza giustificato motivo, violano le misure coercitive disposte dal questore in pendenza del termine per la partenza volontaria (art. 13, co. 5.2, t.u. imm.), ovvero in alternativa al trattenimento amministrativo nei CIE (art. 14, co. 1-bis, t.u. imm.), ossia: «a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza; b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere ragionevolmente rintracciato; c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente». Mentre l’introduzione delle indicate misure coercitive può essere collocata nel quadro dell’adeguamento della normativa interna alla disciplina dettata dalla direttiva rimpatri, essendo dette misure volte a realizzare l’obiettivo di un utilizzo graduale e proporzionato della forza nell’ambito del procedimento espulsivo; non altrettanto può dirsi con riferimento alla previsione di sanzioni penali in caso di violazione delle stesse, non essendo stato previsto alcun obbligo di incriminazione in tal senso a carico degli Stati membri.

La riforma del 2011 ha inoltre investito i profili sanzionatori di figure di reato già esistenti, lasciando invece immutata la loro struttura e natura delittuosa. Ciò è accaduto con riferimento alle norme incriminatrici delle condotte di inottemperanza agli ordini di allontanamento emessi dal questore (art. 14, co. 5-ter, t.u. imm., che punisce l’inottemperanza al primo ordine questorile; art. 14, co. 5-quater, che punisce l’inottemperanza agli ordini successivi al primo), per le quali si è passati dalla pena detentiva della reclusione (fino a quattro anni nella prima ipotesi; da uno a cinque anni nella seconda ipotesi) alla pena pecuniaria della multa (rispettivamente, fino a 20.000 euro e da 15.000 a 30.000 euro). L’abbandono della pena detentiva è stato imposto dall’interpretazione della direttiva rimpatri fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella nota sentenza El Dridi3, già oggetto di un approfondito esame nella precedente edizione del Libro dell’anno del diritto4. Rinviando a quella sede per ogni dettaglio, ci si limiterà qui a ricordare come il fulcro della pronuncia della Corte fosse rappresentato dalla dichiarazione di incompatibilità non già tra la direttiva rimpatri e l’utilizzo del diritto penale quale strumento di contrasto dell’immigrazione illegale; bensì tra la medesima direttiva e l’irrogazione di una sanzione detentiva nei confronti dello straniero irregolare inottemperante all’ordine di lasciare il territorio. Secondo la Corte, infatti, l’esecuzione di tale pena detentiva, non solo si scontrava con le modalità di trattenimento fissate dalla direttiva a tutela dei diritti fondamentali dello straniero, ma finiva altresì col frustrare l’obiettivo della sua efficace rimozione, poiché ne ritardava l’allontanamento, così privando la direttiva del suo effetto utile.

Il successivo co. 5-quater.1 t.u. imm., introdotto dal d.l. n. 89/2011, prevede che «nella valutazione della condotta tenuta dallo straniero destinatario dell’ordine del questore, di cui ai commi 5-ter e 5-quater, il giudice accerta anche l’eventuale consegna all’interessato della documentazione di cui al comma 5-bis, la cooperazione resa dallo stesso ai fini dell’esecuzione del provvedimento di allontanamento, in particolare attraverso l’esibizione d’idonea documentazione».

Il senso e la portata della disposizione in parola non risultano immediatamente percepibili. È tuttavia probabile che la norma, più che indicare criteri speciali per la commisurazione della pena dei delitti in esame5, sia volta a dettare alcune linee guida per valutare l’eventuale presenza di un «giustificato motivo», idoneo ad escludere la rilevanza penale delle condotte di inottemperanza agli ordini di allontanamento questorili.

2.2 Le nuove norme contro i datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari

La dir. 2009/52/CE – muovendo dalla duplice premessa che «dovrebbe essere rafforzata la cooperazione fra gli Stati membri nella lotta contro l’immigrazione illegale» (considerando n. 1), e che «un fattore fondamentale di richiamo dell’immigrazione illegale nell’Unione europea è la possibilità di trovare lavoro pur non avendo lo status giuridico richiesto» (considerando n. 2) – «vieta l’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare», e a tal fine «stabilisce norme minime comuni relative a sanzioni e provvedimenti applicabili negli Stati membri nei confronti dei datori di lavoro che violano tale divieto» (art. 1). Con specifico riguardo alla materia penale, la dir. 2009/52/UE impone agli Stati membri di configurare come reato cinque ipotesi particolarmente gravi di assunzione di stranieri irregolari (elencate nell’art. 9 della direttiva), prevedendo sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive (art. 10), ed estendendo tale responsabilità anche alle persone giuridiche (artt. 11 e 12).

L’ordinamento penale italiano, invero, era già provvisto di una norma incriminatrice delle assunzioni di stranieri irregolari. Si tratta dell’art. 22, co. 12, t.u. imm., il quale – nella vigente versione, introdotta dal cd. Pacchetto sicurezza del 20086 – punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni, e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato, chiunque occupi alle proprie dipendenze cittadini di paesi terzi privi di idoneo permesso di soggiorno.

Tale reato è dunque dotato di un campo di applicazione più ampio di quello imposto agli Stati membri dal legislatore UE, la rilevanza penale della condotta non essendo subordinata alla sussistenza delle ipotesi di particolare gravità elencate nell’art. 9 della direttiva.

Fatte queste premesse, risulta possibile individuare le specifiche novità introdotte dal legislatore in sede di trasposizione della direttiva, attraverso il citato d.lgs. n. 109/20127. Anzitutto, tre delle ipotesi di particolare gravità indicate dall’art. 9 della direttiva sono state elevate a circostanze aggravanti speciali del reato di cui all’art. 22, co. 12, t.u. imm., la cui fattispecie base è rimasta invece immutata. Il nuovo co. 12-bis dell’art. 22 t.u. imm., infatti, prevede che le pene siano aumentate da un terzo alla metà «a) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre; b) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa; c) se i lavoratori occupati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’art. 603 bis del codice penale». Quest’ultima norma, volta a colpire il cd. “caporalato”, prevede al terzo comma tre aggravanti: le prime due coincidono con le lett. a) e b) dell’art. 22, co. 12-bis, mentre la terza – alla quale soltanto, dunque, pare logico riferire il rinvio di cui all’art. 22, co. 12, lett. c)consiste nell’«aver commesso il fatto esponendo i lavoratori … a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro». Non è da escludere, peraltro, che il rinvio al co. 3 dell’art. 603 bis abbia costituito una svista del legislatore, atteso che le condizioni di sfruttamento vero e proprio (e non di grave pericolo) sono descritte, piuttosto, nel co. 2 della medesima norma incriminatrice.

Tornando alle novità introdotte dalla riforma, si segnala, in secondo luogo, quanto dispone il nuovo co. 12-ter dell’art. 22 t.u. imm., in attuazione dell’art. 5, co. 1, lett. b) della direttiva: «con la sentenza di condanna il giudice applica la sanzione amministrativa accessoria del pagamento del costo medio di rimpatrio del lavoratore straniero assunto illegalmente»8.

In terzo luogo, conformemente al già citato art. 11 della direttiva, il legislatore delegato ha introdotto nel catalogo dei reati da cui discende la responsabilità dell’ente ex d.lgs. 8.6.2001, n. 231, il nuovo art. 25 duodecies, ai sensi del quale «in relazione alla commissione del delitto di cui all’articolo 22, comma 12 bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 100 a 200 quote, entro il limite di 150.000 euro».

Merita infine di essere segnalato l’art. 1, co. 1, lett. b), del d.lgs. n. 109/2012, che, in attuazione dell’art. 13, co. 4, della direttiva, introduce nell’art. 22 t.u. imm. i co. 12-quater e quinquies. Tali disposizioni prevedono la possibilità di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi umanitari allo straniero che denuncia situazioni di particolare sfruttamento lavorativo, e coopera nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro.

I profili problematici

Veniamo ora all’esame delle principali questioni controverse sollevate dalle novità legislative di cui si è finora dato conto.

3.1 I profili di diritto intertemporale dei riformati delitti di inottemperanza agli ordini di allontanamento

Le modifiche apportate dal d.l. n 89/2011 ai reati di inottemperanza agli ordini di allontanamento del questore (art. 14, co. 5-ter e quater, t.u. imm.) hanno sollevato delicati problemi di diritto intertemporale. Come visto, a fronte della incompatibilità tra tali figure delittuose e gli obiettivi della direttiva rimpatri – così come interpretata dalla Corte di Giustizia nella sentenza El Dridi – il legislatore italiano ha reagito non già rinunciando all’utilizzo dello strumento penale, ossia alla qualificazione di quelle condotte come reato; bensì limitandosi a sostituire la pena detentiva con quella pecuniaria. All’indomani della riforma, pertanto, ci si è chiesti se tra i “vecchi” e i “nuovi” delitti configurati dall’art. 14 t.u. imm. – rimasti prima facie immutati sul piano della fattispecie e innovati sotto il solo profilo sanzionatorio – sussistesse un rapporto di successione di norme penali, ovvero piuttosto un’abolitio criminis e successiva introduzione di nuove fattispecie incriminatrici. Si trattava di un quesito rilevante tanto con riferimento alle condanne già passate in giudicato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 89/2011 (avvenuta il 24 giugno 2011), quanto in relazione ai procedimenti a quella data ancora pendenti ed aventi ad oggetto fatti commessi nel vigore della disciplina antecedente. Se, tra i reati in esame, fosse stato individuato un rapporto di continuità normativa, ciò avrebbe comportato, da un lato, con riferimento ai processi già conclusi al 24 giugno 2011, l’immediata conversione in executivis delle pene detentive in pene pecuniarie (ai sensi dell’art. 2, co. 3, c.p.); dall’altro lato, con riferimento ai procedimenti ancora pendenti a quella data, l’applicabilità da parte del giudice della cognizione delle nuove e più favorevoli pene pecuniarie (ex art. 2, co. 4, c.p.). Ferma però restando, in entrambi i casi, la rilevanza penale delle condotte incriminate.

Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, hanno sin da subito optato per la tesi dell’abolitio criminis con contestuale introduzione di due nuove fattispecie incriminatrici. Ciò si è tradotto, da un lato, nella revoca delle condanne già passate in giudicato al 24 giugno 2011 (ai sensi degli artt. 2, co. 2, c.p. e 673 c.p.p.)9; dall’altro lato, nella inapplicabilità ai fatti commessi prima di quella data di qualsivoglia pena (ai sensi degli artt. 2, co. 2, c.p., essendo le pene precedenti ormai abolite; e 2, co. 1, c.p., le nuove pene non essendo ancora vigenti al tempus commissi delicti)10. Pur nella comunanza del risultato raggiunto, dottrina e giurisprudenza vi sono pervenute attraverso percorsi argomentativi eterogenei. Rinviando ad altre sedi per una compiuta disamina dei diversi orientamenti emersi11, ci si limiterà qui a segnalare, per ragioni di spazio, quello che pare costituire l’argomento decisivo.

Come ha lucidamente spiegato una voce della dottrina12, il fenomeno successorio in esame «non è riconducibile ad una semplice sostituzione della precedente formulazione dell’art. 14, co. 5 ter e quater, con quella contenuta nel decreto legge», la “storia” dell’art. 14 dovendo infatti essere divisa «non in due, ma in tre segmenti temporali»: il periodo antecedente al termine di recepimento della direttiva rimpatri (fissato al 24 dicembre 2010), durante il quale le condotte di inottemperanza erano – legittimamente, al metro del diritto UE – sanzionate con la pena detentiva; il periodo compreso tra il 25 dicembre 2010 e l’entrata in vigore del d.l. n. 89/2011, durante il quale le medesime condotte erano penalmente irrilevanti, stante il contrasto dell’incriminazione con le disposizioni di diritto UE divenute direttamente applicabili; il periodo attuale, in cui il reato è punito con la sola pena pecuniaria. Ebbene, conclude la tesi in esame, proprio la presenza di una «parentesi di liceità», all’interno della quale le condotte di inottemperanza risultavano penalmente irrilevanti, reca necessariamente con sé – «almeno in un ordinamento come il nostro, che ha accolto il principio della retroattività in mitius della lex intermedia» – la non punibilità dei fatti commessi antecedentemente al ripristino dell’incriminazione.

3.2 L’impatto della direttiva rimpatri su ulteriori figure di reato

Ci si è chiesti, a più riprese, se la riforma introdotta dal d.l. n. 89/2011 abbia pienamente e correttamente trasposto la direttiva rimpatri nell’ordinamento interno. I dubbi che sono stati sollevati a tal proposito in dottrina, già all’indomani della riforma, sono andati via via acquistando maggiore consistenza negli ultimi mesi, facendo progressivamente ingresso anche nelle aule dei tribunali penali. A tale proposito, di particolare attualità è la questione relativa alla compatibilità tra la dir. 2008/115/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ed il cd. reato di clandestinità, ossia la contravvenzione prevista dall’art. 10 bis t.u. imm., che punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro lo straniero «fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato» in violazione della normativa sull’immigrazione13.

Punto di partenza è il principio generale – ricavabile dalla lettura congiunta delle sentenze della Corte di Giustizia El Didri e Achugbabian14 (le quali hanno dichiarato l’incompatibilità con la direttiva rimpatri, rispettivamente, del delitto di cui all’art. 14, co. 5-ter, t.u. imm., e del reato di clandestinità previsto dall’ordinamento francese) – secondo il quale gli Stati membri sono liberi di utilizzare il diritto penale come strumento di contrasto all’immigrazione irregolare, eventualmente configurando come reato anche la stessa clandestinità; ciò, tuttavia, a condizione non venga pregiudicato il duplice obiettivo di un rimpatrio efficace e rispettoso dei diritti fondamentali della persona, cioè l’effetto utile della direttiva rimpatri.

Né d’altra parte, ha precisato la Corte a chiare lettere nella sentenza Achugbabian, il legislatore nazionale potrebbe invocare in questi casi la facoltà concessagli dall’art. 2 della direttiva, secondo il quale «gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente direttiva ai cittadini di paesi terzi … b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale …»: infatti, l’unica interpretazione di tale disposizione che consente di non vanificare l’obbligo degli Stati membri di adeguarsi alla direttiva, è quella secondo cui il rimpatrio deve essere costituire la sanzione penale, o la conseguenza di sanzione penale, di fattispecie diverse dal mero ingresso o soggiorno irregolare.

Ebbene, vi sono due profili relativi alla disciplina del reato di clandestinità di cui all’art. 10 bis t.u. imm. che potrebbero entrare in conflitto con gli obiettivi perseguiti dalla direttiva: da un lato la previsione secondo cui, in caso di insolvibilità del condannato, la pena pecuniaria è sostituibile con la permanenza domiciliare15, ossia con una sanzione limitativa della libertà personale, come tale suscettibile di ritardare il procedimento di espulsione, e dunque di frustrare l’obiettivo di un rimpatrio efficace (analogamente a quanto riscontrato dalla sentenza El Dridi con riferimento alla pena detentiva precedentemente prevista per l’art. 14, co. 5-ter); dall’altro lato, la circostanza che l’espulsione di cui all’art. 16 t.u. imm., che il giudice di pace può disporre quale misura sostitutiva della pena pecuniaria16, venga eseguita attraverso l’accompagnamento coattivo alla frontiera (ai sensi dell’art. 13, co. 4, t.u. imm.), dunque senza rispettare la regola della concessione di un termine per la partenza volontaria nonché il principio di gradualità delle misure coercitive, previsti dalla Direttiva a tutela dei diritti fondamentali del migrante. Entrambi gli evidenziati profili – in base ai quali alcuni giudici hanno già provveduto a disapplicare il reato di clandestinità17 – hanno recentemente formato oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea18: a breve, pertanto, verrà sciolto anche questo ulteriore nodo relativo alla compatibilità tra il diritto UE ed il diritto penale dell’immigrazione.

A ben vedere, peraltro, è lecito sospettare che analoghi profili di incompatibilità con la direttiva rimpatri colpiscano ulteriori figure di reato vigenti nel nostro ordinamento. Anzitutto, la conversione della pena pecuniaria in permanenza domiciliare riguarda anche lo straniero insolvente condannato per i reati di cui agli artt. 13, co. 5.2 (violazione delle misure coercitive disposte dal questore in pendenza del termine per la partenza volontaria), art. 14, co. 1-bis (violazione delle misure coercitive disposte dal questore in alternativa al trattenimento amministrativo nei CIE), e art. 14, co. 5-ter e quater, t.u. imm. (inottemperanza agli ordini di allontanamento emessi dal questore). Anche questi delitti, pertanto, si candidano ad essere censurati per incompatibilità con l’obiettivo del rimpatrio efficace fissato dalla direttiva.

In secondo luogo, l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva di cui all’art. 16 t.u. imm. risulta applicabile anche ai reati di cui all’art. 14, co. 5-ter e quater: questi ultimi, pertanto, sembrerebbero violare la direttiva anche dal punto di vista delle garanzie minime offerte agli stranieri oggetto di rimpatrio.

3.3 Occupazione di stranieri irregolari e favoreggiamento della permanenza illegale

Prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 109/2012, la giurisprudenza dominante individuava il discrimine tra il delitto di cui all’art. 22, co. 12, t.u. imm (che, come visto, incrimina la condotta del datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze stranieri irregolari), e quello di cui all’art. 12, co. 5, t.u. imm. (che invece sanziona, con pene più severe, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità, favorisce la permanenza illegale di stranieri nel territorio italiano), nel dolo specifico di ingiusto profitto, elemento essenziale soltanto della seconda e più grave fattispecie19. Per la sussistenza di tale elemento soggettivo, non era considerata sufficiente la finalità di conseguire i tipici risparmi legati all’impiego di manodopera “in nero” (in particolare sul piano fiscale e previdenziale), finalità verosimilmente propria anche dell’autore del delitto di cui all’art. 22, co. 12; occorreva, piuttosto, l’intento di sfruttare a proprio vantaggio la condizione di debolezza contrattuale connessa allo status di clandestino, imponendo ai lavoratori condizioni gravose e discriminatorie, ovvero impiegandoli in attività illecite.

Ora che il legislatore, come visto, ha introdotto nell’art. 22 t.u. imm. le aggravanti speciali di cui al co. 12-bis, lett. a), b) e c), i confini tra le due figure di reato appaiono senz’altro mutati. Il punto di partenza per inquadrarli correttamente è la clausola di riserva che costituisce l’incipit dell’art. 12, co. 5, t.u. imm., ai sensi della quale il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale si applica «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Ebbene, mentre prima della novella introdotta dal d.lgs. n. 109/2012 non vi erano dubbi quanto al fatto che il delitto ex art. 12, co. 5, fosse più grave di (e dunque destinato a prevalere su) quello ex art. 22, co. 12; altrettanto non si può dire – o comunque non lo si può dire con la stessa sicurezza – dopo l’introduzione dell’aggravante di cui all’art. 22, co. 12-bis. In particolare, pare lecito interrogarsi in merito a quale sia la fattispecie corretta da applicare nel caso in cui, pur sussistendo il dolo specifico di cui all’art. 12, co. 5, ricorrano altresì gli estremi di una (o più) delle citate aggravanti speciali di cui al co. 12-bis dell’art. 22.

In tali ipotesi, infatti, mentre la pena detentiva massima per il favoreggiamento risulta pari a quattro anni di reclusione (fattispecie base di cui all’art. 12, co. 5), quella applicabile ai sensi dell’art. 22 può raggiungere i quattro anni e mezzo di reclusione (pena base di tre anni ex art. 22, co. 12, aumentata fino alla metà per effetto dell’aggravante ex co. 12-bis): ragionando in questi termini si dovrebbe assegnare l’etichetta di “reato di più grave” (e dunque prevalente) a quello di cui all’art. 22, co. 12, t.u. imm. Peraltro, i rapporti tra le due norme incriminatrici potrebbero tornare ad invertirsi in presenza di fatti commessi da due o più persone ovvero nei confronti di più di cinque stranieri. Tali situazioni, infatti, fanno scattare l’aggravante speciale di cui all’art. 12, co. 5, ultimo periodo, la quale, comportando un aumento delle pene da un terzo alla metà, eleva nuovamente il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale a fattispecie più grave, con conseguente inoperatività della clausola di riserva. Non è certo questa la sede per addentrarsi nella spinosa e dibattutissima questione relativa ai criteri per individuare, nel confronto tra due o più figure di reato, quella più grave; ed in particolare per affrontare il quesito se le circostanze aggravanti possano o meno entrare in gioco ai fini di tali valutazioni. Pare però utile segnalare, in conclusione, come gli attuali rapporti tra gli artt. 12, co. 5, e 22, co. 12 e 12-bis, t.u. imm. appaiano quanto mai fumosi e incerti.

2 Per uno sguardo sintetico e d’insieme, cfr. Masera, L., Diritto penale e governo dei flussi migratori, cit.; per una disamina più dettagliata si veda invece Savio, G., La nuova disciplina delle espulsioni dopo la legge 129/2011, in www.meltingpot.org.

3 C. giust. UE, 28.4.2011, C-61/11 PPU, El Dridi.

5 Nel primo senso, cfr. Natale, A., La direttiva 2008/115/CE e il decreto legge di attuazione n. 89/2011. Prime riflessioni a caldo, in www.penalecontemporaneo.it, 24.6.2011; nel secondo, e preferibile, significato, v. Savio, G., La nuova disciplina delle espulsioni, cit., 16.

6 D.l. 23.5.2008, n. 92, conv. con modif. nella l. 24.7.2008, n. 125. La norma incriminatrice in esame è stata introdotta dall’art. 5, co. 1-ter, del decreto, che ha così sostituito la precedente fattispecie contravvenzionale, che era stata a sua volta introdotta dall’art. 18, co. 1, della cd. legge Bossi-Fini (l. 30.7.2002, n. 189).

7 Per una prima lettura organica dell’intervento normativo, v. Masera, L., Nuove norme contro i datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari, in www.penalecontemporaneo.it, 3.9.2012.

8 A tal proposito, il co. 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 109/2012 da un lato rinvia ad un decreto ministeriale per l’individuazione dei criteri finalizzati alla determinazione del costo medio del rimpatrio; dall’altro individua le voci di spesa statale, comunque connesse alla gestione dei flussi migratori, alle quali destinare i proventi derivanti dalla sanzione amministrativa in esame.

9 In tal senso, v. Trib. Pisa, 11.10.2011, giud. Degl’Innocenti, in www.penalecontemporaneo.it, 26.10.2011; Trib. Matera, 12.10.2011, Pres. Vetrone, Est. Spagnuolo, ibidem, 18.11.2011.

10 Cass., pen., 23.9.2011, n. 36451, in www.penalecontemporaneo.it, 21.10.2011, con nota di Masera, L., Le prime pronunce della Cassazione sui profili di diritto intertemporale del riformato art. 14 t.u. imm. (di identico contenuto è la pronuncia, resa nel corso della medesima udienza, n. 36446); Trib. Torino, 29.6.2011, giud. Pironti, ibidem, 5.7.2011; Trib. Pinerolo, 14.7.2011, giud. Reynaud, ibidem, 2.9.2011; Trib. Torino, 27.6.2011, giud. Natale, ibidem, 20.7.2011.

11 Per un’approfondita disamina del dibattito, v. Masera, L., Il ‘nuovo’ art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98 e la sua applicabilità nei procedimenti per fatti antecedenti all’entrata in vigore del d.l. 89/2011, in www.penalecontemporaneo.it, 20.7.2011.

12 Si tratta, ancora, di Masera, L., op. ult. cit.

13 La questione è analiticamente trattata da Gatta, G.L., Il “reato di clandestinità” (art. 10 bis T.U. imm.) e la “direttiva rimpatri”, in www.penalecontemporaneo.it, 8.2.2012.

14 C. giust. UE, 6.12.2011, C-329/11, Achugbabian, in www.penalecontemporaneo.it, 6.12.2011, con annotaz. di Masera; cfr. anche i commenti alla pronuncia di D’Ambrosio, L., Se una notte d’inverno un sans papiers: la Corte di Giustizia dichiara il reato di ingresso e soggiorno irregolare ‘conforme’ e ‘non conforme’ alla direttiva rimpatri, ibidem, 26.1.2012; La Rosa, M., Diritto penale e immigrazione in Francia: cui prodest?, ibidem, 1.2.2012; Raffaelli, R., Case note: the Achughbabian case. Impact of the return directive on national criminal legislation, ibidem, 2.2.2012.

15 Ai sensi dell’art. 55, co. 5, d.lgs. 28.8.2000, n. 274.

16 Ex art. 62 bis d.lgs. n. 274/2000.

17 V., ad esempio, Giudice di pace, Roma, 16.6.2011, giud. Chiassai, in www.penalecontemporaneo.it, 26.9.2011.

18 Trib. Rovigo, sez. distaccata di Adria, ord. 15.7.2011, giud. Miazzi, in www.penalecontemporaneo.it, 19.7.2011; Giudice di pace, Lecce, ord. 22.9.2011, giud. Rochira, ibidem, 6.2.2012.

19 Per la disamina di tali questioni, si consentito il rinvio a Zirulia, S., Art. 12 t.u. imm., in Dolcini, E.-Marinucci, G., a cura di, Codice Penale Commentato, III ed., 2011, vol. III, Immigrazione, 7705 ss.

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