Supernova

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supernova In astronomia, fase esplosiva che conduce alla disgregazione di alcuni tipi di stelle.

Caratteri generali

Le s. sono gli eventi più energetici osservati nell’Universo: l’energia complessivamente liberata in una di queste esplosioni può raggiungere 1046 J, pari a 100 volte l’energia che il Sole è in grado di irradiare ‘bruciando’ l’idrogeno di cui dispone nel corso di 10 miliardi di anni. Quest’energia è per la massima parte trasportata da un flusso di neutrini e in parte minore (∼1044 J) dai materiali che costituivano la stella, proiettati nello spazio a velocità relativistiche (fino a 20.000 km/s). L’energia emessa sotto forma di radiazione elettromagnetica, pur essendo una frazione relativamente piccola del totale, è ancora una quantità enorme: ∼1043 J. Al momento del suo massimo splendore, una s. può avere una luminosità L=2∙1036 W, pari a ∼5∙109 L⊙, dove L⊙=4∙1026 W è la luminosità del Sole. Corrispondentemente, la s. raggiunge una magnitudine assoluta M∼−20, valore confrontabile con quello di un’intera galassia. Nell’esplosione, la stella può andare completamente distrutta o ridursi a un oggetto molto compatto, che, a seconda della sua massa, diventa una stella di neutroni o un buco nero (➔ stella). La materia espulsa va a costituire una nebulosa gassosa, detta residuo della s., che può rimanere visibile a lungo; l’esempio più famoso è la nebulosa del Granchio, residuo della s. del 1054 d.C.

Le s. sono eventi relativamente rari: in una galassia può verificarsi una di queste esplosioni ogni 25-100 anni. Ciononostante, esse hanno una grande importanza cosmologica soprattutto perché arricchiscono la materia interstellare di elementi pesanti (creati, in parte, dai processi di fusione nucleare che si svolgono nelle stelle nelle varie fasi della loro vita e, in parte, nel momento stesso dell’esplosione). Le s. sono, inoltre, una delle principali sorgenti dei raggi cosmici. È stato anche proposto che le onde d’urto generate nell’esplosione, comprimendo nubi di gas e polvere circostanti, possano innescare il processo di collasso gravitazionale che dà origine alle nuove stelle.

Storia delle osservazioni e nomenclatura

Benché osservate fin dall’antichità, le s. sono state a lungo confuse con altre esplosioni stellari assai meno violente, le novae (➔ nova). I due fenomeni vennero distinti solo negli anni 1920, quando E. Hubble riconobbe che alcune nebulose a spirale erano, in realtà, sistemi di stelle (galassie) separati dalla Via Lattea. Questa scoperta, infatti, implicava che due esplosioni stellari, osservate qualche decennio prima (1885 e 1895) nella galassia di Andromeda e nella NGC 5253, erano avvenute a distanze enormi e, quindi, che la loro luminosità era di gran lunga maggiore di quella delle ordinarie novae galattiche. Il termine s. fu introdotto, nel 1934, da W. Baade e F. Zwicky del California institute of technology.

Nessuna s. è stata osservata nella Via Lattea dopo l’invenzione del telescopio. Tuttavia, un esame delle antiche cronache, soprattutto cinesi, nelle quali sono riportate le osservazioni di oltre 70 ‘stelle temporanee’ (cioè novae o s.) ha condotto a identificare almeno sei di queste esplosioni avvenute in epoca storica nella nostra galassia (una settima è incerta). L’individuazione dei corrispondenti residui (ottenuta, in genere, rivelandone la radioemissione) ha avuto un ruolo decisivo per distinguere le s. dalle novae. La s. più spettacolare, a causa soprattutto della sua vicinanza (∼3000 anni luce), si data al 1006 e fu osservata, in Cina, Giappone, Corea e anche in Europa, nella costellazione del Lupo: raggiungendo la magnitudine apparente −10, superò largamente lo splendore di qualsiasi altro oggetto celeste, dopo il Sole e la Luna.

Lo studio delle s. extragalattiche, che fino al 1950 venivano individuate solo saltuariamente, ha subito dopo di allora un rapido sviluppo, grazie anche all’osservazione di lunghezze d’onda fuori del visibile. Per catalogare le s. si usa una sigla formata dalle lettere SN (che stanno appunto per s.) seguite dall’anno della prima osservazione e da una lettera assegnata nell’ordine in cui, nel corso di quell’anno, è avvenuta la scoperta: per es., SN 1987A è la prima s. scoperta nel 1987.

Proprietà osservative

Classificazione. Le s. vengono classificate in base alle caratteristiche dei loro spettri (che comprendono una componente continua e numerose righe, sia di assorbimento sia di emissione, fortemente spostate e allargate per effetto Doppler) e delle curve di luce (che descrivono come varia nel tempo la luminosità). La distinzione fondamentale, suggerita da R.L.B. Minkowski negli anni 1940, è in due categorie. Vengono dette s. di Tipo I (SN I) quelle i cui spettri non rivelano la presenza dell’idrogeno e s. di Tipo II (SN II) quelle i cui spettri, invece, la rivelano. Fra i due tipi di s. esistono anche altre importanti differenze. Le SN I presentano una notevole uniformità di spettri, che evolvono nel tempo secondo andamenti ben precisi; le SN II, invece, hanno spettri assai più variabili. Per quanto riguarda la luminosità, le SN I raggiungono, nel momento del massimo splendore, una magnitudine assoluta visuale ∼−20, mentre le SN II ∼−19; tuttavia, queste ultime hanno un’emissione sensibilmente maggiore nell’ultravioletto, sicché la magnitudine bolometrica di picco è quasi uguale per i due tipi. In corrispondenza del massimo di luminosità, le velocità dei gas espulsi nell’esplosione (dedotte dallo spostamento Doppler delle righe spettrali) raggiungono valori fra 10.000 km/s e 13.000 km/s, nelle SN I, e fra 2000 km/s e 20.000 km/s nelle SN II.

Ciascuno dei due tipi di s. viene, a sua volta, suddiviso in due classi. Le s. di Tipo I si distinguono in Ia e Ib, a seconda che nei loro spettri s’individui o meno la riga di assorbimento del Si II a 635 nm (spostata, per l’effetto Doppler, verso il blu a ∼615 nm). Le SN II si dividono in due classi (II-P e II-L), a seconda dell’andamento delle loro curve di luce.

fig. 1

Osservazioni fuori del visibile. Le osservazioni delle s. e dei loro residui a lunghezze d’onda fuori del visibile vengono effettuate sia da Terra (nella banda radio) sia a bordo di satelliti artificiali (nell’infrarosso, ultravioletto e X). Soltanto poche s. danno luogo a un’emissione radio significativa nella fase esplosiva. Più rilevante è, invece, la loro emissione nell’infrarosso e nell’ultravioletto, quest’ultima soprattutto nelle s. di tipo II. D’altra parte, i residui nelle s. sono fra le radiosorgenti più intense del cielo. La radioemissione, che di solito ha inizio parecchi decenni dopo l’esplosione, è caratterizzata da uno spettro continuo, con un’intensità che diminuisce all’aumentare della frequenza seguendo una legge del tipo: I ∝f–n, dove n, detto indice spettrale, ha un valore intorno a 0,5. Si pensa che essa sia prodotta, come radiazione di sincrotrone, da elettroni energetici in moto nei campi magnetici interstellari. Le osservazioni radio sono fondamentali sia per rivelare i residui di antiche s., sia per studiarne la struttura. La fig. 1 dà la distribuzione, in coordinate galattiche, dei 155 residui di s. individuati con osservazioni radio nella Via Lattea: si nota che essi sono, per la massima parte, concentrati intorno all’equatore galattico e che solo pochissimi si trovano a latitudini maggiori di 10°.

Origine delle supernove

Stelle progenitrici. Tutte le esplosioni di s. si verificano in stelle che si trovano al termine della loro storia evolutiva. Le stelle progenitrici dei due tipi di s. sono, però, diverse. Infatti, le SN I, nei cui spettri sono assenti le righe dell’idrogeno, devono derivare da stelle che hanno perduto la massima parte degli strati esterni nei quali era contenuto l’idrogeno non consumato nelle reazioni nucleari; le SN II, invece, i cui spettri rivelano la presenza di questo elemento, devono derivare da stelle che hanno mantenuto integra la loro struttura fino al momento dell’esplosione. La teoria dell’evoluzione stellare (➔ stella) porta a identificare le prime con le nane bianche, che, dopo l’uscita dalla fase di gigante, hanno espulso il mantello formando una nebulosa planetaria, e le seconde con le stelle più massicce (M≿8 M⊙, dove M⊙ è la massa del Sole), nelle quali tale fenomeno non si è verificato.

fig. 2

Origine delle SN I. Si pensa che le progenitrici delle SN I siano nane bianche di carbonio e ossigeno. Questi corpi, che provengono dall’evoluzione di stelle con masse da ∼0,3 M⊙ a 3-8 M⊙, sono costituiti da un nucleo degenere, in gran parte di carbonio e ossigeno, e da un sottile strato superficiale contenente il poco idrogeno sopravvissuto all’espulsione della nebulosa planetaria. L’astro è normalmente stabile, perché la pressione interna del gas di elettroni degenere fa equilibrio alla forza attrattiva gravitazionale. L’instabilità può, però, insorgere nei sistemi binari stretti (➔ stella), in cui la nana bianca ha una compagna che sta attraversando la fase di gigante (fig. 2). Tale situazione si verifica nel caso in cui la compagna ha una massa più piccola della nana bianca, sicché la sua evoluzione è stata più lenta. Il processo invocato, analogo a quello che genera una nova, è la cattura dell’idrogeno, che costituisce gli strati esterni della gigante, da parte della nana bianca. L’insorgere di una nova o di una s. dipende dal tasso di accrescimento della nana bianca. Se questo è inferiore a ∼10−8M⊙/anno, l’idrogeno catturato si accumula nello strato superficiale dell’astro finché, quando la sua quantità supera un certo limite, essa fonde improvvisamente in elio, dando luogo a una esplosione di nova. Se, invece, il tasso di accrescimento è maggiore di ∼10−8M⊙/anno, l’idrogeno, man mano che si deposita, si trasforma in elio e poi in carbonio e ossigeno, in modo più quieto. La massa del nucleo di carbonio-ossigeno, di conseguenza, aumenta gradualmente, fino a raggiungere il valore critico di Chandrasekhar (∼1,4 M⊙), oltre il quale la pressione del gas di elettroni degenere non riesce più a bilanciare la forza gravitazionale. Si verifica allora una contrazione e un conseguente aumento di temperatura. In un primo momento, però, la pressione, che in un gas degenere non dipende dalla temperatura, non varia, sicché la contrazione si accelera. A un certo punto, nel centro dell’astro si raggiunge la temperatura di ignizione (∼109 K), alla quale il carbonio e l’ossigeno fondono, trasformandosi prima in silicio e poi in nichel e ferro. Il calore sviluppato provoca un ulteriore aumento di temperatura che rimuove lo stato di degenerazione degli elettroni. Ne segue un’improvvisa espansione del nucleo e, quindi, la formazione di un’onda di deflagrazione, che dal centro si propaga verso l’esterno, raggiungendo la superficie in circa 1 s. L’aumento di temperatura, indotto dal passaggio di quest’onda, determina l’ignizione dei materiali in strati via via più esterni. Tuttavia, i processi di fusione nucleare, che ivi si verificano, non conducono fino alla formazione del ferro e del nichel: ciò spiega la presenza, negli spettri delle SN I, di righe corrispondenti a una varietà di elementi di massa intermedia (calcio, magnesio, zolfo ecc.). Nello strato superficiale, poi, non si raggiungono le condizioni per l’ignizione, sicché il carbonio e l’ossigeno rimangono incombusti. L’esplosione, nota come deflagrazione (o flash) del carbonio e dell’ossigeno, conduce, secondo le aspettative teoriche, alla completa disgregazione dell’astro.

fig. 3

Origine delle SN II. In linea di principio, il flash del carbonio e dell’ossigeno potrebbe svilupparsi anche in stelle singole di massa intermedia (fra 3 e 8 M⊙): tuttavia, sembra più probabile che queste stelle espellano gli strati più esterni, prima che si verifichino le condizioni per l’esplosione. Le stelle di massa ancora maggiore, invece, certamente concludono la loro vita come s. del II tipo. La catena di eventi che conduce all’esplosione dovrebbe essere la seguente (fig. 3). Alla fine della fase di gigante, la stella consiste di un nucleo di ferro, circondato da gusci concentrici di elementi via via più leggeri (silicio, carbonio-ossigeno, elio, idrogeno). Tale configurazione, tuttavia, non è stabile. Una volta che si sono esaurite le reazioni nucleari, il nucleo degenere, la cui massa supera il valore critico di Chandrasekhar, si contrae: la densità aumenta e, quando supera la soglia di ∼1010 g/cm3, gli elettroni cominciano a essere catturati dai nuclei degli atomi, sicché la pressione diminuisce e la contrazione si accelera. D’altra parte, l’energia gravitazionale liberata riscalda la zona centrale della stella a temperature dell’ordine di 1010 K, alle quali si ha emissione di fotoni di alta energia (raggi γ) in grado di scindere i nuclei di ferro in particelle α. Tale processo avviene con assorbimento di energia, contribuendo a rendere il collasso gravitazionale ancora più rapido (si calcola che esso si svolga su tempi dell’ordine di 0,1 s). Quando la densità centrale della stella si avvicina a 1014 g/cm3, i neutroni degenerano e la loro pressione aumenta improvvisamente tendendo ad arrestare la contrazione: il materiale in caduta verso il centro supera, però, per inerzia la posizione di equilibrio e viene quindi respinto subendo una specie di rimbalzo elastico. Si sviluppa di conseguenza un’onda d’urto, che si propaga verso l’esterno a velocità supersonica (a differenza dell’onda di deflagrazione, di cui si è detto sopra, che è, invece, subsonica). Il riscaldamento, provocato dal passaggio dell’onda d’urto, innesca reazioni nucleari di fusione nei materiali che costituiscono i gusci esterni della stella, determinando così l’esplosione di supernova. A differenza delle SN I, le SN II non conducono, però, alla completa disgregazione dell’astro: il suo nucleo, infatti, sopravvive, diventando, a seconda della massa, una stella di neutroni o un buco nero.

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