SVILUPPO ECONOMICO

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

SVILUPPO ECONOMICO (App. III, 11, p. 880)

Duccio Cavalieri

ECONOMICO L'interesse manifestatosi negli anni Cinquanta attorno a questo tema è tuttora vivissimo, sia per quanto riguarda le modalità e le prospettive dello s. nei paesi economicamente più avanzati, sia per quanto attiene alla problematica, in parte diversa, relativa alle aree che un tempo venivano dette "arretrate" e che oggi si preferisce definire "in via di sviluppo". La distinzione tra i due ordini di problemi, tutt'altro che pacifica nella nostra letteratura, può dirsi ormai consolidata nei paesi anglosassoni, come risulta anche dall'uso di termini diversi per indicare lo sviluppo nelle due situazioni. All'indubbio fervore di studi non sono corrisposti tuttavia progressi sostanziali sul terreno delle conoscenze. Si è avuta una proliferazione di modelli formali e astratti, quasi sempre incapaci d'interpretare correttamente una realtà dalla quale appaiono largamente disancorati e di conseguenza inadatti a fornire utili schemi normativi. Vi è chi imputa questa situazione allo scarso senso storico degli economisti, o alla mancata proposizione, da parte degli autori che rifiutano il paradigma teorico dominante, di uno schema alternativo che spieghi in termini più realistici e in modo non contraddittorio la natura e le cause della ricchezza e della povertà delle nazioni. L'astoricità dell'analisi è probabilmente il difetto di fondo. Essa è rilevabile non solo nei modelli neoclassici, che non affrontano il problema centrale dei conflitti d'interessi tra le classi sociali, ma anche nei modelli che relegano tali conflitti in una sfera esterna all'indagine economica. L'assenza di una teoria veramente generale dello sviluppo non sembra invece rappresentare un ostacolo a un'analisi più significativa. Non si può pensare che una visione teorica unitaria consenta di costruire un modello valido per ogni situazione. A fenomeni storici diversi devono necessariamente corrispondere ipotesi esplicative diverse. Sarebbe difficile, per es., sostenere che lo s. più rapido di alcune regioni e quello meno rapido di altre siano spiegabili con la semplice presenza o assenza in loco di ("fattori" ritenuti essenziali ad avviare con successo un processo di aumento del reddito medio per abitante. Tra gli studiosi più attenti, la convinzione che s. e sottosviluppo siano uniti da un legame funzionale assai stretto, riconducibile ai complessi rapporti che intercorrono tra il centro e la periferia del sistema economico mondiale, si accompagna al riconoscimento di una precisa specificità storica delle singole situazioni di s. e di arretratezza. Ne risulta un netto distacco dalle interpretazioni di tipo meccanicistico o evoluzionistico avanzate in passato. Oggi si ammette che il processo di s. non è soggetto a scelte obbligate di indirizzi produttivi, o all'osservanza di un ordine naturale di successione di fasi distinte. Vengono respinte sia l'idea che ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo convenga sempre specializzarsi nelle produzioni primarie, come richiede la teoria della divisione internazionale del lavoro basata sul concetto di vantaggio comparato, sia la tesi che essi debbano necessariamente ripercorrere lo stesso processo di s. sperimentato in altri tempi dalle potenze industriali odierne. La storia insegna che i paesi che sono oggi all'avanguardia come livelli di reddito per abitante non hanno seguito in passato un modello unico di sviluppo. I paesi che si sono industrializzati per primi hanno potuto giovarsi di un assetto liberistico degli scambi internazionali che ha facilitato loro il rifornimento di materie prime e il collocamento di prodotti sui mercati esteri; mentre i paesi che hanno avviato il processo di s. con un certo ritardo si sono trovati ad affrontare la concorrenza di produttori esteri già solidamente affermati e hanno dovuto quindi proteggere le loro industrie nascenti con adeguate misure doganali. In alcuni casi, lo svantaggio di un avvio tardivo si è addirittura trasformato in un vantaggio, in quanto i paesi ritardatari hanno potuto contare all'inizio del loro s. su riserve di manodopera a basso costo, sulla possibilità di utilizzare tecnologie avanzate e su un mercato interno già idoneo ad assorbire una produzione nazionale sostitutiva di beni prima importati. L'esperienza storica più recente mostra che lo s. per i paesi produttori di materie prime e di derrate agricole richiede modifiche dell'andamento delle ragioni di scambio internazionali tra i prodotti primari e quelli industriali.

L'interpretazione della realtà economica deve partire da un'analisi dei fatti, e il fatto saliente di cui occorre tener conto in tema di sviluppo è che il divario in termini di reddito medio per abitante tra i paesi economicamente più avanzati e quelli sottosviluppati continua a crescere, malgrado gli sforzi diretti a invertire questa tendenza di fondo. Le eccezioni sono molto rare, praticamente limitate ad alcuni paesi esportatori di petrolio. Il tasso medio annuo di aumento del prodotto nazionale dei paesi sottosviluppati non può dirsi nel complesso inferiore a quello dei paesi sviluppati, ma l'aumento del reddito per abitante è minore nei paesi del primo tipo a causa del maggiore tasso d'incremento demografico che li contraddistingue. Per ridurre il divario tra i redditi medi dei paesi appartenenti ai due gruppi, occorrerebbe invece un tasso di aumento molto superiore nei paesi sottosviluppati. Per quanto riguarda gli altri aspetti quantitativi dello s., le analisi empiriche più recenti sembrano confermare il verificarsi nel lungo periodo di modeste oscillazioni della quota del reddito nazionale destinata al risparmio e la sostanziale stabilità del rapporto marginale capitale-prodotto nei singoli paesi (si veda la voce sviluppo economico nell'App. III). Nei principali paesi capitalistici, la distribuzione del redditto nazionale mostra una tendenza a modificarsi nel senso di un aumento della quota dei salari e di una riduzione della quota dei profitti e dei redditi da proprietà. La tendenza riflette in parte le modificazioni intervenute nella struttura dell'occupazione, che ha visto aumentare il numero dei lavoratori dipendenti rispetto a quello degl'indipendenti, per un complesso di motivi, dall'esodo dal settore agricolo alla riduzione del numero delle imprese individuali. In queste condizioni, l'aumento della quota dei salari sul reddito nazionale non comporta necessariamente una migliore situazione relativa dei lavoratori dipendenti. Un altro aspetto messo in luce dalle indagini empiriche è che l'aumento del capitale reale, pressoché costante nel lungo periodo, tende a essere superiore all'aumento dell'occupazione, così da configurare un'intensità di capitale nella produzione crescente e di conseguenza una produttività del lavoro crescente. I tassi d'incremento del capitale per addetto e della produttività del lavoro appaiono abbastanza simili, il che spiega la notevole stabilità del rapporto capitale-prodotto. Diminuendo la quota dei profitti sul reddito nazionale e la costanza del rapporto capitale-prodotto, il quoziente dei due rapporti, cioè il saggio di profitto sul capitale investito, si riduce. Il tasso di accumulazione del sistema sembra risentire del declino del saggio di profitto, nella misura in cui la minore formazione di capitale proveniente dai percettori di profitti non è interamente compensata da una maggiore propensione al risparmio e all'investimento da parte dei salariati e del settore pubblico.

In Italia, il processo di s.. economico, che è iniziato in ritardo rispetto ad altri paesi europei, è stato molto intenso nei due decenni successivi all'ultima guerra, anche se non privo di difficoltà e squilibri, accentuati dall'assenza di una politica di programmazione. Lo s. maggiore si è avuto nei settori che hanno esportato una forte quota della loro produzione. Hanno concorso a determinare questo risultato l'apertura dell'economia agli scambi con l'estero dopo un lungo periodo di protezionismo e il perseguimento di un'integrazione economica con i paesi industriali dell'Europa occidentale. La domanda di tali paesi, in rapida espansione, ha in effetti assorbito ampie quote delle nostre esportazioni, ma la sua struttura merceologica ha fortemente condizionato le linee direttrici del nostro sviluppo industriale. L'avere assunto a partners commerciali paesi con livelli di reddito medio per abitante notevolmente superiori al nostro ha portato a indirizzare gl'investimenti soprattutto verso i settori capaci di produrre beni tipici di società economicamente più avanzate della nostra: beni di consumo durevole, come le automobili o gli elettrodomestici, e prodotti nuovi, come quelli della petrolchimica e di alcuni rami della metalmeccanica. Si è così accentuato il carattere "dualistico" della nostra economia, per la coesistenza di settori con tecnologie avanzate e livelli di produttività elevati, in grado di sostenere con successo la concorrenza internazionale e di corrispondere alti salari ai propri dipendenti, e di settori tradizionali (industria delle costruzioni, tessile, alimentare, ecc.), con un gran numero di piccole imprese orientate prevalentemente verso il mercato interno, a tecnologie antiquate e bassi livelli salariali. La logica di uno s. non programmato ha poi consentito ai settori più dinamici maggiori possibilità di finanziamento, col risultato di rendere cumulativo il divario iniziale tra le unità produttive efficienti e quelle arretrate. Anche nella composizione dei consumi si sono manifestate gravi distorsioni, poiché la scelta di un tipo di s. basato essenzialmente sull'esportazione verso paesi ad alti livelli di reddito ha indotto l'industria a orientare con azioni promozionali la domanda interna in modo coerente con la produzione. Si è così sacrificata una più razionale politica dei consumi. La minore presenza di attività produttive efficienti nelle regioni meridionali ha inoltre accentuato il divario tra il nord e il sud del paese, malgrado le varie forme d'incentivazione all'investimento nel Mezzogiorno predisposte nell'intento di dare l'avvio a un'inversione della tendenza in atto. Gran parte del costo sociale che il disordinato s. dell'industria ha comportato nel periodo del cosiddetto "miracolo economico", che arriva fino al 1963, è gravato sui settori di attività più deboli, come quello agricolo, e sulle classi sociali più povere, come i braccianti meridionali che hanno alimentato imponenti flussi migratorî verso le zone industriali del nord, adattandosi a condizioni di vita assai disagiate. I salari, che partivano da livelli molto inferiori a quelli dei paesi con cui ci trovavamo a competere e che avevano manifestato fino al 1960 una dinamica minore di quella della produttività del lavoro, sono fortemente aumentati non appena si è delineata un'offerta scarsa di alcuni tipi di lavoro nelle regioni settentrionali del paese. Il loro aumento, dapprima circoscritto ai settori più dinamici dell'industria, si è poi generalizzato per la pressione che i sindacati dei lavoratori hanno esercitato allo scopo di assicurare tassi d'incremento salariale uniformi. Ancor più rapidamente è cresciuto il costo del lavoro. Le imprese hanno reagito rialzando i prezzi e adottando ritmi di lavorazione più intensi. È mancato un serio sforzo per colmare il ritardo tecnologico che si avvertiva in alcuni settori dell'industria e per adeguare l'offerta alle tendenze evolutive della domanda. Per effetto delle mutate condizioni del mercato del lavoro e dell'accresciuta concorrenza internazionale, il tasso del profitto si è ridotto sensibilmente dopo il 1963 e gl'investimenti hanno registrato una lunga stasi, proprio quando apparivano maggiormente necessari e potevano essere sostenuti senza pregiudicare la situazione dei conti con l'estero. Una seconda ondata di aumenti salariali, intervenuta dopo l'autunno del 1969, ha posto di nuovo le imprese di fronte a scelte decisive. I tentativi di ristrutturazione aziendale - risoltisi nello scorporo dalla fabbrica di intere fasi della produzione, sostituite con il "lavoro nero" svolto a domicilio, meno costoso in quanto retribuito a cottimo e privo di un'efficace tutela assicurativa e previdenziale - hanno accelerato il processo di emarginazione delle componenti più deboli delle forze di lavoro ed evidenziato l'incapacità del sistema industriale di operare competitivamente con costi del lavoro allineati ai livelli europei. Con il rialzo dei prezzi internazionali dei prodotti petroliferi, che ha aggravato il disavanzo della bilancia dei pagamenti e reso galoppante l'inflazione in atto, la situazione economica si è ulteriormente deteriorata. Nel 1975, per la prima volta dopo un trentennio, il processo di s. ha subito un arresto. Il vecchio modello di s., fondato sulla logica del vantaggio comparato, appare in crisi profonda. I vantaggi di cui un tempo il nostro paese godeva, per effetto della disponibilità di manodopera a basso costo e del favorevole andamento dei rapporti di scambio tra prodotti industriali e materie prime, sono ormai definitivamente venuti meno. L'industria pesante, ad alto impiego di fonti energetiche e di materie prime, non sembra offrire più prospettive di espansione, in Italia come in gran parte dell'Europa. Oltre tutto, i forti costi fissi da cui essa è gravata la rendono esposta a ingenti perdite durante le fasi di recessione, difficilmente compensabili nel corso dei periodi di espansione. D'altro canto, agli attuali livelli di costo del lavoro non possiamo competere con paesi più poveri del nostro nella produzione di beni ottenibili con tecnologie semplici e a forte impiego di manodopera, come quelle che caratterizzano il settore tessile o alcuni rami della meccanica che hanno sempre avuto largo peso nella nostra struttura industriale. Poiché non è pensabile che un paese tributario dell'estero nell'approvvigionamento di fonti energetiche, materie prime e prodotti agricoli cerchi una soluzione ai suoi problemi isolandosi dall'economia internazionale, occorre indirizzarsi verso produzioni a intensità di capitale non troppo elevata ma ad alto livello tecnologico, per le quali esistano prospettive interessanti sui mercati esteri. Individuare tali produzioni è uno dei compiti essenziali che attendono chi si propone di tracciare un "nuovo modello di sviluppo".

L'analisi delle recenti esperienze di s. di vari paesi ha indotto alcuni studiosi al tentativo di quantificare l'importanza relativa dei diversi "fattori di s." operanti in un dato contesto storico. Indagini econometriche sono state compiute a tal fine, nei paesi più avanzati, utilizzando funzioni aggregate della produzione. Ne è emersa l'importanza prevalente del progresso tecnico, che è apparso come l'unico fattore" in grado di contrastare il ridursi della produttività marginale del capitale al procedere dell'accumulazione. Questa impostazione - legata ai nomi di M. Abramovitz, J. W. Kendrick, R. M. Solow, E. F. Denison e altri - attribuisce al progresso tecnico l'intero aumento di prodotto non spiegabile con variazioni degli inputs di capitale e di lavoro nella "funzione aggregata della produzione", che dà il prodotto per addetto come funzione della quantità di capitale per addetto e dello stato della tecnica. A questa impostazione si sono mossi due tipi di obiezioni. Si è rilevato anzitutto che l'apporto allo sviluppo del progresso tecnico, così inteso, è destinato a risultare tanto minore quanto più ci si avvicina a una completa specificazione della lista degli inputs. Si è inoltre sottolineato che tra il progresso tecnico e l'accumulazione del capitale esiste un legame inscindibile, nel senso che l'introduzione del progresso tecnico nel sistema avviene essenzialmente attraverso nuovi investimenti (N. Kaldor). L'accumulazione va dunque considerata come il veicolo del progresso tecnico, il che porta a ritenere artificiosa ogni distinzione tra i movimenti lungo una data funzione aggregata della produzione, causati dall'accumulazione del capitale, e le trasposizioni verso l'alto della funzione stessa, dovute al progresso tecnico. Gravi critiche, del resto, possono muoversi al concetto medesimo di funzione aggregata della produzione, soprattutto in presenza di un progresso tecnico che risulti "incorporato" nei nuovi beni capitali e lasci inalterata la produttività di quelli preesistenti. Sorgono in tal caso difficoltà nell'aggregazione dei macchinari eterogenei in un'unica misura della quantità fisica del capitale, cosicché ai capitali delle diverse "annate" si dovrebbero associare altrettante funzioni della produzione.

Il nucleo centrale della teoria dello s. ha continuato a essere rappresentato, anche negli anni più recenti, dalla relazione macroeconomica legata ai nomi di R. F. Harrod ed E. D. Domar, che dà il saggio di s. di equilibrio del reddito nazionale come prodotto del tasso di accumulazione e della produttività dell'investimento. Se questo saggio di s. resta al di sotto del tasso di crescita "naturale" del sistema, che è pari alla somma del saggio d'incremento della forza lavoro e di quello di aumento della produttività del lavoro, la piena occupazione non viene raggiunta. A differenza di quanto avviene nelle analisi sul comportamento del sistema economico nel breve periodo, in cui l'investimento è preso in considerazione solo come una componente della domanda globale (si pensi alla teoria keynesiana della determinazione del reddito nazionale), nei modelli di s. occorre tener conto del fatto che nel lungo periodo il principale effetto dell'investimento è quello di aumentare la capacità produttiva, cioè l'offerta potenziale. Uno dei modi in cui ciò può avvenire è quello d'introdurre nel modello una funzione degl'investimenti basata sul principio di accelerazione, che fa dipendere l'investimento dalle variazioni del reddito nei precedenti periodi. L'interazione tra la funzione dell'investimento e quella del consumo - o, se si preferisce, tra l'acceleratore e il moltiplicatore - determina la dinamica del sistema: a seconda delle combinazioni dei valori della propensione marginale al consumo e del rapporto marginale capitale-prodotto, può configurarsi uno s. (di tipo esponenziale o di tipo convergente) o un andamento ciclico (con oscillazioni di ampiezza costante, crescente, o decrescente). Se si parte dall'idea di rispettare le scelte individuali circa la ripartizione delle risorse tra il consumo e il risparmio, il tasso di s. di equilibrio del sistema risulta univocamente determinato dal valore della propensione al risparmio e le decisioni degl'investitori hanno rilevanza solo ai fini del conseguimento o meno dell'unico tasso di s. di equilibrio possibile. In base a questa impostazione, il conseguimento dell'equilibrio dinamico appare improbabile, dato che i soggetti che prendono le decisioni di risparmiare e d'investire non sono gli stessi e sono mossi da motivazioni diverse. Ma l'itinerario logico può essere ribaltato, assegnando un ruolo primario all'investimento e riguardando la propensione al risparmio come una variabile strumentale, suscettibile di essere manovrata dall'autorità politica, anziché come un dato immodificabile. È questa la logica della programmazione. Se si è disposti a tanto, l'equilibrio dinamico di lungo periodo non è utopistico.

Per s. equilibrato, o equilibrio dinamico, s'intende comunemente una situazione che si evolve nel tempo in modo tale che le aspettative di tutti i soggetti economici risultino mutuamente compatibili e vengano realizzate. La corrispondenza tra l'evoluzione dei valori attesi e dei valori effettivi non comporta necessariamente uno s. uniforme, o equiproporzionale; i percorsi di s. che hanno quest'ultima caratteristica - i mitici "percorsi dell'età dell'oro", lungo i quali la produzione e il capitale aumentano allo stesso tasso esponenziale costante - sono solo un sottoinsieme dei percorsi di equilibrio dinamico. Il tasso di s. equilibrato coincide con il saggio di profitto in una società in cui tutto il reddito dei lavoratori dipendenti viene consumato e tutto quello degli altri soggetti ("capitalisti") è risparmiato e reinvestito. In tali condizioni, la propensione al risparmio uguaglia la quota dei profitti sul reddito, ma si tratta di condizioni del tutto irrealistiche. Se si considera una situazione più prossima alla realtà, in cui tutti i salari sono consumati ma solo una parte dei profitti viene risparmiata e investita, il tasso di s. di equilibrio risulta inferiore al saggio di profitto, essendo pari al prodotto di questo per la propensione al risparmio dei capitalisti. Nel caso, infine, in cui entrambe le categorie di percettori di reddito abbiano propensioni positive sia al consumo che al risparmio (caso tipico delle economie capitalisticamente avanzate), si richiede un'analisi più complessa, poiché i salariati possono ottenere dei profitti dall'investimento dei loro risparmi, il che fa venir meno la corrispondenza tra categorie funzionali di reddito (salari e profitti) e classi sociali (salariati e capitalisti). Il tasso di s. di equilibrio è in tal caso uguale al saggio di profitto moltiplicato per la propensione al risparmio complessiva sui profitti (sia dei capitalisti che dei salariati) e il saggio di profitto non dipende dalla propensione al risparmio dei salariati ma solo da quella dei capitalisti (risultato noto come "paradosso di Pasinetti"). In equilibrio dinamico, il risparmio dei salariati sul reddito complessivo da essi percepito, sotto forma di salari e di profitti, deve infatti uguagliare il risparmio che i capitalisti avrebbero tratto dai profitti ottenuti dai salariati, qualora questi fossero stati loro attribuiti. Sono dunque ipotizzabili tanti percorsi di sviluppo equilibrato quanti sono i valori che può assumere la propensione al risparmio dei capitalisti. Tra tali percorsi ne esiste uno che consente un livello di consumo per abitante superiore in ogni momento a ogni altro. È il cosiddetto "percorso della regola aurea di accumulazione" (o "percorso di equilibrio aureo"), lungo il quale il saggio di profitto è pari al tasso di accumulazione, ossia il profitto uguaglia l'investimento. La dimostrazione di questo punto è fornita dal "nuovo teorema neoclassico", enunciato da T. W. Swan, E. S. Phelps e altri autori. Il tasso di s. di equilibrio resta al di sotto di quello corrispondente al percorso della regola aurea di accumulazione ogni qualvolta il risparmio dei salariati non è tale da uguagliare la somma del profitto dei salariati e del consumo dei capitalisti. La propensione al risparmio rilevante ai fini della determinazione dell'equilibrio aureo è infatti quella che si avrebbe se ai capitalisti fosse attribuito tutto il profitto generato nel sistema ed essi lo risparmiassero interamente.

Il concetto di età dell' oro assolve nella teoria dello s. economico una funzione analoga a quella che il concetto di equilibrio stazionario svolge nell'ambito della teoria statica. Rappresenta cioè un'ipotesi di riferimento, un caso limite: uno s. a un tasso esponenziale costante, al tempo stesso di equilibrio e di piena occupazione. Non desta quindi meraviglia che essa abbia attratto l'interesse degli economisti teorici, che si sono chiesti quali meccanismi potrebbero spingere il sistema verso una crescita di questo tipo. L'interrogativo ha trovato risposte diverse da parte degli scrittori di scuola neoclassica (P.A. Samuelson, R. M. Solow, F. Modigliani e altri) e di quelli della cosiddetta "scuola di Cambridge (tra i cui esponenti vanno ricordati J. Robinson, N. Kaldor, P. Sraffa, L. Pasinetti, P. Garegnani, L. Spaventa, D. M. Nuti). La divergenza di opinioni è da ricondurre a concezioni diverse del modo in cui si determinano i prezzi relativi e la distribuzione del reddito. Per i neoclassici il saggio di salario e quello di profitto sono determinati dalle tecniche di produzione, da cui dipendono le produttività marginali del lavoro e del capitale. Per i loro avversari il concetto di produttività marginale del capitale è privo di senso, data l'impossibilità di misurare in termini fisici il capitale complessivamente impiegato nel sistema, e la produzione e la distribuzione vanno spiegate in modo indipendente. In alcuni dei modelli non neoclassici, il saggio di profitto dipende dal tasso naturale di crescita, che è un dato esogeno, o dal tasso di accumulazione, che è funzione delle aspettative degl'imprenditori, sicché il saggio di salario è un residuo; in altri è il saggio di profitto che viene considerato un residuo, determinato dalla fissazione del saggio di salario a un livello di sussistenza, o a un livello dipendente dai rapporti di forza tra le classi sociali. In sostanza, gli economisti della scuola di Cambridge assumono che uno dei parametri distributivi venga stabilito al di fuori del meccanismo di mercato da cui risultano determinati i prezzi relativi e rifiutano di considerare la distribuzione del reddito come un fatto politicamente neutrale, dipendente dalla disponibilità relativa dei fattori e dalla loro elasticità di sostituzione. In età dell'oro il saggio di profitto dev'essere pari al rapporto tra il tasso di sviluppo e la propensione al risparmio sui profitti. Per stabilire se vi siano meccanismi distributivi o di altro tipo capaci di assicurare questo risultato, occorre affrontare il problema della stabilità dell'equilibrio. Nel contesto di un dato modello, l'equilibrio dinamico è stabile quando tutte le grandezze rilevanti tendono ai rispettivi valori di equilibrio, partendo da un insieme arbitrario di valori iniziali, secondo un preciso andamento ipotizzato dal modello. Nei modelli neoclassici di tipo aggregato, con un solo settore di produzione, la stabilità dell'equilibrio dinamico può sempre ottenersi variando opportunamente i prezzi relativi e le combinazioni dei fattori. Resta incerta solo la capacità del sistema di portarsi da una qualunque posizione iniziale verso un percorso di sviluppo equilibrato, cioè la cosiddetta dinamica di squilibrio, per accertare la quale occorre precisare il tipo di disturbo che impedisce al sistema di pervenire all'equilibrio dinamico e sostituire almeno una delle condizioni di equilibrio con una condizione che postuli un meccanismo di aggiustamento. Nei modelli unisettoriali non neoclassici, la stabilità o meno dell'equilibrio dinamico dipende dalle assunzioni riguardanti le aspettative imprenditoriali e il modo in cui gl'investimenti reagiscono a cambiamenti nella distribuzione del reddito e al progresso tecnico. È necessario, in proposito, differenziare il discorso a seconda dei diversi tipi di modelli appartenenti alla categoria in esame. Nei modelli "keynesiani ortodossi", il sistema non raggiunge mai un equilibrio di pieno impiego; nel migliore dei casi può aversi una convergenza asintotica verso un equilibrio di questo tipo, qualora l'accumulazione del capitale abbia luogo a un tasso superiore a quello di aumento della popolazione e il progresso tecnico presenti un andamento favorevole. Altri modelli, di derivazione keynesiana meno immediata, assumono che la piena occupazione rappresenti l'unica ipotesi compatibile nel lungo periodo con l'equilibrio dinamico; in essi, il sistema tende all'equilibrio di pieno impiego per l'operare simultaneo di due distinti meccanismi di aggiustamento, l'uno basato sulla redistribuzione del reddito e l'altro sul progresso tecnico, sicché la convergenza all'età dell'oro è più rapida che nei modelli neoclassici.

Ulteriori difficoltà sorgono non appena ci si propone di rendere l'analisi meno irrealistica passando dai modelli unisettoriali di sviluppo a modelli plurisettoriali. Perfino nel caso di un modello a due soli settori, quello dei beni di consumo e quello dei beni d'investimento, un equilibrio dinamico non è in genere configurabile, quando si rifiuti il ricorso a ipotesi di comodo circa la natura del capitale impiegato, le funzioni di produzione e le propensioni al risparmio. Nei modelli neoclassici, con coefficienti di produzione perfettamente flessibili in entrambi i settori e capitale omogeneo e malleabile (cioè suscettibile di utilizzazione e di reimpiego con tecniche diverse nell'uno e nell'altro settore), l'equilibrio dinamico è univocamente determinato e stabile solo sotto condizioni estremamente restrittive riguardanti le propensioni al risparmio dei capitalisti e dei salariati, le intensità di capitale nei due settori e le elasticità di sostituzione tra i fattori. Ai modelli neoclassici si contrappongono quelli a tecnologia lineare, tra i quali conviene distinguere il tipo con un'unica tecnica di produzione in ciascun settore (W. W. Leontief) e quello con più tecniche di produzione (J. von Neumann). Si tratta di modelli che descrivono la dinamica di equilibrio del sistema. Il modello di von Neumann, rispetto al quale quello di Leontief rappresenta un caso limite, permette d'individuare un percorso di sviluppo uniforme al massimo tasso che il sistema è in grado di sostenere, tanto più elevato quanto minore è il saggio di salario reale. Un aspetto da sottolineare, comune a tutti i modelli a molteplici settori orizzontalmente integrati, neoclassici o meno, è che la nozione stessa di tasso di sviluppo del sistema perde in essi ogni significato se non s'ipotizza un'espansione uniforme di tutti i settori. Al di fuori di tali ipotesi, subentrano difficoltà insormontabili relative alla definizione di appropriati numeri-indici. Per questa ragione di natura pragmatica, nei modelli a due o più settori in cui il concetto di settore coincide con quello tradizionale di "industria", l'attenzione degli studiosi si limita ai percorsi di sviluppo uniforme, nei quali la struttura della produzione resta inalterata nel corso del tempo e di conseguenza la domanda, se esplicitamente considerata, può assumere solo la forma di un vettore a composizione costante. Per superare la difficoltà di ordine analitico dianzi ricordata, occorre riguardare il sistema produttivo come composto da settori verticalmente integrati. Un modello di questo tipo è stato costruito da L. Pasinetti, che ha così aperto la via alla considerazione delle variazioni strutturali che accompagnano ogni processo di s. economico.

Un campo di ricerca in cui sono stati compiuti di recente notevoli progressi è costituito dalla cosiddetta teoria dello s. ottimale, che ha per oggetto lo studio degli aspetti normativi della teoria dello sviluppo. Per identificare un percorso ottimale di s., al fine di trarne utili indicazioni per la politica economica, occorre anzitutto definire un criterio di ottimalità che dia luogo a un ordine univoco di preferenza tra percorsi alternativi. Tra i criteri studiati nella letteratura, i più noti sono quello basato sulla massimizzazione del flusso di consumo (o dell'utilità che esso presenta) e quello fondato sulla massimizzazione della dotazione di capitale in un orizzonte di tempo finito (o sulla minimizzazione del tempo necessario a ottenere una determinata dotazione di capitale in un orizzonte di tempo infinito), nel rispetto, in entrambi i casi, sia dei vincoli posti dallo stato della tecnica e dalla necessità di assicurare alla popolazione un minimo vitale di consumo, sia delle condizioni ai limiti relative alla disponibilità di risorse al momento iniziale, nonché, per il secondo criterio, alla struttura desiderata del capitale. Si configurano di conseguenza dei problemi di massimo o minimo vincolato, in cui il massimando o minimando assume l'aspetto di un integrale definito. Per la soluzione di tali problemi, si può ricorrere ai metodi tradizionali del calcolo delle variazioni o a quelli della moderna teoria del controllo ottimale. I metodi di quest'ultimo tipo presentano indubbi vantaggi, poiché sono applicabili anche con funzioni non continuamente differenziabili e in presenza di soluzioni d'angolo. Essi consentono inoltre di ottenere dalla soluzione del problema per un particolare insieme di valori iniziali un corrispondente insieme di moltiplicatori dinamici, o variabili duali, aventi la stessa dimensione temporale delle variabili di stato e utilizzabili quindi nei modelli causali per ridurre il problema di ottimizzazione dinamica a un problema equivalente ma assai più semplice di natura statica. L'autorità responsabile della programmazione economica può così risolvere immediatamente un numero infinito di problemi di allocazione temporale ottimale delle risorse, ciascuno relativo a un diverso stato iniziale del sistema, esprimendo il vettore temporale dei valori ottimali delle variabili di controllo come funzione del vettore delle variabili duali e di quello delle variabili di stato. Si può dimostrare che ai due criteri di ottimalità dianzi ricordati corrispondono dei percorsi di s. ottimale non necessariamente uniforme convergenti nel lungo periodo verso due sentieri di età dell'oro che fungono da "autostrada", ossia verso traiettorie che conviene raggiungere e seguire per un certo tempo, prima di lasciarle per portarsi verso la posizione finale desiderata. L'"autostrada del consumo", verso cui convergono i percorsi che massimizzano l'integrale dell'utilità scontata del consumo per abitante (cioè quelli che soddisfano il criterio originariamente indicato da F.P. Ramsey e che da questo autore prende il nome), è un percorso dell'età dell'oro caratterizzato, in assenza di progresso tecnico, da un saggio d'interesse pari al tasso di s. diviso per il rapporto tra risparmio e profitto. Quando il risparmio totale uguaglia il profitto totale, l'autostrada del consumo corrisponde al percorso che soddisfa la regola aurea di accumulazione. L'esistenza di questa autostrada è stata provata da P.A. Samuelson e D. Cass. L'altro percorso che costituisce un punto di riferimento obbligato nella soluzione dei problemi di s. ottimale è quello, individuato da von Neumann, che assicura il massimo tasso di s. uniforme. Si è dimostrato (R. Dorfman, P.A. Samuelson e R.M. Solow) che verso questa "autostrada della produzione" convergono tutti i percorsi che massimizzano la dotazione di capitale nel sistema.

Notevole attenzione è stata dedicata negli ultimi tempi anche agli aspetti monetari della politica di sviluppo. La presenza nel sistema economico di mezzi monetari non può essere ignorata. Essa pone un problema di "scelte di portafoglio" tra impieghi alternativi della ricchezza e introduce alcune complicazioni nell'analisi della dinamica del sistema. In condizioni di equilibrio dinamico - dovendo risultare costanti i tassi di rendimento degl'impieghi reali e monetari, la velocità di circolazione della moneta rispetto al reddito e il saggio di variazione dei prezzi - il tasso di sviluppo del sistema è pari alla differenza tra i tassi di aumento dell'offerta di moneta e dei prezzi (v. monetarismo). Le variazioni dell'offerta di moneta possono affrettare o ritardare il raggiungimento dell'equilibrio dinamico e perfino modificarne talune caratteristiche essenziali, come la struttura degl'impieghi, da cui dipende il rapporto tra l'investimento reale e la produzione e quindi lo stesso tasso di sviluppo del sistema. La "non neutralità" della moneta è chiara in presenza di mezzi monetari che risultino in parte "esterni", cioè creati senza contropartita d'indebitamento privato e non produttivi d'interesse, poiché in tal caso le riserve liquide rappresentano una forma di ricchezza che viene ad aggiungersi a quella reale e non solo un modo indiretto per possedere beni materiali. Un aumento dell'offerta di moneta non accresce invece la ricchezza in un sistema con moneta puramente "interna", creata dalle banche con lo sconto di cambiali. In tali condizioni, gli effetti della politica monetaria sul processo di s. sono necessariamente più limitati. Se le riserve liquide non fruttano un interesse, si registrano solo variazioni del loro valore patrimoniale reale, dovute al mutato potere d'acquisto della moneta; se fruttano un interesse, il campo di azione della politica monetaria si restringe ulteriormente, senza peraltro giungere ad annullarsi, poiché gl'investimenti reali non possono avere un tasso di rendimento inferiore al saggio d'interesse reale. In proposito, peraltro, la dottrina non è affatto concorde. Il ruolo della moneta nello sviluppo dell'economia è ancora largamente da esplorare.

Un problema tuttora irrisolto è quello della compatibilità o meno tra lo s. e altri obiettivi primari della politica economica (pieno impiego, stabilità dei prezzi, equilibrio della bilancia dei pagamenti, redistribuzione della ricchezza) o della politica in senso lato (attenuazione delle disuguaglianze sociali, miglioramento della qualità della vita, difesa dell'ambiente naturale). Nel recente passato si sono avuti in molti paesi tassi elevati di s. del reddito, ma risultati non altrettanto soddisfacenti sotto gli altri punti di vista. La consapevolezza di questa situazione induce a ridimensionare l'obiettivo dell'aumento del reddito e a rivalutare l'ideale di una crescita più equilibrata, anche se meno rapida. Il cammino in questa direzione può dirsi appena iniziato, ma l'era della growthmanship, o della "mania dello sviluppo", è forse definitivamente tramontata.

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