KITANO, Takeshi

Enciclopedia del Cinema (2003)

Kitano, Takeshi

Giona Antonio Nazzaro

Regista, sceneggiatore, montatore, attore cinematografico e presentatore televisivo giapponese, nato a Tokyo il 18 gennaio 1948. Si è affermato come regista grazie al suo peculiare stile cinematografico, che unisce a una glaciale fissità delle inquadrature esplosioni di violenza e bizzarri tocchi surreali. Il Leone d'oro conferito a Hana-bi (Hana-bi ‒ Fiori di fuoco) alla Mostra del cinema di Venezia del 1997 ha permesso alla sua opera di farsi apprezzare anche al di là della ristretta cerchia degli appassionati.

Dopo aver frequentato per tre anni la facoltà di Ingegneria, K. svolse diversi mestieri; alla fine degli anni Sessanta iniziò a lavorare come attore comico nei cabaret, costituendo dal 1973 al 1983 una coppia fissa con Bīto Kiyoshi (Kiyoshi Kaneko): K. assunse lo pseudonimo di Bīto Takeshi (Beat Takeshi in Occidente, mantenuto anche in seguito per distinguere il lavoro d'attore da quello di regista) e, con il nome di Tsū Bīto (o Two Beats), il duo ottenne un buon successo, esibendosi anche in televisione. K., che era intanto diventato conduttore televisivo e radiofonico e opinionista di vari giornali, e aveva già pubblicato alcuni dei suoi numerosissimi libri, ha esordito come attore cinematografico all'inizio degli anni Ottanta. Il suo primo ruolo importante è stato quello del sadico sergente Gengo O'Hara in Senjo no merii kurisumasu ‒ Furyō (1983; Furyo) di Ōshima Nagisa, film ambientato in un campo di concentramento giapponese durante la Seconda guerra mondiale; con lo stesso regista K. avrebbe lavorato ancora nel 1999 in Gohatto, noto anche come Taboo (Tabù ‒ Gohatto). Nel 1989 è passato dietro la macchina da presa per dirigere Sono otoko, kyōbō ni tsuki (Violent cop) nel quale interpreta, evidenziando con forza il sorgere di un talento insolito e inquieto, il poliziotto Azuma, instancabile e taciturno camminatore e strumento di un'ineludibile pulsione di morte: pur essendo collegabile al genere degli yakuza eiga (film incentrati sulla mafia nipponica), l'opera s'impone soprattutto per la forza con la quale mette in scena la solitudine e la vocazione all'autodistruzione del protagonista. Con il successivo San tai yon ekkusu jūgatsu (1990; Boiling point) K. ha mostrato di saper passare con grande abilità dal comico al drammatico e quindi al grottesco. Ma è stato con Ano natsu, ichiban shizukana umi (1991; Il silenzio sul mare) che K. ha realizzato il primo film che lo ha imposto all'attenzione della critica internazionale. Nella storia di un ragazzo e una ragazza sordomuti che trascorrono l'estate imparando ad andare in surf, K. sembra riallacciarsi consapevolmente alla tradizione di Ozu Yasujrō per quanto riguarda la messa in scena del vuoto e del silenzio. Opera essenziale, realizzata completamente in sottrazione, non cede alla tentazione della metafisica ancorandosi saldamente ai corpi e agli elementi naturali. Due anni dopo con Sonatine, presentato al Festival di Cannes nell'ambito della sezione Un certain regard, K. ha integrato questa nuova consapevolezza stilistica con la matrice poliziesca dei suoi primi film. Sonatine, che risente dell'influenza dell'opera precedente non solo perché ambientato in gran parte su una spiaggia, ma soprattutto per il lavoro sul silenzio come elemento significante e pregnante veicolo di atmosfere sospese e inquietanti percorse da ricorrenti brividi di violenza, ha inoltre segnato l'inizio della collaborazione con il compositore Hisaishi Joe, con il quale il regista ha instaurato un fertile sodalizio. Dopo aver subito un grave incidente nel 1994, K. è tornato sul set l'anno successivo per dirigere Minna yatteru ka (1994; Getting any?), una commedia caratterizzata da un umorismo scatologico ed estremamente corrosivo. Più riflessivo Kids return (1996), amarissima parabola adolescenziale sul diventare adulti, in cui K. ha dimostrato ancora una volta di saper individuare aree di ricerca nuove. Il successivo Hana-bi, uno dei lavori più maturi del regista, radicalizza il desiderio di immobilità e di silenzio cui la messinscena di K. tende e conferisce al suo cinema una densità pittorica e una stilizzazione grafica che sarà compendiata in Dolls (2002). Successivamente K. ha affrontato con sensibilità il mondo dell'infanzia in Kikujirō no natsu (1999; L'estate di Kikujiro) in cui emergono le influenze di Jerry Lewis, Charlie Chaplin e Georges Méliès, in particolare per quanto riguarda l'organizzazione visiva che unisce invenzione, astrazione e sintesi comico-fantastica. Rispetto a il precedente Kids return, a tratti fortemente sarcastico, questo film è segnato da un tono dolcemente visionario ed elegiaco. Il tema musicale che percorre tutto il film, composto ancora una volta dal fedele Hisaishi, si salda alle immagini con leggerezza inusitata. Più cupo e vicino ai film degli esordi è invece Brother (2000), girato quasi interamente a Los Angeles. Alle prese per la prima volta con un set non giapponese, K. riduce drasticamente gli spazi intorno ai protagonisti (rinunciando alle sue proverbiali camminate in campo lungo), preferendo concentrare la propria attenzione sulle difficoltà linguistiche che devono affrontare gli afroamericani e gli yakuza (gli affiliati alla mafia giapponese), difficoltà che sono occasione di una serie di atroci ed esilaranti gag visive. Senz'altro il più violento tra i film realizzati dal regista, Brother si offre anche come una crudele riflessione sulla logica capitalista e sui conflitti che necessariamente scatena. Si tratta inoltre del primo film nel quale il corpo di K., regista e attore, viene offerto allo sguardo del pubblico dopo essere stato falciato dai proiettili. In Dolls l'intersecarsi di più situazioni e di intensi e commoventi ritratti femminili dà luogo a un'ulteriore decisa metamorfosi del cinema di K. nella direzione di una matericità coloristica e di una fisicità dei paesaggi incardinate ai comportamenti spesso crudeli e acidi dei personaggi.

Bibliografia

M. Causo, Un lungo addio, in "Cineforum", 1998, 369, pp. 8-9.

R. Censi, La retta, la figura, il litorale, in "Cineforum", 1998, 369, pp. 4-7.

Kitano Beat Takeshi, a cura di M. Fadda, R. Censi, Roma 1998.

G. Paganelli, Sondare il tempo: Kitano Take-shi, in "Sentieri selvaggi", 1998, 3, p. 51.

V. Buccheri, Takeshi Kitano, Firenze 2000.

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