TAMBURO

Enciclopedia Italiana (1937)

TAMBURO

Giorgio Rosi

. Architettura. - Nelle colonne di pietra il cui fusto è costituito da più blocchi sovrapposti, questi s'indicano anche col nome di tamburi e hanno forma cilindrica o tronco-conica secondo l'entasi del fusto stesso. Questo tipo di struttura, reso necessario dalle dimensioni rilevantissime degli ordini architettonici negli edifici dell'antichità e dalla difficoltà di spostare e porre in opera i corrispondenti fusti monolitici, presentava a sua volta problemi statici e artistici non trascurabili.

Fra i problemi statici il maggiore consisteva nella necessità di un collegamento fra i varî pezzi, per il quale, non sembrando sufficiente garanzia la coesione dovuta al peso e all'attrito, si ricorse a perni lignei o metallici. L'efficacia di questi perni, dato il loro incastro superficiale e poco rigido, risultò però sempre limitata, specialmente nel caso di azioni oblique dovute a strutture spingenti o a movimenti tellurici.

Nel campo estetico il maggiore problema era quello di fare apparire il meno possibile la suddivisione in varî elementi di un organismo artisticamente unitario quale è la colonna; problema reso più grave dalla presenza di decorazioni di superficie svolgentisi senza interruzione su tutti gli elementi stessi (scanalature, strigilature, ecc.). In questo campo i Greci raggiunsero una particolare raffinatezza, ricorrendo, per quanto riguarda l'esattezza impercettibile dei giunti, ai varî sistemi di "anathyrosis" caratteristici della loro tecnica costruttiva; mentre per ottenere la continuità della decorazione esterna, si suppone che questa venisse rifinita sui blocchi già posti in opera. Ed è probabile che analogo procedimento fosse seguito per adattare i tamburi, specialmente il più alto e il più basso, alle condizioni particolari determinate dalle correzioni ottiche applicate alle linee degli edifici (curve di Ictino nel Partenone ad Atene, inclinazione verso l'interno delle colonne estreme e simili).

Uso e importanza maggiori ha poi in architettura la parola tamburo quando serve a indicare l'organismo architettonico che nei tipi più usati di cupole si trova subito al disotto della calotta di essa e consiste in una struttura cilindrica o prismatica, a seconda che si tratti di cupole a pianta circolare o poligonale.

Nei casi di edifici a pianta centrale, coperti interamente dalla cupola, come ad es. nel Pantheon di Roma e in molti battisteri, tale struttura s'identifica con le stesse pareti perimetrali del vano, di guisa che essa non ha soltanto funzione di completamento per la calotta sovrastante, della quale costituisce struttivamente ed esteticamente la base, ma forma l'organismo principale dell'intero edificio, e in tal caso la denominazione di tamburo è raramente usata.

Quando invece, come nella massima parte dei casi, la cupola sorge al disopra di un altro organismo di pianta diversa, la funzione del tamburo si collega e si subordina a quella della calotta che lo ricopre, mentre si differenzia e diviene secondaria rispetto alle restanti parti dell'edificio, e in questo caso chiara e corrente risulta la relativa denominazione.

Da quanto si è detto fin qui si deduce che nell'architettura romana, la quale della cupola si servì in prevalenza per ambienti a pianta centrale e di limitata altezza, il tamburo non ha aspetti di particolare importanza, confondendosi esso piuttosto con la struttura stessa dell'edificio. È però necessario aggiungere che forme artisticamente, se non costruttivamente, corrispondenti a quelle che in seguito prese il tamburo della cupola, furono spesso adottate nelle costruzioni minori, specialmente funerarie, nelle quali le forme cilindriche sovrapposte ad altre cubiche e sormontate da elementi terminali a calotta o a cuspide, sono tutt'altro che infrequenti. E d'altra parte negli edifici del basso Impero, e più ancora in quelli del primo cristianesimo, l'uso delle piante concentriche a navate anulari, ricollegantisi alle tholoi dell'antichità classica, determinò spesso sopraelevazioni cilindriche coperte da cupola, che si possono benissimo indicare col nome di tamburo, anche se in talune di esse, per es. nel mausoleo di S. Costanza a Roma, la presenza del tetto conico di copertura che nasconde totalmente la linea d'estradosso della calotta, le ravvicini piuttosto, nel loro aspetto esteriore, al tipo del tiburio, caratteristico dell'arte medievale.

Col perfezionarsi dei mezzi di raccordo fra strutture di pianta differente (v. pennacchio), la sovrapposizione delle cupole ad ambienti di qualunque forma si diffuse specialmente con l'arte bizantina. Questa però usò più spesso di voltare la calotta subito al disopra dei raccordi stessi, come avviene infatti nelle basiliche giustinianee di Costantinopoli (S. Sofia, Ss. Sergio e Bacco) e negl'innumerevoli tipi che da esse ha tratto a distanza di secoli, l'arte islamica. Invece, negli sviluppi più tardi dell'architettura bizantina, sia nella capitale stessa, sia nelle regioni sotto il suo dominio artistico e politico (Asia Minore, specialmente Armenia, Balcania) si venne gradatamente diffondendo l'uso di sollevare la calotta al disopra di un alto tamburo cilindrico interposto fra essa e la sommità degli archi e dei pennacchi di raccordo. Da questo concetto, che forse in origine servì a facilitare la creazione di una corona di finestre difficilmente realizzabili nella superficie sferica della calotta, si svilupparono le forme allungate dei tamburi delle cupole del periodo dei Paleologi, ornati di nicchie, di archeggiature, di finestre, tutte di proporzioni slanciate. Simili di forma, benché diversi per la decorazione scolpita e il materiale adoperato (pietra da taglio) furono i tamburi delle cupole armene e, assai più tardi, quelli delle chiese bulgare, romene e russe, al disopra dei quali si ergono talora le policrome coperture a bulbo e che nell'insieme prendono la sagoma piuttosto di campaniletti dalle pareti originalmente decorate.

In Occidente l'uso delle cupole si sviluppò grandemente durante il Medioevo, che, se talora le nascose entro tiburî a facce piane e copertura a tetto, come nelle chiese lombarde, o le tenne basse e nude, come negli edifici normanni della Sicilia, tal'altra le sollevò al sommo di forti tamburi, come nelle cattedrali di Pisa, di Ancona, di Parma, di Siena, adorni di dentro e di fuori, specie in periodo gotico, di loggiati, di pinnacoli, di nicchie.

L'esperienza medievale non fu, neanche in questo campo, dimenticata dagli artisti del Rinascimento, che, pur ricercando un'ideale rispondenza con l'antico, non rinunciarono alla predilezione per la cupola portata da un alto tamburo. Il Brunelleschi affrontò in pieno il tema, in tutte le sue difficoltà statiche ed estetiche, con la meravigliosa cupola di S. Maria del Fiore di Firenze e lo seguirono Francesco di Giorgio a Cortona, Giuliano da Sangallo a Loreto. La scuola lombarda invece cominciò dapprima a rivestire esternamente la calotta di forme simili ai tiburî romanici, ornate di loggette continue, come nel duomo di Abbiategrasso e in S. Maria delle Grazie a Milano; e non dissimile soluzione troviamo anche in qualche monumento toscano, in cui sul tamburo cilindrico e liscio si appoggiò un semplice tetto conico, come in S. Maria delle Carceri a Prato o nella Cappella dei Pazzi a Firenze. Ma col Cinquecento la cupola, profilata anche esternamente secondo la linea curva della vòlta, dominò incontrastata al disopra delle masse squadrate del resto dell'edificio, concepito ormai come un organismo unitario, che appunto nella cupola di coronamento trovava la sua conclusione. Anche allora però tra la massa tondeggiante di essa e quelle più rigide sottostanti, si sentì il bisogno d'introdurre un elemento di raccordo che, subordinato struttivamente ed esteticamente alla calotta, la facesse emergere e dominare, recando in pari tempo con le sue finestre l'illuminazione nell'interno.

Le cupole bramantesche del periodo romano, da quella minuscola di S. Pietro in Montorio a quella immensa progettata per S. Pietro in Vaticano, col giro continuo di colonne intorno al cilindro, rappresentarono modelli per un grande numero di altri edifici chiesastici, a Parma, a Pistoia, a Macerata, a Verona, a Todi. Michelangelo, con una mirabile intuizione delle azioni statiche, diede nella cupola vaticana (da lui costruita fino a tutto il tamburo) il tipo dei contrafforti radiali racchiusi nelle colonne binate. E per oltre due secoli i tamburi e le cupole che si elevarono in tutto il mondo seguirono queste forme, pur variandone alcuni elementi; talvolta v'innestarono partiti architettonici e decorativi svariatissimi, specie durante il periodo barocco, quando, con la ricerca di movimento nelle piante degli edifici sacri, la cupola venne spesso a trovarsi in una posizione di primo piano, come, ad esempio, a Roma in S. Ivo della Sapienza in S. Agnese a Piazza Navona, in S. Luca, a Venezia nella Chiesa della Salute.

Con criterî del tutto opposti furono immaginate le cupole degli edifici sorti durante il periodo neoclassico, che pure predilesse la pianta centrale, ma adottò anche per questo elemento, ignoto all'arte antica, motivi tratti dall'antichità classica e adattati più o meno felicemente alla nuovissima funzione; vedi, tra le altre, le cupole di S. Carlo di Milano dell'Arnati e quella di S. Francesco di Sales a Napoli del Bianchi. Tardo ma non trascurabile esempio di quest'applicazione di forme decorative rigidamente classiche a bisogni e strutture nuove fu la cupola di S. Gaudenzio di Novara, opera dell'Antonelli, ove, a una successione prospettica interna di tante calotte aperte al centro e sovrapposte, corrisponde all'esterno la sovrapposizione di quattro grandi ordini, sopra i quali s'incurva la calotta terminale esterna e si erge altissima la guglia, ornata di altri ordini minori. (V. tavv. XLIII e XLIV).