Tebe

Enciclopedia Dantesca (1970)

Tebe


Città della Grecia antica, importante centro politico sin dall'età micenea. Nell'antico mito della rocca di Cadmo e della guerra dei sette re contro T. si rispecchia l'esistenza, confermabile poi in età storica, di lunghi contrasti tra la città e la vicina Argo.

Imposto il proprio predominio sulla Beozia a partire dal sec. VIII, nel secolo successivo T. continuò a essere il centro della confederazione di stati delle varie città beotiche. Collaborò coi Persiani, e a Platea i Tebani combatterono a fianco degl'invasori, subendo poi le decisioni degli alleati vincitori, che imposero la fine dell'oligarchia e l'inizio del regime democratico. Amici poi degli Spartani nella guerra contro Atene, i Tebani sconfissero gli Ateniesi a Tanagra (457), poi a Coronea (447), infine a Delio. Ma il duro predominio di Sparta avvicinò T. ad Atene, nel periodo della guerra corinzia, soprattutto dopo l'occupazione lacedemone della Cadmea (382), così che T. aderì alla seconda lega navale ateniese (378). Con l'emergere di personalità quali Pelopida ed Epaminonda T. raggiunse il suo periodo più glorioso, culminante nella vittoria di Leuttra (371) e perdurante sino alla sconfitta di Mantinea (362), ove T. si trovò a combattere sia contro gli Spartani che contro gli Ateniesi. L'egemonia tebana sulla Beozia durò tuttavia anche nell'età successiva, quando Filippo di Macedonia estese il suo potere su tutta la Grecia; ma con la vittoria macedone di Cheronea (338) anche T. conobbe l'egemonia di Filippo, poi quella di Alessandro, che la distrusse interamente, salvando soltanto le case di Pindaro e di Cratete. Dopo le alterne vicende del periodo ellenistico, la città si ribellò vanamente ai Romani, che ne fecero una parte della provincia di Acaia. Durante la guerra di Mitridate T. cadde nelle mani di Silla (87), e questo fu l'inizio della sua rapida decadenza.

L'interesse di D. però è volto soltanto alle vicende mitiche di T., ed egli la ricorda in If XX 59 come la città di Baco (Bacco) divenuta dopo la morte di Tiresia serva sotto il dominio di Creonte. Il ricordo costante della Tebaide di Stazio (v.) e qualche eco delle letture del medievale Roman de Thèbes giustificano la fitta serie delle citazioni degli episodi della guerra dei sette re. Mentre scarsi sono gli echi del mito di Edipo (v.; e cfr. Giocasta; Ismene), D. più volte si riferisce infatti alla lotta tra i due figli di Edipo, Eteocle (v.) e Polinice (v.), e alla figura di Antigone (per evitare la maledizione pronunciata da Edipo, i due fratelli convennero di regnare su T. ad anni alterni; ma Eteocle, allo scadere del primo anno, si rifiuta di cedere il trono a Polinice il quale, rifugiatosi presso Adrasto [v.], re di Argo, con questo e con altri cinque re assale T.; i due fratelli, venuti a duello, si uccidono l'un l'altro: cfr. If XXVI 54). I ricordi danteschi vanno da If XIV 69, a proposito di Capaneo, l'un d'i sette regi / ch'assiser Tebe (poco dopo [XXV 15] di nuovo ricordato: quel che cadde a Tebe giù da' muri) ad Anfiarao (v.; e cfr. anche Almeone; Erifile), quello a cui / s'aperse a li occhi d'i Teban la terra (XX 32). In If XXXII 11 le Muse sono rammentate come le ispiratrici di Anfione (v.), che col suono della cetra fece scendere i massi del monte Citerone formando le mura della nuova città, a chiuder Tebe. La favola ovidiana di Atamante (v.) consentirà a D. di paragonare (XXX 22) le furie di T. alla forsennata rabbia di Gianni Schicchi e di Mirra (v.). Il personaggio di Stazio, così a lungo presente sulla scena del Purgatorio, permetterà a D. di citarlo come il cantore di T. (Pg XXI 92), colui che condusse i Greci a' fiumi / di Tebe poetando (XXII 89), cioè l'autore della Tebaide, ovvero detta la Tebana Istoria (Cv IV XXV 6; cfr. lo allegato libro primo di Tebe, § 8). La città di Pisa viene denominata novella Tebe nell'apostrofe seguita all'episodio di Ugolino (If XXXIII 89) per le sue efferatezze che ricordano quelle antiche di T., già cantate da D. e ora rinnovate con la citazione della ferocia di Tideo (un altro dei sette re contro T.) che rode il cranio di Menalippo, suo mortale feritore (XXXII 130-131), pari al bestial segno dell'odio di Ugolino contro Ruggieri.

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