Agroalimentare, tecnologia

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Agroalimentare, tecnologia

Marisa Di Matteo
Donatella Albanese

La t. a. si occupa di studiare, ottimizzare e innovare tutti i processi di sanificazione, trasformazione e conservazione dei prodotti alimentari. Il suo obiettivo è rallentare e inibire i principali fenomeni di natura chimica, microbiologica ed enzimatica responsabili della degradazione delle proprietà sensoriali, nutrizionali e igieniche degli alimenti. L'inibizione dei fenomeni degradativi è possibile attraverso la modifica di alcuni fattori chimico-fisici intrinseci e di condizionamento dell'alimento, regolando parametri quali la temperatura, l'attività dell'acqua, il pH, la presenza di ossigeno e di anidride carbonica.

Le prime t. a. utilizzate risalgono al 6°-4° millennio a.C. e si basano su processi di fermentazione, disidratazione, salatura e affumicatura. La fermentazione di derrate alimentari, viene cronologicamente considerata come la prima applicazione dei processi di bioconservazione realizzata dall'uomo, ed è l'insieme di reazioni di ossidoriduzione, idrolisi e scissione dovute a enzimi di origine microbica che agiscono principalmente sulle sostanze glucidiche degli alimenti. In campo alimentare la fermentazione lattica e la fermentazione alcolica sono i processi più utilizzati. La prima avviene a opera dei batteri lattici ed è generalmente impiegata per la produzione di formaggi, bevande lattiche fermentate come yogurt, kefir e insaccati. I microrganismi coinvolti nella seconda sono invece lieviti (Saccaromyces cerevisiae) in grado di trasformare, in condizioni anaerobiche, gli zuccheri semplici presenti nell'alimento in alcol e anidride carbonica. Applicazioni di questa tecnologia sono alla base della produzione delle principali bevande alcoliche quali vino, birra, sidro ecc. nonché della produzione di pane e altri prodotti da forno lievitati.

I cardini dello sviluppo industriale delle t. a., caratterizzate da conoscenze in campo scientifico hanno però origine nei primi 60 anni del 19° sec., in seguito alla scoperta nel 1810, del processo di sterilizzazione in scatola a opera del francese N. Appert e a quella del processo di pastorizzazione, messa a punto nel 1861 da L. Pasteur. Questi trattamenti nascono dall'intuizione che alle alte temperature gli enzimi e le forme microbiche vengono disattivati. La temperatura, infatti, è il principale fattore utilizzato per controllare lo sviluppo dei microrganismi nei nostri alimenti. Essa viene utilizzata sia per inibire o ritardare lo sviluppo microbico, sia per distruggere tutti o solo parte dei microrganismi presenti. Il numero N(t) di microrganismi presenti all'istante t, successivo all'inizio del trattamento quando esso è N0, segue una legge del tipo log[N(t)/N0]=−(K/2,303)t dove K è detta velocità relativa di distruzione termica. Si può notare da questa espressione che la sterilità assoluta, intesa come distruzione di tutte le forme microbiche, non si raggiunge mai per quanto lungo sia il tempo di trattamento. In pratica la sterilità si esprime in termini probabilistici; si ritiene raggiunta quando la probabilità di trovare un microrganismo vivente, in un alimento trattato termicamente, sia al di sotto di valori di riferimento molto bassi.

I processi che utilizzano il calore per disattivare enzimi e forme microbiche sono principalmente la pastorizzazione e la sterilizzazione che si differenziano in base alle temperature e ai tempi di trattamento: più blande nel caso della pastorizzazione e più elevate nel caso della sterilizzazione. Nella pastorizzazione le temperature utilizzate non superano i 100 °C e i tempi di trattamento sono compresi tra pochi secondi e trenta minuti. Questo trattamento mira alla distruzione selettiva della flora microbica presente e si applica quando le caratteristiche chimico-fisiche dell'alimento non permettono la sopravvivenza di microrganismi termoresistenti, quando si vogliono ridurre i danni di un trattamento termico con alterazione delle caratteristiche sensoriali o quando è utile eliminare microrganismi competitivi con quelli che operano fermentazioni desiderate.

Nella sterilizzazione le temperature impiegate sono più alte: intorno ai 120 °C, per tempi pari a 20 minuti, ma anche temperature maggiori (140 °C e oltre) per pochi secondi nel caso dei moderni trattamenti di sterilizzazione (UHT, Ultra High Temperature), nei quali si determina la distruzione di tutte le forme microbiche, incluse quelle sporigene eventualmente presenti.

Il rallentamento e/o l'inibizione delle attività microbiche ed enzimatiche è possibile anche attraverso l'abbassamento delle temperature di stoccaggio delle derrate alimentari. Su questo principio si fondano le tecnologie di refrigerazione, congelamento e surgelazione. La refrigerazione sfrutta temperature variabili dai 2 ai 10 °C ed è in grado di diminuire le velocità di quasi tutte le reazioni enzimatiche endogene all'alimento e di natura microbica, consentendo di prolungare, anche se per pochi giorni, il tempo di conservazione di un alimento. I trattamenti di congelamento e surgelazione sfruttano temperature molto più basse (minori di −18 °C). Tali trattamenti agiscono sulle attività enzimatiche e batteriche attraverso due principi strettamente correlati: il blocco di tali attività dipende non solo dalle bassissime temperature raggiunte ma anche dalla formazione di cristalli di ghiaccio nell'alimento che abbassano l'attività dell'acqua, fondamentale per lo svolgimento di tutte le reazioni, sia enzimatiche sia di origine batterica. La differenza esistente tra le due tecnologie di stabilizzazione risiede nella rapidità di raggiungimento della temperatura di −18°C. Nella surgelazione tali temperature vengono raggiunte in tempi inferiori alle quattro ore e con le moderne tecnologie IQF (Individual Quick Freezing), che utilizzano fluidi criogenici a bassissima temperatura, è possibile raggiungere −20 °C in tempi non superiori a trenta minuti.

Questa rapidità favorisce i fenomeni di nucleazione cristallina a favore di quelli di accrescimento, con il risultato di creare piccolissimi cristalli di ghiaccio senza provocare alcun danno alla struttura originaria dell'alimento. I tempi di trattamento nel processo di congelamento sono nettamente più elevati e ciò comporta un maggiore danneggiamento alla struttura dell'alimento causato dall'accrescimento dei cristalli di ghiaccio.

La stabilizzazione delle derrate alimentari è possibile anche attraverso altre tecnologie che apportano danni tecnologici minori con modifiche piccole o nulle della struttura e delle caratteristiche sensoriali e nutrizionali del prodotto. È questo il caso della conservazione con additivi chimici, definiti come sostanze prive di potere nutritivo o impiegate a scopo non nutritivo, aggiunti nella massa o sulla superficie degli alimenti, al fine di inibire i fenomeni di degradazione di origine batterica, ma anche per proteggere l'alimento da reazioni di ossidazione responsabili dell'irrancidimento della sostanza grassa e dell'imbrunimento superficiale. Questi additivi sono in genere malvisti dai consumatori per il timore di possibili danni all'organismo umano, anche se la legislazione vigente ne ammette la presenza in quantità limitate giudicate sicuramente non nocive.

Gli additivi chimici permessi nel settore alimentare sono classificati in diverse categorie a seconda della loro funzione e identificati da un numero preceduto dalla lettera E, che ne indica l'approvazione da parte dell'Unione Europea. Per fare un esempio, la serie E200 è attribuita agli antimicrobici (solfiti, benzoati e nitrati), mentre quella E300 agli antiossidanti (BHT, butilidrossitoluolo; BHA, butilidrossianisolo; acido ascorbico).

La richiesta di prodotti alimentari con più elevate caratteristiche qualitative ha spinto le industrie alimentari a orientare la produzione verso alimenti sicuri, naturali e con notevoli caratteristiche di funzionalità d'uso. Tali obiettivi sono stati raggiunti tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso attraverso lo sviluppo delle mild technologies rivolte alla riduzione del danno tecnologico connesso alle varie operazioni, ma comunque in grado di inibire e rallentare i fenomeni responsabili della degradazione. Sono così comparsi prodotti alimentari quali convenience foods e minimally processed foods, ottenuti con tecnologie alternative.

Tecnologie alternative

La crescente richiesta di prodotti fresh-like, ovvero caratterizzati da proprietà nutrizionali e sensoriali simili a quelle dei prodotti freschi, ha spinto negli ultimi anni le industrie alimentari a rivolgere la loro attenzione verso tecnologie di conservazione non termiche. Fra queste, le tecnologie che hanno riscontrato maggiore successo e che hanno trovato numerose applicazioni sono rappresentate da: alte pressioni, radiazioni ionizzanti, microonde, campi elettrici pulsati, ultrasuoni, atmosfere protettive e confezionamenti attivi.

Alte pressioni (HPP, High Pressure Processing)

Le prime applicazioni in campo alimentare risalgono ai primi anni del Novecento, ma soltanto alla fine degli anni Settanta, grazie all'evoluzione dell'ingegneria meccanica, sono stati messi a punto impianti con sufficienti standard di sicurezza, rendendo così le alte pressioni molto interessanti per la produzione dei minimally processed foods. Tale trattamento può essere applicato ad alimenti liquidi e solidi; l'effetto sanitizzante è il risultato di azioni concomitanti, quali l'arresto dei processi di riproduzione e la modifica della struttura della membrana cellulare dei microrganismi. Alle alte pressioni avviene la denaturazione delle proteine e degli enzimi delle cellule microbiche che provoca danni diretti ai processi di replica e trascrizione del DNA cellulare (v. dna). La modificazione della struttura della membrana cellulare è conseguente ai fenomeni di cristallizzazione delle componenti fosfolipidiche, che vengono indotti dalle alte pressioni, con conseguente alterazione della funzione della membrana nei fenomeni di scambio endo- ed esocellulare.

La sensibilità della varie forme microbiche alle alte pressioni è strettamente correlata al ceppo microbico di appartenenza e alle condizioni del mezzo, quali temperatura, pH, attività dell'acqua, presenza di sali ecc. L'efficacia del trattamento è strettamente dipendente dalle pressioni raggiunte, dalla temperatura e dal tempo di esposizione.

Radiazioni ionizzanti

Il trattamento degli alimenti con radiazioni ionizzanti, nato agli inizi del Novecento, non ha avuto una grande diffusione sia per il timore che i cibi potessero nuocere all'uomo, sia per le scarse conoscenze dell'effetto delle radiazioni. Questa tecnica sfrutta l'energia di radiazioni elettromagnetiche, principalmente raggi α. L'energia, trasferita a un atomo dell'alimento, ne determina la ionizzazione. L'irraggiamento non produce negli alimenti alcuna modifica apprezzabile sul piano nutrizionale e organolettico, né lo rende radioattivo: le eventuali modifiche avvengono solo a seguito di non corrette applicazioni di tale tecnica. Una sua rilevante caratteristica è quella di richiedere bassi consumi energetici, aspetto, questo, che lo rende apprezzabile per il ridotto impatto ambientale rispetto ad altre tecnologie di conservazione. In Italia la legislazione ne prevede l'impiego soltanto per poche tipologie di alimenti: per es., per inibire la germogliazione e con l'obbligo di indicazione del trattamento sull'etichetta.

Trattamenti termici a microonde

Le microonde sono onde elettromagnetiche la cui frequenza va da 300 MHz a 300 GHz: esse agiscono principalmente sulle molecole polari presenti nell'alimento. I fenomeni di oscillazione e urto dei dipoli indotti dai campi elettromagnetici applicati sono responsabili della trasformazione dell'energia cinetica in energia termica, provocando un rapido innalzamento della temperatura dell'alimento che consente di ottenere effetti sanitizzanti ed evaporazione dell'acqua in tempi estremamente rapidi.

I processi di riscaldamento selettivo, particolarmente dell'acqua, e istantaneo nell'alimento impediscono l'imbrunimento della superficie esterna che si ha, invece, utilizzando i tradizionali trattamenti termici di essiccazione.

Campi elettrici pulsati

Tali campi distruggono i microrganismi patogeni e alterativi presenti negli alimenti senza causarne cambiamenti delle proprietà nutrizionali e sensoriali. Questa tecnologia si basa sull'utilizzo di campi elettrici di elevata intensità (5-70 kV/cm), di durata dell'ordine dei millisecondi, su prodotti alimentari posti tra due elettrodi, e può essere considerata un processo di stabilizzazione non termico in grado di disattivare i microrganismi ma non la maggior parte degli enzimi presenti. La corrente elettrica ad alto voltaggio (elettroporazione) sfrutta l'effetto degli impulsi bipolari, che si rivelano letali ai microrganismi in quanto la rapida inversione di direzione delle molecole polari causa danni alle membrane cellulari. La differenza di potenziale che si presenta alla superficie della membrana delle cellule è più importante nel causare l'inattivazione della durata dell'impulso elettrico.

Ultrasuoni

L'utilizzo di questi in campo alimentare si è concentrato negli ultimi dieci anni, anche se le prime esperienze per disattivare microrganismi ed enzimi risalgono al 1930. L'effetto degli ultrasuoni è connesso ai processi di cavitazione nelle membrane cellulari. Le frequenze usate vanno dai 20 ai 40 kHz e i parametri da considerare sono la temperatura di esercizio, il tempo di trattamento e la potenza acustica. Questa tecnologia, sperimentata per latte e formaggi, può presentare il limite di provocare cambiamenti di natura chimico-fisica ed enzimatica non desiderati.

Conservazione in atmosfera protettiva

La normale composizione dell'atmosfera (v. atmosfera terrestre) che ci circonda è costituita dal 78% di azoto, dal 21% di ossigeno, dallo 0,9% di anidride carbonica e da piccole concentrazioni di altri gas. Poiché la maggior parte delle reazioni di degradazione degli alimenti avviene in presenza di ossigeno, la modifica dell'atmosfera mira, fatte alcune eccezioni, a eliminarlo o a ridurne la concentrazione sostituendolo con azoto, anidride carbonica, loro miscele e gas quali argon, elio e protossido di azoto. Al fine di evitare scambi gassosi con l'atmosfera esterna alla confezione è necessario che i materiali di imballaggio abbiano elevate caratteristiche di barriera ai gas e al vapor acqueo.

Il confezionamento in atmosfere modificate o protettive non è un trattamento di risanamento ma, abbinato alla refrigerazione, può essere utilizzato per tutti i prodotti alimentari mantenendone a lungo le caratteristiche di sicurezza e qualità.

Imballaggi attivi

Gli imballaggi attivi possono essere considerati un'evoluzione del confezionamento in atmosfera protettiva, in quanto intervengono a regolare in maniera dinamica e continua gli scambi tra il prodotto alimentare e la microatmosfera della confezione. Lè ottenuta con l'impiego di sostanze, che fanno parte dell'imballaggio, in grado di interagire con l'atmosfera che circonda il prodotto attraverso il rilascio di composti utili al mantenimento della qualità degli alimenti confezionati. La ricerca scientifica e l'evoluzione tecnologica nel settore di produzione di film plastici ha reso possibile lo sviluppo di numerose soluzioni suddivisibili in due grandi categorie: imballaggi attivi in grado di modificare costantemente la concentrazione di composti volatili e gas nella confezione (assorbitori di ossigeno, di etilene, di anidride carbonica, emettitori di anidride carbonica, di etanolo e regolatori di umidità); imballaggi attivi a rilascio di sostanze antimicrobiche e antiossidanti.

bibliografia

G.V. Barbosa-Cánovas, U.R. Pothakamury, E. Palou et. al., Nonthermal preservation of foods, New York 1998; E.V. Nathan, G.F. Gutiérrez-López, G.V. Barbosa-Cánovas, Food science and food biotechnology, Boca Raton 2003; P. Zeuthen, L. Bogh-Sorenses, Food preservation techniques, Boca Raton 2003; Da-Wen Sun, Emerging technologies for food processing, Boston 2005.

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