Temi olimpici: dilettantismo e professionismo

Enciclopedia dello Sport (2004)

Temi olimpici: dilettantismo e professionismo

Oscar Eleni

come nacque la distinzione

I suoi studi di storia e la ferma convinzione che le antiche Olimpiadi fossero finite perché provocavano soltanto incidenti e invogliavano alla truffa spinsero Pierre de Coubertin a insistere con i membri del Comitato incaricato di studiare il progetto di ripristinare i Giochi nell'era moderna sulla necessità di escludere dalle gare i professionisti, salvando soltanto i maestri di scherma.

Nelle sue letture di testi antichi de Coubertin trovava che le feste sportive avevano finito per essere dominate dai professionisti, categoria disprezzata da chi amava la tradizione. Fra i denigratori era sicuramente il poeta tragico Euripide, che scriveva: "Innumerevoli sono i mali dell'Ellade, ma non ve n'è nessuno peggiore della genia degli atleti… In giovinezza essi incedono pavoneggiandosi pomposamente, sono idoli della città, ma quando piomba loro addosso l'amara vecchiaia sono messi da parte come uomini logori". Euripide rimproverava quelli che dimenticavano presto i loro idoli, ma era soprattutto il professionismo dello sport a disgustarlo. Ancora più severo di lui nel valutare certe prestazioni gonfiate fu il medico e filosofo Galeno che, nella Pergamo del 2° secolo d.C., dava questo ritratto dell'atleta ormai schiavo del professionismo: "Accumulano in massa muscoli e sangue, ma la loro anima è spenta, come sommersa sotto un cumulo di melma… è vero che gli atleti traggono qualche giovamento dalla loro attività, ma capita che gli allenatori prendano sotto la propria guida molti atleti dal fisico in tutto armonioso, li facciano ingrassare rimpinzandoli di carne e di sangue e, così facendo, ottengano il risultato contrario, ne facciano cioè diventare alcuni brutti e deformi, soprattutto nel volto, specialmente quando praticano il pancrazio o il pugilato". Alla fine fu l'imperatore Teodosio, nel 393 d.C., a decidere di sospendere i Giochi, su esortazione del vescovo Ambrogio che considerava queste manifestazioni un inaccettabile retaggio pagano. Ma è certo che essi si fossero ormai snaturati a causa proprio del professionismo, diventato esasperato nel periodo della dominazione romana.

Alla convinzione maturata attraverso gli studi dell'antichità, de Coubertin univa l'ostilità verso il professionismo recepita frequentando i paesi anglosassoni. In Inghilterra, dove il puritanesimo equiparava i professionisti a veri peccatori, ma anche negli Stati Uniti, in Australia, in Sudafrica era fortemente sentito il problema delle corse con premi in denaro, delle scommesse in ogni genere di manifestazione, della mercificazione degli atleti. Il barone non voleva che i Giochi a cui cercava di ridare vita venissero strangolati dall'interesse e si batté per questo fine. Si trattava in realtà di una battaglia combattuta nella trincea dell'ipocrisia, tendente a salvaguardare il carattere aristocratico dello sport. Nello stesso periodo del congresso che rilanciò i Giochi, un osservatore americano così si esprimeva a proposito dello sport in Inghilterra: "Perché ci si debba continuamente sforzare di unire nello sport i due elementi divergenti della società che mai, in nessun caso, s'incontrano altrove su basi di parità è completamente incomprensibile… La classe lavoratrice sta bene al suo posto… lasciamo che si faccia le sue gare di atletica come meglio si addice alle sue inclinazioni… Lasciamo che il nostro sport [degli aristocratici] sia praticato fra gli elementi più raffinati e non permettiamo che vi entrino gli spiriti della discordia" (A. Guttman, Dal rituale al record, Napoli, ESI, 1994).

Lavorando sulla bozza del nuovo regolamento per i Giochi de Coubertin inserì dunque la regola secondo la quale chi praticava l'attività sportiva soltanto per diletto non poteva competere con quelli che invece avevano scelto lo sport come fonte di sostentamento nella vita: limitazione della libera partecipazione che avrebbe escluso dalla storia delle Olimpiadi moderne grandissimi campioni e avrebbe portato a clamorose squalifiche, a ingiustizie vere e proprie, alla ricerca di trucchi per mascherare professionismo vero e professionismo di Stato.

Le indicazioni di de Coubertin furono recepite dalla commissione che il 16 giugno 1894 fu incaricata di studiare l'unificazione dei regolamenti e la separazione netta fra dilettanti e professionisti. Portato a termine il suo lavoro, la commissione consegnò il testo elaborato a quella che lavorava sul ripristino delle Olimpiadi. Il regolamento stabiliva che "soltanto i dilettanti, a parte i maestri di scherma che saranno comunque accettati, verranno ammessi alla prima edizione del 1896 e a quella del 1900". Il documento si basava su sette punti e al secondo si confermava che fatta eccezione per la scherma si dovevano organizzare dei concorsi olimpici destinati soltanto ai dilettanti.

L'opposizione allo sport professionistico era incoraggiata anche dalla volontà di distinguersi dalle fiere internazionali e dalle grandi esposizioni che, quando organizzavano competizioni sportive, inserivano nel programma una quantità di eventi a fini soltanto spettacolari, persino gare di nuoto a ostacoli come avvenne a Parigi nel 1900, proponendo veri fenomeni da circo.

All'epoca del congresso alla Sorbona, istitutivo dei rinnovati Giochi Olimpici, l'Union des sociétés françaises de sports athletiques aveva da poco squalificato Desiré Delamarre, campione del chilometro con la maglia della società Montrouge, per aver fatto l'allenatore del professionista Gallot nel tentativo di record mondiale sui 1000 m. Nessuno era in grado di spiegare come quell'atleta si sarebbe potuto guadagnare da vivere se non insegnando ad altri quanto aveva imparato, ma l'idea generale era che non si dovevano permettere invasioni nel territorio della 'purezza'. Il clima era quello che si deduce dalla lettera scritta da de Coubertin agli invitati al congresso parigino: "L'obiettivo è duplice. Bisogna innanzi tutto conservare all'atletismo il carattere nobile e cavalleresco che lo ha distinto nel passato, affinché possa continuare a svolgere efficacemente nell'educazione dei giovani moderni il ruolo ammirevole attribuitogli dai maestri greci. L'imperfezione umana tende sempre a trasformare l'atleta di Olimpia in un gladiatore da circo. Bisogna scegliere tra queste due formule che non sono compatibili. Per difendersi dallo spettro del guadagno e del professionismo che minaccia di travolgerli, i dilettanti hanno stabilito, in quasi tutti i paesi, una legislazione complicata piena di compromessi e contraddizioni; troppo spesso se ne rispetta la lettera più che lo spirito... Il ristabilimento dei Giochi Olimpici, su basi e condizioni conformi alla necessità della vita moderna, ogni quattro anni, porrà a confronto i rappresentanti delle nazioni del mondo, ed è pensabile credere che queste battaglie pacifiche e cortesi, non contaminate dalla caccia al denaro, costituiranno il meglio dell'Internazionalismo".

In campo si volevano soltanto gentiluomini dello stampo di Henry Pearce, il vogatore australiano che durante le Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam, in una batteria della sua gara, si fermò per lasciar passare delle anatre (poi recuperò e passò il turno, arrivando alla fine anche alla medaglia d'oro). Lo spirito era quello della bella gara, non della vittoria a ogni costo. Tuttavia questo principio poteva andare bene per chi aveva altri progetti nella vita, per gente facoltosa che dopo il divertimento, la gioia e la gloria ritornava ad altre professioni e non considerava lo sport un mezzo per vivere. È difficile valutare tecnicamente e correttamente i risultati di Olimpiadi così classiste e razziste perché dalla possibilità di gareggiare, per esempio, fu tagliata fuori negli Stati Uniti la maggior parte degli afroamericani e degli stessi nativi indiani, anche se per un certo periodo furono i migliori atleti mai scesi in campo (basti pensare che erano di colore quasi tutti i fantini del primo derby ippico americano, mentre poi i neri furono esclusi dalle corse; la stessa cosa capitò negli sport classici degli Stati Uniti dove si organizzarono negro-leagues piuttosto che lasciar competere tutti sullo stesso campo, nella medesima lega).

Tenendo nascosto il discorso sulle discriminazioni razziali, si combatté a lungo, invece, per la purezza delle Olimpiadi, per preservarle dalle contaminazioni da fini di lucro che comunque arrivarono, proprio come nell'antichità, a causa dei costi sempre più alti e del gigantismo del programma. La battaglia sul dilettantismo è andata avanti per decenni, cambiando spesso il bersaglio e modificando le regole, così da ingenerare una confusione che, come sempre, ha penalizzato i più deboli, lasciando spazio a chi aveva più mezzi, più organizzazioni o industrie alle spalle. Soltanto a Seul 1988 fu concessa alle singole Federazioni internazionali la libertà di scegliere se ammettere ai Giochi anche atleti dichiaratamente professionisti. Fu una grande rivoluzione, forse fu anche l'inizio di un reale stravolgimento dello spirito dell'Olimpiade. Prima di arrivarvi si è dovuti passare attraverso durissime battaglie, squalifiche ingiuste che hanno rovinato la vita di grandi campioni riabilitati soltanto quando ormai non potevano più godere di questo riconoscimento, come avvenne per il pellerossa James Thorpe e il grande corridore finlandese Paavo Nurmi, i due casi più clamorosi di squalifica.

La 'caccia' al professionista

La 'caccia' al professionista ebbe inizio già nella prima edizione dei Giochi Olimpici e a farne le spese fu un italiano. L'Italia non era riuscita ad allestire una squadra, dai documenti riguardanti i Giochi di Atene 1896 risulta che l'unico partecipante ufficiale fu il tiratore piemontese Rivabella. Dato il caos organizzativo del comitato che in Italia doveva selezionare una squadra e scegliere degli atleti, il podista lombardo Carlo Airoldi pensò di affrontare l'avventura senza aspettare l'invito di nessuno. Nato a Origgio, in provincia di Varese, il 21 settembre 1869, ex operaio della fabbrica di cioccolato, corridore ciclista che era passato al podismo perché in sella non riusciva a dominare il mezzo, troppo fragile, Airoldi, un uomo tarchiato con un torace di 125 cm e bicipiti di 45 cm, per vivere si esibiva anche in spettacoli di forza facendosi spaccare pietre sul torace o come mangiatore di fuoco. In mancanza di mezzi decise di raggiungere Atene a piedi, convinto che poi si sarebbe portato a casa il premio di 25.000 lire che secondo qualcuno era stato messo in palio dai giornali, di nascosto dagli organizzatori, per la maratona, la gara più attesa della prima edizione. Doveva partire anche il corridore di Lecco Arrigo Gamba, ma Airoldi, dopo aver visto dubbioso il rivale con cui si era sfidato in tante gare, non fece molto per convincerlo, forse perché lo temeva: se la sarebbe cavata da solo con il contributo dell'Esposizione ciclistica milanese. Partì da Milano il 28 febbraio 1896, portandosi dietro come bagaglio un solo cambio di camicia e pantaloni, oltre a un coltello per le notti da passare in solitudine. La prima tappa lo fece arrivare, dopo 20 km, a Gorgonzola. Poi, come ha ricostruito lo storico e statistico bresciano Bruno Bonomelli, nel corso di quella che sicuramente deve essere considerata una grandissima impresa coprì 1328 km sempre a piedi, salvo piccoli tratti su piroscafo nel passaggio obbligatorio via mare da Ragusa a Corfù e Patrasso. Toccò le città di Brescia, Verona, Vicenza, Treviso, Portogruaro, San Giorgio di Nogaro, Palmanova, Trieste, Basovizza, Kosina, Fiume, Senj, Karlobag, Zara, Sebenico, Spalato, Ragusa, facendo in piroscafo il tratto da Ragusa a Corfù fra il 26 e il 27 marzo, e quello da Corfù a Patrasso sempre il 27 marzo. Due giorni dopo era a Corinto e il 31 marzo concluse con il tratto di 22 km da Eleusi ad Atene. In media camminò dai 45 ai 65 km al giorno. Di quella marcia parlarono i pochi giornali esistenti e la sua fama lo precedette, come era anche logico. Serviva come propaganda per i Giochi Olimpici che tornavano a vivere, anche se de Coubertin e il Comitato olimpico sapevano benissimo che non avrebbe mai potuto partecipare alle gare perché dichiaratamente professionista.

Quando Airoldi si presentò agli organizzatori chiedendo di essere iscritto alla maratona scoprì che per lui non c'erano speranze: regolamenti e anche ragioni di Stato gli erano contro. La commissione che era stata formata per valutare l'eleggibilità dei corridori, e della quale faceva parte anche il principe ereditario di Grecia, gli chiese se corrispondeva al vero che in corse precedenti aveva vinto premi in denaro. Il podista lombardo, con grande ingenuità, ma anche vantandosi delle sue imprese di cui andava orgoglioso, ammise di aver guadagnato soldi correndo a piedi. Era abbastanza per escluderlo dalla gara, sulla quale peraltro la Grecia puntava moltissimo. La corsa di 40 km, infatti, avrebbe concluso l'Olimpiade: c'era bisogno del grande personaggio, meglio se del luogo. Airoldi, dichiarato professionista ed escluso, liberò la strada, è il caso di dirlo, a Spyridon Louis, ventitreenne del villaggio di Amaroussion dove viveva portando acqua ad Atene.

Per Airoldi fu certo un'ingiustizia, tanto più che sapeva di avere i numeri per imporsi. In precedenza aveva vinto anche una Milano-Marsiglia-Barcellona, 1050 km in 12 tappe, distanza percorsa in 397 ore per guadagnare un premio di 2000 pesetas. Al ritorno da Atene prese il piroscafo e il treno per tornare a casa dove ricominciò la sua vita di corridore senza limiti. Al Trotter di Milano si cimentò addirittura contro Buffalo Bill: lui a piedi, l'altro a cavallo. Per affrontare un cavallo, Uranus, andò a Rio de Janeiro, correndo 9 km contro i 12 dell'animale. Sfidò biciclette e persino una biga romana. Era la sua vita, a base di scommesse bizzarre, un modo per campare che certo non poteva piacere al barone francese e agli altri dirigenti che avevano chiuso le Olimpiadi a chi non aveva altri mezzi di sopravvivenza, in mancanza di un lavoro vero e del tempo per potersi allenare con i gentiluomini. La storia sportiva di Airoldi ‒ a prescindere dal parere dei puristi fu infatti un grande protagonista dello sport ‒ si chiuse male proprio in Brasile, dove rischiò di essere linciato per aver perso contro un cavallo dopo che gli scommettitori lo avevano dato per favorito. Lasciate le gare impossibili, fece l'allenatore dei marciatori alla società Voluntas e poi seguì i ciclisti della Legnano, la squadra dove molto tempo dopo divennero famosi Bartali e Coppi. Morì senza essere ricordato né onorato, il 10 giugno 1929: aveva il diabete, lo tradì il cuore che più di trent'anni prima gli aveva permesso di arrivare a piedi da Milano ad Atene.

L'ossessione del professionismo, le barriere agli atleti che guadagnavano soldi con la loro attività sportiva tennero lontano dai Giochi, soprattutto nelle prime edizioni, molti grandi protagonisti, non soltanto professionisti dichiarati come Airoldi. Per chi organizzava non era comunque un problema, mancando la vera cassa di risonanza che in seguito sarebbe stata rappresentata dai giornali e dalla televisione. È evidente, tuttavia, che gli olimpionici non potevano essere considerati i migliori in assoluto, così come non poteva essere considerata uguaglianza competitiva quella che opponeva atleti con un buon patrimonio personale a quelli, soprattutto esponenti della classe operaia, che non avevano i mezzi per raggiungere le sedi di gara; dovendosi pagare il viaggio, erano costretti a inventarsi un qualche tipo di soluzione. Così fece il maratoneta cubano Felix Carbajal, che nel 1904 trovò i soldi per il viaggio dall'Avana a St. Louis grazie a una colletta popolare. Durante il viaggio perse quello che gli rimaneva a un tavolo da gioco di New Orleans e per raggiungere il Missouri si arrangiò utilizzando mezzi di fortuna, chiedendo passaggi alle poche auto che circolavano. Arrivò sfinito alla partenza della maratona del 30 agosto, presentandosi al via con scarpe pesanti e pantaloni lunghi che i suoi avversari americani, chiedendo di ritardare la partenza, gli tagliarono sopra il ginocchio per permettergli di correre senza soccombere al caldo umido. Iniziò molto bene, ma a un certo punto, quando era fra i primi, vinto dalla fame, si fermò per mangiare mele acerbe che gli procurarono forti dolori allo stomaco. Alla fine arrivò quarto dopo 40 km, che furono un inferno per tutti, anche per il vincitore, lo statunitense di origini inglesi Thomas Hicks.

L'atmosfera era ancora più ostile per quegli atleti che cercavano di migliorare il loro rendimento con allenamenti mirati o con correzioni tecniche alla posizione in gara, per esempio alla partenza. Alle Olimpiadi di Atene del 1896 il più contestato dal pubblico fu un velocista americano, Thomas Burke ‒ l'unico, fra l'altro, nella storia dei Giochi, a vincere 100 e 400 m ‒ perché nella gara più corta, che si correva fra corsie delimitate da una corda, al momento della partenza aveva appoggiato le mani a terra per avere un migliore equilibrio e un assetto più aerodinamico quando fosse stato dato il via alla prova: il pubblicò lo contestò e lo accusò di professionismo per aver scelto quella che poi divenne la posizione usuale di partenza nelle gare dai 100 m ai 400 m.

Una speculazione portò alla squalifica per professionismo il primo grande velocista del 20° secolo, l'americano Arthur Duffey, studente all'Università Cattolica di Georgetown. Per lui si riempivano gli stadi, contro di lui, sfortunato protagonista ai Giochi di Parigi dove abbandonò per infortunio, perdevano tutti. Era pronto a vincere il suo oro a St. Louis, ma la Federazione americana ‒ l'AAU, nata nel 1888 e presieduta da James Edward Sullivan ‒ lo bandì dalle competizioni con l'accusa di professionismo per rimborsi spese esagerati. Su questa vicenda si documentò Charles Paddock, medaglia d'oro dei 100 m ad Anversa nel 1920, che arrivò alla conclusione che la squalifica di Duffey fu una 'vendetta' da parte di Sullivan. Il presidente dell'AAU lavorava per una importante casa produttrice di scarpette per l'atletica e sarebbe rimasto offeso dalla dichiarazione di Duffey che aveva spiegato ai giornalisti di aver ottenuto i suoi primati con calzature fatte apposta per lui da un amico ciabattino.

Erano dunque tempi duri per chi faceva sport e non aveva sostegni, per chi doveva lottare e soffrire ma non voleva perdere la gloria entrando in quei circuiti professionistici che nei paesi di lingua inglese prosperarono fino al 1920, con un periodo aureo che iniziò nel 1914 quando questa attività faceva pensare più al circo che al vero sport. Anni prima che ritornassero in vita i Giochi avevano già scelto di trarre guadagno dalle loro imprese l'inglese Walter George e lo statunitense Lon Myers protagonisti di testa a testa al Polo Grounds e sul legno del Madison Square Garden di New York.

Il clima d'intransigenza che portava a escludere tanti campioni dalle competizioni olimpiche era lo stesso che si respirava anche nelle gare. In occasione della maratona alle Olimpiadi parigine del 1900 i giudici di gara si mostrarono severissimi con i concorrenti impegnati lungo il percorso ricavato nel Bois de Boulogne. Il caldo era torrido, quasi 40 °C, ma nel regolamento era scritto che i concorrenti non avrebbero potuto bere durante la corsa. La salute veniva dopo la purezza. Quella del 19 luglio 1900 fu una maratona piena d'irregolarità dove alla fine arrivarono soltanto sette dei tredici partenti; il vincitore fu il francese Michel Théato. Il suo tempo fu nettamente superiore a quello fatto registrare qualche giorno prima da Allen Horst in una maratona per professionisti organizzata intorno al Parc des Princes.

Alcuni campioni si inventavano specialisti in discipline dove non avevano quasi mai gareggiato come il giocatore di cricket inglese John Douglas che volle partecipare, nel 1908, al torneo di pugilato, vincendo nella categoria dei pesi medi. Quel successo gli aprì una strada nuova perché si trasferì a Hollywood in California e divenne istruttore degli artisti che poi dovevano battersi sulla scena: un lavoro più che dignitoso che lo fece comunque squalificare dal Comitato olimpico internazionale.

In quella Olimpiade londinese chi vedeva il peccato in ogni angolo non considerò però professionisti gli atleti che accettavano una diaria giornaliera per vivere la loro esperienza sportiva. Sull'argomento, tuttavia, c'era confusione e una grande paura, come fece notare il conte Brunetta d'Usseaux, vero fondatore del Comitato olimpico italiano, nella lettera indirizzata a Luigi Rava, ministro della Pubblica Istruzione, il 3 febbraio 1908: "Ho l'onore di partecipare all'E.V. che nel mese di luglio prossimo avranno luogo a Londra, nello stadio espressamente edificato, capace di contenere settantacinquemila spettatori, i Giuochi Olimpici della IV Olimpiade… Le gare sono riservate ai soli dilettanti e la definizione, specialmente per il remo, è abbastanza restrittiva. Ho ottenuto per l'Italia qualche vantaggio speciale secondo la lettera del Segretario Generale del British Olympic Council… Il principale vantaggio consiste nell'autorizzazione a un eventuale sussidio finanziario governativo, ed anche di privati, purché membri della Associazione che vogliono sussidiare, colla condizione che detti sussidi non possano raggiungere che la somma occorrente per le spese… Il barone de Coubertin, presidente del Comitato olimpico internazionale, attualmente assai gravemente malato in Svizzera, mi dà incarico di porgere all'E.V. gli omaggi suoi e del Comitato".

Le restrizioni imposte al professionismo alla lunga risultarono per alcuni sport intollerabili. Così la Federazione del tennis nel 1924 ai Giochi di Parigi, dominati dagli statunitensi, decise che non avrebbe più partecipato alle Olimpiadi, rinunciando all'edizione del 1928 in programma ad Amsterdam. Il tennis fece ritorno nella famiglia olimpica soltanto a Seul 1988, quando si aprirono le porte anche ai professionisti e la tedesca Steffi Graf, vincitrice di tutti i grandi tornei con premi in denaro della stagione, superò in finale l'argentina Gabriela Sabatini.

Nel frattempo il professionismo messo fuori dalla porta era rientrato poco a poco, perché la pratica delle sponsorizzazioni e le esigenze di spettacolo imposte dalla televisione pretendevano che a gareggiare fossero i migliori. Nel 1952 ebbe inizio la sponsorizzazione del Comitato olimpico da parte della Coca-Cola, che poi è sempre rimasta partner dei Giochi. Nel 1960 furono venduti per la prima volta i diritti di ritrasmissione. Quattro anni dopo a Tokyo le riprese delle Olimpiadi furono diffuse in mondovisione e i Comitati olimpici nazionali incrementarono i premi per i vincitori di medaglie (gli americani arrivarono a 20.000 dollari). Nel 1984 l'organizzazione fu affidata a un gruppo di privati che vollero il meglio per poter incassare sempre di più. La caccia ai 'traditori' dello spirito olimpico si fece molto tenue, per finire quattro anni dopo. Il tennis aprì per primo ai professionisti, seguito dalla pallacanestro americana che, sconfitta in Corea, nel 1992 selezionò una squadra di giocatori della NBA. Il Dream team mandò in delirio il pubblico di Barcellona, nel palazzo al Montjuic. Il dilettantismo finto era uscito definitivamente dalla scena.

L'eccezione della scherma e dell'equitazione

Si è accennato che il regolamento olimpico ammetteva alle gare soltanto atleti dilettanti, a parte i maestri di scherma. Il motivo di questa eccezione nei confronti degli schermitori è facilmente comprensibile se lo inquadriamo nel contesto della fine del 19° secolo. Il privilegio venne concesso perché, contrariamente ad altri sport, cominciando dalle corse di atletica e dal pugilato, nelle sale di scherma, ben frequentate dalla nobiltà, non si scommetteva. I maestri non erano considerati dei professionisti che speculavano sullo sport, ma dei veri insegnanti per una gioventù da forgiare nelle sale d'armi e nelle scuole militari.

Fu grazie a questa eccezione che a Parigi 1900 conquistò un oro nella sciabola per maestri Antonio Conte, nato nel dicembre del 1867 nella cittadina laziale di Minturno, in provincia di Latina. Conte prevalse, dopo aver ottenuto 7 vittorie negli assalti finali, in una gara disputata da 26 concorrenti nel salone delle feste all'Esposizione, scelto dal Ministero del Commercio, dell'industria, delle poste e dei telegrafi, organizzatore della mostra e delle manifestazioni sportive. Il torneo di sciabola si svolse dal 18 al 27 giugno del 1900, il biglietto d'ingresso costava 9000 franchi. Per assistere alle gare di fioretto, invece, si dovevano spendere 19.500 franchi, mentre l'ingresso alle gare di spada, programmate alle Tuileries dal 1° al 15 giugno, costava 16.000 franchi.

Conte, figlio di un notaio, aveva cominciato a praticare la scherma nell'esercito, in cui si era arruolato a 17 anni. Divenuto tenente all'Accademia di Modena, fu trasferito a Roma dove perfezionò la sua arte sotto la guida di Agesilao Greco. Rimase nell'esercito fino al giorno in cui gli vietarono di partecipare a un grande torneo, proprio a Parigi. Quello fu il momento della svolta della vita e fu forse quella sua scelta il vero motivo per cui la medaglia olimpica che vinse fu quasi ignorata al momento e ha continuato a esserlo anche dopo. Anche il secondo arrivato nella finale di Parigi era un italiano, Italo Santelli (il fratello Oreste fu punito dai giudici con la squalifica per aver colpito quando ancora discutevano sull'assegnazione di una stoccata), e anche lui visse la sua gloria fuori dal suo paese. Nel 1896, infatti, si era trasferito a Budapest dove fondò la scuola ungherese di sciabola. Quello era il destino per grandi talenti: diventare insegnanti, che venivano contesi con ingaggi importanti negli eserciti e nelle corti di tutta Europa e anche in America. Dopo la vittoria olimpica Conte aprì a Parigi una scuola che contava due sale lussuose e divenne molto apprezzata dalla nobiltà di Francia. Nel 1904 non partecipò alle Olimpiadi ma si trasferì a Madrid dove la scuola della Real casa, il Club de la Peña, gli offriva 25.000 pesetas in oro per averlo come primo maestro. Rientrò in Italia all'inizio degli anni Trenta, cessando l'attività di maestro. Quando morì ‒ nel febbraio del 1953, lasciando tutti i suoi beni all'ospedale di Minturno ‒ erano ben pochi quelli che ricordavano il suo successo.

Anche per l'equitazione si fece una parziale eccezione alla regola sul dilettantismo e questo consentì all'Italia di vincere le prime medaglie olimpiche nei Giochi di Parigi (in realtà data la confusione che caratterizzò quell'edizione gli atleti non erano consapevoli di stare partecipando a gare olimpiche). Il primo trionfo fu quello del ventitreenne conte Gian Giorgio Trissino, sottotenente del Genova Cavalleria, che in sella a Oreste vinse la prova di salto in elevazione e con lo stesso cavallo prese anche un secondo posto nel salto in estensione. Ne ricavò un premio finale, considerando le varie gare, di 7500 franchi. I trofei vennero considerati regolari, anche se c'erano premi in denaro. Non poté invece partecipare alle gare sui cavalli da lui stesso allenati il più forte cavaliere dell'epoca, il tenente Federico Caprilli, per l'opposizione del Ministero della Guerra del governo Pelloux.

Una riabilitazione tardiva

Uno dei casi più clamorosi e ingiusti di squalifica legati a un caso di leso dilettantismo colpì James Francis (Jim) Thorpe, l'atleta che dominò le Olimpiadi del 1912 a Stoccolma, al punto che il re di Svezia Gustavo V, accompagnato dallo zar Nicola, lasciò la sua tribuna per poterlo premiare personalmente. Thorpe ‒ la cui vicenda fu narrata nel 1951 in un film con Burt Lancaster intitolato Jim Thorpe all American (1952; Pelle di rame) ‒ fu il primo grande perseguitato dall'ipocrisia olimpica, nello stesso momento in cui le manifestazioni dei campioni universitari americani e dei protagonisti dello sport europeo cercavano di guadagnare il massimo con la vendita dei biglietti e cominciava a diffondersi la pratica delle agevolazioni per le donazioni a favore delle organizzazioni sportive, un modo non di rado di mascherare le evasioni fiscali.

Thorpe, indiano pellirosse originario della tribù dei Fox-Sauk, un popolo che si era mosso dal Kansas verso l'Oklahoma (il nonno irlandese aveva sposato un'indiana e suo padre Hiram P. Thorpe si era unito in matrimonio con Charlotte Vieux, figlia di un colono francese e di una indiana), aveva deciso di dedicarsi all'atletica leggera cinque anni prima, nel 1907. Dopo che si era messo già in luce con la squadra di football e di baseball del college di Carlisle, in Pennsylvania, Glen Scobie 'Pop' Warner, allenatore in quella scuola, ne scoprì il talento atletico: alto 1,84 m per 80 kg di peso, sapeva correre i 200 m in meno di 23″, i 100 m in 11,2″, lanciare un giavellotto, o una palla, a 50 m.

A Stoccolma, le prime vere Olimpiadi dell'età moderna per organizzazione e partecipazione, vinse in tutte e due le prove multiple, pentathlon e decathlon, e si presentò anche sulla pedana del salto in lungo e del salto in alto per rendere più elevato il livello tecnico della competizione, pur sapendo che non avrebbe potuto vincere. Nel pentathlon ebbe come concorrente il venticinquenne Avery Brundage, futuro presidente del CIO, che pur non avendo concluso i 1500 m arrivò sesto, avvicinando Thorpe soltanto nel lancio del disco (34,72 m contro i 35,75 m del campione). Pur americano come Thorpe, Brundage non fece mai nulla per riparare all'ingiustizia inflitta al suo compagno di squadra, in realtà tradendo il vero spirito del regolamento olimpico di de Coubertin. Il barone, infatti, non voleva professionisti in campo, ma per tutto il tempo in cui rimase alla guida del movimento sportivo più importante del mondo cercò di non discriminare chi veniva da classi non privilegiate e quanti, pur con difficoltà a livello d'integrazione, riuscivano a prepararsi in maniera superiore a quelli che disponevano di maggiori mezzi e più tempo libero.

Dopo aver entusiasmato il pubblico svedese scendendo in pista 17 volte, Thorpe prese i suoi trofei e tornò in patria, accolto come un eroe, con una grande sfilata sulla Quinta strada di New York fra la gente che acclamava il suo nome. Subito dopo, tuttavia, un giornalista scoprì che qualcosa nella vita sportiva di Thorpe era contrario ai regolamenti. Emerse che fra il 1909 e il 1910, giocando per squadre di baseball in leghe minori del Nord Carolina, l'atleta aveva accettato un 'rimborso spese' di 25 dollari alla settimana. Il campione, messo sotto processo, ammise, chiese scusa alla commissione, ma ribadì che per fare atletica leggera non aveva mai preteso un dollaro. Non ci fu nulla da fare: il 27 gennaio 1913 il CIO confiscò i suoi premi, gli disconobbe i record che aveva realizzato, lo cancellò dall'albo d'oro delle Olimpiadi svedesi.

L'amarezza fu grande ma il talento sorresse Thorpe. Giocò da professionista per la squadra di football dei Giants di New York, poi firmò un contratto fino al 1919 con la squadra di baseball dei Cincinnati Reds, continuando a battersi fino al 1928. A gare d'atletica non partecipò più. Morì in miseria il 28 marzo 1953, colpito da infarto nella città californiana di Lomita.

Brundage, entrato nel CIO nel 1937 e diventato vicepresidente alla fine del 1945, conosceva la storia del grande avversario ed era al corrente che nel 1943 negli Stati Uniti era nato un comitato per la sua riabilitazione, ma non si mosse, né si attivò dopo essere diventato presidente dell'organizzazione mondiale nel 1952. Peraltro nel corso della sua presidenza ostacolò in ogni modo la soluzione del problema professionismo-dilettantismo, battendosi soltanto per smascherare il falso dilettantismo dei campioni che venivano mantenuti nelle squadre sportive dell'esercito o dei sindacati dell'Unione Sovietica e dell'Est europeo. Fu il successore di Brundage, lord Killanin, nel terzo quadriennio del suo mandato, ad approvare la riapertura del caso Thorpe, affidandone lo studio a una commissione. Il 13 ottobre 1982, nella riunione in cui furono riviste le regole sul dilettantismo, si decise di riammettere Thorpe nell'albo d'oro. I premi che aveva vinto in Svezia e tutto quello che gli era stato confiscato furono restituiti ai figli il 18 gennaio 1983, trent'anni dopo la sua morte.

Owens e Nurmi

In Italia, dopo i risultati abbastanza modesti ottenuti nelle gare di atletica a Parigi nel 1924 e ad Amsterdam quattro anni dopo, si aprì il grande dibattito fra quanti giudicavano impossibili da raggiungere i campioni del Nord, superiori per razza, e quanti, invece, come il milanese conte Alberto Bonacossa, sostenevano che l'inferiorità derivava dall'impossibilità di essere soltanto dilettanti e di lasciare una squadra di atletica con tante specialità differenti in mano a un unico allenatore. Bonacossa parlò chiaro anche se in pochi, in quei giorni, seppero ascoltare e capire: "La loro [si riferiva agli scandinavi, agli statunitensi] non è superiorità di razza, sono più forti perché vivono una vita migliore, si alimentano meglio dei nostri atleti, ma soprattutto hanno compreso prima degli altri che servono allenatori specialisti per le varie gare dell'atletica". Verità assoluta, ma per avere tecnici per i corridori, i saltatori, i lanciatori, occorrevano mezzi economici ed era necessario avere più ore di allenamento a disposizione e si sfiorava così il terreno minato del dilettantismo

A proposito del dilettantismo, già nei primi decenni del 20° secolo vi era una significativa contrapposizione fra l'Europa, in cui gli atleti, almeno ufficialmente, dovevano provvedere in proprio alla loro preparazione, e l'America, dove erano le università, attraverso borse di studio, a mantenere i migliori giovani che si dedicavano all'attività sportiva, solo però nel periodo degli studi, perché alla fine del quadriennio dovevano uscire dalla scena e dedicarsi ad altro. Tutti conoscono la storia di James Cleveland 'Jesse' Owens, che fra il 2 e il 9 agosto 1936 vinse ai Giochi di Berlino 100 m, 200 m, salto in lungo e staffetta. Owens non completò mai gli studi all'Università dell'Ohio. Tentò fino al 1940, ma poi dovette lasciare e per vivere dovette accontentarsi di quello che poteva dargli la fama al di fuori delle piste di atletica: corse contro le motociclette, sfide contro i cavalli, senza peraltro arricchirsi, perché oltre a non essere abile negli affari, riceveva ben poco.

Un'altra squalifica clamorosa fu quella del finlandese Paavo Johannes Nurmi, un campione che suscitò l'entusiasmo della folla e, per sua fortuna, non fu mai abbandonato dal suo paese. Fra il 1920 e il 1928 il suo bilancio olimpico fu di 9 medaglie d'oro e 3 d'argento. Aveva vinto tutto quello che era possibile nelle corse di lunga lena, nei 5 e 10 km, nelle gare a staffetta, nelle prove campestri, ma gli mancava l'oro nella maratona che sognava e voleva aggiungere ai suoi trionfi. Alla vigilia della gara di Los Angeles del 7 agosto 1932, poi vinta dal ventenne argentino Juan Carlos Zabala, chi lo aveva accusato più volte di professionismo esibì le ricevute di certi pagamenti che gli erano stati erogati. L'atleta si difese spiegando che erano soltanto rimborsi spese, ma non fu creduto. La Commissione d'inchiesta gli rinfacciò le grandi riunioni a cui aveva partecipato soprattutto negli Stati Uniti, per esempio nel 1925, quando in cinque mesi aveva preso parte a 45 gare al coperto e a 10 riunioni all'aperto. Era stata una marcia trionfale perché aveva perso soltanto due volte: la prima all'esordio contro il connazionale Ville Ritola perché la nuova alimentazione gli aveva provocato problemi di stomaco, la seconda sulle 880 yards contro Alan Hellfrich, una corsa veloce che non era nei suoi ritmi. Per quelle competizioni americane, come per tutti i suoi impegni atletici, si era affidato al manager Hugo Qvist, che forse gli aveva garantito l'immunità perché gli ingaggi andavano a lui e poi venivano smistati al campione. Nurmi si trovò squalificato, anche se giurava di non aver incassato compensi, salvo quello che serviva per vivere e viaggiare. A suo favore cercò di battersi, pur non potendo negare una certa evidenza, Uro Kekkonen, ex campione finlandese di salto in alto con un primato di 1,85 m, in quel periodo presidente della Federazione di atletica leggera, e diventato poi presidente della Repubblica. Kekkonen, contrariamente a quello che aveva fatto Brundage conThorpe, fece di tutto per andare incontro al suo campione: lo convinse ad accettare una squalifica che per i regolamenti del tempo era inevitabile, ma poi trovò una via d'uscita per consentirgli di andare avanti nell'attività sportiva inventandosi la categoria del 'dilettante nazionale', che gli permise di partecipare a tutte le gare che la Finlandia organizzava per i suoi corridori, così come per gli sciatori di fondo. Nurmi continuò a essere celebrato come il più grande atleta finlandese. Una statua, scolpita dallo scultore Waino Altonen e posta davanti allo stadio di Helsinki ricorda il suo stile di corsa. Inoltre nel 1952, all'inaugurazione dei Giochi di Helsinki fu lui, insieme a Hannes Kolehmainen, ad accendere la fiaccola olimpica. Quando morì, il 2 ottobre 1973, la Finlandia organizzò funerali di Stato e la sua bara fu avvolta nella bandiera della nazione. Certo meritava questi onori, di sicuro aveva un senso dello sport che fa pensare a tutto meno che alla volontà di barare sulle regole. Il 17 agosto 1920, dopo la finale dei 5000 m ai Giochi di Anversa, che chiuse al secondo posto dietro al francese Joseph Guillemot, disse: "Trovo odioso l'atleta che cerca scuse per una sconfitta, così come odiosa è l'espressione 'vincitore morale' con cui si giustifica un battuto. Nello sport conta soltanto il risultato". Non era un discorso da dilettante, ma neppure la dichiarazione di un atleta che aveva bisogno di sotterfugi.

Nurmi fu fortunato ad avere alle spalle un paese a sostenerlo, meno fortunati altri che si trovarono coinvolti nella bufera delle squalifiche al momento del massimo successo. Fra questi vi fu il francese Jules Ladoumègue, corridore nato a Bordeaux nel 1906 messosi in luce a 21 anni con un secondo posto nei 1500 m all'Olimpiade di Amsterdam. A Los Angeles quattro anni dopo era pronto alla grande prova sui 1500 m, poi vinta dall'italiano Beccali. Ma non poté partecipare. La sua Federazione di atletica lo aveva accusato di professionismo per i rimborsi spese incassati nelle gare che aveva fatto in Scandinavia dove gli atleti erano sempre ben ricompensati.

Le ultime ipocrisie

In questo clima di battaglie più o meno corrette si è sviluppato il Movimento Olimpico. Ma tutti, con il passare del tempo, si rendevano conto che senza premi importanti, senza rimborsi che andassero ben oltre le semplici spese, non sarebbe mai stato possibile dare alle Olimpiadi quello che il pubblico cercava e soprattutto quello che gli sponsor e le televisioni pretendevano: prestazioni al massimo. Negli Stati Uniti, si è già detto, a lungo è stato il mondo delle università a permettere l'attività atletica a talenti straordinari sui campi, anche se spesso del tutto privi di interessi culturali. In Europa occidentale i Comitati olimpici nazionali trovarono il modo di eludere certi controlli, intervenendo con stipendi veri, anche se camuffati. Erano sotterfugi che conoscevano tutti, ma che non portavano quasi più alle squalifiche e alla confisca delle medaglie. Dopo aver accusato i paesi dell'Est di aggirare le regole, poiché provvedevano agli atleti tramite l'inserimento nelle organizzazioni militari, assicurando stipendi e tempo pieno da dedicare allo sport, le organizzazioni sportive occidentali passarono così al contrattacco e riuscirono a rimettersi al passo.

Nell'atletica il moltiplicarsi delle gare e dei grandi impegni fece sì che non vi potessero essere prestazioni elevate senza una pratica costante e un'assistenza tecnica e medica di massimo livello. Quando ancora imperava il dilettantismo, ebbero una nuova stagione fortunata, soprattutto per gli Stati Uniti, i circuiti professionistici spariti nel 1920, come l'ITA, organizzato da Mike O'Hara negli anni Settanta. O'Hara pensava che la prestazione fosse possibile a comando, alzando il prezzo delle vittorie e dei primati, ma nella sostanza tutti si rendevano conto che non aveva senso qualificare come professionisti quelli che avevano firmato con l'agente americano e considerare veramente dilettanti tutti gli altri. Era risaputo che per allestire grandi riunioni si offrivano somme milionarie sottobanco ai protagonisti più attesi. Era ormai un finto dilettantismo.

L'ultimo 'sacrificio' prima della dichiarazione di libera partecipazione anche ai professionisti del 1988, fu quello di un atleta francese, l'ostacolista Guy Drut, bravo anche nel salto in lungo e nel salto con l'asta, che l'Italia conosceva bene perché era venuto spesso a 'studiare' la tecnica a Brescia nel centro di allenamento di Sandro Calvesi. Drut godeva, come tanti, dei premi che venivano dati ai campioni dello sport. Nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco di Baviera arrivò secondo, a 10 centesimi da Rod Milburn, che si era poi risolto a passare al professionismo alla luce del sole, nel gruppo di O'Hara. Drut ottenne la sua medaglia d'oro il 28 luglio 1976 a Montreal, con un tempo inferiore di 4 centesimi a quello del 1972 e lasciando a un metro il cubano Alejandro Casanas. In un mondo sportivo che faceva una grande fatica ad ammettere la verità, cioè ad accettare almeno il semiprofessionismo, Drut, che in seguito diventò ministro della Gioventù della Repubblica francese, fu il più coraggioso perché dopo la vittoria di Montreal decise di parlare chiaro al mondo: "Lascio lo sport, l'atletica, perché non me la sento più di vivere in un mondo dove l'ipocrisia è di norma. Il dilettantismo esiste ormai nelle parole e nei giuramenti. La verità è che nella grande atletica si va avanti a gettoni di presenza da 700 a 3000 dollari. Ho preso spesso questi compensi, ma ora ho deciso che bisogna smettere". La dichiarazione fece saltare il coperchio, la Federazione mondiale di atletica che pure era in grande evoluzione decise di squalificarlo, limitando, però, il provvedimento agli anni dopo il 1977, senza confiscare la medaglia d'oro e senza toglierlo dalle classifiche delle gare canadesi.

CATEGORIE