Tempo

Enciclopedia Dantesca (1970)

tempo

Cesare Vasoli

D. usa questo termine in molte occorrenze e diversi sensi, alcuni dei quali propri del linguaggio comune e privi d'intenzioni filosofiche e dottrinali. Ma propone anche una definizione specificamente filosofica del t. e torna su questo concetto in passi e contesti di evidente valore speculativo. In Cv IV II 6 leggiamo infatti: Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è " numero di movimento, secondo prima e poi "; e " numero di movimento celestiale ", lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione; ed è quindi esplicito il riferimento alla dottrina del t. esposta da Aristotele nella Fisica (IV 10-14, 218a ss.) che nel testo latino reca, tra le altre, questa precisa definizione: " hoc est enim tempus, numerus motus secundum prius et posterius ". Secondo Aristotele, infatti, il t. è un fatto la cui esistenza è certamente oscura e ‛ appena riscontrabile ', giacché " temporis... aliae [partes] factae, aliae vero futurae sunt: est autem nihil cum sit divisibile ". Né egli ritiene che le soluzioni già prospettate da altri filosofi, tra i quali, evidentemente, Platone e i pitagorici, indichino chiaramente che sia il t. e quale la sua natura. Perciò scarta l'opinione di chi (come Platone, nel Timeo 39 C-D) ritiene che esso sia il ‛ movimento dell'universo ', o di coloro che sostengono la sua identità con la stessa sfera del mondo; e invece insiste sul carattere di ‛ movimento ' e di ‛ cangiamento ' che sembra proprio del t., sottolineando però che, a differenza dei singoli ‛ movimenti ' o ‛ mutamenti ' inerenti a cose particolari, il t. " similiter et ubique et apud omnia est " e, inoltre, che, mentre ogni ‛ mutamento ' è più o meno veloce, il t., invece, " non determinatur tempore, neque quo quantum aliquid est, neque quo quale ", cioè non è determinato dal t. stesso né nella sua essenza quantitativa né in quella qualitativa.

Resta così dimostrato che il t. non s'identifica col ‛ movimento ' o ‛ cangiamento '; e, tuttavia, è altrettanto evidente che la sua esistenza non sarebbe possibile senza quella del ‛ cangiamento ', giacché se l'istante non fosse diverso, ma sempre uno e medesimo, non vi sarebbe t. " si non esset alterum nunc, sed idem et unum, non esset tempus "). Sicché gli sembra possibile concludere che il t. è piuttosto una ‛ proprietà del movimento ', legata al fatto che in ogni movimento c'è un prima e un poi, proporzionati con la grandezza del moto stesso. Secondo Aristotele, una volta che si è determinato il movimento secondo la distinzione del prima e del poi, noi conosciamo anche il t. e possiamo pure dire che esso compie il suo percorso, quando abbiamo percezione del prima e del poi del movimento (" tunc dicimus fieri tempus, quando prioris et posterioris in motu sensum percipimus "). E da ciò deriva appunto la definizione che abbiamo già citata sulla quale il filosofo si sofferma per precisare, ancora, che il t. " non... motus... est, sed secundum quod numerum habet motus ", cioè il t. non è movimento, se non in quanto il movimento ha un numero. Naturalmente, come il movimento è sempre diverso, così lo è pure il t. che - afferma Aristotele - è identico simultaneamente, in ogni luogo, ma come anteriore e posteriore non è identico (" et idem autem ubique simul. Prius autem et posterius non idem "). Esso, inoltre, " numerus est, non quo numeramus, sed quod numeratur ", sicché " huic... accidit prius et posterius semper esse alterum: ipsa enim nunc semper altera ". E se poi si considera che " non solum... motus tempore metitur, sed motu tempus, propterea quod definiuntur ad invicem ", si dovrà concludere che tale è il t. se tale è il movimento, e tale il movimento se tale il t. (" sic igitur et tempus si motus, et motus si tempus ").

Le conseguenze che Aristotele trae da questi principi sono poi esposte con molta chiarezza: in primo luogo, ‛ essere nel t. ' significa, per tutte le cose, che la loro essenza è misurata dal t.; in secondo luogo, esse sono ‛ nel t. ' allo stesso modo che sono nel numero l'unità, il dispari e il pari, e così come le cose che sono in un luogo sono contenute dal luogo stesso; ma poiché " res... sicut in numero in tempore sunt ", si dovrà pure ammettere un t. più grande di tutto ciò che è nel t. (" maius tempus omni eo quod est in tempore ") e riconoscere, d'altra parte, che tutte le cose contenute nel t. subiscano anche qualche ‛ affezione ' da parte sua e siano, cioè, sottoposte a mutazione o, addirittura, a ‛ corruzione '. Ciò significa che tutte le cose suscettibili di generazione e di corruzione sono nel t.; laddove, invece, restano al di fuori di esso ‛ tutte le cose che sono sempre ' e la cui essenza, ‛ non misurata dal t. ', non è suscettibile di mutamento. Ma, soprattutto, è implicito in quest'analisi che il t. costituisce la misura universale del movimento e della quiete di tutte le cose soggette a mutamento; e, in questo senso, misura per eccellenza è la ‛ conversione circolare uniforme ' il cui numero è più noto di tutti gli altri e ne costituisce, per così dire, la pietra di paragone. Perciò Aristotele può ancora compiere un'ulteriore deduzione, sino a dichiarare che il t. pare sia " sphaerae motus, quia hoc mensurantur alii motus, et tempus hoc motus ". Appunto per questo, il t. " videtur circulus quidam ", e le vicende di tutte le cose, soggette al movimento naturale e al nascere e al perire, sembrano sempre procedere lungo un unico processo circolare, ove la fine e il principio eternamente coincidono.

Basta questa breve esposizione delle dottrine cui D. si riferisce per intendere che esse dovettero suscitare approfondite e minuziose discussioni da parte dei filosofi cristiani, soprattutto colpiti dalla conclusione aristotelica che afferma la necessità di un t. eterno, continuamente ricorrente nella sua circolarità, al di fuori di ogni ‛ inizio ' e di ogni ‛ fine '. Già Agostino (Conf. XI X 31) si contrappone chiaramente a una tale concezione, quando afferma che il t. è soltanto una " distensio animae ", la tensione attuale dell'anima per la quale passa il futuro per precipitarsi nel passato. E poiché il carattere proprio del t. è la sua impossibilità di sussistere senza una cangiante mobilità, è chiaro che esso non potrebbe essere ove non esistessero le cose mutevoli, ‛ creature ' continuamente soggette al passaggio da uno stato che ‛ precede ' a uno che ‛ segue '. In questo senso la creazione divina di una realtà limitata, molteplice e mutevole segna, insieme, il principio del mondo e il principio del tempo. Il mondo - afferma Agostino - non è stato creato ‛ nel ' t., ma ‛ col ' t.; è ‛ sempre ' stato solo perché non vi è mai stato un t. in cui esso non fosse. Ma non per questo il mondo è eterno e il t. è senza principio e senza fine; giacché l'eternità non ammette mutamento o successione ed è, perciò, la negazione del t.; è l'‛ esser tutto presente ', un presente assolutamente fermo. L'eternità è dunque Dio stesso; immutabile e increato egli agisce in un solo, identico atto: ha creato il t. ed è quindi fuori del tempo.

Non è naturalmente possibile seguire qui gli sviluppi della meditazione agostiniana sul t. nella cultura altomedievale, soprattutto affidati all'elaborazione teologica del dogma della creazione; né si può insistere sull'analisi del rapporto t.-eternità svolta da Boezio in un celebre e fortunato testo del De Consolatione philosophiae (V VI 8). Occorre però ricordare che con la rinnovata diffusione dei testi aristotelici e dei commenti arabi la discussione sulla natura e il significato del t., sul suo rapporto con l'eternità divina e, soprattutto, con l'idea stessa della creazione divenne estremamente attuale. Soprattutto il commento averroistico alla Physica (Comm. Phys. IV, s. 3 c. 7, in partic. comm. 124 ss.), riproponendo nettamente il tema dell'eternità del mondo e della ‛ circolarità ' del t., suscitò la reazione dei filosofi-teologi occidentali. Così Bonaventura da Bagnoregio, specialmente nelle Collationes in Hexaemeron, si richiamò alla problematica agostiniana del t. per ribadire la sua intransigente dottrina creazionistica; mentre i maestri domenicani, ben più sensibili all'influenza dominante dei temi aristotelici, ripresero dalla Physica la concezione del t. come misura del movimento e della quiete delle cose ‛ rispetto al prima e al poi ', pur mirando a escludere le conseguenze teologiche della dottrina peripatetica. Alberto Magno (Comm. Physic. IV III 5 ss.) rilevò infatti i precisi limiti ‛ fisici ' e ‛ filosofici ' della concezione del t.; poi Tommaso d'Aquino (Exp. Phys. IV lect. XVII ss.; ma cfr. anche Sum. theol. I 10 1 ss., e l'opuscolo De Tempore attribuito) propose una soluzione ancora più ardita. Egli affermò infatti che nessun argomento razionale è sufficiente a escludere l'ipotesi che il t. sia coeterno a Dio; e sebbene dichiarasse che la tesi della creazione del t. insieme al mondo era del tutto legittima anche dal punto di vista della ragione, ritenne però che la si potesse accettare come l'unica vera solo per l'autorità della rivelazione. Certo, anche ammettendo che il mondo non abbia avuto principio nel t., non per questo lo si può considerare propriamente eterno; giacché l'eternità, " tota simul " appartiene soltanto a Dio. Il t., invece, è successione, è misura del moto, così come il mondo è un succedersi di eventi diversi, di cose in moto e mutevoli. Ma ciò, in pura linea logica, non esclude che il t. e il movimento siano infiniti, almeno nel senso che non abbiano un ‛ principio '. Tommaso (che, più volte, tornò su questo tema, anche per rispondere agli attacchi dei " murmurantes " che condannavano il suo atteggiamento) si sforzò, per questa via, di chiarire la stessa intelligibilità dell'infinito riferito alla struttura razionale del tempo. E affermò che se è possibile misurare la durata di un movimento che ha principio e fine nel t., non può, invece, essere misurato il moto dell'universo, perché è sempre lecito pensare un istante precedente a quello stabilito come suo punto d'inizio. In modo del tutto opposto a Bonaventura (che aveva ritenuto d'individuare una contraddizione assoluta nel concetto di un'infinità di secoli e giorni che così potrebbe indefinitamente accrescersi), egli concluse che, in sede logica, si deve assolutamente escludere che l'infinito abbia un principio e che, pertanto, si può pensare il t. escludendo che esso abbia un ‛ punto ' o un ‛ inizio ' primo, perché l'infinito non può esser soggetto a un simile procedimento di numerazione e di misura.

La presenza di questi diversi e, addirittura, contrastanti orientamenti nella cultura filosofico-teologica della sua età può quindi giovare a chiarire il significato degli accenni dottrinali intorno al tema del t. che ricorrono, frequenti, nell'opera di Dante. Già si è visto come nel Convivio egli riferisca una tipica definizione aristotelica, specificando, in sostanziale accordo con le dottrine peripatetiche, che il t. è numero di movimento celestiale, ossia del moto del Primo Mobile dal quale (com'è detto in Cv II XIV 15-18, dove si presentano tre occorrenze) dipende anche il movimento del sole nell'eclittica, causa, a sua volta, delle stagioni e delle mutazioni diurne. E, appunto in questo senso, in Pd XXVII 106 ss. D. afferma che il t. ha le sue ‛ radici ' nel Primo Mobile, concludendo con i versi: e come il tempo legna in cotal testo / le sue radici e ne li altri le fronde, / mai a te può esser manifesto (v. 118). Non solo: talora si allude al t. come al principio che conduce con sé tutti gli eventi mondani, recandoli a compimento (così in If X 98 El par che voi veggiate, se ben odo, / dinanzi quel che 'l tempo seco adduce; ma è tema ricorrente in D.: cfr. Pg XX 70 Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi, / che tragge un altro Carlo fuor di Francia, / per far conoscer meglio e sé e ' suoi; ancora, If I 56 'l tempo che perder lo face, fa perder all'avaro ciò che ha accumulato; Pd XVII 107 Ben veggio, padre mio, sì come sprona / lo tempo verso me, per colpo darmi; Rime LXVII 9 per conducermi al tempo che mi sface); mentre in Pd X 30 la misura del t. è indicata nel moto del sole, lo ministro maggior de la natura, / che del valor del ciel lo mondo imprenta, / e col suo lume il tempo ne misura. Sicché, nel suo particolare e diretto nesso con i moti celesti e i processi che da questi traggono origine e influenza, il t. dispone, come si è già visto, le singole cose a ricevere diversamente la ‛ virtù informante ' posta da Dio nel sole e negli astri. Difatti, poiché il t. dell'anno è misurato dal corso del sole, esso si divide, secondo il muoversi dello stesso astro attraverso lo zodiaco, nelle quattro stagioni, conformemente all'avvicinarsi o all'allontanarsi del sole dalla linea equinoziale. E da ciò deriva la diversa misura del t. dell'influsso solare luminoso e caldo nella generazione e corruzione delle cose materiali, vegetali e animali e, quindi, - come scrive D. - il disporre le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione dalla ‛ virtù ' del sole e delle altre stelle che, col loro moto e la loro influenza, tirano l'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenzïata (Pd VII 139-141). Ecco perché altrimenti è disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé la informazione de l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra; e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti è disposto un tempo e altrimenti un altro (Cv IV II 7). Considerazione, quest'ultima, che induce D. a sottolineare che per tutte le operazioni umane si deve attendere il t. opportuno (cfr. II 5, due volte, e la naturale disposizione del tempo di IX 12; v. OPERAZIONE), giacché tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo. E ciò è altrettanto vero anche nel caso dell'uso del discorso e delle parole che sono quasi seme d'operazione e, pertanto, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, [sì] perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì perché da la loro parte non sia difetto di sterilitade (Cv IV II 10). All'idea, centrale nel pensiero di D., della ‛ disposizione ' delle cose di quaggiù ad opera dei cieli si richiama Pg XXXIII 41 (io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque, / secure d'ogn'intoppo e d'ogne sbarro), dove t. è la ‛ congiuntura ' data da stelle propinque; ancora, in Pd XVII 45 (da Dio mi viene / a vista il tempo che ti s'apparecchia), Cacciaguida scorge in Dio, causa prima, il ‛ futuro ' del suo discendente, che sarà attuato tramite le cause seconde, i cieli (e così il t. futuro di Pg XXIII 98). L'opportunità di attendere, o cogliere, il t. opportuno, poi, è ribadita in Cv II I 1(lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto); è sottolineata dalla locuzione aspettare tempo di IV II 9 (e Pd XX 81), e da If XXII 121 (Lo Navarrese ben suo tempo colse), Rime CII 52 (entrale in core omai, ché ben n'è tempo), Pg XII 78. In Cv III XIII 11, per contro, si afferma che l'amore, ‛ forma ' di Filosofia, manifesto è nel viso de la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose che li altri fanno loro signori, dove pare di dover scorgere l'idea che la bellezza della Sapienza dà gaudio non solo nelle condizioni o ‛ congiunture ' favorevoli, ma anche in quelle sfavorevoli, trascendendole tutte e valendo, nella sua assolutezza, per ‛ sempre ' (cfr. in ciascun tempo di Rime dubbie XVI 4-5).

Si tratta, indubbiamente, di concezioni molto correnti nella cultura filosofica scolastica dell'età di D., legate alla precisa conoscenza di testi aristotelici, a letture che non occorre, specialmente in questo contesto, ricondurre sempre e necessariamente nell'ambito obbligato dei testi tomisti. Tanto più che mancano, almeno nelle pagine del Convivio che abbiamo ricordato, elementi atti a individuare una posizione particolare e specifica, distinta da quella assunta molto spesso da altri maestri aristotelici, strettamente fedeli alla " littera Philosophi ". Ma le indicazioni fornite dai testi sin qui esaminati debbono essere integrate da altre indicazioni, offerte soprattutto dalla Commedia e che permettono di chiarire l'atteggiamento dantesco nei confronti del rapporto fra t., creazione ed eternità.

Già infatti nello stesso Convivio l'etternità è carattere unico e proprio di Dio, anzi è la misura dell'essenza di Dio contrapposta alla mutabilità delle cose esistenti nel t. (e cfr. Cv III XIV 7 e, per l'inconoscibilità di tale carattere che è una delle cose che soverchian lo nostro intelletto, III XV 6): ma in Pd XXIX 16 l'espressione in sua etternità di tempo foce indica l'‛ ubi ' e il ‛ quando ' della creazione delle Intelligenze; creazione - specifica D. - compiuta in un'eternità non solo assolutamente fuori del t., ma, a maggior ragione, fuor d'ogne altro comprender (v. 17). Del resto, pochi versi dopo, il concetto è ancor meglio precisato con l'esclusione di ogni ‛ prima ' e ‛ poi ' avanti all'atto creatore di Dio: né prima quasi torpente si giacque; / ché né prima né poscia procedette / lo discorrer di Dio sovra quest'acque (vv. 19-21); e se in XVII 18 si fa riferimento a Dio come al punto / a cui tutti li tempi son presenti (v. QUANDO), in XXXI 38 è dato forte risalto alla contrapposizione tra eternità e t.: ïo, che al divino da l'umano, / a l'etterno dal tempo era venuto... Tuttavia il senso della radicale incommensurabilità tra queste due dimensioni dell'essere è forse espresso nel modo più eloquente in Pg XI 103-108, ove D. dice: Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il ‛ pappo ' e 'l ‛ dindi ', / pria che passin mill'anni? ch'è più corto / spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto, affermando così che, di fronte all'eternità, mille anni di t. sono meno di un batter di ciglio rispetto alla più lenta delle rivoluzioni celesti, quella del cielo Stellato svolgentesi (cfr. Cv II XIV 11) con movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in cento anni (ossia, in tutto, 36000 anni).

Come si vede D., nonostante la sua ispirazione aristotelica, è ben fermo nel ribadire un principio sempre difeso dalla scolastica ortodossa e che, del resto, sembra in questo caso saldamente fondato sulla nozione boeziana di " aeternitas ". Ma il poeta non è meno certo che il t. deve avere una fine come ha avuto un principio e che esso dovrà terminare con il concludersi della vicenda mondana; e infatti scrive: Però comprender puoi che tutta morta / fia nostra conoscenza da quel punto / che del futuro fia chiusa la porta (If X 106-108). Infine, anche l'espressione quell'aura sanza tempo tinta (III 29) sembra voler ribadire, con la sua netta negazione, l'assoluta opposizione tra t. ed eternità, tra l'ordine delle vicende terrene, misurate dal fluire delle ore, dei giorni e degli anni e dal mutare delle stagioni, e lo stato immutabile della realtà oltremondana. Le stesse idee sono presenti in Rime CII: Vertù che se' prima che tempo (v. 49) è la divinità d'Amore, della quale non è misura il t., perché essa lo trascende come l'increato trascende il creato, mentre dopo il tempo (v. 58) si colloca il giudizio universale. Si veda ancora Pg XVI 27: D. appare alle anime come se ‛ partisse ' ancor lo tempo per calendi, attraversa cioè l'oltretomba da vivo, soggetto ancora alla scansione del t. in giorni e mesi che nell'al di là non ha più valore (ma per la ‛ durata ' delle pene del Purgatorio, v. oltre).

Oltre a questi contesti specifici di evidente carattere dottrinale, le riflessioni di D. sul t. toccano tuttavia anche altri temi di contenuto etico e di ammaestramento pratico. Così, in Cv IV XIV-XV, nel corso della discussione sulla natura e carattere della nobilitade, non solo è scritto ch'è impossibile per processo di tempo venire a la generazione di nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo mai possa esser gentile per opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione di villano padre in gentile figlio (XIV 3; un'altra occorrenza allo stesso paragrafo; cfr. anche § 1, e X 2, due volte), ma il poeta dichiara non potersi mai stabilire il momento o punto in cui nobilitade per processo di tempo si cominci (XIV 4). E, ancora, nel capitolo successivo, dopo aver dimostrato tempo non richiedersi a nobilitate (XV 1; cfr. Cv IV Le dolci rime 67), D. svolge e approfondisce questo concetto, richiamandosi alla comune, unica origine del genere umano, generato da Adamo, e spostando la controversia sul terreno di un'altra complessa disputa filosofico-teologica. Contro la nobiltà di sangue il poeta si pronunzia anche in Pd XVI 9: essa è come mantello che il t. accorcia se non si alimenta di merito e valore personali.

Più spiccioli e comuni sono, invece, i diversi richiami danteschi all'uso del t. e al ‛ governo ' che occorre fare, in ogni occasione, della sua durata (cfr. Pg XVII 88-90; XXIII 5 lo più che padre mi dicea: " Figliuole, / vienne oramai, ché il tempo che n'è imposto / più utilmente compartir si vuole "; e ancora XII 86 Io era ben del suo ammonir uso / pur di non perder tempo; XVIII 103 Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda / per poco amor; XXIV 91, If XI 14, Rime dubbie V 12), o l'avvertimento che occorre aver maggior cura del t. quanto più è difficile il lavoro che si deve compiere (Pg III 78 ché perder tempo a chi più sa più spiace), o la constatazione del suo inesorabile trascorrere (If XXIX 11 lo tempo è poco omai che n'è concesso; Pd XXXII 139 'l tempo fugge che t'assonna; e cfr. XXIX 129, If XV 105). Né manca l'osservazione sul passare rapido e inavvertito del t., quando l'anima è attratta e assorbita da qualcosa che essa vede o ascolta (E però, quando s'ode cosa o vede / che tenga forte a sé l'anima volta, / vassene il tempo, e l'uom non se n'avvede; / ch'altra potenza è quella che l'ascolta, / e altra è quella c'ha l'anima intera: / questa è quasi legata, e quella è sciolta, Pg IV 9); osservazione direttamente connessa alla riprovazione dantesca dell'error che crede / ch'un'anima sovr'altra in noi s'accenda (v. 6).

Alle considerazioni di D. sul t. si possono poi riconnettere anche i capp. XXIII e XXIV del IV trattato del Convivio dedicati a distinguere - sulla linea di dottrine aristoteliche, ma anche di particolari discussioni di fisici e di medici - le età della vita media normale e il suo ‛ arco ' che, secondo Aristotele, è misurato, come quello degli altri esseri terreni, da qualcuno dei movimenti periodici planetari in rapporto con i segni zodiacali (e cfr. Aristotele Gen. et corrupt. II 10, 336 b 10-15; tt. cc. 57). In questo contesto D. fissa la lunghezza delle varie età per gli ‛ ottimamente naturati ': della gioventù diversamente è preso lo tempo da molti (XXIV 3); lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede a la Gioventute (§ 4); questo tempo si chiama senio, e sono i dieci anni che seguono alla senettute (§ 5); ma enuncia il principio generale, per cui la lunghezza delle varie età dipende dalla complessione umana, e quindi è proporzionale a la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita (§ 7); i comportamenti e i costumi, che conseguono alla diversa disposizione della complessione nelle varie età, sono ‛ usati ' dall'anima nobile ne li... tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati (§ 8). In Pd XV 104 ('l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura) il termine designa l' " età " del matrimonio. In altri contesti, t. sta a designare la vita umana nel suo complesso, la durata di essa assegnata a ciascuno; così in Cv I III 4 il poeta esprime il desiderio di terminare in Firenze lo tempo che m'è dato; If XXXI 129 el vive, e lunga vita ancora aspetta / se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama, se Dio non lo chiama a sé prima del termine fissato alla sua vita; XXXIII 132 mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto; cfr. Pd XXIV 6 prima che morte tempo li prescriba (per Rime CII, v. oltre).

Alla dottrina del t. sono però naturalmente legate anche molte altre pagine ‛ scientifiche ' dell'opera dantesca, tra quelle che hanno un diretto riferimento a questioni astronomiche o cosmologiche. Rinviando i lettori alle singole voci (e in partic., v. PRIMO MOBILE) che trattano simili argomenti, non si può però qui tacere quanto D. scrive a proposito del cielo Cristallino o Primo Mobile (nel quale, come si è visto, il t. ha le sue ‛ radici '), quando enumera le conseguenze di un'ipotetica soppressione della sua rivoluzione diurna. Com'è detto in Cv II XIV 17, in questo caso non sarebbe qua giù generazione né vita d'animale o di piante: notte non sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma tutto l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li astri sarebbe indarno, perché, mancando il primo effetto del moto diurno del Primo Mobile, che è il moto diurno dei cieli sottostanti, cesserebbe la permanenza dell'ordine cosmico prodotto dal moto diurno di questi cieli; e gli altri movimenti propri di essi sarebbero inutili, giacché verrebbe a mancare la condizione indispensabile per l'alterno generarsi e corrompersi di tutte le cose e, quindi, il mutamento che è misurato dal tempo.

Per quanto riguarda il movimento dei cieli in generale, D. osserva che ciascuno di essi ha un cerchio, l'equatore (v.), la cui velocità è massima per rapporto alle altre parti del cielo stesso, mentre ogni parte si muove con maggiore o minore velocità a seconda che sia prossima all'equatore o ai poli celesti; se è vicina ai poli, la sua revoluzione è minore, e conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore (Cv II III 14), cioè con quella delle parti prossime all'equatore; in breve, le ' parti ' di ciascun cielo si comportano come quelle di una ruota, sicché spazi diversi sono percorsi in t. uguali. Cfr. ancora II XIII 28-29 E lo cielo di Saturno hae due proprietadi per le quali si può comparare a l'Astrologia: l'una si è la tardezza del suo movimento per li dodici segni [dello zodiaco], ché ventinove anni e più... vuole di tempo lo suo cerchio... E queste due proprietadi sono ne l'Astrologia: ché nel suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di quella, volge grandissimo spazio di tempo (uso analogo a quello del § 28 si ha in II II 3 non subitamente nasce amore e falsi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri); III V 21 per lo divino provedimento lo mondo è si ordinato che, volta la spera del sole e tornata a un punto, questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre, e 17 questi luoghi [i poli terrestri] hanno un di l'anno di sei mesi; e una notte d'altrettanto tempo.

In Vn III 11 6 (Già eran quasi che atterzate l'ore / del tempo che onne stella n'è lucente) e in If I 37 (Temp'era dal principio del mattino) e 43 (a bene sperar m'era cagione / di quella fera a la gaetta pelle / l'ora del tempo e la dolce stagione) il poeta fornisce una precisa indicazione relativa a un momento della giornata: nel primo caso, si afferma che sono quasi passate le prime tre ore della notte (v. ATTERZARE); nel secondo, si allude alla prima ora del mattino; in Pg VIII 49 Temp'era già che l'aere s'annerava, si tratta del momento del tramonto. In Pd XXIII 7 l'augello in attesa del sole previene il tempo, cioè il corso del sole che scandisce il giorno e le qualità temporali di esso. In Cv II II 1 Venere appare serotina e matutina, secondo diversi tempi, in " ore " diverse; in III XIII 5 distinzione di tempo designa ‛ momenti ' e ‛ modi di essere ' diversi della Sapienza umana, la quale talora è attuale, talaltra abituale.

In coordinazione con il termine ‛ luogo ', t. indica una precisa serie di circostanze nelle quali cade un evento, e importa la connotazione dell'opportunità o convenienza di esso. Così in III III 6 [l'uomo] Per la natura seconda, del corpo misto, ama lo luogo de la sua generazione, e ancora lo tempo; e però ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo ne lo luogo dove è generato e nel tempo de la sua generazione che in altro (v. GENERAZIONE); If III 104 Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme / di lor semenza e di lor nascimenti; Cv IV XXVII 12 la larghezza vuole essere a luogo e a tempo (v. LARGHEZZA); II I 15 de li altri sensi [delle Scritture] toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà; e ancora If XXVI 77 e XXXIV 71, Rime CII 47 (chiamo di notte e di luce, / solo per lei servire, e luogo e tempo!, giorno e notte non cerco altro che ‛ possibilità ' e ‛ occasione ' di servirla).

Con valore analogo, e con precisa connotazione della ‛ opportunità ' di qualcosa o di un'azione, il termine occorre nelle locuzioni: ‛ esser t. di ' (Cv I XIII 11 tempo è d'intendere a ministrare le vivande; IV Le dolci rime 9 E poi che tempo mi par d'aspettare, ripreso in II 2 e 5, due volte; XIV 2 conchiude... essere tempo d'intendere a la veritade; XV 10 tempo è d'aprire li occhi a la veritade, e ancora XXX 4, Pg XXVI 90); ‛ esser t. da ' (Cv IV II 8 E però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire... E però Salomone dice ne lo Ecclesiaste: " Tempo è da parlare e tempo è da tacere " [Eccl. 3,7 " Tempus tacendi et tempus loquendi "]; If XIV 139 è tempo da scostarsi / dal bosco); ‛ esser t. per ' (Cv III XV 20 tempo è, per più oltre procedere).

In relazione alle pene del Purgatorio, che, a differenza di quelle dell'Inferno, non durano sempre, ma hanno solo una ‛ certa durata ', il termine si trova in Pg III 139 per ognun tempo ch'elli è stato, trenta, / in sua presunzïon, trenta volte il t. trascorso da chi è scomunicato nell'ostinazione e nel rifiuto di sottomettersi all'autorità ecclesiastica; XI 131 prima che passi tempo quanto visse, tanto t. quanto ha vissuto colui che si è pentito in fin di vita (per cui cfr. IV 130-131), e XXIII 84 Io ti credea trovar la giù di sotto, / dove tempo per tempo si ristora, con riferimento al concetto fissato in IV 130 ss, e ribadito in XI 131; cfr. anche per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia di XXV 137. In If XIX 79 (Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi / e ch'i' son stato così sottosopra, / ch'el non starà piantato coi piè rossi) Niccolò III confronta il periodo di t. da lui trascorso confitto nel foro e coi piedi accesi, a quello che, nella stessa condizione, trascorrerà Bonifacio VIII.

Accompagnato da aggettivo, il termine designa un evo o età (il primo tempo umano di Pg XXII 71 è l'età dell'oro), un periodo storico, indicato con precisione (tempi cristiani di Pd X 119 sono i secoli seguiti alla venuta di Cristo; cfr. XXXII 82 poi che 'l tempo de la grazia venne), o in modo generico (tempi passati di Cv IV Le dolci rime 139, ripreso in XXVIII 11); o, ancora, ‛ eventi ' passati (If V 65 Elena vedi, per cui tanto reo / tempo si volse) o futuri (Pd XXXII 127 E quei [Giovanni evangelista] che vide tutti i tempi gravi, gli eventi che accompagneranno la fine del mondo e di cui parla l'Apocalisse), definiti per rapporto al presente tempo (la locuzione, in contesti diversi, è in Vn XXV 4 e XXVII 1, e in Cv IV III 6; si veda, più oltre, la locuzione ' in questo t. '). Cfr. Pd XVII 120 e s'io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico. Riferimenti alla memoria (v.), come possibilità di recuperare, nel presente, il passato, si hanno in Pg VI 145 Quante volte, del tempo che rimembre, / legge, moneta, officio e costume / hai tu mutato, e rinovate membre!; Pd XVI 87 ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini / ond'è la fama nel tempo nascosa; Vn XXXV 1 mi ricordava del passato tempo, e XXXIX 2 ricordandomi di lei secondo l'ordine del tempo passato; Rime L 2 La dispietata mente, che pur mira / di retro al tempo che se n'è andato; If V 122 ricordarsi del tempo felice / ne la miseria.

In tutta una serie di occorrenze, talora accompagnato da aggettivo, t. designa una ‛ stagione ' (in Rime C 31 tempo verde è la primavera, e alla stessa stagione ci si riferisce al v. 67 Canzone, or che sarà di me ne l'altro / dolce tempo novello, e in CI 10 il dolce tempo che riscalda i colli; in CII 9 per lo tempo caldo e per lo freddo vale " d'estate e d'inverno ", " sempre ": cfr. If V 41 come li storni ne portan l'ali / nel freddo tempo, nella stagione invernale; per volta di tempo di C 38 vale " per volger di stagione " [Contini]) oppure, più specificamente, una certa situazione meteorologica (cfr. Rime LII 5 sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento, dove fortuna vale " tempesta ", o " fortunale " [Foster-Boyde] e tempo rio è il t. avverso, comunque inclemente; Fiore CXIII 8 è rio / il tempo e' lor guadagni sì son frali; si ricordi il mal tempo di XXXIII 7 e il tempo fortunal di XXXV 3). Complesso è l'uso del termine in Rime CII, dove esso occorre sempre in forte evidenza, collocato in fine di verso, e con differenti valori. Oltre ai luoghi ricordati sono da considerare in particolare quelli in cui t. sta per " vita " (vv. 33 quel pensiero che m'accorcia il tempo, e 51 increscati di me, c'ho sì mal tempo: " vita infelice " secondo il Contini; Foster-Boyde rinviano a XC 50 guarda la vita mia quanto ella è dura; al v. 54 che non mi lascia aver, com'altri, tempo, t. è " vita " secondo Foster-Boyde, " tregua " secondo il Contini) o " stagione " (tale sembra essere la valenza del termine ai vv. 32 mi ghiaccia sopra il sangue d'ogne tempo, e 55 se mi giugne lo tuo forte tempo, a giudizio di Foster-Boyde, i quali ultimi rinviano a C 46 stagion forte ed acerba, mentre il Contini interpreta nel primo caso ‛ sempre ' e nel secondo ‛ aspra tempesta ').

Alcune locuzioni forniscono una precisa indicazione cronologica di contemporaneità per rapporto alla vita, o a un avvenimento vissuto, di D. stesso o di altri. Tali sono ‛ in questo t. ' (Vn VI 1 in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore; Cv III VII 17 in testimonio de la fede a coloro che in questo tempo vivono, ai t. di D.: la testimonianza è diretta ai suoi ‛ contemporanei '); ‛ in quello t. ' (Vn III 9 propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo, e Cv III XI 3; cfr. Vn XL 1 in quello tempo che, " allorquando ", " quando "); ‛ a quel t. ' (Pg XI 114 superba / fu a quel tempo sì com'ora è putta, e Pd XVI 46; cfr. Cv IV XXIV 2 [l'Adolescenza] dura in fino al venticinquesimo anno; e però che in fino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere, " fino ad allora ", all'età indicata); ‛ al t. (o nel) t. di ' (Cv IV V 10, If I 72 vissi a Roma sotto 'l buono Augusto / nel tempo de li dèi falsi e bugiardi, e V 118 al tempo d'i dolci sospiri, / a che e come concedette amore...?; lo stesso si dica dei luoghi di Vn II 2 Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato, ecc., cioè durante il t. vissuto da Beatrice, e Cv I XI 14 al suo tempo, al t. di Cicerone, quando egli viveva).

Altre indicazioni relative alla cronologia di avvenimenti narrati sono introdotte dalle locuzioni: ‛ nel t. che ' (Cv III XI 3 anticamente in Italia... nel tempo quasi che Numa Pompilio...; If XXVI 26, XXX 1 Nel tempo che Iunone era crucciata; Pg XXI 82 Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto / del sommo rege, vendicò le fóra / ond'uscì 'l sangue per Giuda venduto; XXVIII 50 Tu mi fai rimembrar dove e qual era / Proserpina nel tempo che perdette / la madre lei, ed ella primavera); ‛ al t. che ' (Pd VI 55 presso al tempo che tutto 'l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno). Generiche le indicazioni di Rime CIV 13 Tempo fu già nel quale, e Cv I I 10 già è più tempo.

Con riferimento alla determinazione della ‛ durata ' di un qualche avvenimento, azione o sentimento, occorrono le locuzioni: ‛ tutto t. ', " per sempre " (Pg XXXIII 37 Non sarà tutto tempo sanza reda / l'aguglia che lasciò le penne al carro); ‛ tutto mio t. ', " tutta la mia vita " (Cv I XIII 9 sono con esso volgare tutto mio tempo usato; Rime CI 35 mi torrei dormire in petra / tutto il mio tempo); ‛ gran t. ', " a lungo " (Rime CII 48 Né per altro disio viver gran tempo; If XX 60 questa gran tempo per lo mondo gio; Fiore CCXXVI 9; si notino però Vn IX 5 so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi, " non tarderà molto ", e Fiore CLVIII 4 e hatti amata di gran tempo antico); ‛ lungo t. ', " a lungo " (If VI 70 Alte terrà lungo tempo le fronti; Rime CII 17, Fiore XXI 11 e LXVI 4); ‛ tanto t. ', " così a lungo " (Vn VII 1 La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade; cotanto / tempo, in Pg XXX 35); ‛ picciol t. ' (Cv I V 9 se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore; Pg XIII 134 " Li occhi ", diss'io, " mi fieno ancor qui tolti, / ma picciol tempo, ché poca è l'offesa / fatta per esser con invidia vòlti... "; Vn XXV 4, prima occorrenza; in Rime C 39 la locuzione sta per " giovinezza ", " giovane età "); ‛ in picciol t. ' (Vn IV 1, Cv II XII 7, Pd XII 85 in picciol tempo gran dottor si feo; cfr. XVIII 65 E qual è 'l trasmutare in picciol varco / di tempo in bianca donna, quando 'l volto / suo si discarchi di vergogna il carco, e If XXVI 8 di qua da picciol tempo, " prima che sia trascorso poco t. ", " tra breve "); ‛ poco t. ' (Rime L 67, Pg XXXII 100, Pd VIII 50; si notino If XXIV 123 poco tempo è, Pg XI 140 poco tempo andrà, I 60 molto poco tempo, Vn X 1 in poco tempo, V 3 in poco di tempo, Pg XIII 24 con poco tempo); ‛ alquanto t. ' (dopo alquanto tempo, Cv II XII 2; per alquanto tempo, Vn XXXI 1 e XXXV 1); ‛ un t. ' (Fiore LV 9 dimora un tempo san parlarne); ‛ alcun t. ' (Pg XXX 121, Cv II II 3, cit.; in alcun tempo, Rime CII 2 e 66); ‛ per t. ', " troppo presto " (If XV 58 s'io non fossi sì per tempo morto) o " a t. debito " (If XXVI 10 E se già fosse, non saria per tempo; Pd II 11 Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli; X 39 È Bëatrice quella che sì scorge / di bene in meglio, sì subitamente / che l'atto suo per tempo non si sporge); ‛ a t. ', " a t. debito, opportuno " (If VII 79 che permutasse a tempo li ben vani, dove però il Buti e il Boccaccio intendono " di t. in t. "; Pd VIII 60 per suo segnore a tempo m'aspettava; Rime LXXV 12, Fiore LXXX 8); ‛ sanza t. ', " immediatamente ", in Cv III IX 9.

È termine della grammatica in Cv IV XXV 11 verbo... indicativo del tempo presente in terza persona, e della metrica in II 12, dove si definisce la rima (v.), la quale, considerata largamente, s'intende per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade, cioè ha ‛ ritmo definito ' (cfr. I X 12 la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato sono accidentali adornezze de le cose rimate, e v. M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel De Vulgari eloquentia, Firenze 1967).

In traduzione, t. occorre in Cv IV IV 11 né termine di cose né di tempo pongo, da Virgilio Aen. I 278 " His ego nec metas rerum nec tempora pono "; i [n] suo tempo (Cv IV VI 19) rende " in tempore suo " di Eccl. 10, 17; in nullo tempo... in nullo tempo (XII 6) rende " Nunquam... Neque... unquam " di Cic. Par. I I 6 (v. PARADOXA STOICORUM); di quel tempo nel quale (XV 17) rende " eius temporis, quo " di Dig. XXVIII I 3 (v. MENTE); e lo tempo da dare è, bene avventuroso e sanza escusa (XXVII 18) traduce " felix et inexcusabile tempus " di Ovidio Met. VII 511 (cfr. F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 111-113); per II 8, in traduzione da Eccl. 3,7, v. sopra. Per Cv IV V 11, v. PROCEDERE; per Pd XXVI 7, v. PREVENIRE. Il termine occorre ancora in Cv IV V 15, Rime XCI 47, 78 e 80, XCVI 12, If XV 105, Pd XVII 45.

Bibl. - E. Bernheim, Mittelalter. Zeitanschaungen, Lipsia 1918; A. Mansion, La théorie aristotelicienne du temps chez les péripatéticiens médiévaux, Averroès, Albert le Grand, Thomas d'Aquin, in " Revue Néoscolastique de Philosophie " XXXVI (1934) 275-307; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 110-138; A. Ghisalberti, La nozione del t. in S. Tommaso d'Aquino, in " Rivista di Filosofia Neoscolastica " LIX (1967) 343-371; F. Masciandaro, La problematica del tempo nella " Commedia ", Ravenna 1976.

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