Teologia

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teologia In senso largo, ogni dottrina relativa a Dio, o agli dei, o più genericamente alla religione. In senso stretto, con riferimento alla religione cristiana, la riflessione intorno al dato rivelato.

La nozione di teologia

Antichità greco-latina. Il termine ϑεολογία appare con certezza per la prima volta in Platone (Repubblica II, 379 a). Essa però non fu impiegata allora per designare la dottrina di Dio propria del filosofo. I τύποι περὶ ϑεολογίας di cui parla Platone sono i criteri secondo i quali devono essere ammesse, per l’educazione e per l’integrazione nello Stato, le «disquisizioni sugli dei», cioè i differenti miti, all’interno dei quali Platone si propone di operare una cernita. È in funzione dello stesso uso che Aristotele chiama ϑεολόγοι o ϑεολογήσαντες i poeti, autori di racconti mitici, quali Esiodo e Omero, in contrapposizione ai ‘fisici’ della Ionia i quali spiegano le cose attraverso la loro natura fisica. Peraltro, nella stessa Metafisica, Aristotele assimila la t. a ciò che egli chiama la ‘filosofia prima’, che studia l’essere in tutta la sua generalità. Questa ‘filosofia teologica’ è posta al vertice della filosofia ‘teorica’, al di sopra della fisica e della matematica.

Il cristianesimo antico. La parola t. non figura affatto nel Nuovo Testamento, nonostante l’esistenza di numerosi altri vocaboli formati con il radicale ϑεο-. Se i primi autori cristiani non fecero ricorso a questo termine, ciò fu dovuto all’uso troppo caratterizzato in ambito pagano. Tuttavia, già con Eusebio di Cesarea, fra il 3° e il 4° sec., non sono più considerati ‘teologi’ gli antichi poeti o gli autori dei racconti mitologici, ma i profeti dell’Antico Testamento, e così pure Paolo, e soprattutto Giovanni (in particolare per il prologo del suo Vangelo, consacrato al Logos di Dio). Da questo momento il termine t. indica la vera dottrina di Dio, quale è formulata, proclamata e celebrata dalla Chiesa.

I Padri greci tendono a dotare la parola di un contenuto sempre più determinato rispetto all’oggetto della fede cristiana, definita anch’essa con sempre maggior precisione. In Atanasio si ha un impiego costante di t. nel senso di ‘dottrina della Trinità’, mentre Gregorio di Nazianzo dà il nome di ‘teologi’ ai grandi difensori dell’ortodossia trinitaria. Così pure è in questo momento che si opera la distinzione, rimasta classica nella Chiesa d’Oriente, tra la t. che verte sulla realtà intima di Dio e l’‘economia’ che si riferisce all’opera di rivelazione e di salvezza realizzata dal Logos incarnato. All’inizio del 6° sec., un nuovo sviluppo al concetto di t. viene dallo Pseudo-Dionigi, che continua a designare con la parola ϑεολογία la Sacra Scrittura e con la parola ϑεολόγος gli autori ispirati, ma introduce anche delle distinzioni, rimaste classiche, per caratterizzare differenti modi d’affrontare il problema di Dio e di parlarne: si ha così una t. «segreta e mistica», o anche «simbolica», che unisce a Dio, e un’altra «aperta e più manifesta», «filosofica e dimostrativa». Di rilievo inoltre è l’idea di ‘t. negativa’, che insiste sul carattere inesprimibile del mistero divino, nozione questa che sarà ripresa costantemente nel corso dei secoli.

Nel mondo latino fino a Mario Vittorino e ad Agostino la parola t. resta o del tutto ignorata o recepita solo nel significato che essa aveva nel paganesimo.

Il Medioevo. Il concetto di t. quale si è imposto pressoché universalmente nel corso dei secoli, cioè di teoria sistematica di Dio e della realtà della fede, risale al Medioevo latino, all’inizio della scolastica, in particolare ad Abelardo e a Gilberto Porretano. Più tardi, nel 13° sec., alla t. viene attribuito non solo lo status di scienza, ma all’interno di un sistema culturale armoniosamente concepito, le viene riconosciuta la preminenza con il ruolo di «regina».

Le origini della t. cristiana

Il Nuovo Testamento. Se per t. si intende la riflessione sulla parola di Dio, tale riflessione è già negli scritti del Nuovo Testamento. Il primo scrittore cristiano, Paolo, intenta un processo alla «saggezza dei saggi» e all’«intelligenza degli intelligenti», opponendo a questa pseudosaggezza la «saggezza di Dio», che si esprime nella «follia» del messaggio della Croce (I Corinzi 1, 1 - 2, 9): la verità cristiana non si risolve affatto nelle speculazioni o nei calcoli della ragione. Lo stesso Paolo spiega però che «dalla creazione del mondo» le opere di Dio rendono visibili all’intelligenza i suoi attributi divini («potenza eterna e divinità») sicché gli uomini «sono senza scusa poiché, conoscendo Dio, essi non l’hanno né glorificato, né ringraziato come Dio» perdendosi «nei loro vani ragionamenti» (Romani 1, 20-21). Parimenti, Paolo esorta i cristiani al vero culto «a Dio gradito» e cioè a un «culto secondo il lògos» (Romani 12, 1).

A fianco di Paolo è Giovanni che, tradizionalmente, si ritiene debba meritare in modo eminente la qualifica di teologo, per la dottrina del Logos che «era presso Dio» ed «era Dio», attraverso il quale «tutto ha avuto l’esistenza» (Giovanni 1, 1-3), si è «fatto carne» e «ha posto la sua tenda in mezzo agli uomini», al punto che alcuni hanno potuto «contemplare la sua gloria» (Giovanni 1, 14). La sua manifestazione, che risale a un’iniziativa proveniente «da un altro luogo», dal «Padre» (Giovanni 8, 42; 7, 28-29; 17, 8), ha qualcosa di paradossale, perfino di «urtante» (6, 61). Essa non dispensa affatto dalla fede, anzi la richiama (6, 61), anche se, a sua volta, la fede non si concepisce senza «conoscenza».

La patristica e l’incontro con la filosofia. Fin dal 2° sec. gli apologeti, in particolare Giustino, cercano di gettare un ponte tra il cristianesimo ricevuto dalla predicazione apostolica e il pensiero pagano. Uno sforzo più profondo di penetrazione e di utilizzazione della cultura dell’ambiente è compiuto dalla scuola di Alessandria. Clemente per primo sviluppa l’idea di una propedeutica, resa certa dalla filosofia, per arrivare a una più perfetta conoscenza delle verità di fede, poiché «la fede è in qualche modo una gnosi elementare ed abbreviata delle cose necessarie; e la gnosi è una dimostrazione ferma e stabile di ciò che si è ricevuto attraverso la fede; essa si edifica sulla fede, attraverso l’insegnamento del Signore» (Strom. VII, 57). Non si tratta certo per Clemente di operare un’unione superficiale tra verità di fede e verità di ragione, ma piuttosto di lavorare a un assorbimento del lume dell’intelligenza entro la fede, per operare una penetrazione più perfetta di ciò che questa fede propone.

Una simile prospettiva viene portata avanti e approfondita da Origene al quale si deve quella che potrebbe definirsi la prima grande opera di t. sistematica, il De principiis, dove numerosi dati essenziali della fede cristiana si intrecciano a una serie di speculazioni ispirate dalla filosofia nella quale Origene è stato formato.

Nel mondo latino, chi segna in età patristica il punto di partenza di una elaborazione ‘teologica’ delle realtà della fede è Agostino, anch’egli apportatore di un’influenza indelebile sulla t. posteriore, e in primo luogo su quella del grande periodo medievale. Agostino insiste sulla necessità di porre a reciproco servizio e controllo l’intelligenza e la fede. Questo principio e questo modo di regolare l’esercizio della t. si trovano condensati nelle parole di un suo sermone: «intellige ut credas, crede ut intelligas» (Sermone 43, c. 7, nr. 9).

Il Medioevo

Tradizione e rinnovamento. L’aspetto che viene più nettamente, e quasi esclusivamente, in luce tra il 6° e il 12° sec. è la preoccupazione della fedeltà ai dati ricevuti dalla tradizione. L’eredità ricevuta dal passato è anzitutto la Sacra Scrittura, e la cultura consiste essenzialmente nel conoscerla e nel commentarla, seguendo da presso i commenti fatti dai Padri. Si pone qui come fondamentale il concetto di auctoritas. Un testo è un’auctoritas, cioè si impone come principio del discorso teologico, in forza del valore privilegiato riconosciuto all’autore di esso dalla Chiesa e dalla tradizione. La riflessione teologica si sviluppa come ‘commento’ o ‘lettura’ di testi (anzitutto la Bibbia, quindi i Padri); il lavoro dei commentatori consiste soprattutto nell’armonizzare le differenti auctoritates della Scrittura e dei Padri.

Una notevole ripresa della riflessione teologica si ritrova già nel 9° sec., sotto l’impulso di Alcuino, nelle scuole della rinascita carolingia. Tali scuole non sono soltanto scuole di t., ma in esse le arti liberali sono insegnate in quanto corpo autonomo, nel duplice raggruppamento del trivium (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivium (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Un autore di questo periodo merita più d’ogni altro d’essere ricordato per aver dato testimonianza di un pensiero veramente originale: Scoto Eriugena. La sua opera costituisce un vigoroso monumento di riflessione teologica che assume e introduce nell’Occidente latino le strutture del pensiero dello Pseudo-Dionigi e profondamente incide nella formazione soprattutto della teologia negativa.

Nell’11° sec. cominciano a delinearsi i grandi conflitti, allorché la ‘dialettica’ entra, in maniera decisa, nelle trattazioni concernenti la fede. Il primo celebre conflitto fu quello fra Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia riguardo la dottrina eucaristica. Altro conflitto di ancor più vasta portata oppone, sempre intorno al ruolo della dialettica nel trattare la realtà di fede, due grandi figure dell’inizio del 12° sec.: Abelardo e Bernardo di Chiaravalle. Abelardo sostiene che la fede non può reggersi soltanto su parole o formule; essa comporta l’«intelligenza» di quanto afferma, e anzitutto la chiarezza delle nozioni e dei loro rapporti. Parte insomma, anzitutto, da quella che oggi chiameremmo un’analisi del linguaggio, e questo è uno degli aspetti nei quali appare la ‘modernità’ di Abelardo. Bernardo è testimone di una spiritualità basata sul ritiro dal mondo e perfino su un certo disprezzo di esso: arti liberali e lavoro della ragione sono accomunati nel medesimo rifiuto delle cose umane, a meno che non siano immediatamente ordinati alla «edificazione» propria o degli altri. Di fronte alle realtà divine, per la vita spirituale, è più conveniente l’ammirazione della preghiera e l’adorazione, non certo la curiosa investigazione.

Anselmo di Aosta è senza dubbio uno degli autori cristiani che con maggiore impegno hanno tentato l’avventura del pensiero razionale pur restando saldamente attaccati non soltanto alla fede, ma alla convinzione della superiorità, perfino della sufficienza, del sapere che essa arreca. Sulla linea di Agostino, ritiene che è la stessa fede, una fede compenetrata dall’amore del suo oggetto, a postulare la ricerca della propria ratio. Uno sforzo analogo a quello di Anselmo viene perseguito poco tempo dopo dai Vittorini (Ugo e Riccardo di San Vittore), come pure da Pietro Lombardo, che riprendono, a loro modo, il progetto di Abelardo, ma inserendolo in un contesto più immediatamente religioso ed ecclesiastico. Pietro Lombardo offre con i suoi quattro libri di Sentenze il manuale dell’insegnamento teologico su cui i teologi posteriori edificano la loro opera.

Le grandi summae teologiche. Il 13° sec., che detiene quasi il monopolio delle grandi summae teologiche, costituisce in una certa linea di ricerca e per una certa concezione della t., un punto d’arrivo. In questa fase della ‘cristianità’ la fede permea tutta la vita sociale ma nel contempo viene a introdursi nel mondo culturale il sistema ‘razionale’ di Aristotele. Non sono più soltanto le sue opere logiche, raggruppate sotto la denominazione di Organon, a nutrire il pensiero dei dottori, ma anche la sua metafisica, la sua fisica, la sua psicologia e la sua etica. Queste opere, tradotte a più riprese tra il 12° e il 13° sec., già influenzano Guglielmo d’Auxerre e Filippo il Cancelliere, e hanno un peso determinante soprattutto sull’opera di Alberto Magno e su quella di Tommaso d’Aquino.

In Tommaso, la ragione che opera in t. è una ragione che conosce la natura delle cose e che va lasciata libera di adempiere pienamente al suo ufficio. I primi scritti di Tommaso sono d’ordine propriamente filosofico (De ente, De principii naturae). Anche se egli intende, come tutti i suoi contemporanei, il ruolo della filosofia come ‘ancella’ della t., questa ‘ancella’ assicurerà tanto meglio il suo servizio se prima sarà stata affrancata. L’opera a cui, anzitutto, si dedica Tommaso è comunque un’opera teologica e che teologica intende essere. Essa mira alla conoscenza del Dio della Rivelazione, per la realizzazione del destino soprannaturale dell’uomo. I principi di questa nuova t. possono ridursi a due proposizioni fondamentali: la grazia non sopprime la natura, ma la perfeziona; esiste un rapporto di ‘analogia’ tra quello che possiamo sapere e dire di Dio e quello che egli è realmente.

In opposizione al deciso aristotelismo tomista, tutto un assieme di teologi soprattutto francescani resta sulla linea di un’ispirazione puramente agostiniana. Il più importante di questi è Bonaventura, la cui opera mantiene per questo aspetto un fondamentale interesse. Il principio agostiniano dell’‘illuminazione’ dello spirito da parte della grazia di Dio viene da Bonaventura sviluppato in maniera sistematica: la conoscenza delle realtà create non si può fare se non partendo dalla sorgente divina da cui esse procedono; esse sono allora afferrate nel loro valore simbolico, in cui consiste la loro verità. Con il suo orientamento più antropologico che cosmologico, la t. bonaventuriana reca in sé, almeno per certi aspetti, maggiori affinità che non la t. tomista con una moderna visione teologica.

La crisi del tomismo. Fin dall’inizio del 14° sec. il solido edificio sistematico di Tommaso comincia a subire incrinature, che intaccano sia il contenuto sia l’idea stessa di teologia. Esse sono poste in evidenza già nell’opera di Duns Scoto, che sottopone a una critica acuta tutto intero il sistema aristotelico-tomista. Attraverso un esame critico del funzionamento della ragione, egli contesta a quest’ultima una parte importante dei poteri riconosciutigli dal tomismo, in particolare riguardo le realtà di fede. Pur senza rompere ogni legame tra filosofia e t., egli tende a stabilire tra esse una ben più netta indipendenza.

Le rotture annunciate da Duns Scoto sono consumate nel corso del 14° e 15° sec. dal nominalismo, corrente filosofico-teologica che nega, in modo particolare, che una qualsiasi realtà corrisponda a idee generali (non è reale se non ciò che è singolare; il concetto si riduce al segno, alla parola, al ‘nome’ che lo indica in modo puramente convenzionale). I più notevoli rappresentanti di questa tendenza sono Guglielmo d’Occam, Pietro d’Ailly e Gabriele Biel. Per tutti costoro, tra il credente e il sapiente non c’è nulla in comune, e la ragione, non avendo i segni altra realtà che quella della mente che li produce, non può lavorare su altro che su sé stessa. Le due componenti della parola t. sono ravvicinate solo per una sorta di decisione violenta.

Scotisti e nominalisti non sono i soli a impegnarsi in distinzioni e in ipotesi. I seguaci della scuola tomista, quali Capreolo o Caietano, preoccupati di commentare e difendere le posizioni del maestro più che di approfondire l’indagine diretta dei contenuti di fede, pongono mano ad argomentazioni più abili che feconde. La t. diventa, ogni giorno di più, un affare di ‘scuole’, che per lo più si riallacciano agli ordini religiosi. Essa merita allora l’appellativo di ‘scolastica’, che contraddistingue una situazione che è causa e conseguenza di un modo di teologare estraneo alla vita della Chiesa e al mondo devoto.

Di contro alla estraniazione della t. ufficiale dal mondo spirituale della Chiesa, viene tuttavia emergendo una ricerca d’autentica interiorità, congiunta al culto della Sacra Scrittura gustata senza intermediario. Una delle testimonianze più famose di questa ricerca e di questa ‘devotio moderna’ è l’Imitazione di Gesù Cristo.

Rinascimento e Riforma

Mentre la cristianità medievale manifesta tutti i segni della sua disgregazione, un mondo nuovo comincia ad annunciarsi, nel quale la t. è destinata a ricevere un nuovo statuto o, piuttosto, deve scoprire una sua collocazione, leggere nuove possibilità. Il mondo sul punto di nascere è quello del Rinascimento e degli ‘umanisti’. Costoro incominciano con passione a liberarsi delle tradizioni di un Medioevo inaridito, aprendosi a una rinnovata valutazione dell’antichità pagana, ma anche del cristianesimo primitivo e patristico. Ed è qui che la t. sembra chiamata ad apportare frutti fino allora ignorati.

Una nuova concezione dell’operare teologico, si pensa, può a un tempo rispondere alle esigenze di una cultura rinnovata, preoccupata della verità oggettiva e che comincia a svegliarsi al senso della storicità, e a quella di coloro che si preoccupano di soddisfare l’aspirazione interiore per un nutrimento religioso autentico. L’opera di Erasmo è particolarmente rappresentativa di questo duplice orientamento di una t. impegnata a cercare nuove strade: a fianco degli studi filosofici e storici sulle fonti cristiane, Erasmo consacra il meglio dei suoi sforzi a lavori di educazione morale e spirituale, coinvolgendo l’uno nell’altra umanesimo e t. cristiana.

Un nuovo modo di ‘teologare’ è realizzato da M. Lutero, consistente nel riconoscere il valore della soggettività e dell’interiorità del singolo. In questo senso, si può dire che la t. di Lutero si costituisce come risposta ai bisogni di spiritualità che la t. ha ormai da tempo cessato di soddisfare. La novità della t. di Lutero è data anzitutto dal suo punto di partenza: la preoccupazione di non separare l’opera teologica dall’atto che la costituisce, cioè l’atto di fede personale del teologo. La novità del concetto della t. di Lutero verte su ambedue gli elementi di cui il nome si compone, theòs e lògos, e il lògos prende la forma di un discorso impegnato, intrinsecamente legato alla prassi, all’azione, all’esistenza, alla storia. Un tale lògos è capace di parlare di Dio, non in quanto raggiunto per quello che è in sé, ma in quanto colto nell’atto della rivelazione e della salvazione. Oggetto della t. è il dramma dell’incontro dell’uomo «colpevole e perduto con Dio che giustifica e salva».

Il secondo grande riformatore, G. Calvino, nonostante alcuni principi comuni, riguardanti in particolare l’autorità unica della Scrittura, elabora una t. più sistematica, meno immediatamente legata all’esperienza spirituale. D’altra parte la t. luterana ripresa dai discepoli tende ad assumere, dalla fine del 16° sec., la forma di una nuova scolastica, al servizio di una nuova ‘ortodossia’. Parallelamente, la t. cattolica, sulla linea del tomismo, è portata piuttosto a consolidare sé stessa e a difendere le posizioni acquisite.

Dall’Illuminismo all’Ottocento

Dopo la rivoluzione della Riforma e le sistematizzazioni del 17° sec., il nuovo contesto in cui si deve inserire la t. è anzitutto quello dell’Illuminismo. Seguendo un processo già iniziato nel Seicento, la t. subisce sempre più la concorrenza, nel campo della cultura, della scienza e della filosofia. La scienza in particolare contesta sempre più alla t. l’universalità delle sue competenze. Il caso di Galileo costituisce l’esempio più illuminante di tale conflitto. Dopo la serrata critica alla cosmologia aristotelico-scolastica a cui era più o meno legata la t., è la volta della storia, e in particolare della storia sacra la cui critica coinvolge gli stessi documenti di base. La t. sembra respinta sempre più in uno spazio irreale e in essa non si tarda a vedere un modo di pensare da cui è importante affrancarsi, se si vuole cogliere la realtà nei suoi molteplici aspetti e in un modo utile e fecondo. Lo scienziato non solo non ha bisogno dell’‘ipotesi Dio’ per stabilire le leggi del reale, ma deve anzi respingerla, se vuole operare con rigore e progredire nella conoscenza effettiva del mondo.

Più tardi, e in un diverso contesto culturale, la filosofia, nel tentativo di penetrare all’interno della t. allo scopo di rianimarne il contenuto, finisce con l’assorbirla nel suo procedimento: non più quindi una disciplina edificata sulla fede, ma sulla ragione. Ciò posto, continuare a parlare di t. non ha più senso e in qualche modo più conseguenti sono coloro che seguono il pensiero di G.W.F. Hegel nel senso dell’ateismo e della riduzione della t. a pura antropologia. Tale è, in particolare, il caso di L. Feuerbach, per il quale «compito dei tempi che sono ora arrivati» è «la trasformazione e la dissoluzione della t. in antropologia». Nel contempo un altro filosofo, S. Kierkegaard, denuncia la mistificazione del sistema hegeliano, in quanto ignora quel che c’è di più reale: la soggettività. Kierkegaard non intende operare direttamente come teologo ma come filosofo, e come tale apre nuove strade alla t., determinate dalla coscienza dell’«assoluta differenza qualitativa» tra Dio e l’uomo.

La t. costituitasi nel 19° sec., nel protestantesimo, è essenzialmente ‘liberale’, dominata dall’alta statura di F. Schleiermacher, il quale concepisce il suo compito di teologo come quello di un ‘virtuoso’ ermeneuta della religione, che interpreta con arte, per svelarne lo spirito e la virtù, il dato cristiano. Un simile trattamento presuppone la plasticità di tale dato, da considerarsi più che nella rigidità delle sue forme nella vivente recezione in seno all’anima del credente. Pertanto la t. parla in modo fondamentale dell’uomo: dell’uomo religioso, dell’uomo religioso cristiano, che vive nella comunità cristiana, ma sempre dell’uomo. Essa è una ‘scienza dello spirito’ tra le altre e in tal senso rappresenta un settore, una dimensione, per altro imprescrittibile, dell’antropologia. In quanto antropologia cristiana, la t. non potrebbe venir elaborata senza parlare del Cristo, e con lui di tutta la realtà storica che da lui deriva e a lui si riallaccia. Ma sia Cristo sia questa realtà tendono a essere considerate unicamente come simbolizzazione di ciò che, a proprio modo e secondo la propria intensità, è vissuto da ogni coscienza religiosa. In tal senso la t. entra piuttosto nel quadro della storia e della psicologia religiosa.

Questa t. ‘liberale’ troverà echi oppure varianti nel modernismo cattolico. Altri teologi cattolici nel 19° sec., tuttavia, tentano di far fronte in altro modo alle rivendicazioni della ragione e del soggettivismo. A. Günther e G. Hermes, cercano di stabilire la totale razionalità dei dogmi, di fatto rischiano di ridurre il mistero di Dio a un lògos umano. In altra direzione, J.A. Möhler e la Scuola di Tubinga si adoperano a rivivificare la t. cattolica attraverso un ritorno alle fonti patristiche.

Il rinnovamento del 20° secolo

Il rinnovamento della t. nel 20° sec. è avvenuto, anzitutto, attraverso un ritorno alle fonti: all’ispirazione dei riformatori in seno al protestantesimo, alla Scrittura e alla tradizione patristica in seno al cattolicesimo. Dopo la Prima guerra mondiale prende forma, nella t. protestante, la nuova corrente della ‘t. dialettica’, legata ai nomi di K. Barth, R. Bultmann, F. Gogarten, E. Brunner, i quali parlano di ‘rivoluzione copernicana’ in quanto il centro della t. non è più l’uomo ma Dio e il discorso teologico viene interamente determinato dalla Parola trascendente della rivelazione, nell’atto stesso in cui essa si produce. Perciò il teologo continuerebbe il ruolo che fu proprio dei profeti.

Mentre la t. protestante opera questo deciso ritorno alle fonti del profetismo, quella cattolica ritorna alle fonti della fede, specialmente quelle scritturistiche e patristiche, ma anche con lo sforzo di ritrovare la vera ispirazione dei grandi teologi medievali. I nomi di Y. Congar, M.-D. Chenu, J. Daniélou, H. de Lubac, H.U. von Balthasar sono particolarmente rappresentativi di questo rinnovamento che contribuirà largamente a rendere possibile l’opera del concilio Vaticano II. Da parte sua, nello stesso tempo, la t. ortodossa, attraverso uomini come S. Bulgakov e V. Lossky fa conoscere all’Occidente le ricchezze della tradizione orientale.

La solidità del rinnovamento è rimessa in causa subito dopo la Seconda guerra mondiale, e ancor più successivamente. Il centro di gravità della t. si sposta di nuovo: la preoccupazione per l’uomo, con i suoi problemi, le sue speranze e i suoi progetti, catalizzato ben più che nel primo dopoguerra l’attenzione dei teologi. Questa preoccupazione appare chiaramente nella discussione del progetto di Bultmann di ‘demitizzazione’ e di ‘interpretazione esistenziale’ del Nuovo Testamento. Secondo Bultmann i differenti detti, racconti, ‘miti’ della Scrittura devono essere interpretati in funzione delle strutture dell’esistenza umana. La t. tende di nuovo a riavvicinarsi all’antropologia. Il suo oggetto diretto non è tanto Dio quanto l’uomo che crede.

Come la fede, di cui essa rende conto, la t. deve far fronte al fenomeno della secolarizzazione, secondo cui le realtà del mondo e della società tendono a stabilirsi in un’autonomia sempre più grande, rifiutando o ignorando ogni riferimento religioso. Sotto lo stimolo di tale situazione, la t. interroga una volta di più sé stessa; e invece di considerare la secolarizzazione come una minaccia, ne fa, con uomini come F. Gogarten o H. Cox, uno dei temi privilegiati della sua riflessione. Se il senso della dottrina della creazione è quello di ‘disilludere’ la natura; se tutta la rivelazione biblica, affermando la sola santità di Dio, tende a liberare l’uomo dagli idoli che lo sottomettono; se essa culmina nell’opera del Cristo che ha fatto dell’uomo un ‘affrancato’, erede del Regno, allora, lungi dall’opporsi alla fede di cui la t. rende conto, la secolarizzazione può apparire piuttosto come la conseguenza della fede, di cui la t. deve scoprire le radici giudaico-cristiane per garantire le condizioni necessarie per la sua continuazione correggendo le eventuali perversioni cui con il tempo è andata incontro. Per questo la ‘t. della secolarizzazione’ deve sempre preoccuparsi di saper parlare di Dio.

Ancora da questa preoccupazione è mossa quando, come t. della ‘morte di Dio’ (G. Vahanian, W. Hamilton, P. Van Buren, T. Altizer), adotta come punto di partenza la scomparsa di Dio dall’orizzonte della coscienza contemporanea; in altri casi, la ‘morte’ vuole esprimere il modo singolare del rapporto dell’uomo contemporaneo con Dio.

Particolarmente avvertito, nella riflessione della seconda metà del 20° sec., è soprattutto il problema della funzione pratica della t., che si volge nella direzione di un chiarimento del rapporto tra fede e azione. Sotto nomi diversi, t. della speranza, t. politica, t. della liberazione, la t., sottolineando il momento progettuale connesso alla riflessione sulla fede, si rivolge all’uomo concreto, per una salvezza che si realizzi nella storia. Suo motivo ispiratore è la speranza, la quale, mantenuta dalla fede, spinge l’uomo a non rassegnarsi alla situazione esistente ma piuttosto a operare attivamente in vista della costruzione di un mondo nuovo e migliore.

Tendenze attuali

T. cattolica. La direzione della t. cattolica nell’ultimo trentennio del 20° sec. e agli inizi del 21° è quella indicata dall’accoglimento del concilio Vaticano II e dallo sviluppo dei suoi orientamenti metodologici e contenutistici, soprattutto in antropologia, ecclesiologia, cristologia, mariologia, morale. Argomenti come la natura e la missione della Chiesa, l’autorità del magistero, il ministero del vescovo di Roma, il significato dell’incarnazione, la cooperazione di Maria al mistero di Cristo, la presenza dello Spirito Santo, la morale sessuale, la bioetica, il dialogo con le culture, la rivalutazione della donna sono al centro del dibattito teologico, a cui contribuiscono teologi come K. Rahner, J. Ratzinger, B. Häring, E. Schillebeeckx, H. Küng, W. Kasper. Semplificando, si possono ridurre a cinque gli ambiti di sviluppo della t. cattolica contemporanea. Il primo consiste in una rinnovata considerazione della molteplicità delle tradizioni liturgiche, giuridiche, teologiche e spirituali non latine che sono presenti all’interno della Chiesa e fanno parte del suo patrimonio. Il secondo è quello del dialogo ecumenico con le altre tradizioni cristiane (delle antiche Chiese d’Oriente, di quelle ortodosse, dell’anglicanesimo, del protestantesimo e di altre comunità cristiane). Il terzo è rappresentato dal dialogo interreligioso e dalla presenza sempre più avvertita delle altre credenze religiose (ebraismo, islam, induismo, buddhismo e religioni tradizionali delle varie parti del mondo), al punto che è sorta una nuova disciplina, chiamata t. delle religioni. Il quarto ambito riguarda il tema dell’inculturazione, che indica l’urgenza del radicamento del messaggio cristiano in una determinata cultura o in un determinato contesto, in modo che questa cultura o questo contesto possano riesprimere e sperimentare in modo originale e autenticamente salvifico il vangelo di Gesù Cristo. Il quinto ambito è relativo all’indagine su Gesù, che ne sottolinea sempre di più la dimensione storica, ampliando la conoscenza e la valorizzazione del contesto ebraico attraverso le scoperte archeologiche e papirologiche e le nuove acquisizioni della letteratura comparata.

T. protestante. I percorsi della t. protestante della fine del Novecento non si discostano molto da quelli della t. cattolica. Dopo le grandi figure di K. Barth, R. Bultmann, P. Tillich e D. Bonhoeffer, si sono affermati i nomi di W. Pannenberg e J. Moltmann. Contro il soggettivismo bultmanniano Pannenberg ha evidenziato l’intrinseca struttura storica della rivelazione biblica e, di conseguenza, la sua universalità salvifica. È quindi il Gesù storico, con l’evento cardine della sua risurrezione, il centro e l’origine di ogni cristologia e di ogni significato esistenziale del kerigma cristiano. In questa ottica, particolare attenzione viene dedicata alla corporeità di Cristo e al significato che essa assume per la natura terrena, dato che la corporeità è il punto d’intersezione esistenziale fra storia e natura dell’uomo.

Anche nella t. protestante contemporanea, come in quella cattolica, è molto viva la preoccupazione dell’inculturazione del messaggio cristiano. Non è poi irrilevante, sia nella t. cattolica sia in quella protestante, la cosiddetta ‘t. femminista’, una corrente di non facile decifrazione; essa infatti comprende studiose che s’inseriscono all’interno della tradizione biblica e cristiana (come R. Radford Ruether, L. Russell, P. Trible, E. Schüssler Fiorenza, E. Moltmann Wendel) e altre che occupano uno spazio dichiaratamente postcristiano o acristiano (come M. Daly). Secondo le femministe, l’emarginazione e l’invisibilità delle donne nella realtà teologica ed ecclesiale è dovuta alla predominanza dei simboli maschili presenti nella tradizione cristiana. Per questo, per es., Schüssler Fiorenza propone un’ermeneutica critica femminista che, a partire dai testi patriarcali, ricostruisca al femminile le origini cristiane.

T. ortodossa. La t. ortodossa ha due difficoltà per farsi conoscere e apprezzare: la prima dipende dalla barriera linguistica, costituita dal greco e dalle diverse lingue slave; la seconda deriva da un certo periodo di ‘sottosviluppo’ teologico, determinato dalla turcocrazia prima e quindi dai regimi comunisti durante buona parte del Novecento. Questi eventi traumatici hanno impedito l’evolversi sistematico della riflessione teologica, che dopo lo splendore del periodo bizantino ha conosciuto un periodo di decadenza; questo, almeno per quanto riguarda i territori di lingua greca, è durato più di quattro secoli. Se la t. protestante ha come punto di riferimento essenziale la Bibbia, la t. ortodossa ha come principale riferimento la grande tradizione patristica dei primi secoli cristiani. Non mancano, tuttavia, aperture dialettiche nei confronti della cultura contemporanea, come si può osservare, per es., nella t. pneumatologica di N. Nissiòtis, nel personalismo cristiano di J. Ziziùlas, nel rinnovamento biblico di S. Agurìdis, in quello liturgico promosso da J. Fundùlis, nella riconsiderazione critica degli studi patristici realizzata da P. Chrìstu, nel rinnovamento degli studi morali patrocinato da G.I. Mantzarìdis e nell’apertura al dialogo ecumenico sostenuta da N. Matsùkas.

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