di Jürgen Moltmann
Teologia
sommario: 1. Il retaggio dell'Ottocento: a) la visione della libertà; b) il principio di autorità; c) il ‛retaggio' e i compiti del nostro secolo. 2. La teologia nel Novecento: a) anacronismi delle confessioni; b) la fine del Corpus christianum. 3. Alla ricerca della rilevanza secolare: a) la coscienza critica e la demitizzazione del cristianesimo; b)
1. Il retaggio dell'Ottocento
La storia universale non si lascia scandire secondo i secoli. Essa ha il suo proprio ritmo e le sue particolari epoche. Noi intendiamo qui con ‛Ottocento' quell'epoca della storia europea che ha il suo principio nel 1789, con la Rivoluzione francese, e la sua fine nel 1917-1918, con la
a) La visione della libertà
‟Libertà, eguaglianza, fraternità": con questi principî ebbe inizio la Rivoluzione francese; essi costituiscono le basi ideologiche del mondo borghese. La vecchia, feudale, società europea dei ceti fu distrutta e fu edificata una nuova società egualitaria delle prestazioni: non la nascita, ma la prestazione determina il valore di una persona umana. La sovranità dei principi e del dominio assolutistico ‛per grazia di Dio' furono sostituiti dalla sovranità popolare: allo Stato autoritario succedeva lo Stato democratico, al suddito il libero cittadino. Lo Stato confessionalmente unitario fu superato con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici: subentrava lo Stato confessionalmente neutrale, lo Stato secolare. La religione divenne così ‛una faccenda privata' e oggetto di una decisione personale. L'uomo borghese esigeva libertà di coscienza nei confronti dell'autorità della Chiesa e libertà di religione nei confronti del potere dello Stato.
L'edificazione del mondo borghese andò di pari passo con l'edificazione del mondo industriale. La nuova tecnologia rese possibile la prima ‛rivoluzione industriale', che produsse un immenso sommovimento della popolazione in
b) Il principio di autorità
Sull'altra faccia troviamo il principio di autorità: ‟Dio, re e patria". È il motto della reazione conservatrice, la quale interpretava i fenomeni del mondo moderno come segni della crisi degli ordinamenti della vita e di un'apocalittica fine del mondo. A quest'opzione conservatrice diedero la loro intera adesione, nell'Ottocento, le grandi Chiese europee e i loro teologi. I filosofi cattolici de Maistre, de Bonald e Donoso Cortés elaborarono la filosofia statale della controrivoluzione, filosofia fatta poi propria dalla Chiesa di
c) Il ‛retaggio' e i compiti del nostro secolo
Il mondo borghese dell'Ottocento è andato incontro a una triplice fine. Anzitutto, nella prima guerra mondiale si fiaccarono a vicenda le due grandi potenze borghesi protestanti: la Gran Bretagna e la
Dal ‛retaggio dell'Ottocento' nascono i compiti del nostro secolo. Noi possiamo individuare questo retaggio in una serie di contraddizioni, che debbono essere risolte se l'umanità vuol sopravvivere.
1. L'emancipazione dell'economia dalla religione, dalla morale e dalla politica ha condotto al liberalismo e quindi alla formazione del capitalismo. Se la contraddizione tra capitale e lavoro ha prodotto, nell'Ottocento, la crescita del proletariato, dalla metà del Novecento produce una disoccupazione dovunque in aumento. Gli sviluppi tecnico-scientifici tornano a vantaggio del capitale. Il crescente potere delle imprese multinazionali si sottrae sia al controllo degli Stati nazionali sia alla cogestione (Mitbestimmung) attraverso i sindacati. Questo sviluppo non è di utilità alla vita delle masse umane se non viene posto sotto il controllo umano.
2. La civiltà tecnico-scientifica - diventata ormai il destino dell'uomo - ha prodotto un enorme arricchimento, ma anche un illimitato accrescimento dell'umanità. Essa ha inoltre cacciato la natura e l'umanità in un disastro ecologico, dal quale non si vede ancora una via d'uscita. D'altra parte, senza il superamento della crisi ecologica non c'è sopravvivenza.
3. Le forme politiche della democrazia, sviluppatesi nel mondo borghese dell'Ottocento, non hanno incontrato nel nostro secolo un'ulteriore diffusione, e sono anzi divenute insicure anche nei paesi europei. Da un lato non esiste, per la realizzazione dei diritti umani, alcuna alternativa alla democrazia; dall'altro, è sempre più difficile raccogliere il consenso dei cittadini sulle questioni politiche fondamentali. Per questa ragione le vecchie forme della vita democratica cedono il passo dinanzi alle burocrazie moderne e ai controlli autoritari. Dittature militari sorgono dappertutto, in Occidente come in Oriente. Anche nelle vecchie democrazie è difficile difendersi da prassi autoritarie di governo.
4. L'Ottocento ha infine lasciato in eredità una razionalità europea, che ha raggiunto diffusione mondiale, senza però un'Europa potente e politicamente unificata. Di qui l'esigenza di una relativizzazione e integrazione dell'Europa in una cultura mondiale, che è soltanto ai suoi albori e la cui conformazione nessuno può prevedere.
2. La teologia nel Novecento
a) Anacronismi delle confessioni
Non si può prescindere dal fatto che tutti i gruppi e tutte le istituzioni di una società sono ‛sincroni', debbono cioè convivere nella medesima epoca. D'altra parte, i progressi sono sempre unilaterali: per questo nelle società moderne ci sono tanti anacronismi. Le rappresentazioni religiose e le modalità etiche di comportamento mostrano una particolare lentezza nel necessario adattamento a nuove situazioni e a nuove esigenze. Le forme della vita e dell'organizzazione ecclesiale posseggono una sorprendente forza d'inerzia. Il mondo moderno esige spesso dalla religione un'immutabilità persino maggiore che non le vecchie culture: la stabilità religiosa, evidentemente, deve controbilanciare l'instabilità della vita moderna. Per questo accade sovente che anche i problemi interni della teologia non coincidano con i problemi contemporanei della società nella quale vive. Le Chiese sussistono in un significativo anacronismo rispetto al mondo moderno. Di conseguenza, la teologia del Novecento è ancora in larga
Anche tra le diverse Chiese è osservabile un certo sfasamento. I problemi teologici del mondo borghese, della civiltà scientifica e della secolarizzazione urbana furono recepiti ed elaborati dapprima dalla teologia protestante, poi - da un cinquantennio - dalla teologia cattolica e soltanto oggi dalla teologia ortodossa. Quella corrente della teologia protestante che va sotto il nome di ‛teologia liberale' si era conciliata sin dall'inizio dell'Ottocento con lo spirito borghese: la libertà di fede, la libertà di coscienza e la libertà delle Chiese locali costituiscono i presupposti della libertà della teologia stessa. Sulla scorta di Kant, questo indirizzo elaborò la teologia morale; sulla scorta di Friedrich Schleiermacher, la teologia della fede. Comune a entrambe è la nuova alleanza tra la fede, che viene limitata alla determinazione religiosa dell'esistenza personale, e la ragione scientifica interamente emancipata, di modo che la fede non ostacola la ragione e questa non dissolve la fede. Fu cosi evitata tutta una serie di conflitti col ‛modernismo', che scossero invece profondamente la teologia cattolica. Ma anche questo trattato di pace tra fede cristiana e ragione scientifica rimase vigente soltanto finché fu possibile guardare al mondo borghese come a un ‛mondo cristiano'. Anche questa forma del Corpus Christianum si dissolse negli orrori della guerra mondiale e nel terrore delle dittature fasciste.
b) La fine del Corpus Christianum
La Chiesa e la teologia attuali sono dominate da difficili processi di disgregazione del Corpus Christianum, nelle sue diverse formazioni storiche. La
3. Alla ricerca della rilevanza secolare
Sino a che si sentì a casa nel Corpus Christianum, la Chiesa cristiana visse circondata da un mondo dominato e permeato dal suo spirito, in un mondo a essa conforme. In questo ‛mondo cristiano' la teologia poteva presupporre una ‛teologia naturale', sulla quale tutti consentivano in base al ‛sano buon senso'. Con ‛teologia naturale' s'intende una conoscenza di Dio generale e immediata: ognuno è in grado. di riconoscere, alla luce della propria ragione naturale, che Dio ‛esiste' e che Dio è ‛uno'. La teologia cristiana si fonda bensì sulla rivelazione di Dio, qual è testimoniata nella Sacra Scrittura, ma - nel Corpus Christianum - presupponeva questa teologia naturale come grado preliminare o propedeutico al riconoscimento della rivelazione. Nacquero così nel Medioevo le grandi sintesi di teologia cristiana e teologia naturale, di sacra dottrina e di prima philosophia. La metafisica di Aristotele e la sua ricezione, mediata da Tommaso d'Aquino, furono considerate come la formulazione evidente della conoscenza naturale di Dio. D'altra parte, la teologia cristiana, attraverso la sintesi con la prima philosophia della teologia naturale, assurse al rango di regina delle scienze. Sin dall'inizio del Rinascimento, le scienze si sono emancipate dai limiti e dalle leggi di questa metafisica teologica. Esse hanno edificato il proprio mondo, quello della civiltà tecnico-scientifica. Nelle moderne università la teologia è altrettanto poco ‛regina' quanto poco la Chiesa nel mondo moderno è ancora la ‛corona della società'. Ma, se il mondo delle scienze non è più unificabile in un cosmo del sapere secondo il metro di una metafisica teologica, la teologia perde allora, insieme con il predominio, anche la sua rilevanza. Le moderne teorie globali, con cui si reinterpretano incessantemente le scienze e i loro risultati, sono teorie postaristoteliche e, sinora, mostrano un'indole assolutamente ateologica. Diventa in tal modo problematica non già l'intima essenza della teologia, ma la sua competenza e rilevanza universale. La teologia, nella sua figura tradizionale, perde la sua funzione. Come può rendere comprensibile l'universalità del Dio Uno, se non può più presupporre una conoscenza generale e immediata di Dio? Quale funzione ha la teologia cristiana in un mondo delle scienze che si è emancipato dalla sua guida? Quale figura deve dunque assumere la teologia cristiana in un mondo secolarizzato, postcristiano, se deve preservare la sua specificità cristiana e d'altra parte dimostrare la sua universalità teologica? Questi problemi sono stati trattati sinora sotto l'etichetta della ‛teologia fondamentale' (cattolici) e dell'‛apologetica' (protestanti). La crisi ha però ormai raggiunto non solo l'aspetto esterno della teologia cristiana, ma anche la sua intima essenza. Troviamo perciò non solo adattamenti esterni della teologia allo spirito moderno, ma anche seri abbozzi di una forma nuova della teologia cristiana in generale. Tutti questi abbozzi vanno in cerca di ruoli e funzioni, in cui la teologia cristiana possa acquistare sia rilevanza (nella situazione attuale) sia competenza (riguardo ai problemi dell'età moderna). Il nuovo abbozzo della teologia nel suo insieme viene delineato a seconda dell'analisi della situazione sociopolitica e culturale-spirituale attuale. Si è dato a questo procedimento anche il nome di ‛metodo contestuale': il testo della teologia dev'essere riferito ogni volta al contesto in cui la teologia si trova. Presenteremo qui solo gli indirizzi più importanti: a) la ‛teologia ermeneutica'; b) la ‛teologia della secolarizzazione'; c) la ‛teologia della liberazione' e infine, al § d), ricapitoleremo le idee fondamentali della ‛teologia cristiana dell'età moderna'.
a) La coscienza critica e la demitizzazione del cristianesimo
L'immagine del mondo del Nuovo Testamento è un'immagine mitica: si parla del cielo, della terra e dell'inferno. La storia è uno scenario di forze soprannaturali: Dio, gli angeli, Satana con i suoi diavoli. Gli uomini non sono liberi, ma dominati dai diavoli o da Dio. A questa immagine mitica del mondo corrisponde la presentazione dell'evento salvifico in un linguaggio mitico: il figlio di Dio discende dal cielo alla terra, sacrifica la vita sulla croce, il terzo giorno viene risuscitato dai morti, regna ora dal cielo e tornerà
La concentrazione bultmanniana della demitizzazione sull'interpretazione antropologica è stata, ed è, contestata. Anche quei teologi che hanno condiviso i suoi presupposti non hanno però accettato tutte le conseguenze. È possibile separare l'autocomprensione umana e l'immagine umana del mondo? Può l'uomo comprendere (verstehen) se stesso senza comprendere (begreifen) nel contempo il suo mondo? Non conduce l'interpretazione esistenziale nelle strettoie dell'esistenza privata borghese? La discussione sull'ermeneutica delle tradizioni religiose e culturali fondamentali ha aperto vasti orizzonti.
L'interpretazione esistenziale dell'annuncio della fede cristiana è stata d'altra parte arricchita della dimensione politica. L'‛ermeneutica politica' (Jürgen Moltmann, Johann Baptist
b) Il mondo secolare e la teologia della secolarizzazione
Con ‛secolarizzazione' s'intende, in senso stretto, la laicizzazione dei beni ecclesiastici e, in senso traslato, la mondanizzazione dei concetti religiosi; nel senso corrente, la società senza Chiesa, la morale senza religione, le scienze senza teologia e l'uomo senza Dio. Sin dagli esordi dell'illuminismo, del razionalismo e della rivoluzione la Chiesa e la teologia hanno condannato questa capitale evoluzione della società europea moderna come apostasia da Dio, come ribellione contro la religione e come ateismo destinato a condurre all'anarchia. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale nacque una teologia critica che accolse positivamente la secolarizzazione per ripudiare unicamente il secolarismo.
L'influsso più forte fu quello di
Anche
L'americano Harvey E. Cox ha tentato una teologia della ‟città secolare": il crollo della religione e della morale tradizionali e la nascita di una nuova civiltà urbana coincidono, e costituiscono il contrassegno del mondo moderno. In una prospettiva sociologica secolarizzazione non vuol dir altro che urbanizzazione. Nella metropoli moderna (megalopoli, tecnopoli) la natura viene sdivinizzata, la storia sottratta al fato, la religione privatizzata; la morale diventa pluralistica e l'uomo sempre più mobile. La metropoli moderna diventa un crogiuolo di razze, popoli, religioni e culture. Essa costituisce la realtà sociale di un'epoca areligiosa, razionale e pluralistica. Le Chiese tradizionali non hanno sinora trovato alcuna risposta alle sfide della metropoli moderna, limitandosi per lo più a trasferire alla città la situazione della famiglia patriarcale e del villaggio. Ma se il cristianesimo vuole adattarsi alla città, si rendono necessarie trasformazioni fondamentali: la Chiesa deve comprendere se stessa, dinamicamente, come l'avanguardia del Regno di Dio; la teologia deve diventare la teologia del mutamento sociale; la fede cristiana deve dispiegare capacità di esorcismo culturale: nell'anonimità della metropoli, solo la fede personale conferisce la certezza della propria identità. Attraverso l'annuncio profetico l'evangelo libera gli uomini dai nuovi dei e demoni del consumo e della politica. Attraverso le comunità cristiane la Chiesa risana chi soffre di ferite e di malattie sociali.
La nuova ‛teologia politica' ha ripreso questi spunti. Essa affronta il mondo secolare con due idee guida: 1) il riconoscimento della radicale mondanità del mondo non è nient'altro che la presa di coscienza della sua storicità. Se gli uomini moderni non sperimentano più la realtà secondo il ritmo della natura, ma come storia aperta, allora soltanto la speranza nel futuro fornisce il criterio per patire e creare tale storia. Il futuro della storia è stato sempre compendiato, nella prospettiva cristiana, nel simbolo del Regno di Dio. In quest'orizzonte escatologico la Chiesa e il mondo non stanno più l'una di fronte all'altro, ma percorrono un unico cammino comune. L'orientamento verso il futuro, proprio dell'età moderna, è fondato sulla fede biblica nella promessa. In quest'orientamento la fede nella promessa si secolarizza. Il mondo moderno rivendica la fede come speranza e la teologia come
c) Il Terzo Mondo e la teologia della liberazione
La liberazione dei popoli dal colonialismo europeo dopo la seconda guerra mondiale non ha significato la liberazione dall'imperialismo economico. Negli anni 1956-1966 si credette di poter superare il sottosviluppo dei popoli del Terzo Mondo attraverso una politica di sviluppo e gli aiuti per lo sviluppo. Sebbene predomini tuttora sia nella politica sia nella Chiesa, l'‛ideologia dello sviluppo' fu riconosciuta come un'illusione già nella Conferenza dei vescovi latinoamericani tenuta a Medellín nel 1968. La differenza tra il ‛primo' mondo e il Terzo Mondo cresce, il sottosviluppo si presenta come ‛sviluppo verso il basso'; la dipendenza e l'indebitamento dei popoli del Terzo Mondo aumentano enormemente. Per afferrare la situazione reale, l'ideologia dello sviluppo è stata sostituita con la ‛teoria della dipendenza'. Essa è il rovesciamento della teoria leniniana dell'imperialismo e dimostra che lo sviluppo complessivo del mondo torna sempre a vantaggio dei centri e delle metropoli del potere, mentre i popoli poveri vengono sempre più marginalizzati. Attraverso l'economia mondiale fondata sulla divisione del lavoro i paesi a monocultura sono costretti a produrre per i mercati mondiali, col risultato di distruggere le economie di sussistenza locali. Le moderne città di massa lasciano impoverire la campagna, sul piano economico come su quello culturale. Nel Terzo Mondo nasce oggi il proletariato della società mondiale. Dopo i tentativi, fatti per qualche tempo dalle Chiese, di elaborare una teologia e un'etica dello sviluppo è nata nell'America Latina dapprima una ‛teologia della rivoluzione' (
La teologia della liberazione, elaborata dapprima nell'America Latina, si è diffusa a partire dal 1968 in cerchie sempre più vaste. Il suo ‛metodo di azione-riflessione' fu accolto dalla ‛teologia nera' negli Stati Uniti e nel Sudafrica, come anche dalla ‛teologia femminista'. Dovunque classi, razze, stirpi e gruppi singoli diventino consapevoli, in questa società, del loro assoggettamento, della loro umiliazione e del loro sfruttamento, il metodo della teologia della liberazione si offre come una via per un futuro migliore. Lo sfruttamento dei poveri, l'umiliazione della gente di colore, l'oppressione delle donne, l'emarginazione degli handicappati costituiscono in molte parti del mondo un intreccio diabolico, che è ragione di infelicità e di morte per milioni di uomini.
La ‛teologia femminista della liberazione' merita particolare attenzione, perché l'oppressione delle donne perdura in molte culture nate dalla sostituzione del matriarcato primordiale con il patriarcato aggressivo. Tra queste figurano tutte le cosiddette culture superiori note. Il Vecchio Testamento è una testimonianza eloquente dell'oppressione dei culti cananei della Madre da parte della religione jahvista del Padre. Anche il cristianesimo ecclesiastico antico è una testimonianza religiosa del predominio dell'uomo. Nell'incipiente teologia femminista della liberazione si annuncia una rivoluzione culturale di grande portata, dalle conseguenze per il momento incalcolabili. La questione è se e in qual misura una tale teologia della liberazione della donna possa riallacciarsi alla tradizione biblica e cristiana o debba invece condurre a un distacco dal cristianesimo. La teologia femminista si occupa non soltanto della liberazione della donna dalla superiorità - religiosamente sancita - dell'uomo, ma anche della liberazione del corpo dalla superiorità dell'anima e della liberazione della natura dallo sfruttamento ad opera dell'uomo. Dove ha successo la teologia femminista conduce, oltre che alla liberazione della donna, a una nuova accettazione della corporeità umana e a una nuova comunanza con l'ambiente naturale. Come la teologia latinoamericana della liberazione, anch'essa ha in sé la tendenza alla liberazione universale. In fondo, le teologie della liberazione - pur nella specificità dei punti di partenza - sono tutte rivolte all'‟emancipazione umana dell'essere umano": altrimenti, non sarebbero teologie.
Rimangono tuttavia dei problemi aperti. Questa nuova funzionalizzazione della teologia nelle teologie della liberazione conduce forse a trascurare i contenuti della teologia? Si constata bensì un modo nuovo di fare teologia, ma, sinora, non nuove conoscenze teologiche. Il primato della prassi sulla teoria richiede un nuovo atteggiamento etico, che ideologizza la fede cristiana? Ad onta di questi interrogativi, rimane fermo che la fede cristiana è per sua natura fede messianica e che la fede messianica è sempre fede ‛liberatrice'. La teologia della liberazione rimane, nonostante tutti gli imprestiti ideologici, una ‛teologia cristiana'.
d) La teologia cristiana dell'età moderna
Le teologie del Medioevo erano teologie dell'‛amore'. Le teologie dei riformatori - Lutero, Zwingli, Calvino - erano nettamente teologie della ‛fede'. Ora, la questione fondamentale dell'età moderna è la questione del futuro. La teologia cristiana dell'età moderna deve dunque essere di necessità una ‛teologia della speranza'. Alla domanda: ‟che cosa posso sapere?" risponde, secondo Kant, la ragion pura. Alla domanda: ‟che cosa debbo fare?" risponde la ragion pratica. Alla terza domanda: ‟che cosa posso sperare?" deve rispondere la religione. Ma, per poter rispondere alla domanda sulla speranza, la teologia cristiana dev'essere ricostruita a partire dall'escatologia (dottrina delle cose ultime). Alla dottrina tradizionale della salvezza dell'anima in un aldilà celeste deve subentrare la dottrina del futuro del Regno di Dio, un futuro rinnovatore e del cielo e della terra. La tradizionale speranza nell'aldilà dev'essere integrata con la speranza nella trasformazione e nel rinnovamento della terra. All'atteggiamento di attesa passiva deve subentrare la speranza creativa, che anticipa già oggi ciò che sarà domani. Vengono riscoperte le componenti corporee e materiali della speranza cristiana nella resurrezione; ritrovano inoltre modo di manifestarsi le dimensioni cosmiche della speranza nella nuova creazione. Soltanto così
Nell'età moderna, la teologia è necessariamente una ‛teologia della libertà'. Il mondo moderno è nato dai movimenti di liberazione, nei quali è tuttora impegnato. Poiché la Chiesa e la teologia si sono troppo a lungo mantenute fedeli al principio d'autorità, molti movimenti di libertà si associarono con l'ateismo. Se la teologia cristiana vuol superare l'‛ateismo moderno', deve anzitutto superare la sua inerzia e dimostrare che il Dio biblico dell'esodo del popolo e della resurrezione di Cristo non ostacola ma anzi fonda, preserva e difende la libertà dell'uomo. Un cristianesimo che si fondasse su queste tradizioni bibliche di libertà diventerebbe realmente la ‛religione della libertà' (Hegel). Un tale cristianesimo dovrà però superare il vecchio teismo teocratico e il principio di autorità nella Chiesa, da esso legittimato. Soltanto allora la cristiana religione della libertà sarà in grado di combattere in modo convincente - e di superare - le perversioni della libertà nel mondo moderno: l'anarchia e il dispotismo. Sinché la fede in Dio e l'autorità ecclesiastica mantengono l'uomo in uno stato di minorità infantile e di irresponsabilità, ogni critica della teologia all'evoluzione moderna della libertà sarà inattendibile.
Tra le libertà, che la teologia deve riconoscere e fondare, vanno annoverate: 1) la ‛libertà di religione': fu un grosso passo in avanti, quando la Chiesa cattolica - nel Concilio Vaticano II - riconobbe espressamente la libertà religiosa, per l'innanzi respinta; 2) la ‛libertà di fede': l'uomo moderno crede sulla base della propria esperienza e della propria decisione, non sulla base dell'appartenenza involontaria a una Chiesa; nella fede personale egli cerca e trova la sua identità interna, che lo libera dalle costrizioni sociali e politiche; 3) la ‛libertà di coscienza': l'uomo adulto è responsabile della sua vita e deve perciò agire secondo la sua coscienza; le Chiese possono acuire la coscienza degli uomini, ma non possono sottrarre ad alcuno la decisione secondo coscienza, decidendo per lui; 4) la ‛libertà delle comunità locali': nella società moderna le Chiese non possono più organizzarsi in grandi istituzioni, ma devono organizzarsi in comunità di popolo. Le Chiese sono vitali soltanto dove la comunità è vitale. Il futuro della Chiesa sta nella comunità carismatica, nella quale tutti i membri, con le loro capacità e possibilità, esercitano il sacerdozio universale dei credenti. Soltanto nelle comunità di base, che oggi nascono dovunque, trova la sua fine sia il teismo clericale sia l'ateismo laico; 5) la ‛libertà della teologia': la teologia è il compito comune dell'intera cristianità, non il compito particolare di specialisti appositamente formati. La teologia cristiana si forma sempre nella responsabilità di fronte alla Chiesa, ma non può essere assoggettata alle forze di volta in volta dominanti nella Chiesa. La teologia cristiana si forma anche nella responsabilità di fronte agli uomini nel mondo, ma non può consegnarsi alle ideologie di volta in volta dominanti nella società. La libertà della teologia nella responsabilità di fronte alla Chiesa e di fronte al mondo è il presupposto perché la teologia recepisca in modo autonomo i problemi della nostra epoca e contribuisca con le proprie forze alla loro soluzione.
4. Alla ricerca dell'identità cristiana
Sino a che la Chiesa si sentì a casa nel Corpus Christianum, la sua identità cristiana non era messa in discussione, ma data per scontata. Essa godeva di un riconoscimento generale sul piano religioso e morale come su quello sociale e politico. Nella cultura unitaria del mondo cattolico medievale e nella cultura unitaria del mondo protestante borghese la Chiesa era un elemento costitutivo integrato di una figura storica del cristianesimo. Con ‛cristianesimo' intendiamo appunto queste sintesi culturali di Chiesa e Stato, fede e religione, teologia e filosofia. Esse improntano la vita in determinate epoche e determinate aree. Quando diventano obsolete perché non più all'altezza delle sfide del futuro, le loro forme si disgregano. L'identità cristiana di queste sintesi culturali diventa allora problematica. Ci s'interroga nuovamente circa l'origine e la verità della fede cristiana. Agli inizi dell'età moderna in modo occulto e poi in modo palese a partire dalla Rivoluzione francese, il cristianesimo europeo - sia cattolico sia evangelico - attrayersa appunto una di tali crisi di identità, che annuncia la fine del Corpus Christianum. Per lungo tempo questa crisi fu percepita oscuramente e soffocata. Ma il soffocamento era esso stesso un segno della crisi d'identità e non certo una sua soluzione; esso ebbe come effetto la cristallizzazione delle forme e l'estinzione del contenuto della vita cristiana. Menzioniamo qui alcune reazioni tipiche. Alla sua espulsione dalla vita pubblica, nell'età moderna, la Chiesa ha spesso risposto con l'ecclesiasticizzazione della vita cristiana e la clericalizzazione della Chiesa, col risultato di cacciare l'esistenza cristiana in un ghetto sociale. Essa ha lamentato l'ateismo del mondo moderno e si è limitata al ‛resto' fedele, al piccolo gregge. Secondo l'opinione di molti contemporanei, la Chiesa ha cessato di essere la religione dominante dell'Occidente cristiano per diventare una setta ai margini della società moderna. Sintomi di mentalità settana nelle Chiese sono oggi la conservazione della tradizione senza la fondazione di nuove tradizioni, il biblicismo rigoroso senza la predicazione liberatrice dell'evangelo e il comportamento pauroso quanto intollerante nei conflitti intraecclesiastici. L'identità cristiana può allora essere formulata soltanto in opposizione al ‛mondo'. Si diffonde, riguardo ai rapporti tra Chiesa e mondo, un modo di pensare in termini di ‛amico-nemico'. Quella cristiana non è più un'identità aperta, invitante, ma un'identità aggressivo-ostile. In certi gruppi cristiani, quest'identità cristiana aggressiva viene intensificata in un'apocalittica separazione tra i giusti e i senza Dio, nella quale si annuncia la fine del mondo. All'espulsione della teologia tradizionale dalla discussione scientifica e dal dibattito culturale, i teologi hanno spesso reagito in modo analogo: si sono arroccati sulle loro particolari tradizioni, cercando con zelo ortodosso di conservarne l'integrità; hanno trascurato le necessarie innovazioni. Per questo la storia della teologia moderna è dominata da tante restaurazioni: neotomismo, neocalvinismo, neo-ortodossia, rinascenza agostiniana, rinascenza tomistica, ecc. Non c'è dubbio che queste tradizioni contengano tesori ancora insospettati, ma sono esse all'altezza delle sfide della nostra epoca?
Di altra indole è la ricerca di ciò che è originariamente cristiano, con la quale s'intraprende il cammino ad fontes. Questo cammino è associato con la volontà di riforma della Chiesa e della teologia e col rinnovamento dell'esistenza cristiana a partire dalla verità della sua origine, al fine di pervenire a una testimonianza autentica nell'età presente.
a) La riscoperta dell'origine: la Bibbia
Nella teologia cattolica s'incominciò a percorrere questa strada sotto il pontificato di Leone XIII. Intorno al volgere del secolo nacque la ‛scienza' cattolica. Dalle irrigidite formule di fede del presente si risalì alle tradizioni teologiche del Medioevo e alla Patristica, studiandole imparzialmente con i metodi della ricerca storica moderna. Attraverso queste tradizioni cristiane si giunse infine alla Bibbia stessa. Nacque così, nella Chiesa cattolica, la prima esegesi storico-critica, scientifica (
Nella teologia evangelica le cose stanno altrimenti, giacché le scienze bibliche come indagine storico-critica delle Scritture originarie della fede cristiana ebbero inizio circa un secolo prima. Il problema centrale non era qui il rapporto tra Bibbia e tradizione ecclesiastica, ma il rapporto tra Cristo e Bibbia. L'indagine storico-critica della Bibbia, fin dai tempi di Reimarus e Semler (1778, 1779), fu guidata dal proposito di conoscere Gesù, di comprenderlo così come realmente fu. L'indagine storica della vita di Gesù condusse alla liberazione di Gesù dal dogma cristologico e alla liberazione della fede da costrizioni dogmatiche. Si dovette scuotere il dogma cristologico di
b) Il significato del Vecchio Testamento
Storicamente, il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Il Nuovo Testamento presuppone il Vecchio Testamento. Nella determinazione teologica del rapporto tra Nuovo e Vecchio Testamento e del significato di quest'ultimo per la Chiesa si decide dunque nulla di meno che l'identità cristiana rispetto al giudaismo. Perché la Chiesa cristiana conserva la Torà d'Israele come il proprio ‛Vecchio Testamento', e con quali occhi i cristiani leggono il Vecchio Testamento? Il campione della teologia liberale protestante A. von Harnack affermava nel 1923: ‟Ripudiare il Vecchio Testamento nel secondo secolo fu un errore che la Chiesa ha giustamente emendato; mantenerlo nel XVI secolo fu un destino al quale la Riforma non poté sottrarsi; ma conservarlo ancora, dall'Ottocento, come documento canonico del protestantesimo è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica". Harnack portava così alla luce l'imbarazzo della Chiesa e della teologia cristiana di fronte al Vecchio Testamento. Appartiene il Vecchio Testamento al canone per necessità teologica o per un accidente storico? Ha esso un suo messaggio per la Chiesa di Cristo? Qual è il suo significato per il rapporto della Chiesa con la Sinagoga e con Israele? Riguardo al Vecchio Testamento, la teologia cristiana ha elaborato una serie di punti di vista divergenti.
1. Il punto di vista dell'indifferenza per la religione. In questa prospettiva, sia il giudaismo sia il paganesimo sono per il cristianesimo religioni estranee. In quanto ‛religione di salvezza', il cristianesimo parla a tutti gli uomini - siano ebrei o pagani -, giacché tutti gli uomini sono eguali nel loro bisogno di salvezza. La religione cristiana di salvezza esisterebbe anche se Israele non fosse esistito, ed esisterebbe anche se non ci fossero più ebrei. Il Vecchio Testamento è associato al Nuovo unicamente dalla casualità storica. Da quando è apparso il redentore Cristo, esso non ha più nulla di proprio da dire. Questo punto di vista fu espresso dal teologo evangelico Friedrich Schleiermacher nella sua influentissima ‛dottrina della fede': ‟Il cristianesimo si trova bensì in una particolare connessione storica con il giudaismo, ma, per quanto riguarda la sua esistenza storica e la sua finalità, si rapporta in modo identico al giudaismo e al paganesimo". Ora, se il Vecchio Testamento è soltanto il libro di fede della religione giudaica, allora non si vede perché la Chiesa cristiana lo conservi e perché non lo baratti con le scritture religiose dei popoli in cui si è insediata. Soltanto quando i cosiddetti ‛cristiani tedeschi' sotto Hitler vollero sostituire il Vecchio Testamento con le saghe germaniche dell'Edda, molti teologi compresero l'insostituibile significato del Vecchio Testamento per la fede e la teologia cristiana.
2. Il punto di vista del contrasto necessario per la salvezza. In questa prospettiva, il cristianesimo è nato dalla contrapposizione radicale al giudaismo e in questa contrapposizione continua a vivere: il Vecchio Testamento rivela la legge di Dio, il Nuovo Testamento l'evangelo di Dio; il Vecchio Testamento insegna la legge della retribuzione, il Nuovo Testamento lo spirito dell'amore; il Vecchio Testamento si rivolge unicamente al popolo eletto degli Ebrei, il Nuovo Testamento è aperto a tutti gli uomini. Il Vecchio e il Nuovo Testamento, Israele e la Chiesa sono visti in reciproca contrapposizione; si tratta però di una contrapposizione necessaria al riconoscimento della novità del Nuovo Testamento e della specificità della Chiesa. Questo punto di vista è rappresentato sovente dai teologi della tradizione luterana. Da ultimo, Rudolf Bultmann ha definito la storia d'israele, qual è testimoniata nel Vecchio Testamento, come ‟una storia del fallimento" del popolo ebraico nei confronti di Dio, della sua legge e della sua elezione, per sottolineare quindi positivamente la giustificante fede in Cristo: ‟La fede abbisogna, per esser sicura di se stessa, di sapere il senso della legge; altrimenti soggiacerebbe alla seduzione della legge. La situazione del giustificato s'innalza unicamente sulla base del fallimento". Ma ciò non significa altro che la fede cristiana abbisogna del ricordo della legge di Dio solo in quanto follia negativa, e che il Vecchio Testamento viene conservato, come esempio da cui rifuggire, per rassicurare se stessa. Da questo punto di vista, la teologia cristiana elabora una teologia del Vecchio Testamento come una teologia negativa, mirante a porre se stessa nella giusta luce. Questa contrapposizione tra cristianesimo e giudaismo si è, purtroppo, largamente diffusa attraverso la predicazione: qui il samaritano misericordioso, là il fariseo sicuro di sé; qui la Chiesa veggente, là la Sinagoga cieca.
3. Il punto di vista della successione nella storia della salvezza. Valutata da questo punto di vista, la storia d'Israele è soltanto la ‛preistoria' del cristianesimo e il Vecchio Testamento una ‛preparazione' del Nuovo.
4. Il punto di vista della comunità profetica. In questa prospettiva, ciò che è proprio e specifico del Vecchio Testamento viene riconosciuto in quella ‛sovrabbondanza' di promesse che se non hanno ancora trovato, con l'avvento di Cristo e l'esperienza dello Spirito, una realizzazione universale, hanno però trovato in linea di principio un avvio di attuazione. Sono le promesse del Regno di Dio, che rinnova il cielo e la terra, e del regno della libertà, che porta la pace a tutte le creature. Il Nuovo Testamento non annuncia né il compimento né la cancellazione di queste promesse del Vecchio Testamento, bensì la loro conferma attraverso Cristo e la loro estensione - attraverso la Chiesa - a tutti i popoli. Già Gioacchino da Fiore aveva rappresentato questa concezione nel XII secolo. Essa è vitale nella tradizione della teologia riformata: nella sovrabbondanza delle sue promesse il Vecchio Testamento ha un ‛plusvalore' per il Nuovo Testamento. Attraverso il messaggio del Nuovo Testamento, le speranze d'Israele abbracciano gli uomini di tutti i popoli. Il futuro del Nuovo Testamento è lo stesso futuro del Vecchio Testamento: entrambi hanno di mira il Regno di Dio. Soltanto in questa concezione il Vecchio Testamento viene preso teologicamente sul serio, così come viene riconosciuto lo specifico significato della Sinagoga e d'Israele accanto alla Chiesa di Cristo. Ebrei e cristiani hanno un libro e una speranza in comune (
Il cristianesimo acquisisce la sua identità originaria non attraverso la negazione, il ripudio o la successione al giudaismo, ma soltanto nella comunanza delle promesse di Dio e delle speranze d'israele. La recente ‛teologia del Vecchio Testamento' (G. von Rad, W. Zimmerli, e altri) è il Ponte verso quest'origine comune e la guida verso il futuro che ebrei e cristiani hanno in comune. La Chiesa legge la Torà d'Israele come il libro della propria speranza nel Regno di Dio. Essa trova nel messia Gesù, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, l'accesso a questa speranza.
c) Il problema cristologico e il Nuovo Testamento
La specificità del cristianesimo è contrassegnata dal nome di Gesù Cristo. Questo nome, che suona come un nome duplice, è in verità un nome e un titolo: Cristo è il messia di Dio. Per questo il problema critico della teologia è il seguente: è Gesù realmente il Cristo? è il messia di Dio apparso in Gesù di Nazareth?
Sin dalle sue prime confessioni di fede, la Chiesa ha assunto il Nuovo Testamento come prova del suo dogma cristologico: Gesù Cristo è il figlio unigenito di Dio (simbolo apostolico, simbolo niceno). Il Nuovo Testamento divenne il fondamento della dottrina ecclesiastica di Cristo, della cristologia. Questa cristologia è tuttavia ab antiquo una ‛cristologia dall'alto': essa comincia nel cielo, discende con l'incarnazione del figlio di Dio nella storia di Gesù di Nazareth, accompagna il figlio di Dio fatto uomo dalla Galilea a
Sino all'età moderna, gli uomini sentivano e pensavano in chiave metafisica: l'esistenza di Dio era considerata certa e indubitabile: soltanto la creatura caduca era sperimentata come incerta e problematica. Riguardo a Cristo, essa non si chiedeva se Gesù fosse Dio, bensì se egli fosse realmente e autenticamente uomo.
La ‛svolta antropologica' nel pensiero dell'età moderna ha capovolto il problema di Cristo: non l'umanità di Gesù è problematica, ma la sua divinità. Non è più possibile presupporre l'esistenza di Dio in cielo, per poi riconoscere in Gesù di Nazareth il figlio di Dio fatto uomo. Bisogna, all'inverso, partire dall'uomo Gesù di Nazareth per riconoscere Dio. Di conseguenza, nelle condizioni del pensiero moderno la cristologia è sempre, programmaticamente, ‛cristologia dal basso'. Vedere la strada di Gesù ‛dall'alto' è possibile soltanto dal punto di vista di Dio. Gli uomini vivono ‛in basso' sulla terra e la loro conoscenza è limitata alla sfera delle loro possibilità di esperienza. Essi incontrano non l'eterno figlio di Dio in cielo, ma l'uomo Gesù di Nazareth. Sono il messaggio ch'egli reca su Dio e il suo rapporto con Dio che possono rivelare agli uomini la sua qualità di figlio di Dio. La vecchia ‛cristologia dall'alto' era sempre cristologia dell'‛uomo di Dio' Cristo: natura divina e natura umana in una persona. La svolta moderna verso la ‛cristologia dal basso' comincia invece con Gesù l'‛uomo di Dio'; la sua divinità consiste nella forza senza cedimenti della sua coscienza di Dio. La sua umanità senza peccato è la prova della sua divinità. La sua efficacia redentrice consiste nel fatto ch'egli rafforza la nostra oscurata coscienza di Dio (Schleiermacher). Noi dobbiarno dunque lasciare che la sua umanità - nella sua personalita storica - agisca su di noi per riconoscere la sua divinità nella peculiare coscienza ch'egli aveva di Dio (W. Herrmann). La cristologia dal basso è sempre cristologia dell'umanità. Vari indirizzi di questa cristologia moderna ravvisavano l'umanità di Gesù nella sua esemplare ‛coscienza religiosa', seguendo in ciò Schleiermacher; altri sottolineavano la sua esemplare ‛morale', in ciò seguendo Kant e A. Ritschl. Oggi si sottolinea volentieri l'esemplare ‛umanità' di Gesù: la sua totale devozione sia a Dio sia agli uomini è il contrassegno peculiare di Gesù. Ponendosi al suo seguito, nel mondo di oggi, l'uomo può vivere una vita veramente umana (H. Küng).
Ma questa moderna cristologia antropologica non presuppone forse la vecchia cristologia teologica? Come potrebbe cominciare una ‛cristologia dal basso', se non si presupponesse un ‛alto' ch'essa spera di raggiungere ? Se non fosse stato annunciato come fornito di autorità divina, perché Gesù di Nazareth non dovrebbe essere annoverato tra i grandi uomini della storia universale (Buddha, Socrate, ecc.), che svolgono un ruolo esemplare e determinante quanto alla vera umanità dell'uomo? La moderna cristologia dal basso è una correzione ragionevole della vecchia cristologia dall'alto; essa non può tuttavia esistere da sola senza dissolversi. Ogni cristologia - già nel titolo ‛Cristo' - presuppone Dio, e precisamente il Dio d'Israele, il Dio della speranza. Nella teologia moderna si riscontra una grande divisione tra la teologica cristologia dall'alto, quale fu elaborata da ultimo da
Se ci rifacciamo alle tradizioni neotestamentarie, constatiamo che la storia di Gesù Cristo è sempre illuminata da due lati: viene raccontata alla luce della sua missione storica e viene ricordata alla luce della sua resurrezione escatologica. Non sono, queste, le prospettive metafisiche ‛dall'alto' e ‛dal basso', bensì le prospettive storiche ‛in avanti' e ‛a ritroso'. Gli evangeli (sinottici) narrano la storia di Gesù alla luce della sua missione messianica e del suo messagio sul Regno di Dio. Essi presentano la sua vita come una conseguenza del suo messaggio. La sua missione si compie nella passione e morte sulla croce del Golgota.
Gli ultimi sviluppi della teologia hanno posto questa domanda di Gesù a Dio, accanto al problema cristologico, all'inizio della riflessione. È stata in tal modo recepita anche la domanda a Dio dell'uomo sofferente del nostro tempo (H. Urs von Balthasar, H. Mühlen, E. Jüngel,
Nell'odierna disgregazione delle consuetudini e sicurezze del Corpus Christianum, l'identità cristiana diviene malcerta e problematica. I cristiani e le Chiese sono costretti a rifarsi a ciò che v'è di originario e di essenziale nella loro fede. In questa strada verso la verità dell'origine essi scoprono nuovamente la Bibbia: la teologia dogmatica deve fondarsi sulla ‛teologia biblica' se vuol dare una risposta alla domanda circa l'origine e l'essenza del cristianesimo. Questa necessità libera la teologia dai condizionamenti sia della cultura cattolica sia del mondo borghese-protestante, le conferisce la sua autonomia e la sua peculiarità cristiana e rende nettamente kerygmatiche le sue formulazioni. Nell'originaria ed essenziale testimonianza biblica la teologia trova colui che ne fa una ‛teologia cristiana': Gesù il Cristo di Dio. La sua missione messianica, la sua dedizione sino alla morte sulla croce e il suo resuscitamento nella vita eterna sono le fonti di tutto ciò che può essere rilevante per un'esistenza cristiana oggi. Gesù Cristo non è un oggetto della teologia, ma l'unico soggetto - che tutto determina - di ogni teologia che si pretenda cristiana.
5. La teologia nell'epoca ecumenica
Con la disgregazione dell'Impero romano si disgregò anche la cristianità, che in esso trovava un'organizzazione unitaria. Nel 1054 avviene la divisione tra Chiesa d'Oriente e Chiesa d'Occidente.
a) Superamento del confessionalismo
L'ingresso delle Chiese nell'‛epoca ecumenica' ha per le ‛teologie ecclesiastiche' rilevanti conseguenze, che sono venute alla luce solo lentamente. Le teologie ecclesiastiche non possono più servire all'autocomprensione delle proprie confessioni e alla loro delimitazione rispetto alle altre confessioni. La teologia cattolica e la teologia protestante debbono comprendere se stesse come strade verso una teologia cristiana comune. Nella vecchia ‛epoca confessionale' la teologia serviva a consolidare le varie identità confessionali. Di conseguenza, essa era sempre anche una ‛teologia controversistica', mirante a enucleare le differenze dottrinali, cioè gli elementi di separazione rispetto alle altre confessioni. Nell'epoca ecumenica le diverse teologie ecclesiatiche debbono interrogarsi sugli elementi comuni, per rendere possibili la necessaria convivenza e collaborazione delle Chiese. Ciò non conduce a una mescolanza delle confessioni o all'indifferenza teologica nei confronti della verità, ma a una riflessione sull'essenziale. Viene alla ribalta l'interrogativo circa la vera Chiesa. Se ci s'interroga sulla vera Chiesa all'interno della propria struttura ecclesiale, ci si dovrà porre lo stesso interrogativo anche all'interno di tutte le altre strutture ecclesiali. In tutte le Chiese cristiane, ad onta delle scissioni e delle reciproche condanne, è sempre rimasta viva - sino a che Cristo viene confessato come unico Signore della Chiesa - la consapevolezza dell'unità della Chiesa. Per questa ragione la svolta della teologia dall'ostinatezza confessionale alla concordia ecumenica è stata più facile di quanto molti si aspettassero. La teologia è divenuta oggi in tal misura compito comune di tutte le Chiese cristiane che spesso è ormai impossibile riconoscere l'origine confessionale dei diversi contributi.
Si può esemplificare il cammino della teologia nell'epoca ecumenica attraverso il caso della commissione ecumenica ‟Fede e costituzione", del
Il cammino teologico cominciò nelle prime Conferenze ecumeniche con il tentativo di una ‛dottrina comparata della Chiesa' (Conferenza di
La Conferenza mondiale delle Chiese a
Il cammino del movimento ecumenico è abbastanza chiaramente riconoscibile: ha condotto dall'‛anatema' al ‛dialogo' e quindi dal dialogo alla ‛cooperazione'; condurrà dalla cooperazione alla ‛comune confessione di fede'. La decisione a questo proposito può essere presa soltanto da un concilio cristiano generale. È vero che l'idea di un concilio ecumenico, pancristiano, e la speranza che l'intera cristianità vi parli con un'unica voce appartengono ancora al regno dell'utopia; un'utopia che però sin d'ora illumina con la sua luce: già oggi le Chiese cominciano a ‛vivere in modo conciliare', cioè a instaurare tra loro la comunanza suscettibile di condurre a un concilio di tal natura.
‟Vivere in modo conciliare" (Lukas Vischer) non vuol dire una vita senza conflitti, bensì una vita che accolga nuovamente i conflitti che portarono un tempo alla separazione e lavori alla loro soluzione. La soluzione dei conflitti attraverso la separazione delle parti contendenti può servire provvisoriamente alla pace, ma non è affatto una soluzione del conflitto reale. La soluzione dei conflitti reali implica la restaurazione della comunione. Nella vita conciliare non ci sono più problemi separati ‛intracattolici' o ‛intraprotestanti', ma unicamente problemi comuni, problemi cristiani. Ogni Chiesa prende parte ai problemi interni delle altre. Viene dunque abbandonato il vecchio principio della reciproca non ingerenza tra le confessioni.
L'altra idea ecumenica legata alla vita conciliare è quella della ‛molteplicità riconciliata'. È un'idea coltivata soprattutto dalle grandi associazioni confessionali mondiali: la Federazione luterana mondiale, la Federazione riformata mondiale, l'Alleanza mondiale metodista, ecc. Con l'espressione ‛molteplicità riconciliata' si vuol sottolineare
Nel Vaticano II, e ancor più in seguito, la Chiesa cattolica romana si è aperta alla comunanza ecumenica con le Chiese ortodosse ed evangeliche, come lasciano riconoscere le istituzioni e le dichiarazioni ufficiali. Papa Giovanni XXIII apri all'ecumenismo nuove possibilità, quando formulò un aperto invito ad assistere al Concilio Vaticano II. Da quaranta (durante il primo periodo del Concilio nel 1962) il numero degli ‛osservatori' non cattolici romani salì a oltre un centinaio nel quarto periodo nel 1965. Già nel 1960 era stato fondato il Segretariato per l'unione dei cristiani. Commentando l'andamento conciliare con propri rapporti e consigli, gli osservatori esercitarono anche un influsso attivo sul Concilio, e persino su vari testi conciliari. Con ragione Yves Congar poteva affermare nel 1965: ‟La Chiesa cattolica è finalmente entrata nella vita dell'ecumene, la quale comincia là dove si è pronti a cessare di pensare e di vivere come se gli altri non ci fossero, e ci si vuole invece impegnare con loro nell'attesa del giorno, naturalmente ancora lontano, in cui potremo finalmente avere la piena comunione nello stesso pane della verità e del corpo del Signore".
Con l'ingresso nell'‛epoca ecumenica' le Chiese hanno abbandonato l'assolutismo (siamo i soli a possedere la verità) e il trionfalismo (noi siamo già ‛il cielo sulla terra'). Esse hanno imboccato insieme la strada - attraverso la storia - verso quel futuro che rappresenta, in quanto Regno di Dio, il loro compimento. La ‛dottrina cristologica della Chiesa', nella quale, partendo da tradizioni diverse, si perviene a un'origine comune, ha condotto d'altra parte alla ‛dottrina escatologica della Chiesa', che concepisce la Chiesa come il popolo storico di Dio, che avanza pieno di speranza verso il compimento nel Regno di Dio. È questo riconoscimento della propria provvisorietà nei confronti del Regno di Dio che crea tra le Chiese una ‛comunanza del cammino'.
Quest'ultima idea ha inoltre attirato l'attenzione di molti teologi che pensano in chiave ecumenica sul primo scisma da cui è uscita la stessa Chiesa cristiana; ha cioè attirato l'attenzione su ‛Israele' e sul ‛giudaismo'. Il movimento ecumenico è un grande movimento di svolta: le divisioni e le spaccature della cristianità nel passato sono superate per guadagnare il futuro comune. Su questa strada s'incontra inevitabilmente la prima spaccatura, quella tra cristianesimo e giudaismo. Senza un rapporto nuovo col giudaismo, con la Sinagoga e con Israele, il movimento ecumenico non raggiungerà la sua meta. Senza una nuova ‛comunanza del cammino' di cristiani ed ebrei, il popolo di Dio non acquisisce una figura storica. Di conseguenza, il ‛dialogo con gli ebrei' non può più essere condotto nel quadro dei ‛dialoghi con le religioni non cristiane'; esso deve essere posto al centro della teologia cristiana. Troppo a lungo il cristianesimo si è limitato a rifiutare, respingere e perseguitare il giudaismo, per sostituirsi a Israele come il vero popolo di Dio. L'ingresso nell'epoca ecumenica significa, non da ultimo, abbandonare ogni antisemitismo cristiano e volgere l'attenzione alla comunanza cristiano-giudaica. Sulla base della riscoperta del significato del Vecchio Testamento per la Chiesa cristiana e sulla base dell'olocausto di
b) Superamento dell'eurocentrismo
Con l'ingresso nell'epoca ecumenica la Chiesa cristiana supererà anche il suo - sempre più irrealistico - eurocentrismo culturale e politico per divenire universale. D'altra parte, la sua presenza in tutti i popoli e in tutte le culture la costringe inevitabilmente al colloquio con le religioni universali. Sinora, tali colloqui si proponevano scopi di evangelizzazione, oppure nascevano da un interesse puramente scientifico per fenomeni religiosi lontani. Oggi, il cristianesimo deve però acquisire ‛capacità di dialogo' e ‛disponibilità al dialogo', se vuol sopravvivere e dare il suo contributo al futuro dell'umanità. In precedenza, ogni religione aveva la sua propria storia. Se è vero che le religioni hanno passati diversi, oggi il loro futuro sta invece nella loro nuova comunanza. Le concezioni teologiche circa l'atteggiamento del cristianesimo riguardo alle altre religioni derivano ancora interamente dall'epoca pre-ecumenica. Sussiste pur sempre l'‛assolutismo ecclesiastico', per il quale fuori della Chiesa non c'è salvezza e nelle altre religioni non può esserci altro che il male. E sussiste pur sempre l'‛assolutismo della fede', per il quale le religioni non cristiane sono nient'altro che idolatria e superstizione. Anche la ‛pretesa sincretistica alla totalità', con cui abbastanza spesso nella storia il cristianesimo ha fatto proprio il patrimonio di altre religioni per assorbirle in sé, non costituisce un'autentica offerta di dialogo. Se vuole acquisire capacità di dialogo, il cristianesimo deve superare quest'assolutismo e confidare nella verità di Dio piuttosto che nella propria rappresentanza di questa verità. D'altro canto, la fede cristiana non può scadere in un ‛relativismo scettico', privo di un vero interesse a un colloquio religioso con le religioni universali. Un'autentica comunanza mondiale delle religioni è pensabile soltanto se le religioni entrano in uno scambio fruttuoso e si aprono all'influsso reciproco. Un autentico interesse per un'altra religione nasce quando c'è un bisogno creativo dell'altro. Per i cristiani il dialogo con gli uomini di altre religioni non è un mezzo per un fine predeterminato, ma l'espressione - in fondo naturale - della loro vita nell'amore e del loro desiderio di comunanza con gli altri.
L'ingresso nell'epoca ecumenica è infine anche l'ingresso nell'‛epoca dell'umanità'. Se vogliono sopravvivere, i popoli sono oggi chiamati allo sviluppo di una comunità mondiale giusta e all'instaurazione di una pace mondiale duratura. L'alternativa è: ‛un solo mondo o nessun mondo'.
La Chiesa cristiana, oggi presente in tutti i popoli e in tutte le culture, può diventare un fermento per la promozione della giustizia e della pace sulla terra. Per questo i cristiani hanno sostenuto con grande energia il riconoscimento e la diffusione dei ‛diritti umani'. Tutte le maggiori Chiese si sono impegnate con ‛dichiarazioni teologiche' a favore dei diritti umani in quanto fondamento di una futura comunità mondiale. Nella fusione dei diritti individuali e di quelli sociali, dei diritti economici e di quelli ecologici, i diritti umani sono il punto di partenza sia per un'etica sia per una politica della futura comunità mondiale. In questa situazione, le Chiese diventano il portavoce della coscienza del mondo dinanzi alle clamorose violazioni dei diritti umani nelle dittature e nei regimi fondati sul dominio di classe. Quanto più le Chiese, oggi, spezzano i loro vecchi legami con determinati popoli, Stati e classi e diventano consapevoli della loro comunanza ecumenica e della loro responsabilità nei confronti dell'umanità, tanto più chiaramente diventano l'elemento profetico nella politica della futura società mondiale. L'universalità ecumenica addossa loro questa nuova responsabilità politica.
È possibile parlare sensatamente di un futuro per i popoli solo se s'instaura e si mantiene la ‛pace mondiale'. La pace è la prima condizione per la sopravvivenza dell'umanità. Quanto più la Chiesa si libera dagli interessi dei popoli e delle classi dominanti, tanto più può operare per la pace di tutti gli uomini. La riunificazione ecumenica delle Chiese separate è la base del loro impegno per la pace mondiale. È vero che tutte le Chiese si sono pronunciate per la pace; ma una ‛dottrina teologica della pace' nell'epoca della minaccia nucleare e della crescente crisi ecologica sta muovendo solo i primi passi. In essa debbono essere sottoposte a revisione le vecchie dottrine della ‛guerra giusta' e del ‛dominio degli uomini sulla natura'. I diritti umani e la pace sono i più urgenti temi politici della teologia alla fine del nostro secolo. (V. anche cattolicesimo, ecumenismo, ortodossia, protestantesimo).
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