QUANTI, Teoria dei

Enciclopedia Italiana (1935)

QUANTI, Teoria dei (fr. théorie des quanta; ted. Quantentheorie; ingl. quantum theory)

Enrico Persico

Con questa denominazione generica vengono indicate le teorie sulla struttura dell'atomo e sulla natura della radiazione, caratterizzate dal fatto che una qualche grandezza fisica (energia, azione, momento di quantità di moto, ecc.) può assumere soltanto certi valori discreti, cioè non costituenti un insieme continuo (p. es., solo i multipli di un valore fondamentale). La necessità d'introdurre nella meccanica degli atomi un elemento di discontinuità che non appare nelle leggi che governano i corpi di dimensioni ordinarie fu riconosciuta per la prima volta nel 1900 dal fisico tedesco Max Planck, il quale perciò si deve considerare come il fondatore della teoria dei quanti. L'indirizzo da lui inaugurato ha avuto poi sviluppo grandissimo ed ha permesso di giungere ad una conoscenza assai vasta e profonda delle leggi che governano il microcosmo, fondata su solide basi sperimentali. Queste leggi furono però scoperte dapprima frammentariamente e in forma imperfetta, e solo gradualmente si sono coordinate e precisate, così che col nome di "teoria dei quanti" si sono designate successivamente diverse teorie applicabili ciascuna a un campo limitato di fenomeni, e non sempre sistematiche e coerenti. Solo nel 1925-1926 si è riusciti a inquadrarle in una teoria generale e sistematica, che costituisce la forma attuale della teoria dei quanti e si chiama più propriamente meccanica quantistica. Rimandando alla voce quantistica, meccanica per un'esposizione sommaria di questa teoria, si farà qui un breve cenno sulle varie forme che ha assunto in passato la teoria dei quanti.

La teoria del corpo nero e i quanti d'energia. - In fisica si chiama "nero" un corpo che assorba completamente qualsiasi radiazione riceva: questa proprietà è posseduta in grado approssimativo dai corpi che comunemente chiamiamo neri (soprattutto dal nerofumo); ma il modo migliore per realizzare un corpo quasi perfettamente nero consiste nel praticare un piccolo foro in una scatola a pareti interne possibilmente scure (teoricamente basta che tali pareti abbiano coefficiente di assorbimento diverso da zero per qualunque frequenza): la superficie del foro, vista dall'esterno, si comporta allora come la superficie d'un corpo quasi perfettamente nero. Ha grande importanza in fisica lo studio della radiazione che emette un corpo nero riscaldato, perché si dimostra termodinamicamente (e l'esperienza lo conferma) che l'intensità e la composizione spettrale di questa radiazione sono indipendenti dalla natura del corpo (nel caso della scatola, indipendenti dalla natura delle sue pareti) e dipendono solo dalla sua temperatura: si parla perciò della "radiazione del corpo nero". Tale radiazione è stata studiata sperimentalmente con grande cura: essa ha uno spettro continuo, e la distribuzione dell'intensità in funzione della frequenza è quella rappresentata, per varie temperature, dalla figura.

L'emissione di radiazione, secondo le teorie classiche, è dovuta al movimento degli elettroni contenuti entro gli atomi dei corpi (si ricava infatti dalle equazioni di Maxwell che una carica elettrica in moto deve irradiare energia proporzionalmente al quadrato della sua accelerazione): ma i calcoli fatti su queste basi conducono, per il corpo nero, a uno spettro del tutto diverso da quello osservato, e ciò indipendentemente da ogni particolare ipotesi sulla struttura del corpo. Infatti, poiché la legge di radiazione del corpo nero è indipendente dalla sua natura, possiamo riferire i calcoli a un corpo costituito da un gran numero di piccolissimi oscillatori, cioè di elementi capaci di assorbire radiazioni di una determinata frequenza (caratteristica dell'oscillatore) e di riemetterla. Un oscillatore si può pensare, p. es., realizzato mediante un elettrone mantenuto in una posizione di equilibrio da una forza di tipo elastico e capace di oscillare intorno a questa posizione, quando venga investito da onde elettromagnetiche: non è però necessario pensare proprio a questo modello, poiché il meccanismo di costituzione degli oscillatori non entra per nulla nella teoria: basta che essi esistano in numero grandissimo e di tutte le possibili frequenze. Quando un corpo siffatto si trova in equilibrio termico con l'ambiente (come sono, p. es., le pareti della scatola costituente il corpo nero, e il cui interno è attraversato in tutte le direzioni dalla radiazione), i suoi oscillatori entrano in tumultuosa vibrazione, ora più ora meno violenta, ora assorbendo energia dalle onde elettromagnetiche, ora emettendone, e si può dimostrare, mediante le leggi dell'elettromagnetismo, che, detta Iν. dv l'intensità della radiazione di frequenza compresa fra ν e ν + dv emessa dall'unità di superficie del corpo nero, si ha

dove Ūν è l'energia posseduta in media da un oscilc2 latore di frequenza propria ν. Ora, secondo la meccanica statistica, l'energia media di ogni oscillatore alla temperatura assoluta T è data dalla legge statistica della "equipartizione dell'energia" e risulta Ūν kT: si trova perciò per la radiazione del corpo nero la legge (detta di Rayleigh e Jeans):

Essa è abbastanza bene verificata solo per ν/T sufficientemente piccolo, ma dà una Iν. crescente indefinitamente con v, al contrario di quello che risulta dalle curve sperimentali della figura: integrando poi rispetto a ν da 0 a ∞ si trova l'assurdo risultato che l'energia totale irradiata nell'unità di tempo risulta infinita. A questa formula si giunge quando si applicano le leggi classiche della meccanica e dell'elettromagnetismo, anche partendo da modelli diversi.

Fu M. Planck il primo che, modificando i fondamenti del ragionamento precedente, riuscì nel 1900 a ottenere per la Iν una formula in perfetto accordo con le curve sperimentali. Anziché calcolare l'assorbimento e l'emissione di radiazione da parte di un oscillatore mediante le leggi dell'elettromagnetismo, il Planck tentò di rinunciare a interpretare il meccanismo di questo fenomeno, ammettendo solo che l'oscillatore potesse assorbire o emettere di tanto in tanto una piccola quantità ε di energia raggiante, che egli chiamò "quantum" (parola latina usata in tedesco nel senso sostantivale di "quantità", "dose") e che si proponeva poi di far tendere a zero per giungere all'assorbimento o all'emissione continui. Ma poi si accorse che il risultato giusto si otteneva invece conservando ad ε un valore finito, e precisamente, per ciascun oscillatore proporzionale alla sua frequenza ν, cioè ponendo ε = hν, dove h è una costante. Si giunge allora, invece che alla (1), alla formula

detta "formula di Planck". Assumendo per h il valore (in unità GGS)

la (2) rappresenta esattamente le curve sperimentali per qualunque T. La costante h, che così entrava per la prima volta nella fisica e che poi si è rivelata d'importanza fondamentale in diversissimi fenomeni è detta costante di Planck (il valore su riportato è ricavato da una discussione critica dei varî metodi di determinazione, dovuta a R. T. Birge, che ne stima l'errore probabile a ± 0,0083 • 10-27).

L'ipotesi di Planck fu spesso interpretata nel senso che all'energia si dovesse attribuire una struttura granulare come all'elettricità e alla materia, ma essa non implicava necessariamente questo, poiché si riferiva solo al modo come avvengono gli scambî di energia tra campo elettromagnetico e materia, e non alla natura dell'energia. Anzi lo stesso Planck in seguito mostrò che bastava riferire la discontinuità alla sola emissione, e cioè ammettere che ogni oscillazione assorbisse l'energia gradualmente e la emettesse invece per quanti. Tale ipotesi era però sempre in contrasto con le leggi dell'elettromagnetismo compendiate nelle equazioni di Maxwell (dette poi leggi classiche, in contrasto a quelle quantistiche) e il suo successo, troppo completo per essere casuale, dimostrava che quelle leggi non sono applicabili a sistemi di dimensioni atomiche. E invero, l'ammettere che per sistemi di dimensioni atomiche valgano le stesse leggi fisiche che sono state ricavate dall'osservazione di corpi di dimensioni ordinarie (non atomiche) costituisce un'estrapolazione che è ragionevole tentare, e che molte volte ha dato buoni risultati, ma che non è necessariamente destinata al successo. La prima volta che questa ipotesi (generalmente ammessa da tutte le antiche teorie dell'atomo, senza nemmeno rilevarla) si è mostrata in difetto è stato appunto nella teoria del corpo nero: è per questo che la teoria di Planck segna l'inizio di un periodo nuovo nella storia della fisica atomica.

Accenneremo anche al fatto che l'ipotesi dei quanti d'energia di Planck condusse, nel 1907, A. Einstein e poi P. Debye ad una ottima spiegazione quantitativa della dipendenza dei calori specifici dei solidi dalla temperatura (v. calorie, VIII, p. 449 segg.).

I quanti di luce. - Un altro ordine di fenomeni in cui le teorie classiche, applicate alla scala atomica, si sono mostrate in contraddizione con l'esperienza, è quello dell'effetto fotoelettrico, cioè l'emissione di elettroni da parte di metalli colpiti da luce o anche da raggi X o gamma; emissione che ha luogo, purché la frequenza della radiazione superi un certo limite caratteristico del metallo, detto "soglia fotoelettrica". L'interpretazione più naturale fornita dalla teoria elettromagnetica della luce è la seguente: gli elettroni contenuti nel metallo, sotto l'azione del campo elettrico rapidamente alternato della radiazione, entrano in oscillazione e vengono strappati ed espulsi. Ma questa interpretazione non è sostenibile, anzitutto perché non spiega l'esistenza della soglia, poi perché da essa si dedurrebbe che gli elettroni dovrebbero uscire con tanto maggiore velocità, quanto più intensa è la luce: invece l'esperienza insegna che la forza viva degli elettroni uscenti è assolutamente indipendente dall'intensità della luce, e dipende solo dalla sua frequenza (v. fotoelettricità). Anche se si pensasse a un meccanismo di emissione diverso, ma sempre fondato sulla teoria elettromagnetica classica, si urterebbe contro la seguente difficoltà: l'energia che riceve ciascun atomo del metallo in un secondo è uguale all'intensità della radiazione moltiplicata per l'area dell'atomo e da ciò si può approssimativamente calcolare il tempo necessario perché in un atomo si accumuli tanta energia quanta è quella che si ritrova nell'elettrone espulso: orbene, tale tempo può risultare, se la radiazione è debole, anche di molti giorni, mentre l'emissione elettronica s'inizia senza ritardo sensibile appena cominciata l'irradiazione.

Queste difficoltà condussero A. Einstein, nel 1905, a proporre (come semplice metodo euristico) un'interpretazione fondata, anziché sulla teoria ondulatoria, su un modello corpuscolare della luce, ricollegabile alla teoria dei quanti d'energia di Planck. Secondo tale modello, l'energia della radiazione viaggerebbe concentrata in granuli (detti quanti di luce, anche quando si tratta di radiazione non visibile), ed è naturale ammettere che ciascuno di essi contenga l'energia di un "quanto" di Planck, cioè hν: l'intensità della radiazione dipende dall'essere i quanti più o meno fitti, ma l'energia di ciascuno di essi è indipendente dall'intensità.

Allora si spiegano facilmente le particolarità dell'effetto fotoelettrico, poiché l'energia, anziché essere distribuita con continuità sulla superficie del metallo, è concentrata solo nei punti colpiti dai quanti di luce, e si comprende allora come un atomo, che si trovi in uno di questi punti, possa subito ricevere l'energia necessaria a espellere un elettrone, e ciò indipendentemente dall'intensità della radiazione (la quale influirà solo sul numero degli atomi colpiti). Se poi si ammette che un elettrone, per vincere le forze che lo trattengono entro il metallo, debba compiere un dato lavoro w0, caratteristico del metallo in questione, è evidente che, se l'energia del quanto di luce è inferiore a w0 (cioè se ν 〈 w0/h) nessun elettrone viene espulso (il che spiega l'esistenza della soglia), mentre se è superiore, gli elettroni devono uscire con una forza viva w = hν − w0. E questa legge, detta di Einstein, è stata confermata con grande precisione da molte esperienze, che anzi hanno dato uno dei metodi migliori per la determinazione di h. La concordanza dei valori di h così ricavati con quelli dati dallo spettro del corpo nero era indizio sicuro che sia l'ipotesi dei quanti d'energia di Planck, sia quella dei quanti di luce di Einstein penetravano nella natura dei fenomeni.

Si noti che l'ipotesi dei "quanti di luce" di Einstein (che oggi si preferisce chiamare fotoni) non era un puro e semplice ritorno alle antiche teorie corpuscolari della luce, poiché l'energia di un quanto di luce non deve essere necessariamente pensata come forza viva di un corpuscolo materiale. Si cercò anzi di trovare una forma elettromagnetica per tale energia (cioè d'identificare i quanti di luce con singolarità del campo elettromagnetico), ma tali tentativi non ebbero successo: l'ipotesi euristica di Einstein sembrava inconciliabile con le equazioni di Maxwell. E poiché inoltre tutti gli svariati fenomeni dell'interferenza e della diffrazione erano in perfetto accordo con la teoria ondulatoria, mentre non è possibile spiegarli in alcun modo con un modello corpuscolare, così all'ipotesi dei quanti di luce di Einstein per varî anni non fu generalmente attribuito un carattere di realtà, finché nel 1922 la scoperta dell'effetto Compton costrinse a riprenderla in seria considerazione.

L'effetto Compton consiste in una lievissima diminuzione di frequenza che subiscono i raggi X, quando vengono diffusi da una sostanza a peso atomico leggiero (p. es., carbonio). Di tale fatto A. Compton e P. Debye diedero una semplice spiegazione teorica, considerando il fenomeno della diffusione come un urto elastico dei "quanti di luce" costituenti i raggi X contro gli elettroni contenuti nel corpo diffondente: questa teoria si accordava perfettamente, anche dal lato quantitativo, con i risultati sperimentali, e fu poi confermata da suggestive esperienze di W. Bothe e H. Geiger, e di Compton e A. W. Simon. Tutto ciò riportò in primissimo piano l'ipotesi dei quanti di luce. Si fu così costretti a spiegare alcuni fenomeni della radiazione (interferenza e diffrazione) con una teoria ondulatoria, altri (effetto fotoelettrico e Compton) con una teoria corpuscolare, senza riuscire a far rientrare tutti in un'unica teoria.

La teoria elettrica dell'atomo e i quanti d'azione. - Frattanto sorgeva e si sviluppava una teoria meccanica ed elettrica della struttura dell'atomo, che ha avuto e ha tuttora parte essenziale nella fisica teorica. Per la sua esposizione v. atomo. Qui ci limitiamo a dire che essa è fondata sul modello atomico proposto dal Rutherford nel 1911, in seguito alle sue esperienze sulla deflessione delle particelle alfa: un nucleo costituente la massa principale dell'atomo, carico di elettricità positiva, intorno a cui girano, come pianeti intorno al sole, degli elettroni, in numero dipendente dalla specie atomica: nell'idrogeno, p. es., vi è un solo elettrone, percorrente un'orbita circolare o ellittica.

Se però si volesse postulare che a tale modello si possono applicare tutte le leggi della meccanica e dell'elettromagnetismo classici, si sarebbe condotti a risultati in contrasto con l'esperienza; anzi, l'atomo stesso sarebbe instabile, poiché gli elettroni irraggerebbero gradatamente tutta la loro energia e finirebbero col cadere sul nucleo. Perciò il fisico danese N. Bohr, nel 1913, propose di abbandonare parzialmente l'ipotesi della validità delle leggi classiche nella scala atomica (come già aveva fatto il Planck per l'oscillatore) e di sostituirle con tre ipotesi nuove che gli servirono di base per la teoria dell'atomo d'idrogeno, e che erano le seguenti:

a) Mentre le leggi meccaniche consentirebbero all'elettrone di muoversi su un circolo di qualunque raggio, esso si può muovere solo su alcuni di questi circoli (orbite stabili, o quantiche), costituenti una successione discreta anziché continua, mentre gli altri movimenti sono resi impossibili o instabili da una causa sconosciuta. Le orbite stabili sono caratterizzate dalla condizione che il momento p della quantità di moto sia multiplo intero della costante h di Planck

(condizione di quantizzazione del momento della quantità di moto).

b) Mentre, secondo l'elettromagnetismo, l'elettrone in moto circolare dovrebbe irradiare con continuità, esso non irradia, quando si muove su un'orbita quantica.

c) L'elettrone può passare bruscamente da un'orbita quantica a un'altra, in un modo sul quale non si fa nessuna ipotesi: durante questi passaggi avviene l'emissione o l'assorbimento di energia sotto forma (ordinariamente) di radiazioni elettromagnetiche, la cui frequenza è determinata dalla condizione che l'energia emessa o assorbita (cioè la differenza tra l'energia delle due orbite) deve essere un quanto intero, cioè hν.

Queste ipotesi, enunciate dal Bohr per le sole orbite circolari, furono poi estese da A. Sommerfeld (1916) alle orbite ellittiche dell'idrogeno e anche a sistemi più complicati: le ipotesi b e c restavano le stesse, mentre la condizione (3) era sostituita, per un sistema a f gradi di libertà, dalle condizioni più generali seguenti (trovate, indipendentemente e quasi contemporaneamente, da W. Wilson, Ishiwara e A. Sommerfeld):

(dove qi è una generica coordinata lagrangiana del sistema, e p il corrispondente momento). Poiché l'integrale ha le dimensioni di un'azione (v. azione minima, principio dell'), la 3′ si può considerare come una "quantizzazione dell'azione" e la costante h fu chiamata anche "quanto d'azione". Si noti che, applicando la (3′) all'oscillatore, si trova che la sua energia deve essere multipla di h: così l'ipotesi di Planck rientra come caso particolare in quelle di Sommerfeld. Aggiungeremo inoltre che l'esistenza, per qualunque atomo, di diversi stati con valori discreti dell'energia (stati quantici) è direttamente confermata dalle esperienze di J. Franck e G. Hertz (1914 segg.), le quali provano pure direttamente l'esattezza dell'ipotesi c sulla frequenza emessa (v. atomo).

Si noti che la (3) o la (3′) è soltanto un'aggiunta fatta alle leggi meccaniche, mentre le ipotesi b e c sono nettamente in contrasto con le leggi elettromagnetiche; d'altra parte però il moto dell'elettrone sulla sua orbita e la sua energia si calcolano partendo dalla legge di Coulomb e dalle leggi classiche della meccanica. La teoria di Bohr e Sommerfeld aveva dunque questo di caratteristico, che accettava una parte delle conseguenze dei principî meccanici ed elettromagnetici classici, e ne rifiutava un'altra parte, ma era incapace di modificare quei principî in modo che da essi si traessero soltanto le conseguenze accettabili. Essa era quindi, più che una teoria organica e coerente, una "codificazione" provvisoria degli strappi da farsi alle teorie classiche per adattarle ai fenomeni della scala atomica. Ma, sebbene questo carattere di provvisorietà fosse nettamente sentito dai fisici, esso non impedì di sviluppare ampiamente la teoria, raggiungendo in ogni campo notevolissimi risultati, confermati generalmente dall'esperienza in modo talvolta meraviglioso, specialmente nel vastissimo campo della spettroscopia, sia ottica, sia dei raggi X. Spesso però le previsioni teoriche erano in accordo solo approssimativo con l'esperienza, e in qualche raro caso (p. es., nello spettro dell'elio) in disaccordo completo.

L'assetto logico della teoria dei quanti. - La situazione della fisica teorica nel 1925 era dunque la seguente: la teoria dell'atomo aveva raggiunto un grande sviluppo, sulle basi provvisorie e incoerenti delle ipotesi di Bohr e Sommerfeld; nei riguardi della natura della radiazione si avevano due teorie, una corpuscolare e una ondulatoria, ciascuna delle quali però spiegava soltanto una parte dei fenomeni ed era in contraddizione con l'altra. Questa situazione critica fu superata nel 1925 col sorgere, per opera di W. Heisenberg, L. De Broglie e E. Schrödinger, della meccanica quantistica (v.), che sostituì ai postulati provvisorî e parzialmente contradditorî delle precedenti teorie un sistema di principî logicamente coerenti, fornì metodi algoritmici nuovi e potenti per svilupparne le conseguenze e risolse, con una profonda critica dei principî, il contrasto fra teoria ondulatoria e teoria corpuscolare della luce.

Si è poi dimostrato che dai principî della meccanica quantistica si possono ricavare come conseguenze di prima approssimazione i postulati della teoria di Bohr e Sommerfeld, senza necessità di postulare quell'elemento di discontinuità che caratterizzava le precedenti teorie dei quanti e ne costituiva uno dei tratti più insoddisfacenti: nella meccanica quantistica invece la discontinuità degli stati quantici risulta automaticamente da principî di continuità. La teoria di Bohr e Sommerfeld conserva dunque, anche dopo il sorgere della nuova meccanica atomica, una grande importanza come metodo di approssimazione e come modello intuitivo.