TEORIE DELL'ARCHITETTURA

XXI Secolo (2010)

Teorie dell’architettura

Paola Gregory

In un mondo in ‘liquefazione’ e superproduzione qual è il nostro sembrerebbe aporetico parlare di teorie dell’architettura. Eppure, come chiarisce Vittorio Gregotti nel suo testo Contro la fine dell’architettura (2008), la questione della teoria e della sua costruzione esiste, poiché nell’ambito architettonico il termine teoria rappresenta innanzitutto «un modo di essere del progetto», «fondamento, scelta e strumento dell’agire concreto non distinguibile dal suo esito» (p. 6).

La teoria architettonica presenta dunque caratteri particolari di coincidenza tra ricerca teorica e pratica o più precisamente, riprendendo Marco Biraghi, l’architettura torna – dalla metà degli anni Sessanta in poi – «a estrarre la sua teoria (e di conseguenza la sua prassi) direttamente dal suolo nel quale si radica», operando spesso slittamenti fra discorso critico, pensiero teorico e pratica progettuale che, benché «distinti, convivono in modo pacifico» (Le parole dell’architettura. Un’antologia di testi teorici e critici: 1945-2000, a cura di M. Biraghi, G. Damiani, 2009, p. XII). Teoria è allora mettere in scena un pensiero sia quando si progetta e si disegna, sia quando si parla, si scrive o si insegna: la teoria è perciò rappresentata dai progetti che portano inscritti al proprio interno il pensiero di un architetto a volte, ma non sempre, emblematico di un discorso più generale; dai saggi, libri, manifesti che gli architetti scrivono; dalle riflessioni intorno alle condizioni e all’esperienza degli architetti, costituendo sempre ipotesi ‘intenzionalizzate’ a partire da uno specifico disciplinare.

Il termine teoria non rimanda perciò a una concettualizzazione generale o generalizzabile, riassumibile in principi e norme che possano tradursi in una sorta di precettistica (dottrina), né a una trattazione tutta riflessiva ed epistemologica del discorso: piuttosto il pensiero teorico sembra nutrirsi sempre più della reciproca implicazione con l’attività ‘poetica’, intendendo con questa la teoria delle scelte possibili che si offrono all’autore di un testo, ovvero gli elementi e le regole, le soluzioni strutturali e distributive, i riferimenti formali, iconografici, storici, critici che l’architetto utilizza nell’argomentare il proprio discorso e/o nel produrre le sue opere.

La riflessione teorica – almeno negli aspetti prevalenti del dibattito architettonico recente – rappresenta quindi il complesso e profondo intreccio che lega l’attività tecnica, artistica e critica dell’architetto (non sempre contemporaneamente presenti) alla sua visione del mondo, costituendo un ‘piano dialogante’ su cui si innescano le profonde relazioni che intercorrono fra osservazione-esperimento-ipotesi (ovvero fra critica, progetto, teoria) nelle reciproche implicazioni con le prospettive che investono i grandi movimenti di pensiero propri di una particolare epoca storica: quei paradigmi che, come scrive Thomas S. Kuhn (The structure of scientific revolutions, 1962; trad. it. 1969), servono di guida alla ricerca scientifica e, a nostro avviso, a ogni tipo di ricerca, compresa quella teorico-progettuale in architettura.

La crisi dei ‘grandi racconti’: il dibattito teorico nel postmodernismo

L’insieme della produzione che emerge nel campo disciplinare all’alba del nuovo secolo – sia essa direttamente legata a filoni di ricerca più ampi (filosofici, estetici, scientifici ecc.), o adottata quale giustificazione a posteriori del lavoro architettonico o come interferenza metaforica fra linguaggi diversi – non può che rispecchiare la crisi dei ‘grandi racconti’ fondanti con cui si è identificato lo sviluppo del postmodernismo, termine che, nonostante o forse grazie alla sua complessa significazione, meglio di altri sembra identificare la condizione attuale, rappresentando con Fredric Jameson «la logica culturale del tardo capitalismo» (Jameson 1991).

Rispetto ad altre possibili denominazioni – fra cui tarda/neo/iper-modernità, supermodernism (Hans Ibelings), transmodernity (Marcos Novak) e, più recentemente, critical modernism, elaborata da Charles Jencks nell’omonimo testo del 2007 per sottolineare la tradizione cosciente di una ‘massa critica’ di temi, motivi e orientamenti diversi compresenti e paralleli, e post-postmodernità, indicata da Franco Purini per rimarcare la mancanza di «distanza critica a favore di una simultaneità tra l’interpretazione di una situazione e l’azione su di essa» (Purini 2008, p. 160) – il termine postmodernismo (o postmodernità) – inteso non nella definizione disciplinare corrente di ‘architettura postmoderna’, bensì nell’accezione datane, insieme a Jameson, da altri attenti critici della cultura attuale, quali Jean Baudrillard, David Harvey, Jean-François Lyotard, Gianni Vattimo, pur nelle accentuate differenze e divergenze di opinione – sembra offrire in effetti, ancora oggi, una maggiore pervasività semantica e lessicale. Lega infatti tra loro i fenomeni del postindustrialismo (ovvero la sostituzione, nelle società più avanzate, della produzione di beni con l’erogazione o la simulazione dei servizi), del globalismo (e dunque la ‘compressione spazio-temporale’ di organizzazione del capitalismo), dello sviluppo iperbolico dell’informazione e della cultura dell’immagine, aspetti tutti legati alla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione immateriali e globali.

È dunque all’interno di questa ‘condizione postmoderna’ (per usare l’espressione di Lyotard) che appare opportuno analizzare alcune delle riflessioni teoriche più interessanti, riconoscendo nella effervescente molteplicità della produzione architettonica contemporanea un carattere peculiare del pensiero postmoderno che, nella sua implicita e continua dinamica interrelazionale fra aspetto economico e culturale, impedisce nella «eclissi della distinzione fra base e sovrastruttura» – come sottolinea Jameson – di sistematizzarne l’accezione o di imporne un significato sommario coerente. Da questo punto di vista la medesima radicalizzazione del dibattito architettonico fra modernismo e postmodernismo, evidenziata nel binomio di Hal Foster postmodernism of reaction e postmodernism of resistance (Postmodern culture, 1985) – intendendo con il primo chi cerca rifugio nelle forme del passato e con il secondo chi resta connesso al progetto del modernismo ricercandone una rivalutazione critica – così come nella dicotomica polarizzazione di categorie individuate da Ihab Hassan nella sua famosa tabella (The culture of postmodernism, «Theory, culture and society», 1985, 2, 3, pp. 119-31) – alcune delle quali, come forma chiusa/antiforma, finalità/gioco, progetto/caso, gerarchia/anarchia, opera finita/processo, ipotassi/paratassi, radice/rizoma, tipo/mutante, determinatezza/indeterminatezza, sono divenute celebri – non può esaurire nel suo schematismo le complesse relazioni, ambiguità, transizioni, incertezze, problematicità, sollevate dai nuovi sistemi di pensiero. Piuttosto che in una dogmatica cristallizzazione dei termini le medesime polarità andrebbero perciò interpretate secondo un movimento dialogico che metta in crisi le definizioni stesse, non più «eterne e immutabili» in quanto già multiple, differenziate e mobili, riconoscendo con Michel Foucault che ciò che è produttivo non è stanziale ma piuttosto nomade, non uniforme ma, al contrario, differente.

Del resto è proprio il pensiero della differenza – o come scrive Mario Perniola (L’arte e la sua ombra, 2000) il «sentire la differenza» – a rappresentare uno dei luoghi centrali di riflessione (non solo estetica) del postmodernismo che, allontanatosi dalla logica dell’identità aristotelica e della dialettica hegeliana, non condivide alcuna esigenza di compiutezza, tradizionalmente attribuita al pensiero moderno. All’idea di poter ricondurre l’eterogeneità dei saperi e degli eventi a un unico orizzonte di senso, subentra una visione del mondo che privilegia la pluralizzazione e diffusione dei significati e dei valori: in luogo di verità assolute e fiducia nel progresso, il postmodernismo favorisce le correlazioni polimorfe e l’indeterminatezza dei processi; in luogo di ‘metanarrazioni’, destinate a sostenere l’illusione di una storia universale, afferma l’eterogeneità, la discontinuità e la differenza nella cultura e nella storia; in luogo di una razionalità oggettiva, riscopre il ruolo del soggetto, non come modello normativo ma come luogo di esperienza vissuta, rivalutandone le molteplici forme della diversità.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del 20° sec. – quando l’utilizzo del termine postmodernismo si è diffuso per descrivere i cambiamenti in atto – la produzione teorica nel campo architettonico è diventata gradualmente più ibrida, frammentaria e pervasiva, operando una forma di riflessione e dunque di linguaggio che mette in dubbio e revoca, a ogni passo, il suo stesso diritto di enunciare quel che dice. La teoria, o ‘discorso teorico’, è divenuta, come sottolinea Jameson, la forma privilegiata fra le arti e i generi postmoderni, sostituendo il testo alla vecchia idea di opera e in particolare di opera d’arte. Sia l’eclettismo storicistico degli anni Settanta-Ottanta, sia soprattutto il decostruttivismo/decostruzionismo negli anni Ottanta-Novanta – entrambi debitori della teoria linguistica, dallo strutturalismo al poststrutturalismo – evidenziano infatti un incessante processo di ‘rotazione interna’, di moltiplicazione-pluralizzazione-differenziazione di punti di vista, riflessi della stessa frammentazione e instabilità di un soggetto ormai decentrato che, operando attraverso una tendenziale disarticolazione dei materiali, interrompe la catena significante, con una riduzione dell’esperienza a una serie di presenti puri e irrelati nel tempo. La frequente sovrapposizione fra oggetto e testo ha sviluppato un’ampia proliferazione teorica emergente in ogni forma di discorso – concettuale-riflessivo quanto pragmatico-operativo – confondendo sempre più spesso i limiti fra teoria, critica e progetto che diventano – come scrivevano negli anni Ottanta, fra gli altri, Bernard Tschumi e Peter Eisenman – forme transitive e permeabili di una «costruzione teorica» o di una «teoria costruita» a sottolineare l’imprescindibile esigenza di ripensare i limiti dell’architettura per «portare l’architettura ai limiti» (B. Tschumi, Architecture and disjunction, 1994; trad. it. 2005).

Di questi sconfinamenti continui sono testimonianza alcune raccolte antologiche apparse alla fine degli anni Novanta, la cui molteplicità di posizioni e problematiche presenti – inside e/o outside architecture – ben evidenzia la complessità dei discorsi, l’interazione dei percorsi, l’ibridazione dei saperi, che pongono l’architettura in una dimensione esplicitamente interdisciplinare, nella sua capacità di attraversare diversi settori d’indagine e riflessione, senza fornire necessariamente sintesi più alte. I libri curati da Kate Nesbitt (Theorizing a new agenda for architecture. An anthology of architectural theory 1965-1995, 1996), Neil Leach (Rethinking architecture. A reader in cultural theory, 1997) e K. Michael Hays (Architecture theory since 1968, 1998) costituiscono da questo punto di vista – pur nelle loro differenze – il tentativo di rappresentare quel «millenarismo alla rovescia» (Jameson) che connota il collasso dei diversi saperi e concetti sui quali si era venuta sviluppando la società moderna, individuando nella compresenza di paradigmi o sistemi di pensiero diversi la possibilità «di una nuova comprensione del limite» disciplinare, ormai non più luogo di «esclusione od opposizione», ma piuttosto soglia di una proficua apertura ad altre conoscenze (Leach).

Lo stesso orientamento caratterizza la seconda edizione di Theories and manifestoes of contemporary architecture (2006), curata da Ch. Jencks e Karl Kropf, ove la presenza del ‘paradigma della complessità’ a chiusura della lunga sequenza antologica di testi tutti ‘interni’ all’architettura (con la sola eccezione della ‘geometria frattale della natura’ di Benoît B. Mandelbrot con cui si apre, emblematicamente, l’ultimo e nuovo capitolo) ben evidenzia l’esigenza di un pensiero inclusivo, emergente dall’interazione di componenti e saperi diversi, irriducibili a semplici schematizzazioni. Del resto basta scorrere The metapolis dictionary of advanced architecture (2003) per capire quale metamorfosi culturale e disciplinare attraversi oggi il dibattito contemporaneo, generando quella metapolis (una realtà che comprende e trascende le metropoli attuali in un nuovo tipo di agglomerato fatto di relazioni multiple eterogenee e discontinue, capaci di svilupparsi, mutare, trasformarsi come un sistema vivente) che ne è simbolo tendenzioso e programmatico. Un’architettura basata su teorie non univoche e non determinate, perché da sempre sfaccettate e indeterminate; un’architettura poliedrica e continuamente diversificata perché prodotto di strutture (tecnico-culturali ed economico-sociali) multiple, dinamiche e cangianti, collegate e interattive. Un’architettura caratterizzata da temi ricorrenti di ibridazione, movimento, fluttuazione − quali flows, glocal, ‘inorder factors (come inconstancy, indetermination, interaction, informal e così via), in-between, land-arch, landscape, naturartificial, networks e l’elenco potrebbe continuare – ed esplosa in infiniti percorsi possibili che non sempre ne individuano attuabili alternative di sviluppo, ponendosi piuttosto quali problematiche aperte che si piegano e si intersecano in intrecci sempre più indissolubili. Di qui il senso di «dissoluzione» – come scrive Gregotti – dell’identità della disciplina, così come la difficoltà a «produrre un proprio progetto, anzi, facendo del rifiuto della progettualità una prospettiva ideale, anzi, una propria ideologia» (2008, p. 40).

Se la critica alla ‘deregolazione’ assume in Gregotti toni di condanna particolarmente polemici, in una visione apocalittica della produzione contemporanea liquidata in gran parte all’insegna di ‘congiunzioni perverse’, va tuttavia sottolineato quanto sia proprio la mancanza di un orientamento globale a impedirne un giudizio di tipo identitario. La precisazione ci sembra d’obbligo, sia perché il fatto di essere dentro la cultura del postmodernismo implicherebbe in qualche modo un giudizio su noi stessi, sia perché nel suo ambito sono confluite posizioni estremamente diversificate – e di questo il Metapolis dictionary offre puntuali esempi – a volte orientate su un’ingiustificabile semplificazione dell’antimodernità, a volte al contrario sostenute dall’emergere di nuovi (e spesso arcaici) valori, come la preoccupazione per la natura, l’importanza per lo spirituale e per altre qualità immateriali che sempre più occupano la ribalta della scena sociale.

La compresenza di orientamenti diversi, che portano a difendere programmaticamente i valori della plurivocità, della differenza e del difforme – dalla rivendicazione delle marginalità alla nuova etica-estetica ecologica, dalla messa in discussione dell’identità disciplinare alla licenza progettuale dell’archistar –, ben evidenzia del resto l’esigenza del dibattito architettonico verso «sconfinamenti ed incursioni continue» nella ricerca di nuove pratiche culturali capaci di aderire alla complessità della realtà. Come ha scritto Massimiliano Fuksas, infatti, nel presentare la 7a Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia (Less aesthetics more ethics, 2000), «stiamo passando da una posizione critica, forse aristocratica, esterna al ‘Magma’ delle infinite relazioni ed interferenze, a navigare e muoverci assieme a una materia sconosciuta, piena di energia e contraddizioni» (pp. 13-14).

Questa immersione profonda nei processi di conoscenza ed elaborazione del reale, che è sfocamento dei limiti disciplinari, apertura ai molteplici saperi alimentati dalle nuove consapevolezze scientifiche e dalle prospettive dischiuse dal mondo informatico, quale ragnatela mobile di interconnessioni, caratterizza il pensiero architettonico alla svolta del secolo. La stessa tragedia dell’11 settembre 2001, che sembrava poter causare un improvviso arresto nell’articolata evoluzione – esplosiva o implosiva – dell’architettura, ha invece prodotto un’ulteriore ‘satellizzazione’ dei percorsi, nell’urgenza di afferrare istantaneamente una realtà sempre più sfuggente e metamorfica, caratterizzata dalla «liquefazione di ogni sistema solido e cristallino», dalla mobilità e leggerezza, dalla precarietà, vulnerabilità e instabilità (Z. Bauman, Liquid modernity, 2000; trad. it. 2002). Nel suo farsi-prodursi l’architettura ha accolto e integrato i processi di ‘mediatizzazione’ del reale, trasformando quindi dal piano tecnologico a quello epistemologico la fluidità e immaterialità dei media elettronici; ha metabolizzato le tecnologie digitali, modificando profondamente tematiche e modalità progettuali; ha incluso le scienze della complessità con il riconoscimento del concetto centrale di sistema come insieme di rapporti intrinsecamente dinamici (con l’ambiente, l’osservatore, delle parti fra loro); ha abbracciato la tematica della sostenibilità in una nuova visione estetica correlata alla consapevolezza ecologica e alla rivoluzione informatica. Dilatando i propri confini sino a porsi beyond building – nella provocatoria affermazione di Aaron Betsky all’11a Mostra internazionale di architettura di Venezia (Out there. Architecture beyond building, 2008), le riflessioni sull’architettura appaiono sempre più indefinite e fluttuanti, interessate a introiettare tutte le marginalità e le contraddizioni, a dislocare i discorsi per giocare – scrive il curatore – «con la propria natura estranea», ponendo interrogativi piuttosto che soluzioni o proposte: una teoria non teoretica dunque, che non intende dimostrare logicamente alcun assunto, cercando piuttosto di approfondire, scavare, indagare concetti, in una dimensione del pensiero aperto e problematico che confronta continuamente l’architettura con tutti quei territori fisici e mentali che costituiscono – nel reciproco gioco di specchi del mondo – la scena contemporanea.

Come Rem Koolhaas – teorico per eccellenza della cultura della congestione, ibridazione, contaminazione e collisione, dalla «delirante» storia di New York (Delirious New York. A retroactive manifesto for Manhattan, 1978; trad. it. 2001), allo «spazio-spazzatura» (Junkspace, in Harvard design school guide to shopping, ed. C.J. Chung, J. Inaba, R. Koolhaas, S.T. Leong, 2001, pp. 408-21) – ha suggerito nell’antologia di suoi testi e progetti dal titolo Content. Triumph of realization (2004), l’architettura «liberata dall’obbligo di costruire può divenire un modo per pensare qualsiasi cosa, una disciplina che rappresenta relazioni, proporzioni, connessioni, effetti, il diagramma di tutto» (p. 20): un metodo quindi – piuttosto che il prodotto di un progetto – che suscita con i suoi riavvolgimenti, spostamenti, cambiamenti, l’interesse stesso per il continuo movimento. È questo movimento, soltanto, che la riflessione teorica contemporanea può offrire, soprattutto in quel proficuo dialogo fra teoria e progetto in cui sembrano precipitare alcune delle più interessanti questioni della costitutiva ‘ambiguità strutturale’, per dirla con Jameson, dell’epoca attuale.

Nel ripercorrere alcune ricerche recenti non possiamo, dunque, che operare attraverso un atteggiamento pragmatico, che in luogo di offrire certezze eserciti piuttosto la pratica del dubbio e a volte la sospensione del giudizio. Di qui la scelta di articolare il dibattito attorno a tre tematiche principali che, correlate fra loro da alcune importanti implicazioni dirette e/o indotte dalla cultura estetica, filosofica e scientifica, sembrano offrire ampi e flessibili orizzonti di riferimento e riflessione, lasciando evidentemente aperte altre possibili interpretazioni del discorso architettonico attuale, sempre in costante e veloce mutamento. In quest’ottica – che non può che essere parziale e relativa – piuttosto che una sintesi dialettica emerge una pratica discorsiva e riflessiva, tesa a sottolineare, nella compresenza delle diversità, la multiforme pluralizzazione di un pensiero che, nella difesa dell’alterità, si caratterizza in senso tanto epistemologico quanto fenomenologico.

Informe e biomorfismi: dalla ‘piega’ alle nuove metafore biologiche

Senza le nuove tecnologie digitali, alcune delle forme espressive più provocatrici (e per alcuni gratuite) che hanno caratterizzato l’architettura nel passaggio fra il 20° e il 21° sec. non si sarebbero sviluppate o almeno non sarebbero proliferate con la rapidità di espansione che, soprattutto a livello di elaborazione concettuale, hanno avuto. Com’è noto, senza il software Catia Frank O. Gehry non avrebbe potuto costruire il Guggenheim Museum (1997) di Bilbao e senza i potenti programmi di animazione Greg Lynn non avrebbe esplorato quegli oggetti sinuosi e globuliformi che per primo, negli anni Novanta, chiamò Blobs. Tuttavia affermare che lo sviluppo di una nuova tecnologia sia in sé la causa della nuova tendenza verso un’architettura informe e bloboidale appare quanto meno semplicistico, poiché l’espansione di ogni nuova tecnologia dipende innanzitutto da un ambiente culturale favorevole alla crescita del nuovo sistema tecnico.

È proprio in questa corrispondenza e reciproca influenza che la ‘rivoluzione informatica’ in architettura (Saggio 2007) ha potuto trovare ampi margini di affermazione e diffusione, correlandosi, da una parte, allo sviluppo delle scienze della complessità, con particolare attenzione dagli anni Novanta alle ‘scienze della vita’, dall’altra al riemergere del sublime che nella contemporaneità riscopre aspetti a lungo emarginati dall’estetica occidentale, come la dismisura, la sproporzione, la disarmonia, la dissonanza. Nella mancanza di certezze, che è innanzitutto perdita di una visione antropocentrica, il sublime opera infatti come forza eversiva delle norme codificate in una disseminazione del soggetto che, ripensato nella sua inerenza al mondo, si trasforma sino alla soglia del limite dell’altro da sé: l’altro può essere la natura, come nel sublime naturale di Edmund Burke (1729 ca. - 1797) oggi dilatata allo spazio siderale aperto dalle sonde spaziali o dai primi passi dell’uomo sulla Luna; ma anche la realtà ‘intramondana’ del metamorfico e agitato mare dell’attualità, così come lo ‘spazio globale’ postmoderno o multinazionale, l’iperspazio della «grande rete comunicazionale […] nella quale – scrive Jameson – ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali» (1991; trad. it. 2007, p. 60). È questo perdersi nei recessi dell’universo, nelle reti globali complesse, come nell’angosciosa voragine dell’esistenza, a costituire un potente viatico al sublime nell’architettura contemporanea che privilegiando, nel superamento dell’esattezza e della chiusura della forma in sé stessa, la poetica dell’indistinto, del vago, dell’indefinito, dell’informe e dell’informale, evidenzia sempre l’impossibile distanziamento del soggetto implicato nella vertigine di un infinito dispiegarsi del mondo, sovrastato – scrive Antonino Terranova – «dall’Extra Large di dimensioni smisurate e figure sfigurate [che hanno] in comune il mettere alla prova la fisiologia dei nostri sensi sino ai limiti di estenuazione, di torsione, di allucinazione, di disturbo, di instabilità» (Mostri metropolitani, 2001, p. 20).

Quale shock e spaesamento indotti dall’alterazione prospettica, obliquità, dismisura dello spazio, così come dalla ricomparsa del corpo all’interno di un’architettura che ha a lungo soppresso la sua consapevole presenza, il sublime attraversa molte riflessioni contemporanee attribuibili all’informe: dai testi disciplinari elaborati da alcuni dei suoi massimi interpreti – fra gli altri, G. Lynn, Animate form, 1999; Ben van Berkel, Caroline Bos, Move, 3 voll., 1999, e UN Studio UN fold, 2002; M. Fuksas (con Paolo Conti), Caos sublime, 2001; Andrew Benjamin, P. Eisenman, K. Michael Hays et al., Blurred zones. Investigations of the interstitial: Eisenman architects, 1988-1998, 2003; Kas Oosterhuis, Hyperbodies. Toward an e-motive architecture, 2003 (trad. it. 2007); Lars Spuybroek, NOX: machining architecture, 2004 – ai testi di critica e di estetica – tra i quali, per la particolare rilevanza internazionale avuta, The architectural uncanny: essays in the modern unhomely (1992; trad. it. 2006) di Anthony Vidler; Formless: a user’s guide (1997; trad. it. 2003) di Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss; L’instant éternel. Le retour du tragique dans les sociétés postmodernes (2000; trad. it. 2003) di Michel Maffesoli –, sino a quelli di filosofia, con particolare riguardo al poststrutturalismo di Gilles Deleuze, vera e propria icona di fine secolo. Sono state infatti le sue teorizzazioni sul flusso, la pluralità, il movimento attraverso l’elaborazione di concetti quali ‘spazio striato e liscio’, ‘rizoma’, ‘piega’ e diagramma quale ‘macchina astratta’ (in partic. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, 1980, trad. it. 1987; G. Deleuze, Le pli: Leibniz et le baroque, 1988, trad. it. 1990) a fornire nuova linfa vitale agli esiti teorico-progettuali di alcuni architetti che, partiti dal decostruttivismo-decostruzionismo, nella sua capacità di disturbare dall’interno il pensiero sulla forma (cfr. P. Johnson, M. Wigley, Deconstructivist architecture, 1988), approdano negli anni Novanta a una nuova spazialità continua, avvolgente, ripiegata, curvilinea, in cui i diversi pezzi di un’architettura precedentemente disseminata-esplosa-destrutturata sembrano implodere sino a liquefarsi.

Fluida e informe è infatti, sempre più, la ricerca di Zaha Hadid con la sua plastica intersezione di superfici avvolgenti e porose che scivolano l’una nell’altra in un continuo movimento; informe-informale è da sempre l’opera di F.O. Gehry, il cui senso dello spazio cavo-frastagliato-meandrico-marsupiale ben evidenzia l’esuberanza espressiva di un learning by doing che celebra il primato di un fare nell’immediatezza di scelte espressive prossime all’istintiva creatività dell’artista; informale (secondo la definizione data da Cecil Balmond nel 1996 e poi ripresa con ampio respiro nel testo Informal, 2002) è la recente produzione di Daniel Libeskind, le cui concrezioni magmatiche riassumono nell’impossibile separazione fra arte e vita – come si può leggere nella sua recente autobiografia, Breaking ground. Adventures in life and architecture (2004; trad. it. 2005) – l’eloquente valore simbolico di una presa esistenziale dell’architettura, la quale è innanzitutto corporea ed emozionale; informe è la riflessione teorico-operativa di P. Eisenman il cui famoso saggio Vision’s unfolding: architecture in the age of electronic media («Domus», 1992, 734, pp. 17-24) annuncia il cambiamento.

Dichiarando apertamente il suo debito con Jacques Derrida prima e con Deleuze poi, è soprattutto l’architetto statunitense infatti – teorico per eccellenza – a riassumere il passaggio dal pensiero della discontinuità, esito della différance derridiana, a quello della continuità dello ‘spazio ripiegato’ in cui, come scrive Deleuze, non c’è l’Essere in sé ma una pluralità di forze in relazione fra loro. Assimilabile a un campo fluido, denso, disomogeneo, continuamente diversificato, lo spazio ripiegato punta su una modulazione temporale che, traducendosi in una curvatura variabile, produce la separazione dell’occhio dalla mente: produce, scrive Eisenman quella ‘visione rovesciata’ che, decomponendo la rappresentazione sino a far svanire l’identità sia dell’oggetto sia del soggetto, apre alla possibilità di uno ‘sguardo oltre’ capace di esaltare un’architettura che è affettiva piuttosto che effettiva, eccessiva piuttosto che funzionale. Combinando fra loro tecniche operative messe a punto nei decenni precedenti con il nuovo potenziale concettuale e progettuale legato al ‘paradigma elettronico’, Eisenman sviluppa il progetto come progressiva specificazione di una materia dapprima indifferenziata che, come la materia-piega di Deleuze, è una materia-tempo che si modifica continuamente «sia sotto l’azione dell’elemento esteriore [i parametri esterni al progetto] sia sotto l’influenza di forze interne [le tematiche intrinseche e disciplinari] che sono direttrici, direzionali e non costituenti o preformanti» (G. Deleuze, Le pli, 1988; trad. it. 1990, p. 16). Non più la forma, quindi, sarà oggetto del processo conformativo, ma la deformazione per cui la forma si modifica continuamente e solo alla fine emerge, sostituendo all’idea di un insieme chiuso, definito, stabile, isolabile, quella di un processo dinamico in atto di cui la forma finale ne rappresenta solo una possibile attualizzazione.

Immediate sono le analogie con le scienze evolutive di fine secolo che, ponendo in essere una nuova continuità fra sistemi viventi e sistemi fisico-chimici, sostengono una concezione della vita quale proprietà emergente di una rete interconnessa di relazioni e reazioni, capaci di integrare l’aspetto storico, regolato dall’ambiente, e l’aspetto nomologico regolato dalle leggi intrinseche all’organismo: leggi che sono proscrittive e non prescrittive, compatibili perciò con innumerevoli decorsi attuali o virtuali. È dunque all’interno di questa «rete della vita» (F. Capra, Lebensnetz, 1996; trad. it. 2005) che emerge, in quel processo di autorganizzazione permanente che è innanzitutto elaborazione delle informazioni, apprendimento e sviluppo, ogni ‘forma di vita’ e nella trasposizione disciplinare, resa possibile dalla nuova tecnocultura digitale, ogni ‘vita delle forme’ il cui processo morfogenetico appare sempre più generato da condizioni di campo capaci di simulare i processi naturali, di orientare il progetto verso quell’analogia biologica che fa emergere la vita attraverso il processo stesso del suo formarsi.

Il disegno digitale, infatti, regolando il tempo, «comprimendo e curvando […] la sua evoluzione» (F. Purini, Comporre l’architettura, 2000, p. 108) consente non solo di accedere agli aspetti più complessi e vitali dell’universo ritrovando la stessa matrice, ma anche di esaltare il passaggio paradigmatico dal prodotto al processo, misurandosi non tanto con la complessità finale di forme o oggetti, quanto con la definizione delle condizioni per le quali forme e oggetti possono venire in superficie. Le interferenze, le connessioni, i flussi, diventano perciò fondamentali, orientando (senza mai definirlo) il progetto, caratterizzato proprio – scrivono B. van Berkel e C. Bos nel testo già citato del 1999 – dalla sua «condizione instabile ed espansiva», ovvero dalle sue plurime possibilità trasformative rese possibili da strategie progettuali fluide e flessibili, che sono al tempo stesso tecniche e concettuali. È in quest’ottica che il diagramma quale ‘macchina astratta’ diviene strumento operativo fondamentale per molti architetti – a partire da Eisenman che sui diagrammi statici e dinamici ha incentrato il suo pensiero (Diagram diaries, 1999) – svolgendo il ruolo di mediatore fra concetto e realizzazione, di dispositivo inclusivo in grado di confrontarsi con la complessità dei fenomeni contemporanei. Animato in ambiente virtuale, il diagramma costituisce «una mappa – o cartografia di movimenti […] che consente di ordinare, trasmettere e processare l’informazione» (S. Allen, Diagrams, in The metapolis dictionary, 2003, p. 162): un ‘apparato generativo’ che, intervenendo nell’organizzazione dei processi piuttosto che nella prefigurazione di oggetti, offre una direzione strumentale e sperimentale, capace di influenzare ‘formativamente’ fattori eterogenei «da cui il progetto emerge in maniera interattiva» (B. van Berkel, C. Bos, Diagrammi: strumenti interattivi all’opera, «Lotus international», 2006, 127, p. 109).

In tal senso l’animazione opera come strumento di ideazione introducendo una profonda rottura nella concezione del progetto e dello spazio: non solo produce, come nel tratto barocco di Deleuze, una materia-spazio informe, fluente e malleabile, ma nell’analogia con i processi biologici dà origine a forme di vita artificiale capaci di generare comportamenti simili alla vita reale. A questi sistemi dinamici ed evolutivi – veri e propri biomorfismi – basati su proprietà topologiche, temporali e parametriche, si riferiscono molte delle ricerche più avanzate di generazione digitale della forma, ora finalizzate a un ambiente puramente virtuale – come nella Architettura genetica di Karl Chu, nella Hypersurface di Stephen Perrella, nella Transarchitecture di M. Novak – ora alla costruzione di artefatti capaci di inglobare, nella sempre maggiore continuità, fluidità e flessibilità degli spazi, plurime attualizzazioni temporali, sociali e d’uso, non prevedibili al momento dell’elaborazione, sino a conquistare in alcuni casi una reale interattività (augmented reality). In tal senso si pongono alcune delle strategie progettuali più note, quali: il Deep plannig di UN Studio, l’Induction design di Makoto Sei Watanabe, la Phylogenesis di FOA (Foreign Office Architects di Alejandro Zaera-Polo e Farshid Moussavi), la Machin-ing architecture di L. Spuybroek, gli Hyperbodies di K. Oosterhuis, sino alla Animate form di G. Lynn, i cui attenti riferimenti alle reti genetiche di Stuart A. Kauffman, al paesaggio epigenetico di Conrad Hal Waddington, alla teoria della simbiogenesi di Lynn Margulis, ben esemplificano la pervasiva ibridazione di un pensiero che si nutre di sconfinamenti continui, attuando nell’intrinseco vitalismo delle serie generate dal computer, precisi «legami metaforici tra l’animazione come tecnica digitale e l’animato come stato biologico» (A. Vidler, Skin and bones. Folded forms from Leibniz to Lynn, in Vidler 2000, p. 227). In tal senso si pongono le Embryologic houses (presentate da Lynn alla Biennale di Venezia del 2000), vere e proprie morfologie ‘controarchitettoniche’ che, scaturite da un programma capace di controllare tutte le possibili modificazioni che si riflettono sull’insieme in rapporto a singoli cambiamenti, definiscono il ‘seme’ della casa, affidando in seguito al computer il compito di liberare infinite mutazioni.

Se l’utilizzo di tecnologie particolari di concezione e produzione (attraverso procedimenti CAM, Computer Aided Manufacturing) favorisce una reale diversificazione e personalizzazione del prodotto, incoraggiando nella realizzazione di un’architettura ‘non standard’ una presa individuale sulla realtà, va tuttavia sottolineato come – identificando la vita con la forma del suo processo – le nuove metafore biologiche comportino spesso una complicazione artificiale piuttosto che una complessità naturale, indifferente, suggerisce Vidler, alla effettiva presenza del soggetto umano, ‘mappato’ dagli stessi processi che generano le molteplici superfici dell’artefatto.

Anche per questo, forse, la generazione digitale di forme senza forma – a volte risolte in una sofisticata manipolazione del solo involucro esterno – ha registrato recentemente critiche puntuali, non solo da parte di chi, come Gregotti, difende da sempre, in un’attitudine critica e riflessiva, il progetto moderno contro la ‘dissoluzione’ estetizzante del postmodernismo, ma anche da parte di chi come Eisenman ne è stato, fin dall’inizio, promotore, teorico e divulgatore. L’eccessiva «passività dell’osservatore» in rapporto a forme sempre più spettacolari, così come la produzione al computer di «icone senza alcun riferimento esterno» – due dei Sei punti sollevati di recente da Eisenman (cfr. «Casabella», sett. 2008, 769, pp. 3-5) – possono costituire allora precisi ambiti di riflessione, sollecitando orientamenti volti a una reale integrazione fra schema di organizzazione (forma) e struttura fisica dell’artefatto (materia), intrinsecamente legati fra loro nel divenire di un processo che vive della continua relazione, non puramente computabile, con l’ambiente e i soggetti che quell’artefatto fruiranno, per consentire alla ‘vita delle forme’ di assumere sempre nuove e diverse ‘forme di vita’.

Ecologia dell’artificiale: l’architettura come interfaccia

La consapevolezza della natura intrinsecamente interconnessa e dinamica di tutti i fenomeni quali ‘insiemi di possibilità’, secondo quel modello sistemico emerso con le scienze della complessità e implementato dalle tecnologie digitali attraversa – come visto – le ricerche progettuali dell’informe e dei biomorfismi, in cui tuttavia il carattere relazionale e interattivo, privilegiando il momento morfogenetico del progetto, ne esalta la costitutiva complessità prodotta dall’interazione delle forze implicate nella genesi formale. A questa strategia principalmente conformativa, caratteristica di un’architettura della deformazione connessa alla svolta topologica nella continuità della trasformazione, fa riscontro una diversa ricerca teorico-progettuale che, nel suo approccio sistemico ed ecologico, sostiene una concezione di artefatto quale ‘dispositivo’ aperto, sensibile e reattivo in rapporto alle dinamiche ambientali e d’uso: un’architettura centrata sull’informazione più che sulla materia, sulla comunicazione più che sull’oggetto, sulla virtualità più che sulla presenza fisica, in grado di divenire amplificazione dell’ambiente, di ospitare il cambiamento, di enfatizzare il suo carattere evenemenziale, di porsi quale ‘realtà intermediaria’ nella costante ricerca di un reciproco adattamento.

Non più valorizzata per i suoi connotati formali, bensì per la capacità di divenire organismo nel suo ambiente sino a dissolvere l’oggetto in un suo progressivo processo di smaterializzazione e/o naturalizzazione, emerge alla svolta del secolo la centralità di un pensiero ‘ecologizzato’ in grado – chiarisce James Wines, fondatore del gruppo newyorkese SITE (Sculp-ture In The Environment) da sempre interessato a pratiche architettoniche relazionali e transdisciplinari fra arte, architettura e paesaggio – di tradurre su un piano ‘mentale-ambientale’ piuttosto che ‘fisico-ermetico’ la nuova consapevolezza ecologica nell’era digitale.

In linea con le esperienze di Land art, Environmental art, Ecological art, che alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del Novecento avevano ricevuto un decisivo impulso proprio dalle scienze ecologiche, ed erede del principio cibernetico di ‘edificio intelligente’ nell’idea di un’architettura «responsive to change» (tema centrale dell’avanguardia del secondo dopoguerra e della nuova sensibilità ambientalista conseguente alla crisi energetica dei primi anni Settanta), Wines riassume, con il suo Green architecture (2000), un preciso orientamento ecocentrico della ricerca architettonica attuale, attenta a privilegiare nella concezione di artefatto la consapevole espressione dell’unità necessaria di «mente e natura» (cfr. a tale proposito G. Bateson, Mind and nature: a necessary unity, 1979; trad. it. 1984), della coimplicazione e coevoluzione dei processi naturali e artificiali che richiedono al progetto una responsabilità indifferibile nei confronti del pianeta vivente.

Si tratta per l’architetto statunitense di considerare l’edificio come ‘filtro informativo’, piuttosto che barriera, membrana sensibile al contesto in grado di riflettere i vari aspetti del paesaggio, della topografia, dell’identità territoriale, interpretandone e comunicandone i riferimenti ambientali e culturali: «qualcosa di più simile al tentativo di catturare l’intangibilità del vento che passa attraverso gli alberi che l’espressione dei meccanismi ingombranti della tecnologia costruttiva» (Wines 2000, p. 236). L’obiettivo è quello di opporre alla geometria convenzionale dell’architettura una «fusione tra edificio e paesaggio» che assume per SITE l’iconografia di un ‘sistema di passaggi’ in grado di incorporare flussi materiali e immateriali: sia attraverso l’implementazione di strutture tradizionali con display interattivi, sia attraverso l’utilizzo di elementi vegetali nella stessa costruzione, secondo pratiche di ibridazione e inclusione che, oltrepassando gli aspetti di ecocompatibilità in rapporto all’ambiente, pervengono a una nuova – e irrituale - naturalizzazione dell’architettura. In tutti i casi l’effetto immediato è quello di una sparizione dell’oggetto architettonico che diviene sempre più spesso ‘interfaccia’, ovvero, nel suo significato più ampio, spazio di mediazione fra logiche diverse (progettuale, produttiva, ambientale, d’uso), tra diversi valori e differenti culture e obiettivi. E dal momento che, come ricorda Paul Virilio, «ogni superficie è un’interfaccia fra due ambienti in cui regna un’attività costante sotto forma di scambio fra le due sostanze poste a contatto» (L’espace critique, 1984; trad. it. 1998, p. 14), privilegiare l’idea di un’architettura come interfaccia, significa innanzitutto commutare il senso della superficie limite in quello di membrana osmotica, trasformando la delimitazione delle superfici e dei volumi, come di ogni estensione fisica, in «una via di accesso dissimulata nella più impercettibile delle entità […] uno spessore senza spessore, un volume senza volume, una quantità [appunto] impercettibile» (p. 15).

È questa ricerca di smaterializzazione, a volte ottenuta tramite una ‘strategia di ipermaterialità’ così come l’orientamento sempre più green dell’architettura a connotare molte ricerche recenti, risolte in una pluralità di modalità attuative, spesso fra loro complementari, riconducibili principalmente a quattro categorie analitiche e strategie progettuali: a) una ‘estetica della sparizione’, secondo quel concetto di impermanenza di un’immagine stabile espresso da Virilio e Baudrillard, caratterizzata ora da architetture evanescenti e leggere, come molte opere di Kengo Kuma, Jacques Herzog e Pierre de Meuron, Toyo Ito, Jean Nouvel, Renzo Piano, Kazuyo Sejima, tra gli altri, ora da costruzioni interrate, scavate o modellate nel suolo che, affidando la propria consistenza visibile alla materia vegetale, ne assumono le continue variazioni e metamorfosi, come nelle strutture ipogee di Emilio Ambasz, Abalos & Herreros, Toyo Ito, Mecanoo (tra i fondatori Henk Doell, Francine M.J. Houben, Chris de Weijer), MVRDV (Winy Maas, Jacob van Rijs, Nathalie de Vries), Nouvel, Dominique Perrault, Piano, tra molti (cfr. in partic. A. Aymonino, V.P. Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, 2006); b) un ‘camouflage naturalistico’, specie di ‘maquillage ecologico’ che diviene a volte «ipertrofia ornamentale per nascondere l’alterità dell’oggetto architettonico» (F. Repishti, Green architecture. Oltre la metafora, «Lotus international», 2008, 135, pp. 34-41), come nei ‘paesaggi verticali’ di Adrian Geuze, nei ‘giardini verticali’ di Patrick Blanc e in generale nell’uso di pareti vegetali, da Ambasz a Stefano Boeri, da Edouard François & Duncan Lewis a François Roche, da Kengo Kuma a Nouvel; c) una ‘sovrapposizione di natura e artificio’ nell’accatastamento di suoli vegetali e minerali o di paesaggi differenti, come nel progetto di torre residenziale a Mumbai (2004) dei SITE, ispirata ai giardini babilonici, oppure nell’emblematico Padiglione olandese all’Expo 2000 di Hannover di MVRDV, trasposizioni entrambe della ricerca teorica sul tema della densità e del rapporto architettura-paesaggio; d) una ‘metafora neonaturalistica’ nel tentativo di ibridare attraverso espressioni e fenomenologie desunte dal mondo organico e naturale lo spazio architettonico, per rivelarne una dimensione fortemente inclusiva, come nelle sofisticate naturalizzazioni dell’artificio di Herzog & de Meuron, Toyo Ito, Diller Scofidio + Renfro (Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio, Charles Renfro), FOA, fra gli altri.

Oltre alle ricerche di ecosostenibilità (dal low-tech all’eco-tech), incentrate sull’efficienza energetica e sul rispetto delle possibilità rigenerative delle risorse – con l’uso di energie alternative e la rispondenza alle condizioni ambientali, l’utilizzo di tecnologie compatibili e di materiali riciclabili, l’attenzione alle esigenze del suolo e alla conservazione dell’ambiente naturale –, il pensiero ecologico attuale, relativamente alle scale architettoniche, sembra dunque attingere a nuove strategie operative per alludere a una realtà più ricca e sfocata, in cui il superamento della nozione insulare di oggetto si arricchisce di nuove interrelazioni, interferenze, contaminazioni, nutrite da un nuovo «auto-eco-centrismo» (E. Morin, La methode, t. 2, La vie de la vie, 1980; trad. it. 2004). Supportata dall’innovazione tecnologica caratteristica del progetto sostenibile – involucri a strati multipli, ventilazione naturale e/o artificiale, schermi solari, pannelli fotovoltaici, tetti giardino, giardini verticali –, ma anche dalle ricerche nel campo delle bio- e nanotecnologie, l’ecologia dell’artificiale sembra spostare e modificare il senso del proprio campo d’azione verso un orizzonte diverso che aspira a legare il tempo al presente, sia riverberando nel continuo adattamento dell’opera l’interazione con l’ambiente, sia intensificando attraverso un «addensamento del presente» – quest’ultimo reso possibile anche dalla compresenza di «simultaneità amplificate» – la stessa percezione della realtà, la cui dimensione virtuale attiene non tanto all’utilizzo di tecnologie specifiche (con particolare riguardo alla realtà virtuale), quanto all’idea di un’apertura senza fine che implichi un processo in atto di reciproci aggiustamenti evolutivi.

Ne sono testimonianza fra gli altri: a) il concetto di architettura ecodigitale espresso da Wines (2000), in grado di radicarsi ai luoghi attraverso la propria consistenza materiale e immateriale, di divenire ‘una matrice’ di elementi mutabili ed evolutivi che, come una ‘spugna informazionale’ riceve e comunica dati in relazione al contesto (cfr. anche J. Wines, Jewel in the balance, in Eco-tec. Architecture of the in-between, ed. A. Marras, 1999, pp. 109-16); b) l’idea dei ‘paesaggi impilati’ proposti da MVRDV nella densificazione tridimensionale di sistemi autosostenibili, dove la nuova alleanza natura-tecnologia – basata sulla tecnica del datascape – assume il significato di una sospensione della ricerca formale per trasformare l’informazione statistica in forma concreta e favorire la realizzazione di vere e proprie ‘strutture dissipative’, risultato di un flusso continuo di energia nel sistema (cfr., in partic., MVRDV, Metacity/Datatown, 1999, e MVRDV 2005); c) la ricerca di un ‘naturalismo tecnologico’ subentrato all’ostentazione dell’high-tech, ora improntato prevalentemente a una poetica della smaterializzazione, dell’indefinito, dell’ambiguità – come nei diaframmi sensibili di Piano, ‘elogio della leggerezza’ di calviniana memoria (cfr., in partic., R. Piano, La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli, 20023, e Renzo Piano building work-shop. Le città visibili, a cura di F. Irace, 2007, catalogo della mostra), nella ‘estetica del miracolo’ del ‘nulla, del quasi nulla’ di Nouvel (cfr. Baudrillard, Nouvel 2000), nei sofisticati packagings naturalistici di Herzog & de Meuron (cfr. J. Herzog, P. de Meuron: natural history, ed. P. Ursprung, 2005), nella condizione ‘particellare’ dell’architettura di Kengo Kuma, fino alla sua possibile dissoluzione (cfr. Kengo Kuma, Defeated architecture, 2004) – ora allo sfondamento percettivo e fenomenologico di un’architettura fluttuante ed evanescente, come nell’opera di Toyo Ito, dalla Electronic ecology degli anni Ottanta alla Blurr-ing architecture (Toyo Ito: Blurring architecture, ed. U. Schneider, M. Feustel, 1999), attualizzata nella massima espressione della Mediateca di Sendai (2001) fino alle recenti sperimentazioni sul New ‘real’ (Toyo Ito, 2006) – tra le quali i progetti: Island City Central Park Grin Grin (2005) a Fukuoka, Taichung Metropolitan Opera House (concorso vinto nel 2005) a Taichung City (Taiwan), Relaxation Park (2006) a Torrevieja – dove tuttavia la metafora dell’acqua, costantemente richiamata dall’architetto giapponese, diviene più che un’immagine fluida e sottomarina l’energia generatrice di un movimento che esprime di nuovo la forza della materia.

In tutti i casi l’architettura è messa in movimento attraverso un ‘corpo in divenire’ che, intrecciando soggetto-oggetto-ambiente, dissolve l’isolamento dell’oggetto in un nuovo piano di immanenza: risultato di una parte interna a essa, nota, codificata e riproducibile (come nel patrimonio genetico di ogni essere vivente) e di una parte ignota (le modalità d’intervento del fruitore, la variabilità del contesto e così via) destinata a rendere operative le condizioni di partenza, il corpo ‘fuggito’ dell’edificio muta la propria consistenza fisica per divenire ‘dispositivo’ euristico atto ad accogliere e includere le continue metamorfosi ambientali e d’uso, trasformando la propria oggettualità in un processo di relazioni, in grado – scrive Nouvel nel Louisiana manifesto (scritto nel 2005 in occasione della mostra tenuta al Louisiana Museum of Modern Art e pubblicato poi nel 2008) – di lavorare ai limiti del possibile con ciò che è misterioso, fragile e naturale, di tessere un «legame fra passato e futuro, minerale e vegetale, attimi ed eternità, visibili e invisibili» per «riecheggiare perpetuamente il mutevole dell’universo».

Così la ‘nuvola’ (Blur Building, 2002) di Diller e Scofidio sopra le acque del lago di Neuchâtel (cfr. E. Diller, R. Scofidio, Blur: the making of nothing, 2002), il cui profilo, fatto di gocce di acqua nebulizzata, si adatta continuamente al variare dei venti e della pressione atmosferica in un continuo mutare della forma e della densità, assume un valore paradigmatico, presentando nella sua intenzionalità dimostrativa il limite ultimo al di là del quale può pensarsi e svilupparsi una ecologia dell’artificiale, la cui caratteristica principale è quella di un ‘accoppiamento strutturale’ (H. Maturana, F. Varela, Autopoiesis and cognition. The realization of the living, 1980; trad. it. 1985), organismo nel suo ambiente capace di compensare le ‘perturbazioni’ provenienti dall’ambiente esterno con una modifica dei propri stati strutturali interni, mantenendo al contempo un’unità di base – e dunque la propria organizzazione – quale invariante fondamentale.

È in questa circolarità relazionale e organizzativa che l’architettura come ‘interfaccia’ si costituisce, sottolineando nel suo carattere instabile e metamorfico, indefinito e fluttuante – altra modalità espressiva del sublime contemporaneo – la possibilità di un dislocamento dell’esperienza estetica dalla centralità dell’oggetto o del prodotto allo spazio che si trova fra l’opera e il fruitore, lo spettatore, il pubblico. Il peso si sposta verso il momento della ricezione con un progressivo «alleggerimento dell’essere» (G. Vattimo, La società trasparente, 1989) sino a raggiungere – come nel Blur Building – il dissolvimento dell’opera nel suo effetto, in quella «estetica della sparizione» che diviene «estetica della ricezione» (H.R. Jauss, Ästhetische Erfah-rung und literarische Hermeneutik, 1982; trad. it. 1° vol., 1987), nella capacità dell’architettura – divenuta interfaccia – di amplificare l’esperienza del fruitore fatta di scoperta e spaesamento, di corpo e di sensi, in grado di rinnovare ogni volta la percezione delle cose appiattita nell’abitudine, prolungando la progettazione in quella ‘azione efficace’ che trasforma l’edificio in un évenement quotidiano.

Minimalismo e spazio fenomenologico: l’architettura come ‘corpo’ sensibile

La rivalutazione di una «gamma di bisogni retorici che – come afferma G. Vattimo – non possono essere più considerati ‘semplicisticamente’ poetici, soggettivi, vaghi, in contrapposizione a esigenze più dure, razionali» (Architettura come conforto, in Estetica e architettura, a cura di E. Rocca, 2008, p. 266), siano esse costruttive, tecniche o funzionali, costituisce un nucleo importante del pensiero postmoderno che in luogo di un orizzonte di pura speculazione teoretica, richiede una nuova attenzione all’integrità dell’essere umano. Questa relativizzazione della ragione che diviene ‘sensibile’, questa aspirazione a esaltare nei rapporti opera-fruitore e opera-contesto la molteplicità delle relazioni che si stabiliscono fra il particolare e il complesso sistema di appartenenza caratterizza, come visto, le ricerche che attengono a una ecologia dell’artificiale, dove tuttavia la tensione verso una dissoluzione dell’oggetto sembra a volte negare la possibilità stessa dell’architettura di costituirsi quale luogo dell’abitare (anche nomadico) che instaura con la sua presenza il limite a partire dal quale lo spazio prende forma.

Rispetto alle diverse manifestazioni di ‘derealizzazione’ dell’architettura – sostenute a volte da una concezione ‘sensazionalista’ del discorso sempre più affidato a un rapido successo mediatico – altre ricerche rispondono con la difesa di una identità disciplinare che riporti l’architettura a ciò che la contraddistingue: «il materiale, la costruzione, il sorreggere e l’essere sorretto, la terra e il cielo; [gli spazi] in cui si ha cura dell’involucro […] della consistenza materiale che li caratterizza, della loro capacità di ricezione e di risonanza, della loro cavità, del loro vuoto, della luce, dell’aria, dell’odore» (P. Zumthor, Architektur denken, 1998; trad. it. 2003, p. 27). Così Peter Zumthor (premio Pritzker 2009) coglie la centralità di una ricerca teorico-poetica che, attraverso il rapporto innanzitutto corporeo che si instaura con lo spazio progettato, intende evidenziare il valore delle relazioni e articolazioni fondamentali che costituiscono il fatto architettonico: «la buona architettura è intesa a ospitare l’uomo», non è perciò «né messaggio né segno, bensì involucro e sfondo della vita che scorre, un recipiente sensibile per il ritmo dei passi sul pavimento, per la concentrazione del lavoro, per il silenzio del sonno» (p. 11) capace, nella propria pregnanza, di mettere in relazione l’individuo con la vita delle cose, di ristabilire «l’appartenenza di ciascun ente all’orizzonte totale di senso in cui è inserito» (R. Bodei, La vita delle cose, 2009, p. 46).

Si tratta di una ricerca che affonda le sue radici nel pensiero fenomenologico, mediato soprattutto dalla diffusione (dagli anni Cinquanta del 20° sec. in poi) dei lavori di Gaston Bachelard e di Martin Heidegger il cui concetto di ‘abitare’ come ‘presa esistenziale’ diviene centrale nelle elaborazioni teoriche degli anni Ottanta di Christian Norberg-Schulz (con il Genius loci) e di Kenneth Frampton (con il Regionalismo critico), così come nelle ricerche progettuali di molti architetti, tra i quali Tadao Ando, Steven Holl, Juhani Pallasmaa, Álvaro Siza, P. Zumthor, e in Italia, fra gli altri, Gino Valle e Francesco Venezia: per tutti le strategie di ‘resistenza’ alla mancanza di distinzione operata dalla modernizzazione globale condividono l’esigenza di un luogo-forma capace di rimarcare una risonanza fenomenica e più propriamente fenomenologica con le componenti tettoniche, climatiche, topografiche, contestuali e culturali specifiche.

Sottolineando il legame profondo dell’architettura al luogo e all’esperienza umana, in cui agiscono parallelamente la memoria, l’immaginazione e l’inconscio, il pensiero fenomenologico – opponendosi alla riduzione idealistica del mondo a proiezione della coscienza, così come alla riduzione positivistica dell’esistenza – rivaluta l’intreccio indissolubile che lega l’uomo in quanto ‘esistente’ alla natura, al mondo, alle ‘cose’, intese non come realtà in sé, ma come il manifestarsi originario della realtà nella concreta ‘esperienza vissuta’ della coscienza. Un’esperienza che, sottolinea l’architetto finlandese Pallasmaa, debitore del pensiero fenomenologico di Maurice Merleau-Ponty, dovrà dunque essere mediata dal corpo quale «luogo di percezione, pensiero e conoscenza» (The eyes of the skin. Architecture and the senses, 2005; trad. it. 2007, p. 10) in una concezione immersiva e immanente del soggetto che, sottratto alla predominanza della visione, privilegerà il senso tattile e haptico dello spazio posto sempre «al termine di uno sguardo o al termine di un’esplorazione sensoriale che l’investe di umanità» (M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, 1945; trad. it. 1965, p. 418). Di qui la centralità di una riflessione che, in luogo di una visione totalizzante, traduca nell’architettura l’esperienza di uno spazio temporalizzato dalla dimensione umana: è questa dimensione che è innanzitutto sensibile e percettiva a tornare fondamentale nel progetto architettonico, soprattutto quando, dagli anni Novanta in poi, la reazione all’eclettismo storicistico e agli eccessi del decostruttivismo-decostruzionismo orientano la ricerca di diversi architetti – fra gli altri, oltre agli interpreti già menzionati, Juan Navarro Baldeweg, Alberto Campo Baeza, Pierre Louis Faloci, Carlos Ferrater, Waro Kishi, Kengo Kuma, John Pawson, Claudio Silvestrin, Kazuyo Sejima, Eduardo Souto de Moura – verso una depurazione linguistica capace di liberare valenze estetiche legate alle caratteristiche proprie dei materiali, alla luce, alle modificazioni spaziali, alla messa in scena di un vuoto costitutivo dell’opera architettonica, inteso come valore positivo, spaziatura e intervallo adatto allo svolgersi dell’esperienza quotidiana.

Eredi in gran parte dell’arte minimalista, della Land art e della Earth art, per la riduzione alla forma necessaria, per lo spostamento dell’attenzione dall’opera allo spazio che attraverso essa prende forma, per le relazioni al sito, al contesto ambientale e più propriamente paesaggistico (nella sua duplice connotazione ecologica e fenomenologica), tali ricerche individuano nella singolarità di ogni specifica situazione e nella performatività del discorso architettonico alcuni dei caratteri salienti, volti a sottolineare le qualità di un’architettura concepita quale ‘sfondo’ di un’esperienza percettiva che ha nel riferimento al corpo e alla ricettività dei sensi la sua ragione originaria.

Sostanziando attraverso la forma il tempo fluido dei fenomeni e il movimento spazio-temporale dei soggetti, l’architettura intreccia – come scrive S. Holl in Intertwining (1996) – forma, spazio e luce per reintrodurre significati e valori essenziali all’esperienza umana: si tratta per l’architetto statunitense – esponente di rilievo del pensiero fenomenologico in architettura – di dare luogo a una esperienza ‘inviluppata’ che attraverso tematiche diverse elaborate parallelamente nella ricerca pratica e teorica – da Anchoring (1989) ai più recenti Parallax (2000; trad. it. 2004), Luminosity/porosity (2006) e House. Black swan theory (2007) – sia in grado di indicare un approccio adogmatico alla progettazione, capace di ricondurre l’architettura dall’astrazione dei concetti alla concretezza degli spazi realizzati. A differenza della pittura o della musica, continua Holl, l’architettura è infatti sinestetica e polipercettibile, varia negli spazi e variabile nel tempo, fissa rispetto all’ambiente e mobile rispetto all’uomo che vi si muove attraverso: ciò significa che l’opera, scaturita da una serie di operazioni euristiche compiute a partire da un’idea, da un sito, da un programma, dovrà coniugare l’immaginazione personale con le aspirazioni collettive per attuare una forma di ‘abitare poetico’ (da Heidegger a Vattimo) capace di cogliere tutti gli elementi che compongono le aspettative di un individuo e/o di una comunità nei confronti del progetto architettonico.

È in questa capacità di realizzare una forma pregnante che l’architettura ritrova il suo principio costitutivo: non un principio immobile, stabilizzato in un vocabolario fisso di forme, materiali e strategie, ma un principio mobile capace di rinnovarsi ogni volta tra conflitti, ibridazioni, trasformazioni, lungo tracce di un pensiero che appare spesso interrotto, alterato, incompiuto. Ogni opera, scrive infatti Á. Siza, deve confrontarsi con l’impossibilità di una sua conclusione, nella consapevolezza di spostamenti continui che riguardano il progetto quanto l’opera realizzata, una volta immessa nel mondo della vita: il processo creativo non è dunque il frutto di un pensiero lineare secondo gerarchie stabilite a priori, ma il prodotto di una con-naissance, un nascere insieme che si sviluppa gradualmente nel tempo.

Nulla di più distante quindi dalle perentorie assunzioni di forma del movimento moderno, almeno nelle espressioni più accreditate da larga parte della storiografia contemporanea: se continuità si ritrova con alcuni motivi spaziali e formali dei maestri del moderno (a partire dal principio «less is more» di Ludwig Mies van der Rohe e dal purismo di Le Corbusier), c’è anche la precisa cognizione di una nuova direzione di ricerca in cui sono la particolarità, l’individualità, la differenziazione a emergere rispetto al presupposto della omologazione di ogni cosa in funzione di un ‘mitico’ uomo moderno. In quest’ottica si inscrivono, fra l’altro: il rifiuto di un funzionalismo ortodosso, l’importanza del sito nella generazione del progetto, la costante consapevolezza delle tradizioni architettoniche regionali, l’uso della qualità artigianale spesso opposta a quella industriale, mentre il riferimento frequente alla geometria essenziale della Minimal art sottolinea piuttosto la creazione di un’assenza, l’assunzione di un vuoto, di una mancanza, quale luogo esplicativo di una costitutiva imperfettibilità: la geometria minimal – come sottolinea Maurizio Calvesi – rappresenta, infatti, non più lo specchio dell’idea platonica (del fisso e dell’immutabile), bensì l’espressione «del relativo, del possibile, del fenomenico […] una solidificazione dell’immediato e del mobile […] dell’instabile e del pericolante» (Strutture come solidi, in M. Calvesi, Avanguardia di massa, 1978, p. 163).

Lungi dall’essere autoreferenziale e autocentrata, l’architettura esprime dunque – come l’arte – un decentramento costitutivo che consente attraverso la sua eccentricità l’intrusione di un mondo nello spazio chiuso della forma (cfr. R. Krauss, Passages in modern sculpture, 1981; trad. it. 1998): consente l’inclusione di una molteplicità di significati di volta in volta dischiusi, ma mai completamente rivelati, poiché partecipi di quel legame profondo che, intessendo ogni ‘cosa’, la rende inesauribile nella sua profondità. La ‘cosa’, infatti, a differenza dell’oggetto che indica un ostacolo che si frappone al libero movimento del soggetto, è un «nodo di relazioni in cui mi sento e mi so implicato e di cui non voglio avere l’esclusivo controllo» (R. Bodei, La vita delle cose, 2009, p. 20): rimandando a una inestinguibile «sorgente di donazione di senso» (pp. 47-48) essa diviene «veicolo di un viaggio di scoperta e, sfidando la nostra vorace o pigra tendenza ad appropriarcene, mantiene la sua sostanza» (p. 114), mantiene cioè quella individualità che la rende unica e riconoscibile in rapporto all’altro, nell’apertura che la contraddistingue.

È in questa intrinseca struttura relazionale in cui l’identità si costituisce, che l’architettura come ‘cosa’ assume la propria singolare evidenza, indicando come la ‘siepe’ leopardiana il limite che definendo l’illimitato «lo mostra come infinito» perché limitandolo «non è più indefinito» (R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, 2° vol., 1973, p. 11). In questa dialogica serrata tra finito e infinito, tra visibile e invisibile, tra essenza ed esistenza, si rinnova di continuo la sfida dell’architettura, il cui orizzonte di senso appare sospingerci verso gli estremi e inesplorati confini della nostra esperienza, nella consapevolezza che il limite è in realtà un limen, una soglia, un transito: una linea (anzitutto metaforica) lungo la quale l’architettura si separa e s’incontra con altri territori – fisici, estetici, psicologici, gnoseologici, epistemologici – scoprendo al suo interno la propria alterità, ovvero, parafrasando Edgar Morin, superando e ritrovando ogni volta sé stessa in un processo incessante di ‘auto-eco-integrazione’ che continuamente la fonda nella sua differenza e specificità.

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