Terapia genica

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Terapia genica

Luigi Naldini e Michele De Palma

di Luigi Naldini e Michele De Palma

Terapia genica

sommario: 1. Introduzione. 2. Metodi e strategie di trasferimento genico: a) generalità; b) vettori non virali; c) vettori virali.  3. Dal trasferimento genico alla terapia genica: a) espressione del transgene nel tessuto affetto; b) espressione tessuto-specifica del transgene; c) espressione ectopica del transgene; d) espressione del transgene regolabile per via esogena; e) espressione del transgene regolata per via endogena. 4. Immunità e terapia genica. 5. La sperimentazione clinica della terapia genica. 6. Prospettive e conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La terapia genica si affianca alla farmacologia tradizionale come nuova frontiera della medicina molecolare. Essa affronta la patologia ab imis fundamentis, agendo direttamente sul materiale genetico della cellula, il DNA. Sono trascorsi circa sessant'anni da quando Osvald T. Avery dimostrò in un rivoluzionario lavoro che il DNA, l'acido nucleico contenuto in ciascuna cellula, poteva essere il veicolo molecolare dell'informazione genetica che orchestra le funzioni della cellula e quelle della sua progenie. Nel 2003 si è celebrato il cinquantesimo anniversario della scoperta della struttura a doppia elica del DNA; il lavoro, pubblicato da James D. Watson e Francis H. Crick sulla prestigiosa rivista "Nature", gettò le basi per la comprensione del meccanismo di duplicazione semiconservativa del DNA e quindi di trasmissione dell'informazione genetica. Da allora sono state messe in luce le basi genetiche della fisiologia e della patologia, e la cellula e gli organismi sono stati studiati come espressione dei loro genomi. Sono stati sequenziati per intero i genomi di diverse specie, uomo compreso; molti geni sono stati identificati (la stima attuale è di circa 35.000 nell'uomo), ed è in atto un enorme sforzo intellettuale accompagnato da un ingente dispendio di risorse per comprenderne la funzione. Sono stati indagati i meccanismi molecolari che controllano la funzione dei geni e si è dimostrato che la loro alterazione è alla base di molte patologie. Si è scoperto che i geni possono essere isolati, manipolati e trasferiti da un organismo all'altro, conservando la proprietà fondamentale di poter essere espressi. Questa proprietà dei geni deriva dall'universalità del linguaggio genetico, che consente al gene di un microrganismo, di un insetto o di una medusa, ad esempio, di essere trasmesso, 'letto' e tradotto in proteina anche in una cellula di mammifero in cui sia stato artificialmente trasferito. In natura, il trasferimento e la ricombinazione di informazioni genetiche favoriscono l'acquisizione di funzioni e l'adattamento a nuove condizioni ambientali, processi alla base dell'adattabilità e del successo evolutivo dei microrganismi procarioti (Batteri). Nelle cellule degli organismi superiori lo scambio di informazioni genetiche costituisce invece un evento eccezionale, ed è limitato virtualmente ai soli elementi della linea germinale. Le cellule somatiche proteggono infatti la propria identità genetica mediante barriere biologiche che separano l'informazione genetica dall'ambiente cellulare ed extracellulare, e ne garantiscono l'inviolabilità. I Virus hanno sviluppato strategie complesse per superare tali barriere e turbare l'equilibrio genetico delle cellule che parassitano. L'ultima barriera all'ingresso di materiale genetico nella cellula eucariota è costituita dall'involucro nucleare. Una volta all'interno del nucleo, il materiale genetico 'estraneo' può essere trascritto ed espresso alla stregua di un gene cellulare. Le tecniche di trasferimento genico, propedeutiche alla terapia genica, sfruttano queste proprietà dell'informazione genetica - l'universalità e la trasferibilità - ma devono riuscire a superare il limite imposto dalle barriere biologiche, in particolare per quanto riguarda l'ingresso nel nucleo cellulare.

L'idea alla base della terapia genica nasce da un assunto di grande semplicità: introducendo nella cellula la copia 'corretta' di un gene difettoso il cui malfunzionamento sia causa di una patologia, il suo prodotto, genericamente una proteina funzionale, sarà in grado di contrastarla. Quest'assunzione, benché corretta, eccede nella semplificazione: è corretta perché la genetica ha rivelato che un importante numero di malattie, forse più di quanto oggi si sappia, è causato da un'alterazione nella sequenza codificante o nelle regioni regolatrici di un singolo gene (malattie su base monogenica); ma è semplificativa poiché la regolazione della funzione di un gene è spesso complessa e difficile da ricostituire artificialmente, e gli strumenti a disposizione della terapia genica sono oggi ancora limitati. L'introduzione di un gene funzionale, che chiameremo transgene, all'interno del nucleo cellulare è una manovra complessa e poco efficiente. Diversi fattori concorrono poi a limitare l'espressione del transgene, in primo luogo l'instabilità del DNA di origine esogena all'interno del nucleo cellulare. Infine, particolarmente problematico è il controllo dell'espressione, perché, a seconda delle applicazioni, il transgene dovrà essere espresso solo in un determinato tipo di cellula, tessuto od organo, piuttosto che in modo ubiquitario. Inoltre, molti transgeni richiedono un'espressione finemente regolata del loro prodotto per consentire un effetto terapeutico in assenza di tossicità. Questi aspetti del trasferimento genico saranno esaminati in modo più dettagliato in seguito.

La terapia genica prevede un vasto repertorio di strategie e applicazioni possibili che non si prestano unicamente al trattamento delle malattie monogeniche. Secondo una definizione ampia, la terapia genica consiste nell'introdurre nell'organismo una sequenza di acido nucleico (DNA o RNA) che determina un effetto terapeutico per azione diretta (strategie ablative) o per azione del suo prodotto (prevalentemente strategie sostitutive e additive). Le strategie sostitutive si prestano a correggere tutte quelle condizioni patologiche in cui nella cellula è presente un difetto genico che determina anche un difetto di espressione del suo prodotto. Le strategie additive sono invece finalizzate a dotare una cellula o un tessuto di una funzione (prodotto) normalmente non presente o presente in proporzioni ridotte. Può essere il caso, ad esempio, di geni la cui espressione nella cellula conferisce una resistenza a uno specifico farmaco, a un'infezione virale o induce una risposta del sistema immunitario. Le strategie ablative, infine, sono tese a interferire con l'espressione di un determinato gene, inibendo la sintesi della proteina; solitamente sfruttano l'azione diretta dell'acido nucleico trasferito, e non passano per il suo prodotto. Ciò è quanto avviene, ad esempio, nel caso degli RNA e degli oligonucleotidi antisenso e di interferenza utilizzati per inibire l'espressione di uno specifico gene interferendo con il processo di maturazione dell'RNA messaggero o di traduzione in proteina.

Qualunque sia la strategia utilizzata, il trasferimento genico deve avvalersi di un vettore o veicolo (in genere una molecola di DNA, semplice o complessata con lipidi o polimeri, oppure un virus attenuato) in grado di superare tutte le barriere biologiche che separano il sistema genetico della cellula bersaglio (cromatina) dall'ambiente circostante. Tutti i vettori devono infatti essere in grado di raggiungere il nucleo cellulare, superando le barriere esterne alla cellula (altre cellule e tessuti, effettori dell'immunità naturale) e quelle cellulari (membrane biologiche e compartimenti intracellulari). Queste barriere esercitano una resistenza meccanica, fisica e chimica all'ingresso del vettore nel nucleo cellulare, ove inizia l'espressione del gene trasferito. Come vedremo in seguito, la terapia genica può sfruttare le proprietà di sistemi, i Virus, che si sono evoluti naturalmente per superare tali barriere e trasferire nella cellula la propria informazione genetica.

A partire dagli anni ottanta del XX secolo la terapia genica ha gettato le basi per diverse promettenti applicazioni. Gli sforzi si sono concentrati nell'arduo compito di sviluppare i vettori per il trasferimento genico - in altre parole, nella messa a punto della tecnologia necessaria per un trasferimento genico efficiente e al medesimo tempo sicuro nelle cellule sia in vivo (direttamente nell'organismo) che ex vivo (in cellule prelevate dall'organismo, manipolate e infine reintrodotte) - e nell'identificazione dei bersagli terapeutici più appropriati. Tutte queste applicazioni sono limitate alla modificazione genetica delle cellule somatiche dell'individuo, incluse le cellule staminali dell'adulto e quelle dell'embrione (ES, Embryonic Stem cells). Il trasferimento genico nelle cellule della linea germinale esula dall'ambito delle applicazioni della terapia genica ed è riservato, non solo per ragioni etiche, alla sperimentazione biotecnologica. In più, l'eventualità che una modificazione genetica sia introdotta accidentalmente nelle cellule germinali - e quindi diventi potenzialmente trasmissibile alla progenie dell'individuo - rappresenta un fattore di rischio che occorre valutare e prevenire nell'allestimento di ogni protocollo di terapia genica. Come in tutte le terapie sperimentali viene data priorità alla biosicurezza dei vettori genetici rispetto alla loro potenziale efficacia. La somministrazione del vettore deve essere ben tollerata e priva di effetti tossici acuti. Nel caso di vettori virali, in particolare, deve essere garantita la perdita di patogenicità del virus parentale, che è principalmente legata alla replicazione e all'espressione delle proteine virali. Infine, va considerato che l'impiego di un vettore genetico può determinare effetti avversi a lungo termine nella cellula e nell'organismo, tra i quali l'induzione di risposte immuni, anche di tipo autoimmune, e la ricombinazione con un virus endogeno in grado di generare una nuova forma virale potenzialmente trasmissibile. Nel caso di vettori integranti, inoltre, la modificazione genetica irreversibile di alcune cellule somatiche può diventare causa di patologia per l'espressione non controllata del transgene e, in alcuni casi, per mutagenesi inserzionale. Lo sviluppo di vettori che limitino sostanzialmente l'eventualità di effetti avversi costituisce una sfida primaria per la terapia genica. Nonostante le difficoltà tecniche e le delusioni causate da attese spesso eccessive, registrate in ambito sia sperimentale che preclinico, alcune sperimentazioni cliniche per il trattamento di malattie incurabili hanno recentemente raggiunto risultati sorprendenti, come la correzione genetica delle immunodeficienze congenite (SCID, Severe Combined Immunodeficiency) SCID-X1 e ADA-SCID mediante vettori retrovirali (v. Cavazzana-Calvo e altri, 2000; v. Aiuti e altri, 2002).

2. Metodi e strategie di trasferimento genico

a) Generalità

Un vettore per il trasferimento di acido nucleico all'interno di una cellula deve soddisfare alcuni importanti requisiti, che possono variare a seconda del tipo di applicazione. Innanzitutto il vettore deve poter essere prodotto in quantità adeguate, concentrato in un volume ragionevolmente piccolo ed essere privo di contaminanti potenzialmente tossici. I vettori non virali possono essere prodotti in grandi quantità e con purezza soddisfacente a costi relativamente bassi. Tali requisiti, indispensabili per la produzione su larga scala, si associano tuttavia a un profilo piuttosto basso in termini di efficienza e versatilità, se confrontati con i vettori di derivazione virale, di preparazione certamente più complessa.

Inevitabilmente la scelta del tipo di vettore impone delle restrizioni alla possibilità di trasferire un'unità di espressione genomica. La maggior parte dei geni si estende infatti su ampi tratti di DNA cromosomico in cui le sequenze codificanti (esoni) sono separate da lunghe sequenze non codificanti (introni); l'espressione del gene avviene solo dopo la rimozione degli introni (splicing) del trascritto primario e la generazione di un trascritto maturo più breve (RNA messaggero, mRNA), costituito solo da sequenze esoniche codificanti. Tanto maggiore è la capacità del vettore (cloning capacity), tanto più versatile sarà la sua applicazione. In ogni modo, difficilmente la capacità del vettore è compatibile con il trasferimento di un'intera unità genomica. Più spesso si ricorre al trasferimento del solo DNA complementare di un gene (cDNA), cioè della sequenza codificante del gene (ottenuta per retrotrascrizione dell'mRNA e quindi priva delle sequenze introniche). Nel caso di alcuni vettori, come quelli onco-retrovirali, la trasmissione di sequenze introniche risulta poi incompatibile con il ciclo di replicazione. Queste restrizioni limitano la possibilità di ricostituire l'efficienza e la regolazione fine dell'espressione del gene endogeno; infatti, la maturazione del trascritto primario (splicing degli introni) spesso influenza l'efficienza di espressione del gene. Alcune sequenze introniche, inoltre, contengono elementi di regolazione della trascrizione (tipo enhancer) e altri che consentono lo splicing differenziale del trascritto primario, una strategia cellulare che permette la generazione di una varietà di isoforme del prodotto, con diversa attività biologica, a partire da un unico gene.

Il transgene (quasi sempre in forma di cDNA) e gli elementi minimi richiesti per la regolazione della sua espressione (il promotore, cioè la sequenza di DNA che attiva la trascrizione, e il segnale di poliadenilazione per la terminazione della trascrizione) costituiscono insieme la cosiddetta 'cassetta d'espressione', l'unità trascrizionale minima veicolata dal vettore.

Alcuni tipi di vettore non sono in grado di penetrare efficientemente nel nucleo di cellule post-mitotiche - come neuroni, epatociti e miofibre - e pertanto possono essere utilizzati per un numero limitato di applicazioni. È il caso, ad esempio, dei vettori derivati da onco-Retrovirus, che non sono in grado di attraversare la membrana nucleare e possono trasferire efficientemente il materiale genetico (processo che prende il nome di trasduzione o di trasfezione) solo in cellule in attiva proliferazione, in cui la membrana nucleare viene ciclicamente disintegrata. Diverse strategie di trasferimento con vettori non virali sfruttano metodi chimico-fisici per facilitare l'ingresso di un altissimo numero di molecole di DNA nella cellula e favorire l'accesso al nucleo anche in cellule post-mitotiche. Alcuni vettori derivati da Virus, come quelli lentivirali, adenovirali o derivati da Virus adeno-associati, sono invece in grado di penetrare nel nucleo di cellule non proliferanti sfruttando sistemi di trasporto attivo attraverso i nucleopori. Alcuni vettori virali, tra cui i vettori retrovirali, lentivirali e quelli derivati da Virus adeno-associati (questi ultimi meno efficientemente) sono poi in grado di integrarsi stabilmente nella cromatina della cellula ospite. L'integrazione favorisce la stabilità a lungo termine del materiale genetico trasferito, un requisito indispensabile per ottenere una espressione prolungata; e inoltre, poiché la nuova informazione genetica viene propagata come parte di un cromosoma, permette la trasmissione dell'informazione genetica alla progenie cellulare che deriva dalle successive divisioni della cellula inizialmente trasdotta. L'integrazione del vettore nella cromatina rappresenta tuttavia un evento mutageno per il genoma e può potenzialmente interrompere la sequenza di un gene. Questo evento è di per sé relativamente improbabile se il sito di integrazione nel genoma viene determinato casualmente, poiché soltanto il 30% del genoma contiene geni e una frazione ancora minore (stimata a meno del 5%) è rappresentata da sequenze codificanti. Qualora l'integrazione avvenga all'interno di un gene, essa potrà causare l'inattivazione di un allele (ciascuna delle due copie di un gene presenti nelle cellule somatiche) e quindi l'alterazione dell'espressione del suo prodotto. Nella peggiore delle ipotesi, la perdita di un allele di un gene vitale dosaggio-dipendente può causare la morte individuale della cellula in cui si è verificata, mentre quella di un gene onco-soppressore può rappresentare una condizione predisponente alla trasformazione cellulare. In altri casi, l'integrazione di un vettore contenente enhancers trascrizionali (sequenze che promuovono la trascrizione a distanza e in modo orientamento-indipendente) può attivare la trascrizione di geni contigui al sito di integrazione, un'eventualità potenzialmente rischiosa se si tratta di proto-oncogeni (geni che se costitutivamente attivi possono determinare la trasformazione neoplastica della cellula). Va però aggiunto che in roditori portatori di infezione cronica da onco-Retrovirus, l'oncogenesi conseguente a mutagenesi inserzionale si verifica solo dopo una lunga latenza, durante la quale il virus infetta continuamente nuove cellule e genera un elevatissimo numero di nuove integrazioni. Pertanto, il rischio di oncogenesi conseguente all'integrazione di un vettore onco-retrovirale che compie un solo ciclo di integrazione è stato stimato minimo. In apparente contraddizione con queste previsioni, il successo della terapia genica della SCID-X1 è stato recentemente offuscato dalla comparsa di una forma simil-leucemica in due dei pazienti trattati. In entrambi i casi è stata riscontrata una associazione tra l'espansione di un clone leucemico e l'attivazione di uno specifico oncogene, LMO-2, conseguente all'integrazione del vettore retrovirale in sua prossimità.

Sebbene la connessione tra l'attivazione transcrizionale dell'oncogene e l'integrazione del vettore sia stata adeguatamente documentata (v. Hacein-Bey-Abina e altri, 2003), non è oggi noto quanto questo evento possa essere indicativo di un concreto rischio di mutagenesi inserzionale in altre applicazioni cliniche, differenti per tipo di patologia, strategia di somministrazione e identità del gene terapeutico.

I vettori non integranti, come i vettori non virali e diversi vettori virali, rimangono nel nucleo cellulare in forma di episoma, cioè come molecole di DNA extra-cromosomiale trascrizionalmente competenti. La natura episomiale non permette a questi vettori di duplicarsi e di segregare in modo fedele ed efficiente dopo ripetute divisioni cellulari; ciò limita sostanzialmente la stabilità di questi sistemi in assenza di specifici dispositivi per la replicazione autonoma e la localizzazione nucleare.

Una volta giunto nel nucleo cellulare, il vettore deve permettere una espressione robusta, continua o eventualmente inducibile del transgene. Molti vettori incorporano nella cassetta d'espressione un promotore di origine virale che induce alti livelli di espressione in certi tipi cellulari (ad esempio il promotore/enhancer di CMV - citomegalovirus - il promotore di SV-40 - Simian Virus-40 - o il promotore della regione LTR - Long Terminal Repeat - degli onco-Retrovirus), oppure di origine cellulare (ad esempio promotori del gene di β-actina, del fattore EF1-α di allungamento della trascrizione, o del gene per l'enzima glicolitico PGK - fosfogliceratochinasi). Questi ultimi promotori sono molto utilizzati poiché dirigono l'espressione costitutiva e ubiquitaria dei transgeni, sono cioè attivi sempre e virtualmente in tutti i tipi cellulari. Come vedremo di seguito, in molte applicazioni l'espressione del transgene deve poter essere invece modulata, cioè accesa, spenta o variata in intensità, oppure essere attiva solo in tipi cellulari selezionati. Queste esigenze possono essere soddisfatte utilizzando, rispettivamente, vettori regolabili o tessuto-specifici.

L'impiego di vettori regolabili si basa sull'idea che l'espressione del gene terapeutico possa essere regolata mediante un fattore di trascrizione la cui attività sia inducibile; questi sistemi si ottengono incorporando nel vettore (oppure in un vettore separato) la cassetta d'espressione costitutiva per un fattore trascrizionale (transattivatore) in grado di attivare o meno l'espressione del transgene a seconda della disponibilità di una molecola solubile che possa essere somministrata per via sistemica. Il sistema di regolazione più utilizzato è basato sul modello procariotico di regolazione della resistenza alla tetraciclina (v. Gossen e altri, 1995). Il transgene, sotto il controllo trascrizionale dell'operatore tet (tetO), viene espresso solo quando il transattivatore (tTA) lega l'operatore in assenza dell'induttore tetraciclina. La presenza della tetraciclina o di un suo analogo nel mezzo di coltura o nell'organismo induce, reversibilmente, il distacco del transattivatore dall'operatore, determinando lo 'spegnimento' del transgene. Sono stati sviluppati con successo anche sistemi analoghi, che sfruttano ormoni steroidei o altri tipi di molecole per la regolazione. Questi sistemi di regolazione agiscono selettivamente sul transgene poiché utilizzano elementi di derivazione batterica, artificiali o in ogni caso non riconosciuti in cellule di Mammifero.

L'utilizzo di particolari promotori può poi limitare l'espressione del transgene a un particolare tipo cellulare, o a una certa fase del ciclo cellulare, oppure in concomitanza con certi stati metabolici. I promotori tessuto-specifici sono derivati da geni espressi selettivamente da particolari tipi cellulari. Questi geni vengono oggi identificati mediante analisi differenziale del profilo trascrizionale delle cellule. L'introduzione di un promotore, di un enhancer, o di particolari combinazioni di sequenze regolatrici tessuto-specifiche permette di ottenere un profilo d'espressione del transgene che ricapitola abbastanza fedelmente quello del gene cellulare nei diversi tessuti dell'organismo.

La restrizione a livello della trascrizione (targeting trascrizionale) rappresenta una valida strategia per limitare l'espressione del transgene al tessuto o tipo cellulare d'interesse qualora il processo di trasduzione non possa essere mirato, come accade nella maggior parte dei vettori dopo somministrazione per via vascolare o intraparenchimale, e a circoscrivere l'effetto terapeutico del transgene. Un diverso approccio per il targeting consiste nel selezionare o modificare le proteine del capside o, se presente, del rivestimento del vettore in modo da direzionarne il tropismo verso un particolare tessuto (targeting trasduzionale). Un simile risultato può essere ottenuto grazie al naturale tropismo di certi virus nei confronti di particolari cellule o tessuti, che si realizza in virtù sia dell'espressione di recettori virali che riconoscono in modo specifico determinate molecole cellulari di superficie, sia di altri meccanismi che regolano il processo di infezione. A titolo d'esempio, HIV-1 e altri Lentivirus infettano selettivamente macrofagi e linfociti T, mentre il virus Herpes simplex di tipo 1 (HSV-1) mostra uno spiccato tropismo per le cellule neuronali. I vettori adenovirali ben si prestano all'ingegnerizzazione dei recettori esposti sulla superficie del capside e possono essere ridirezionati rispetto al naturale tropismo. Occorre tuttavia sottolineare che la modificazione del tropismo di un vettore spesso si accompagna all'abbattimento dell'efficienza di trasduzione, requisito fondamentale per qualsiasi applicazione del trasferimento genico alla terapia. In realtà, il processo di generazione e sviluppo dei vettori virali si è mosso proprio nella direzione contraria al restringimento del tropismo, nel tentativo di estenderlo a virtualmente tutti i tipi cellulari e di aumentare così lo spettro delle possibili applicazioni in terapia genica. Ciò può essere ottenuto, ad esempio, sfruttando la capacità di certe particelle virali di incorporare le proteine del rivestimento di altri virus e mutuarne quindi il tropismo (pseudotipizzazione). Vettori di questo tipo, costituiti da elementi derivati da virus diversi, vengono detti vettori ibridi. Così i vettori derivati da HIV-1 sono stati ingegnerizzati in modo tale da poter trasdurre un ampio spettro di tipi cellulari - e non solo macrofagi e linfociti T - incorporando nel loro pericapside la proteina G del virus della stomatite vescicolare (VSV).

Le caratteristiche salienti, i vantaggi e i limiti dell'impiego di ciascun tipo di vettore per la terapia genica sono discussi qui di seguito.

b) Vettori non virali

Il più semplice tipo di vettore per il trasferimento genico è costituito da un vettore plasmidico o DNA nudo. Il DNA plasmidico può essere attivamente endocitato dalle cellule se viene in contatto con la membrana esterna. Il trasferimento al nucleo risulta tuttavia piuttosto inefficiente, poiché gran parte del DNA endocitato viene degradato lungo la via degli endosomi/lisosomi prima che possa raggiungere il nucleo. L'iniezione di un plasmide, oltre che per la biosicurezza e la bassa tossicità, può essere preferita ad altre strategie di trasferimento genico in particolari applicazioni, come la vaccinazione a DNA, che non richiedano espressione stabile del prodotto. Inoltre, la presenza di motivi CpG non metilati nel DNA di sintesi batterica può indurre una risposta infiammatoria potenzialmente adiuvante nello stimolare l'intervento del sistema immunitario.

La vaccinazione a DNA può essere utilizzata per la immunoprofilassi di malattie infettive e per l'immunoterapia delle malattie infiammatorie e tumorali. Rispetto a quella convenzionale, la vaccinazione a DNA risulta particolarmente vantaggiosa, anche perché la proteina antigenica viene prodotta in forma nativa e presentata efficientemente dalle cellule dell'ospite attraverso le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (MHC-I), simulando un'infezione virale e inducendo una risposta cellulo-mediata (v. anche vaccini intelligenti, vol. XIII).

Diversi metodi sono stati sviluppati per il trasferimento di DNA nudo in cellule e tessuti: oltre all'iniezione diretta e alla microiniezione nel nucleo, sono impiegati metodi fisici quali l'elettroporazione e i metodi balistici. L'iniezione diretta di DNA nudo nel muscolo scheletrico, sebbene inefficiente (meno dell'1% della dose iniettata penetra nelle miofibre presenti nel sito d'iniezione), può comunque determinare espressione del transgene per alcuni mesi, nonostante non si abbia integrazione del DNA nella cromatina dei miociti (v. Manthorpe e altri, 1993). I metodi di elettroporazione determinano la destabilizzazione reversibile delle membrane cellulari mediante l'applicazione di brevi e intensi impulsi elettrici e aumentano l'efficienza di trasferimento anche di 100 volte (v. Mathiesen, 1999). Invece i metodi balistici (gene gun), consistenti nel bombardare i tessuti con particelle d'oro su cui è adsorbito il vettore plasmidico, permettono al DNA di penetrare direttamente nel nucleo cellulare, evitando la via degli endosomi/lisosomi e quindi la degradazione. Queste tecniche aumentano in modo sensibile l'efficienza di trasferimento genico nel sito d'iniezione, ma non risolvono il problema dell'espressione, che resta comunque transiente. Quando è somministrato per via vascolare, il DNA nudo viene rapidamente degradato dalle nucleasi o captato dai macrofagi splenici e dalle cellule di Kupffer del fegato.

Tali eventi, oltre all'inefficiente extravasazione, limitano fortemente questa applicazione, a meno che il DNA non venga rapidamente iniettato in un volume tale da determinare un brusco aumento della pressione e della permeabilità vascolare. Questo tipo di approccio, difficilmente trasferibile in protocolli clinici, permette tuttavia di ottenere livelli di espressione genica, in particolare nel fegato, considerevolmente alti.

Lipidi e polimeri cationici sono molecole anfipatiche in grado di complessarsi alla molecola polianionica del DNA in virtù di interazioni elettrostatiche e di aumentarne l'affinità per la membrana delle cellule, carica negativamente. Tali complessi favoriscono l'endocitosi del DNA, mediata dai proteoglicani presenti sulla membrana plasmatica (v. Mounkes e altri, 1998). I complessi lipidi-DNA, o lipoplessi, vengono prodotti miscelando il DNA con derivati cationici di acidi grassi o del colesterolo (solitamente ammine quaternarie), mentre per la preparazione di complessi polimeri-DNA, o poliplessi, si utilizzano policationi ad alto peso molecolare, tipo polilisina o polietilenamina. Una volta endocitati, questi complessi difficilmente vengono rilasciati dal compartimento endosomiale prima della degradazione. Nella preparazione dei lipoplessi si ricorre all'aggiunta di lipidi neutri, tipo DOPE o colesterolo, oppure di peptidi fusogenici di derivazione virale, al fine di favorire la destabilizzazione della membrana endosomiale e il rilascio del DNA. Alcuni polimeri cationici, come la polietilenammina, non richiedono l'aggiunta di molecole fusogeniche, in quanto, innalzando il pH dell'endosoma, determinano l'influsso di ioni e acqua causando la rottura della membrana endosomiale. Una volta libero nel citoplasma, il DNA è piuttosto instabile e soltanto una piccola frazione delle molecole raggiunge il nucleo. Poco si sa su come si realizzi questo processo; è stato ipotizzato che nel citosol il DNA possa complessarsi a peptidi cellulari contenenti un motivo, cioè un segnale, per la localizzazione nucleare (NLS, Nuclear Localization Signal), e quindi essere importato attivamente nel nucleo (v. Zanta e altri, 1999). I complessi cationi-DNA sono stati utilizzati con modesto successo nel trattamento clinico della fibrosi cistica (v. Caplen e altri, 1995) e nel trattamento locale di alcuni tumori. Recentemente, una formulazione di particolari lipidi cationici polimerizzati a formare le cosiddette nanoparticelle (NP) è stata impiegata per il trattamento sistemico di tumori sperimentali (v. Hood e altri, 2002). Le NP, complessate con un peptide capace di legare in modo specifico l'integrina ανβ3 espressa selettivamente dall'endotelio dei vasi angiogenetici, sono state inoculate per via endovenosa al fine di veicolare ai siti di angiogenesi tumorale un vettore plasmidico codificante per una proteina mutante capace di inibire la proliferazione delle cellule endoteliali angiogenetiche e indurne la morte per apoptosi. In questo studio eseguito su topi portatori di tumore, la somministrazione intravascolare delle NP cationiche ha causato la regressione della massa tumorale inibendo l'angiogenesi.

c) Vettori virali

I Virus sono vettori naturali altamente specializzati per il trasferimento di informazioni genetiche nelle cellule. Questa proprietà ha fortemente attratto l'attenzione dei biologi molecolari che hanno sviluppato, nel corso degli ultimi quindici anni, vettori genetici sempre più efficienti ingegnerizzando i Virus naturali. Il ciclo vitale di un virus può essere diviso in due fasi: l'infezione e la replicazione. Nel caso dei vettori virali, la trasduzione può essere definita come un'infezione abortiva, poiché all'introduzione dell'informazione genetica nella cellula non segue la replicazione e la propagazione del vettore. Questa proprietà del trasferimento genico mediato dai vettori virali viene ottenuta mediante la separazione fisica delle sequenze del genoma virale che agiscono in trans (i geni virali che codificano per proteine strutturali o regolatrici) da quelle che agiscono in cis (sequenze regolatrici non codificanti coinvolte nell'incapsidamento, replicazione ed espressione del genoma virale). Sia i geni virali sia le sequenze attive in cis devono essere presenti al momento della produzione del vettore nella cellula produttrice e possono essere trasferiti simultaneamente, mediante co-trasfezione di molecole distinte di acido nucleico o attraverso l'infezione di un virus helper.

Alternativamente possono essere generate linee cellulari che incorporano stabilmente alcuni geni virali e li esprimono in modo costitutivo o inducibile (packaging cell lines). La presenza delle sequenze attive in cis nel genoma del vettore, che contiene anche la cassetta di espressione del transgene, ne permette l'incorporazione all'interno della particella virale e il successivo trasferimento nella cellula bersaglio. Siccome i geni virali non sono fisicamente associati alle sequenze attive in cis nella cellula produttrice, essi non saranno incorporati dalla particella del vettore, la quale avrà la caratteristica di contenere una cassetta per l'espressione del transgene in sostituzione dei geni virali e di essere difettiva per la replicazione una volta terminato il primo ciclo infettivo.

Tra i vantaggi di questa procedura, ricordiamo che l'eliminazione anche solo parziale dei geni virali riduce sostanzialmente la patogenicità e l'immunogenicità della particella di vettore, prerogative avverse nella maggior parte delle applicazioni. In realtà, la perfetta separazione di geni virali e sequenze attive in cis secondo la strategia sopra descritta è quasi impossibile da ottenersi. Infatti, le sequenze cis sono spesso parzialmente sovrapposte o addirittura contenute nei geni virali. Pertanto, una parte di queste sequenze dovrà essere duplicata al momento della separazione fisica delle sequenze cis e trans del genoma e si ritroverà sia nel genoma del vettore sia nei geni virali. Questa situazione limita la biosicurezza dei vettori virali, poiché comporta il rischio che una ricombinazione omologa a livello delle sequenze duplicate ricostituisca un genoma contenente i geni virali, capace quindi di replicare.

Nei vettori retrovirali e lentivirali la separazione delle sequenze necessarie alla sintesi della particella virale in più molecole fa sì che più eventi di ricombinazione siano necessari per ricostituire un genoma competente per la replicazione. La generazione di un vettore competente per la replicazione (RCR, Replication-Competent Retrovirus) rappresenta pertanto un evento estremamente raro durante la produzione dei vettori onco-retrovirali e lentivirali di ultima generazione mediante co-trasfezione o cellule packaging. Una conseguenza della frammentazione del genoma in plasmidi che si esprimono indipendentemente durante la fase di produzione del vettore è la rottura degli equilibri che regolano naturalmente l'espressione coordinata dei diversi componenti nel genoma parentale. Ciò spesso si traduce nella bassa efficienza di sintesi di particelle infettive e nell'accumulo di un eccesso di particelle non infettive, che non solo non sono in grado di trasdurre geni all'interno delle cellule, ma competono con quelle infettive diminuendo la potenza della preparazione. Fanno eccezione alla procedura per la generazione dei vettori virali sopra esposta i Virus oncolitici, che vengono ingegnerizzati per potersi replicare attivamente e in modo specifico nelle cellule tumorali, determinandone la lisi.

Ciascun tipo di vettore virale presenta caratteristiche che lo renderanno più o meno adeguato per specifiche applicazioni. Ad esempio, in diversi casi, come in quello di alcune malattie genetiche, l'espressione stabile e a lungo termine di un transgene, seppure a bassi livelli e in una piccola frazione di cellule, potrebbe risultare terapeutica e risolutiva. Nel trattamento di altre condizioni patologiche, come infezioni virali o tumori, sarebbe invece preferibile l'espressione ad alti livelli, anche se solo transiente, del transgene nel maggior numero possibile di cellule. Diversi fattori condizionano quindi la scelta del vettore virale per la terapia genica.

I vettori retrovirali sono stati i primi a essere generati sulla base della metodica che prevede la separazione di sequenze cis e trans. I Retrovirus includono 3 gruppi (onco-Retrovirus, Lentivirus e Spumavirus) di Virus a RNA a singolo filamento (+) rivestiti da membrana (pericapside). A seguito dell'ingresso nella cellula, il genoma retrovirale, che è diploide, viene convertito dall'enzima virale trascrittasi inversa in una molecola lineare di DNA a doppio filamento (provirus) in grado di integrarsi nella cromatina. In natura i Retrovirus determinano infezioni croniche, spesso caratterizzate da lunghi periodi di latenza, talvolta associate alla trasformazione neoplastica (onco-Retrovirus) o a sindromi genericamente indicate come immunodeficienze (Lentivirus). Tutti i genomi retrovirali contengono a entrambe le estremità una sequenza ripetuta attiva in cis, detta LTR (Long Terminal Repeat), coinvolta nei processi di incapsidazione, retrotrascrizione, integrazione e nell'espressione dei geni virali (poiché contiene il promotore virale). Fra le due sequenze terminali LTR sono contenuti i geni virali che codificano per le proteine strutturali, gag, pro, pol ed env, comuni a tutti i Retrovirus, ed eventualmente alcuni geni accessori (proteine regolatrici e altre coinvolte nella patogenesi). Tutti i vettori retrovirali sono in grado di integrarsi nella cromatina della cellula bersaglio; questa proprietà consente, in via di principio, l'espressione a lungo termine del transgene e la sua trasmissione alla progenie della cellula inizialmente trasdotta, rendendo questi vettori particolarmente indicati per il trapianto emopoietico e in genere per la trasduzione di cellule staminali. A differenza degli onco-Retrovirus, che non sono in grado di infettare cellule non mitotiche, i Lentivirus e i vettori da questi derivati sono in grado di trasferire il proprio genoma anche in cellule che non si dividono e che sono terminalmente differenziate (v. Naldini e altri, 1996). Inoltre, i vettori lentivirali risentono meno degli effetti della cromatina e del sito d'integrazione sulla cassetta d'espressione; in particolare, sembrano non essere soggetti a 'silenziamento', cioè all'attenuazione o estinzione dell'espressione. Vettori lentivirali pseudotipizzati con il rivestimento del virus della stomatite vescicolare (VSV) possono essere impiegati per trasdurre efficientemente diversi tessuti in vivo (tra cui tessuto nervoso e fegato) o ex vivo. I vettori retrovirali in cui il promotore contenuto nel LTR sia stato inattivato sono detti SIN (Self-Inactivating); questi, una volta integrati, dipendono per l'espressione da un promotore/enhancer eterologo e quindi possono essere utilizzati per l'espressione regolabile e tessuto-specifica dei transgeni. Inoltre, i SIN riducono ulteriormente il rischio che, a seguito degli eventi di ricombinazione di cui abbiamo detto sopra, possano generarsi dei RCR. I vettori lentivirali di ultima generazione contengono meno del 10% delle sequenze del virus parentale nel genoma e possono accogliere cassette d'espressione di 8-10 kilobasi d'estensione.

I vettori adenovirali, derivati da virus a DNA che causano nell'uomo infezioni benigne a carico del sistema respiratorio, possono contenere cassette d'espressione ben più ampie (fino a circa 30 kilobasi) e consentono pertanto il trasferimento di grandi unità trascrizionali. Gli Adenovirus contengono numerosi geni virali che, nelle più recenti generazioni di vettori (detti ad alta capacità o helper-dipendenti o gutless), sono stati completamente rimossi. I vettori gutless, che contengono solo le sequenze terminali invertite (ITR, Inverted Terminal Repeats), il segnale di incapsidazione e la cassetta d'espressione, richiedono un virus helper (difettivo per l'incapsidazione) che fornisca in trans le proteine virali necessarie per la sintesi della particella virale infettiva nella cellula produttrice. Il virus helper può poi essere rimosso dalla preparazione di vettore mediante un processo di purificazione, con efficienza superiore al 99,9%. Tutti i vettori adenovirali sono in grado di trasdurre efficientemente anche cellule non mitotiche e di determinare alti livelli d'espressione del transgene, in particolare se iniettati direttamente nel tessuto d'interesse. A seguito di inoculo per via vascolare, i vettori adenovirali, invece, trasducono principalmente il fegato, ma hanno il limite di rimanere in forma episomiale nel nucleo cellulare e di non integrarsi. La durata variabile e comunque non permanente dell'espressione del transgene è imputabile all'assenza di integrazione e soprattutto alla risposta immune contro le cellule trasdotte, un fenomeno assai rilevante nei vettori di prima e seconda generazione che mantengono ed esprimono a basso livello alcuni geni virali. I vettori gutless, che non esprimono proteine virali nella cellula trasdotta, sono molto meno immunogenici dei vettori adenovirali di precedente generazione e consentono un'espressione prolungata del transgene (v. Morral e altri, 1999). La presenza nella maggior parte degli individui adulti di anticorpi neutralizzanti contro diversi sierotipi di Adenovirus, dovuta all'elevata endemia del virus, e l'induzione di alti titoli anticorpali dopo una somministrazione di vettore, limitano la somministrazione, soprattutto per via intravascolare, dei vettori adenovirali. Inoltre, il potenziale rischio di una reazione acuta dovuta alla tossicità dell'Adenovirus è stato drammaticamente attualizzato dalla morte di un giovane paziente affetto da una forma lieve di deficienza congenita di ornitina transcarbamilasi dopo l'inoculo intravascolare di un'alta dose di vettore adenovirale. Tra le applicazioni promettenti di questi vettori ricordiamo invece la trasduzione delle fibre muscolari con vettori gutless (v. sotto) e il trattamento dei tumori solidi; in quest'ultimo caso possono essere sfruttati anche i vettori di prima generazione, i quali, oltre a presentare un'efficiente espressione di fattori con attività antitumorale, favoriscono il potenziamento delle risposte immuni contro il tumore grazie all'intrinseca citotossicità e immunogenicità. Dagli Adenovirus sono stati sviluppati anche diversi tipi di virus oncolitici, varianti attenuate del virus di origine capaci di replicare selettivamente in cellule tumorali. Questi sistemi superano alcuni dei limiti dei sistemi di trasferimento genico basati su un vettore incapace di replicare, poiché il virus si può propagare alle cellule tumorali non infettate con l'inoculo iniziale. La replicazione selettiva nelle cellule tumorali si realizza sfruttando le stesse alterazioni genetiche che sono necessarie alla crescita della cellula tumorale. Ad esempio, l'inattivazione delle proteine oncosoppressorie p53 e/o pRb caratterizza la maggior parte dei tumori. Poiché la replicazione di Adenovirus dipende dall'inattivazione delle stesse proteine nella cellula infettata (mediata dai prodotti della regione E1 virale), un mutante attenuato di adenovirus, incapace di inattivare p53 o pRb, si replica soltanto in cellule neoplastiche in cui p53 e/o pRb sono assenti o non funzionali. Un altro approccio prevede l'utilizzo di promotori tumore-specifici che guidino l'espressione della regione E1 virale, essenziale per la replicazione del virus, limitando così la moltiplicazione del virus e la lisi cellulare alle cellule tumorali. La sperimentazione clinica degli Adenovirus oncolitici è già entrata in fase II e III come approccio terapeutico adiuvante nel trattamento loco-regionale e sistemico di tumori inoperabili, con esiti soddisfacenti in termini di tollerabilità ed efficacia terapeutica. Oltre a esercitare un'attività citolitica diretta e a indurre una risposta immunitaria cellulo-mediata contro le cellule tumorali infettate, i Virus oncolitici possono essere 'armati' con transgeni ad attività antineoplastica o citossica e quindi essere sfruttati come veri e propri vettori genetici.

I Virus adeno-associati (AAV) sono piccoli virus a DNA a singolo filamento non patogeni che richiedono la 'assistenza' di Adenovirus o di Virus herpetici che forniscano alcune proteine virali necessarie per realizzare il ciclo replicativo (Dependovirus). Il genoma degli AAV contiene fra le due sequenze terminali ITR due soli geni virali, rep e cap: il primo codifica per una proteina regolatrice, il secondo per la proteina del capside. Il gene rep conferisce al virus la proprietà di integrarsi in modo specifico nel cromosoma 19. I vettori derivati da AAV contengono al posto dei due geni virali la cassetta d'espressione, che non può eccedere le 4,5 kilobasi d'estensione, e richiedono per la produzione la funzione helper di un virus adenovirale (o comunque la presenza dei geni adenovirali nella cellula produttrice) e l'espressione in trans dei geni rep e cap. Queste funzioni (geni adenovirali e rep) non possono essere stabilmente trasferite all'interno di una linea cellulare packaging per la produzione continua di vettore, poiché hanno effetto citostatico o citotossico. La tossicità dei geni di Adenovirus e Virus adeno-associati limita la possibilità di generare linee cellulari per la produzione continua di questi vettori (disponibili, e in continua evoluzione, per i vettori retrovirali), che vengono prodotti mediante co-trasfezione dei geni virali, co-infezione con virus helper, o più recentemente, mediante impiego di linee cellulari packaging inducibili. I vettori derivati da AAV hanno un ampio tropismo, trasducono efficientemente cellule che non proliferano, si integrano nella cromatina anche se con modalità non nota e dopo lunga latenza dall'infezione (l'assenza della proteina rep nella cellula trasdotta abolisce però l'integrazione sito-specifica, che diviene casuale; parte dei genomi resta poi in forma episomiale nel nucleo), determinano espressione a lungo termine del transgene e sono poco tossici e immunogenici. Queste proprietà dei vettori derivati da AAV li rende assai promettenti per la terapia genica, in particolare per la trasduzione di cellule quiescenti nel sistema nervoso centrale (SNC), retina, muscolo e fegato (v. Carter e Samulski, 2000). Il limite rappresentato dalla modesta capacità (cloning capacity) di questi vettori potrà essere forse superato sfruttando la naturale disposizione dei loro genomi a formare concatenameri. Ricordiamo infine, senza darne trattazione diffusa e rimandando il lettore alla consultazione della bibliografia essenziale, che vettori virali sono stati generati anche a partire dai Virus herpetici (HSV, Herpes simplex) e trovano particolari applicazioni nel trasferimento genico nel SNC; inoltre, sono oggi allo studio vettori che combinano le proprietà di virus diversi al fine di ottenere il 'veicolo ideale' (v. cap. 6).

3. Dal trasferimento genico alla terapia genica

L'espressione del transgene è nella maggior parte delle applicazioni il fine del trasferimento genico e il requisito fondamentale per la terapia genica. Questo obiettivo può essere ottenuto utilizzando strategie diverse, di variabile complessità e dipendenti dal tipo di applicazione. A questo proposito, possiamo distinguere alcune situazioni che analizzeremo in dettaglio perché paradigmatiche al fine di illustrare le strategie, le possibilità e le limitazioni attuali della terapia genica.

a) Espressione del transgene nel tessuto affetto

Nel caso di alcune malattie monogeniche su base ereditaria (che includono le distrofie muscolari, la fibrosi cistica e le immunodeficienze congenite, tra le più studiate), la patologia può essere alleviata quando il gene, difettoso o non funzionale, viene ripristinato da una sua 'versione' corretta ed espresso in una frazione significativa delle cellule affette, anche se a livelli differenti da quelli fisiologicamente determinati. In questi casi, sebbene la mutazione genetica inattivante il gene sia presente in tutte le cellule dell'organismo, il danno cellulare e la disfunzione d'organo dovuti al difetto di espressione del prodotto si registrano solo o prevalentemente a carico di determinati tessuti.

In alcune distrofie muscolari, ad esempio, la lesione genetica è localizzata a livello del gene della distrofina e il danno cellulare si manifesta in tutte le fibre del muscolo striato. La distrofina è parte integrante di un complesso glicoproteico che partecipa all'organizzazione del citoscheletro della fibra muscolare e ha la funzione di preservare l'integrità della connessione tra la membrana cellulare (sarcolemma) e la matrice extracellulare durante la contrazione muscolare. La distrofia muscolare di Duchenne (DMD), una forma severa di distrofinopatia, evolve con esito fatale poiché le fibre muscolari, incapaci di produrre la distrofina, vanno incontro a una progressiva degenerazione, portando il paziente all'incapacità motoria e infine all'insufficienza respiratoria e cardiaca. La terapia genica della DMD richiede il ripristino dell'espressione della distrofina in una frazione significativa delle fibre del muscolo. L'inefficiente trasduzione delle fibre muscolari e le notevoli dimensioni del transgene (14 kilobasi per il solo cDNA) - che richiedono l'impiego di vettori genetici ad alta capacità, spesso fortemente immunogenici (vettori adenovirali) - hanno limitato il successo di numerose sperimentazioni su modelli murini di distrofia muscolare (topi mdx). Più recentemente, l'impiego di mini-geni e/o l'introduzione di vettori relativamente poco tossici e immunogenici (vettori derivati da Virus adeno-associati o adenovirali gutless) hanno indicato che risultati promettenti potrebbero essere ottenuti anche nell'uomo mediante iniezioni multiple intramuscolari, tecnicamente di facile praticabilità. Dato incoraggiante, nel topo mdx non è necessario che tutte le fibre del muscolo trattato esprimano la distrofina, e un apprezzabile effetto terapeutico circoscritto al sito di iniezione può essere registrato anche se il livello di espressione della proteina si mantiene più basso di quello normale (v. Dello Russo e altri, 2002; v. Watchko e altri, 2002). I limiti di questa strategia stanno nell'espressione del transgene che, pur prolungata nel tempo, non si mantiene indefinitamente a causa dell'assenza di integrazione. Inoltre, l'induzione di anticorpi neutralizzanti nei confronti del vettore virale limita l'efficacia di somministrazioni ripetute. La purificazione dal tessuto affetto di progenitori cellulari che possano essere modificati geneticamente ex vivo con un vettore integrante e quindi reintrodotti, mantenendo l'originario potenziale proliferativo e differenziativo, rappresenta una strategia molto promettente per il trattamento di diverse affezioni, poiché può consentire un effetto terapeutico a lungo termine. Cellule staminali sono infatti presenti in diversi tessuti dell'adulto e intervengono nel ricambio fisiologico cellulare nonché nella rigenerazione dei tessuti.

Le cosiddette cellule satelliti che si trovano disseminate fra le fibre muscolari costituiscono una riserva di cellule staminali o precursori miogenici e possono pertanto rappresentare un valido bersaglio per la terapia genica delle patologie degenerative a carico dell'apparato muscolare.

In alcune applicazioni, il raggiungimento del tessuto affetto da parte del vettore genetico costituisce il fattore limitante per il successo della terapia genica. La terapia genica della fibrosi cistica (FC) è mirata a ripristinare l'attività del CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane conductance Regulator) nelle cellule dell'epitelio respiratorio. La FC è una malattia monogenica causata da una varietà di mutazioni genetiche a carico del CFTR, un canale ionico espresso dalle cellule epiteliali e coinvolto nel trasporto del cloro e nella regolazione di altri canali transmembrana. Sebbene queste funzioni del CFTR siano importanti principalmente nella regolazione dell'attività secernente dell'epitelio respiratorio, gli individui affetti da FC frequentemente presentano un'alterata funzionalità dell'epitelio gastrointestinale, delle ghiandole esocrine (pancreas, salivari) e dei tubuli seminiferi. Le diverse mutazioni sono associate a un grado variabile di inattivazione del CFTR (dal blocco della sintesi a quello del trasporto alla membrana, ad anomalie del funzionamento); il disequilibrio ionico a livello dell'epitelio respiratorio porta all'accumulo di un secreto viscoso, dovuto all'alterata solfatazione delle mucine e sialilazione dei glicoconiugati di membrana, che favorisce l'instaurarsi di alcune infezioni batteriche e di un persistente stato d'infiammazione.

Nonostante il miglioramento della terapia e l'introduzione del trapianto di polmone, ancora oggi il 90% dei pazienti muore in giovane età per le complicazioni polmonari della malattia. Il successo della terapia genica della FC è ostacolato dalle numerose barriere - lo spesso strato di muco che riveste l'epitelio, l'attivo movimento ciliare, la presenza di un fitto glicocalice e di giunzioni occludenti alla superficie apicale delle cellule - che il polmone oppone al trasferimento genico e che normalmente proteggono l'epitelio respiratorio dalle infezioni e dall'ingresso di particelle estranee. Inoltre, i diversi recettori per i virus che infettano l'epitelio respiratorio sono concentrati nella porzione baso-laterale della membrana cellulare, protetta dalle giunzioni occludenti. Ancora, la rapidità con cui l'epitelio polmonare è rinnovato fa sì che si rendano necessarie ripetute applicazioni per garantire l'espressione stabile del CFTR, a meno che le cellule staminali autorinnovantesi dell'epitelio non vengano efficientemente trasdotte con un vettore in grado di integrarsi nella cromatina. La difficile identificazione, la disomogenea distribuzione a livello dello strato basale dell'epitelio e la presenza delle giunzioni occludenti rendono le cellule staminali dell'epitelio respiratorio un bersaglio difficile, sebbene assai promettente, per la terapia genica. Rispetto al muscolo, di cui abbiamo parlato sopra, l'epitelio respiratorio risulta quindi difficilmente raggiungibile da parte di un vettore genetico. Un certo ottimismo è derivato da studi in vitro e dati preclinici, i quali hanno dimostrato che il 5-10% del livello di espressione fisiologicamente determinato del CFTR potrebbe essere sufficiente a correggere la FC (v. Johnson e altri, 1992; v. Dorin e altri, 1996). In diversi studi clinici su individui sani o affetti da FC, la mucosa nasale, più accessibile rispetto all'epitelio respiratorio per le ragioni appena dette, è stata utilizzata come modello per l'analisi della tossicità ed efficacia di alcuni vettori genetici. Vettori non virali, ad esempio liposomi cationici, sono stati impiegati con modesto successo in alcune sperimentazioni. Sebbene la tossicità di tali trattamenti sia minima, la presenza del transgene e l'espressione del CFTR sono transienti (0-28 e 0-7 giorni, rispettivamente) e terapeuticamente poco efficaci (v. Porteous e altri, 1997). Vettori virali derivati da Adenovirus sono stati impiegati con modesti risultati, nonostante il naturale tropismo per l'epitelio respiratorio, sulla mucosa nasale o le vie aeree inferiori (v. Zabner e altri, 1996; v. Harvey e altri, 1999). L'induzione da parte del vettore di una risposta infiammatoria di intensità dose-dipendente e l'inefficacia di applicazioni ripetute, forse dovuta alla produzione di anticorpi neutralizzanti, sconsigliano l'utilizzo di questi vettori, la cui attività non sembra in ogni caso superare quella dei sistemi non virali. Sebbene le diverse sperimentazioni cliniche abbiano indicato che il trasferimento genico del CFTR sia in via di principio realizzabile nelle vie aeree, nuovi approcci devono essere identificati per migliorarne l'efficacia, la durata e per consentire ripetute applicazioni.

Fra le applicazioni del trasferimento genico che sino a oggi hanno riscontrato maggiore successo in terapia ricordiamo le sperimentazioni cliniche per il trattamento delle immunodeficienze congenite SCID. I gruppi di Alain Fischer a Parigi e di Claudio Bordignon a Milano hanno recentemente descritto due sperimentazioni cliniche per il trattamento di due forme di SCID, la SCID-X1 (causata da un'alterazione della catena γc dei recettori per le interleuchine) e l'ADA-SCID (causata dal deficit di adenosina deaminasi, un enzima coinvolto nel metabolismo dei nucleotidi purinici). Entrambe le patologie sono caratterizzate da un quadro di immunodeficienza grave causato dal blocco della proliferazione, maturazione e funzionalità di linfociti T e cellule NK (SCID-X1) o di linfociti T, B e cellule NK (ADA-SCID). Nel caso dell'ADA-SCID, il deficit enzimatico che determina l'accumulo di metaboliti tossici in tutte le cellule dell'organismo e causa la morte dei linfociti può essere parzialmente corretto mediante la somministrazione della proteina di origine bovina (terapia sostitutiva). Sfortunatamente, per la SCID-X1 non esiste alcun trattamento in grado di limitare l'instaurarsi di infezioni opportunistiche nei pazienti. Diversi pazienti in età infantile affetti da SCID-X1 e da ADA-SCID sono stati trattati con successo mediante l'autotrapianto di cellule staminali emopoietiche (CSE) derivate dal midollo osseo e trasdotte ex vivo con vettori onco-retrovirali contenenti, rispettivamente, i transgeni γc e ADA (v. Hacein-Bey-Abina e altri, 2002; v. Aiuti e altri, 2002). In entrambi i casi, nonostante la relativamente bassa efficienza di trasduzione delle cellule staminali e il trapianto realizzato in condizioni non mieloablative, un netto miglioramento dello stato immunitario dei pazienti è stato ottenuto e mantenuto a tutt'oggi, a diversi mesi o anni dal trapianto emopoietico. La correzione della patologia è dimostrata da una serie di elementi che concorrono a definire come pressoché normale il quadro immunologico dei pazienti trattati (aumento del numero di linfociti T e B, aumento delle immunoglobuline seriche, protezione dalle infezioni). Inoltre, nel caso dell'ADA-SCID, l'espressione transgenica dell'enzima favorisce la detossificazione di tutte le cellule derivate dal trapianto emopoietico, incluse quelle della linea mieloide, determinando un generale miglioramento delle condizioni del paziente.

Il successo di queste sperimentazioni cliniche risiede in primo luogo nell'integrazione stabile del transgene in CSE auto-rinnovantesi e multipotenti mediata dal vettore onco-retrovirale. In secondo luogo, il motivo del successo è da ricercarsi nel vantaggio selettivo che le cellule geneticamente corrette hanno sulle altre in condizioni in cui non venga praticata una terapia sostitutiva (qualora disponibile); infatti, la selezione positiva nei confronti delle cellule corrette ne favorisce l'espansione in vivo. Questo fattore può anche spiegare il fallimento delle prime sperimentazioni di terapia genica dell'ADA-SCID realizzate negli anni precedenti, in cui la terapia sostitutiva non veniva interrotta (v. Bordignon e altri, 1995; v. Kohn e altri, 1995 e 1998). È necessario qui ricordare che, nel caso di altre patologie, la trasduzione di una piccola frazione delle cellule 'malate' può non essere sufficiente a determinare un effetto terapeutico, in particolare in assenza di una forte pressione positiva nei confronti delle cellule corrette.

La terapia genica delle neoplasie rappresenta proprio il paradigma contrario. Il tumore origina dall'accumulo, in cellule somatiche, di mutazioni a carico di proto-oncogeni e di geni onco-soppressori coinvolti nella regolazione della crescita cellulare. Con la terapia genica è possibile ripristinare nelle cellule neoplastiche l'espressione di un gene onco-soppressore, del genere p53 o Rb, che sia stato inattivato. In vitro e in alcuni tumori sperimentali del topo questa manovra, anche se corregge una sola delle alterazioni genetiche accumulate dalla cellula tumorale, può in sé determinare la reversione del fenotipo neoplastico. È tuttavia verosimile che nel caso dei tumori sia necessario correggere la lesione genetica virtualmente in tutte le cellule tumorali per evitare che le cellule non modificate vengano selezionate e diano luogo a una recidiva della neoplasia. L'impiego di questa strategia in clinica viene pertanto proposto come terapia adiuvante insieme ad altri presidi terapeutici. Un secondo approccio alla terapia genica dei tumori si basa invece sull'introduzione nelle cellule tumorali di geni ad attività citotossica condizionale. Questi geni esprimono un enzima capace di convertire un profarmaco in un metabolita tossico che porta alla morte della cellula. Quando il profarmaco viene somministrato, le cellule che esprimono il gene citotossico attivano il programma di morte cellulare programmata. Il principale vantaggio di questa strategia è che non necessita l'introduzione del gene 'suicida' in tutte le cellule del tumore. Infatti, il metabolita tossico prodotto dalle cellule che esprimono il transgene è in grado di diffondersi localmente alle cellule circostanti che pure non lo esprimono e di ucciderle (effetto bystander). Per circoscrivere la tossicità alle cellule tumorali e risparmiare i tessuti circostanti sono stati sperimentati diversi approcci. In certi casi il metabolita prodotto dall'enzima risulta tossico solo per cellule che proliferano attivamente, e di conseguenza può avere effetto citotossico solamente nelle cellule del tumore in accrescimento continuo e non nel tessuto normale circostante, che è spesso mitoticamente quiescente. In altri casi, l'espressione del transgene può essere limitata alle sole cellule tumorali trasdotte impiegando promotori di geni preferenzialmente espressi o attivati nelle cellule tumorali, secondo la strategia di targeting trascrizionale descritta nel cap. 4.

b) Espressione tessuto-specifica del transgene

In alcuni casi, sebbene il livello d'espressione della proteina non debba essere strettamente controllato per ottenere un effetto terapeutico, è necessario che la sua espressione sia limitata alle sole cellule affette e non agli altri tessuti. Nella terapia genica della β-talassemia, ad esempio, il gene corretto e funzionale per la β-globina deve essere espresso ad alti livelli esclusivamente dalle cellule della linea eritroide (eritrociti e progenitori) e non dalle altre cellule del sangue, in cui l'espressione ectopica determinerebbe tossicità. Recentemente, due studi preclinici hanno riportato la correzione della β-talassemia e dell'anemia falciforme in topi recanti i rispettivi difetti genetici (v. May e altri, 2000; v. Pawliuk e altri, 2001). Questi studi descrivono il trapianto di CSE modificate geneticamente mediante un vettore lentivirale. Poiché i vettori integranti consentono il mantenimento del transgene nella cellula trasdotta e nella sua progenie, si prestano all'ingegnerizzazione del trapianto emopoietico. In particolare, gli studi sopra citati riportano l'impiego di vettori lentivirali derivati da HIV-1, i quali si integrano in maniera efficiente anche in cellule quiescenti e permettono l'introduzione di copie multiple del transgene in cellule staminali in grado di ricostituire l'emopoiesi in topi letalmente irradiati. L'espressione di questi vettori non dipende dall'attività del promotore virale dell'LTR (che può anche essere rimosso) e la regolazione della trascrizione è affidata a sequenze addizionali che, in questi studi, includono una vasta porzione degli elementi di regolazione del gene della β-globina (LCR, Locus Control Region). Queste proprietà dei vettori lentivirali consentono un'efficiente espressione del transgene e la virtuale assenza di silenziamento dell'espressione, solitamente osservata nei vettori onco-retrovirali in cui l'espressione dipende dal promotore LTR. Inoltre, a differenza degli onco-Retrovirus, i vettori lentivirali permettono il trasferimento di complesse sequenze geniche, inclusi gli introni, per la regolazione tessuto-specifica dell'espressione del transgene. L'espressione eritro-specifica della β-globina umana nei due modelli murini di emoglobinopatia sopra menzionati ha portato alla correzione del fenotipo patologico, definendo un primo criterio per la terapia genica nell'uomo. La derivazione dei vettori lentivirali da un virus altamente patogeno per l'uomo come HIV-1 ha frenato l'introduzione di questi vettori nella sperimentazione clinica. È però verosimile che l'alto profilo di sicurezza conseguito dalle ultime generazioni di questi vettori favorisca il loro impiego nella terapia genica dell'uomo nel prossimo futuro.

c) Espressione ectopica del transgene

È il caso, questo, di malattie in cui la proteina agisce in siti diversi o distanti da quello di sintesi (proteine secrete). Nel trattamento delle emofilie A e B, ad esempio, i fattori della coagulazione (rispettivamente VIII e IX) possono essere prodotti a livello del parenchima di diversi organi, purché vengano secreti in una forma correttamente processata nel plasma, ove eserciteranno la loro attività fisiologica e terapeutica. Studi preclinici in diversi modelli animali di emofilia hanno dimostrato che il fattore di coagulazione può essere secreto nel plasma, raggiungendo livelli terapeutici e correggendo efficacemente il fenotipo della malattia, se espresso dagli epatociti o dalle fibre muscolari, mediante l'utilizzo di diversi vettori genetici, tra cui vettori retrovirali, adenovirali o derivati da virus adenoassociati (v. Kay e altri, 1993 e 1994; v. Snyder e altri, 1999). In casi come questo, la terapia genica può divenire un'alternativa efficace alla somministrazione periodica del fattore ricombinante (trattamento farmacologico tradizionale), purché il gene per il fattore non funzionale o mancante venga trasferito efficientemente in cellule dell'organismo dotate di lunga vita e in grado di produrlo e rilasciarlo nel sangue in modo stabile, garantendo livelli plasmatici costanti e terapeuticamente efficaci. Il raggiungimento di questi obiettivi deve essere accompagnato da un miglioramento significativo della qualità della vita del paziente e della prognosi. In considerazione dei risultati incoraggianti ottenuti nell'emofilia del cane, è stata recentemente avviata una sperimentazione clinica di terapia genica dell'emofilia B mediante l'inoculo intramuscolare o intraepatico di un vettore derivato da AAV (v. Kay e altri, 2000). In questo studio, particolare attenzione è rivolta all'insorgenza di anticorpi che inibiscono l'attività del fattore antiemofilico. Infatti, come vedremo meglio in seguito, l'espressione di un transgene nelle cellule dell'organismo può esacerbare la reazione del sistema immunitario nei confronti del suo prodotto. Questa eventualità può limitare l'efficacia non solo di successive somministrazioni del vettore, ma anche di quelle del fattore, utilizzato secondo i protocolli convenzionali in forma di proteina ricombinante solubile.

d) Espressione del transgene regolabile per via esogena

La terapia genica può anche applicarsi alla correzione delle patologie del SNC. Diversi vettori virali sono stati impiegati con rilevante successo terapeutico per il trasferimento di geni nel SNC di animali affetti da malattie neurodegenerative causate da un particolare deficit metabolico, come quelle lisosomiali (v. Bosch e altri, 2000; v. Consiglio e altri, 2001). Preferiamo tuttavia discutere qui quelle patologie neurodegenerative che si prestano all'applicazione delle cosiddette strategie additive, cioè di quelle procedure di trasferimento genico finalizzate a fare esprimere in un tessuto una proteina normalmente assente o espressa in proporzioni ridotte (o inferiori alla norma). Nel morbo di Parkinson si riscontra una degenerazione progressiva dei neuroni dopamminergici della substantia nigra. Pazienti con segni clinici di morbo di Parkinson potrebbero beneficiare degli effetti del fattore neurotrofico derivato dalle cellule gliali GDNF (Glial cell line-Derived Neurotrophic Factor), che esplica una forte attività neurotrofica e neuroprotettiva nei confronti dei neuroni dopamminergici. Uno studio condotto su primati affetti da una patologia che riproduce alcuni aspetti del morbo di Parkinson ha dimostrato i potenziali effetti preventivi della neurodegenerazione conseguenti all'espressione del GDNF nella regione nigro-striatale del SNC ottenibili mediante vettori lentivirali (v. Kordower e altri, 2000). Per poter essere estesi alla sperimentazione clinica, questi approcci relativamente invasivi sul SNC devono dimostrare minima tossicità (assenza di infiammazione e di necrosi nel sito di iniezione) e devono essere accoppiati a sistemi per la regolazione dell'espressione (come il sistema tet descritto più sopra). Nei casi in cui un fattore di crescita venga trasferito in un tessuto soggetto a un modesto o lento ricambio cellulare mediante un vettore integrante, quindi geneticamente stabile, è necessario che la sua espressione possa essere controllata ed eventualmente estinta. L'attività prolungata di un fattore di crescita potrebbe infatti favorire la proliferazione incontrollata di alcune cellule, oppure determinare effetti avversi non osservati nei tempi limitati e nei modelli utilizzati negli studi preclinici.

e) Espressione del transgene regolata per via endogena

Prendiamo come esempio la terapia genica del diabete di tipo 1 per illustrare quei casi in cui la modificazione genetica di cellule dell'organismo debba ricostituire una funzione regolata da complesse dinamiche metaboliche. La glicemia in individui sani è mantenuta relativamente costante attraverso l'oscillazione del livello di insulina (e di altri ormoni), controllato a sua volta da segnali biochimici (livello di glucosio) e ormonali che agiscono sulle cellule β del pancreas, specializzate nella secrezione dell'ormone. Il diabete di tipo 1 consegue alla distruzione delle insule pancreatiche (che contengono le cellule β), indotta da un processo autoimmunitario, ed è caratterizzato da un difetto assoluto dell'ormone insulina e da conseguente iperglicemia. La progressiva distruzione o assenza delle cellule β nel paziente limita fortemente il successo della terapia genica del diabete di tipo 1, poiché l'espressione dell'insulina in altri tipi cellulari eluderebbe la complessa regolazione fisiologica del livello ematico dell'ormone per cui le cellule β del pancreas sono specializzate. L'efficacia del trapianto di insule pancreatiche da donatore è stata finora limitata dall'allorigetto e dalla specifica tossicità della terapia immunosoppressiva nei confronti delle cellule trapiantate, anche se studi recenti sembrano indicare nuove promettenti strategie per superare questi ostacoli (v. Shapiro e altri, 2000). Degno di nota è il fatto che particolari cellule endocrine del tratto digerente (cellule K) siano state impiegate con successo per l'espressione regolata, glucosio-dipendente dell'insulina in uno studio preclinico (v. Cheung e altri, 2000).

In tale studio è descritto un topo transgenico in cui il gene per l'insulina è posto sotto il controllo trascrizionale del promotore del polipeptide insulinotropo glucosio-dipendente (GIP), un ormone espresso selettivamente nelle cellule K con una cinetica di secrezione glucosio-dipendente sovrapponibile a quella dell'insulina nelle cellule β del pancreas. Le cellule K del topo transgenico esprimono in modo regolato l'insulina, al punto da prevenire l'instaraursi dello stato diabetico quando le cellule β del pancreas vengono sperimentalmente distrutte. L'espressione regolata, glucosio-dipendente dell'insulina può essere pertanto ricostituita anche in cellule non-β geneticamente modificate. La selezione di una cellula non-β (ad esempio cellule K o altre cellule opportunamente ingegnerizzate) per l'espressione regolata dell'insulina appare una valida strategia per il trattamento di quei pazienti in cui le insule pancreatiche siano state distrutte, ma potrebbe non risolvere definitivamente il problema dell'autoimmunità legato a questa patologia. A tal fine, le stesse cellule ingegnerizzate per la produzione ectopica dell'insulina, o le cellule trapiantate da un donatore HLA-compatibile, potrebbero essere indotte, mediante ulteriori manipolazioni genetiche (introduzione di geni con funzione immunomodulatoria), a eludere il riconoscimento da parte del sistema immunitario.

4. Immunità e terapia genica

L'induzione di una risposta immunitaria nei confronti della proteina transgenica o di alcune componenti del vettore genetico costituisce un fattore limitante per la sicurezza e il successo dell'approccio sperimentale e dell'applicazione clinica del trasferimento genico. Come ogni altra molecola di derivazione esogena, il prodotto del transgene (solitamente una proteina con qualche caratteristica antigenica nuova per l'ospite), oppure le diverse componenti della particella vettore possono scatenare una risposta immunitaria da parte dell'organismo. Se questa reazione può portare all'inattivazione del prodotto del transgene, annullando gli effetti benefici del trattamento, ancora più serio è il rischio che venga indotta l'eliminazione delle cellule modificate geneticamente, con conseguente danno ai tessuti dell'organismo.

Se le cellule deputate alla presentazione professionale degli antigeni al sistema immunitario (APC, Antigen Presenting Cells), quali le cellule di Langerhans, macrofagi e cellule dendritiche, captano e fagocitano una proteina o particella con proprietà antigeniche nuove, questa viene processata e presentata in membrana dalle molecole MHC-II (complesso maggiore di istocompatibilità di classe II) e generalmente induce una risposta anticorpale che è mediata dai linfociti TH (helper) e ha come effettori i linfociti B. L'entità della risposta anticorpale può variare a seconda dell'intrinseca immunogenicità, della concentrazione, della via e della modalità di somministrazione dell'antigene. La produzione di anticorpi neutralizzanti rappresenta un effetto frequentemente associato alla somministrazione di molecole ricombinanti impiegate nel trattamento di alcune malattie genetiche (ad esempio le emofilie).

Tutte le cellule dell'organismo (inclusi epatociti, fibre muscolari e altri importanti bersagli per la terapia genica, oltre che le APC) sono in grado di presentare antigeni estranei in membrana attraverso l'espressione ubiquitaria dell'MHC-I, che in genere è coinvolto nella presentazione degli antigeni virali. Quando una cellula viene trasdotta con un vettore virale, le molecole dell'MHC-I possono presentare antigeni derivati dal processamento delle proteine virali e del prodotto del transgene e diventare bersaglio di una risposta immune che ha come effettori i linfociti TC (citotossici). Se nell'organismo sono preesistenti o sono stati indotti cloni di linfociti TC specifici per quell'antigene, le cellule trasdotte possono essere selettivamente eliminate. Questo fenomeno, che può portare all'estinzione dell'espressione del transgene, generalmente non viene osservato quando si utilizzano vettori retro- e lentivirali o derivati da AAV, tutti difettivi per l'espressione nella cellula trasdotta di proteine virali. Diversamente, la tossicità delle sole proteine del capside adenovirale può scatenare infiammazione, reclutamento delle APC e quindi un'esacerbazione della risposta immunitaria. Quando le APC vengono poi trasdotte direttamente dal vettore genetico (eventualità che si verifica a seconda della via di somministrazione e del tipo e tropismo del vettore), la presentazione combinata degli antigeni da parte dell'MHC-I e dell'MHC-II può determinare una reazione del sistema immunitario nei confronti del vettore che avrà come effettori sia i linfociti B sia quelli TC, con conseguente immunizzazione contro le particelle del vettore e il prodotto del transgene ed eliminazione delle cellule trasdotte. Questa reazione non solo estinguerà l'espressione del transgene, ma renderà anche inefficaci successive somministrazioni del vettore. In più, il prodotto stesso del transgene, quando presentato efficientemente dalle APC via MHC-II, potrà divenire immunogenico e impedire future somministrazioni, anche del solo fattore ricombinante. Il rischio associato al trasferimento genico risiede quindi nel fatto che una certa proteina, relativamente poco immunogenica se somministrata in forma di fattore solubile a dosaggi terapeutici, potrà divenire fortemente immunogenica se presentata dalle APC nel contesto di una infiammazione indotta dalle particelle virali. Diverse strategie possono limitare le reazioni del sistema immunitario al trasferimento genico; in primis, l'adozione di un regime immunosoppressivo, simile a quello che si instaura in pazienti trapiantati, può essere indicata nei casi in cui l'espressione del transgene debba essere solo temporanea. In secondo luogo, possono essere studiate strategie che limitino la trasduzione o l'espressione del transgene nelle APC: l'impiego di vettori dotati di un tropismo selettivo nel processo di trasduzione, l'utilizzo di vettori in cui il transgene sia espresso sotto il controllo di promotori tessuto-specifici, l'impiego di protocolli di trasduzione ex vivo, o ancora la somministrazione di agenti che eliminano reversibilmente le APC nei tessuti. In alternativa, si può tentare di indurre tolleranza nei confronti del prodotto del transgene, ad esempio mediante la co-espressione nella cellula trasdotta di molecole con attività immunomodulatoria, che interferiscano con la presentazione antigenica MHC-I mediata, oppure mediante strategie che impiegano cellule regolatrici del sistema immunitario manipolate ex vivo.

I vettori genetici possono poi essere specificamente sfruttati per indurre una risposta del sistema immunitario a fini terapeutici. È il caso, ad esempio, dell'approccio immunoterapico per il trattamento dei tumori. La terapia genica offre la possibilità di 'rieducare' il sistema immunitario a riconoscere il tumore come estraneo e quindi a rigettarlo, come accade in risposta al trapianto di un organo non compatibile. Varie strategie sono state proposte a questo fine e alcune sono già entrate nella fase di sperimentazione clinica. Un possibile approccio prevede ad esempio l'introduzione di geni per antigeni tumorali in cellule APC professionali (ad esempio cellule dendritiche) che vengono prelevate dall'organismo, modificate, espanse e reintrodotte nel paziente. La presentazione privilegiata degli antigeni tumorali stimolerebbe poi i linfociti TC ad attaccare il tumore in vivo. Le stesse cellule tumorali, o le APC, possono poi essere ingegnerizzate per esprimere molecole co-stimolatorie o particolari citochine in grado di potenziare la risposta antitumorale (v. Dranoff e altri, 1993; v. Forni e altri, 1994). Le cellule tumorali ottenute dal paziente con l'asportazione chirurgica del tumore (autovaccino) o da altri pazienti e mantenute in coltura in laboratorio (vaccino allogenico) possono essere quindi modificate con l'introduzione di geni che ne stimolano la capacità di esporre i propri antigeni al sistema immunitario, irradiate in modo da inibirne la proliferazione e iniettate nel paziente a dosi ripetute. La sperimentazione clinica di queste strategie è giunta in alcuni casi alla fase II/III e ha finora dimostrato un'ottima tollerabilità, l'induzione di attività anti-tumorale nel paziente e in alcuni casi persino la regressione di certi tumori.

Un altro approccio prevede la modificazione genetica dei linfociti T prelevati da pazienti portatori di tumore oppure ottenuti da donatore aplo-identico. Le cellule T autologhe vengono trasdotte con vettori in grado di determinare l'espressione di proteine che potenziano la capacità dei linfociti di attaccare il tumore quando reinfuse nel paziente. Le cellule T ottenute da donatore, che hanno una naturale attività anti-tumorale (GVT, Graft Versus Tumor) quando infuse nel paziente, vengono trasdotte prima dell'infusione con un gene ad attività tossica condizionale che permetterà, qualora si sviluppi una risposta incontrollata contro i tessuti del ricevente (GVHD, Graft Versus Host Disease), di eliminare i linfociti infusi ed evitare le gravi complicazioni della terapia (v. Bonini e altri, 1997).

5. La sperimentazione clinica della terapia genica

L'introduzione della terapia genica nella sperimentazione clinica ha rappresentato una sfida concettuale e tecnologica per il sistema dell'assistenza medico-sanitaria e per l'industria farmaceutica convenzionale. Se infatti i vettori genetici devono sottostare alla disciplina di produzione e impiego dei farmaci sperimentali, molte delle loro proprietà non si assoggettano facilmente agli schemi sviluppati per i farmaci convenzionali. Come sarà apparso dalla discussione precedente, i vettori genetici sono formulazioni complesse, la cui composizione e attività si basano sulle conoscenze più avanzate della biologia molecolare e dell'ingegneria genetica. Il personale medico e infermieristico coinvolto nelle sperimentazioni è spesso impreparato a utilizzare i vettori genetici in modo appropriato e deve essere messo nelle condizioni di poter illustrare ai pazienti le possibilità, i rischi e i limiti della terapia genica.

Molti dei fattori di rischio associati alla terapia genica esulano da quelli familiari alla farmacologia convenzionale, e alcuni di questi sollevano quesiti associati alla sicurezza a lungo termine e all'impatto ambientale di una manipolazione genetica dei microrganismi. Queste preoccupazioni, difficilmente riconducibili a semplici computazioni del rischio e talora influenzate piuttosto da scelte etico-filosofiche, hanno ispirato un atteggiamento molto conservatore nell'allestimento delle sperimentazioni cliniche, che garantisca l'impiego confinato dei vettori e il monitoraggio a lungo termine dei pazienti. Se da un lato questo approccio salvaguarda l'ambiente, dall'altra richiede strutture specializzate e comporta costi molto elevati, con il rischio di scoraggiare l'applicazione clinica della terapia genica. Lo stesso monitoraggio clinico e di laboratorio dei pazienti sottoposti a sperimentazione comporta delle difficoltà, poiché la microbiologia clinica deve distinguere i segni conseguenti all'inoculo di un'alta dose di particelle virali incapaci di replicare da quelli associati al decorso di un'infezione da parte del virus parentale o di un ricombinante capace di replicare e inoculato con il vettore.

La produzione della maggior parte dei vettori, ma soprattutto di quelli virali, richiede tecnologie e procedure operative di controllo e di assicurazione di qualità (GMP, Good Manufacturing Procedures) anche più impegnative di quelle sviluppate per i farmaci biotecnologici. Di nuovo, i costi di produzione sono spesso elevati a fronte di un 'mercato' ristretto ai pochi individui affetti da una rara malattia genetica. Le formulazioni dei vettori e gli schemi dei protocolli sperimentali nascono spesso da collaborazioni tra centri accademici e piccole industrie biotecnologiche nate ad hoc e per le quali il semplice avvio di una sperimentazione clinica di fase I/II rappresenta il massimo traguardo possibile, viste le limitate risorse disponibili. Sulla base dei risultati di queste prove, l'unica possibilità di sopravvivenza per il nuovo farmaco, e spesso anche per l'industria che lo ha sviluppato, è l'acquisizione da parte di una grossa industria farmaceutica che ne avvii le fasi successive di sperimentazione (v. anche farmaci, progettazione dei, vol. XII). L'esperienza dell'ultimo ventennio indica che da queste interazioni possono scaturire realtà capaci di sviluppare innovazione e di attrarre investimenti considerevoli, come dimostra l'enorme sviluppo dell'industria biotecnologica in aree in cui la ricerca biomedica è particolarmente intensa, quali le zone costiere degli Stati Uniti (New England, North Carolina, California), la Baviera in Germania e il comprensorio di Oxford e Cambridge in Inghilterra. Alcune preoccupazioni per queste nuove tipologie di sviluppo nascono dalla possibilità che si profili un conflitto di interessi quando un ricercatore che abbia ideato un nuovo tipo di trasferimento genico e ne detenga la proprietà intellettuale venga poi direttamente coinvolto nella gestione e nella partecipazione degli utili dell'industria che lo sviluppa e sia anche responsabile della sperimentazione clinica. Molte delle società scientifiche nate in diversi paesi per coordinare la ricerca e le applicazioni della terapia genica hanno sviluppato codici comportamentali e criteri per identificare e risolvere simili situazioni conflittuali senza inibire lo sviluppo e le applicazioni delle nuove tecnologie (v., ad esempio, i siti web della American Society of Gene Therapy - http://www.asgt.org - e della European Society of Gene Therapy, http://www.esgt.org). Queste considerazioni servono a rammentare al lettore che la terapia genica è una disciplina ancora immatura e il cui futuro sviluppo è ad alto rischio. Essa potrà svilupparsi solo in una società ricca e tecnologicamente avanzata in cui venga facilitato l'instaurarsi di un circolo virtuoso tra il mondo della ricerca, l'ambito clinico, la piccola industria biotecnologica e la grande industria farmaceutica.

6. Prospettive e conclusioni

Predire l'evoluzione della ricerca è compito arduo per un ricercatore addestrato a sviluppare ipotesi da verificare o falsificare sperimentalmente. Ci limiteremo pertanto a menzionare le linee di ricerca più innovative, ma attualmente ancora allo stadio germinale, che potrebbero svilupparsi nel futuro.

Anche se, come abbiamo visto, i vettori oggi disponibili consentono applicazioni soddisfacenti, ciascuno di essi soffre di limitazioni intrinseche, spesso peculiari. Questa osservazione ha stimolato gli sforzi per combinare le proprietà desiderabili di vettori diversi in un unico vettore ideale che le compendi tutte. Questi approcci hanno finora incontrato notevoli difficoltà, e il loro limite è spesso costituito dalla drastica riduzione o dalla perdita sostanziale della capacità infettiva delle particelle ibride. Come già discusso in precedenza a proposito dei tentativi di modificare il tropismo virale, uno dei principali ostacoli è costituito dal pleiotropismo delle proteine virali, cioè la partecipazione a molteplici funzioni nel corso del ciclo infettivo, probabilmente conseguente al vantaggio di concentrare informazioni in un limitato carico genetico. Questa proprietà dei vettori genetici limita la possibilità di manipolarli e mette in evidenza la sproporzione tra gli sforzi del ricercatore e i vincoli imposti dall'evoluzione biologica. Sarebbe auspicabile, ad esempio, poter combinare in uno stesso vettore l'elevata efficienza e la capacità di trasferimento genico di un vettore adenovirale gutless con la possibilità di integrare il carico genetico nella cromatina della cellula trasdotta.

Questo risultato potrebbe essere ottenuto qualora il DNA trasferito dall'adenovirus gutless potesse fungere da substrato per una ricombinasi procariotica, trasposonica o virale, come la proteina Rep di AAV o l'integrasi di un retrovirus, che venga espressa transitoriamente nella cellula infettata. Secondo un altro tipo di approccio, si potrebbero dotare i vettori retro- o lentivirali della capacità di integrare in un sito specifico e neutrale del genoma, costruendo una integrasi chimerica con dominî leganti sequenze specifiche di DNA ottenuti da fattori trascrizionali specifici o sinteticamente per mutagenesi sito-specifica di proteine leganti il DNA. Un altro fronte di indagine mira a combinare l'efficienza dei sistemi virali con la maggiore sicurezza di quelli non virali, assemblando in vitro in un complesso polimerico, cationico o lipidico, alcuni componenti virali che mediano la traslocazione nucleare o l'integrazione del transgene. Caso estremo di questo approccio è l'assemblaggio in vitro di intere particelle virali a partire da proteine e acido nucleico sintetici, un accorgimento che eliminerebbe i rischi associati alla ricombinazione dei geni virali con il carico genetico del vettore durante l'assemblaggio in una cellula packaging. Un'altra combinazione potenzialmente efficace è quella di un trasposone contenente la cassetta di espressione del transgene e di un sistema non virale per veicolarlo efficientemente all'interno delle cellule; il trasposone potrebbe essere reso incapace di replicare e complementato da una transposasi espressa transitoriamente o veicolata in trans per permetterne un primo ciclo di integrazione.

Assai ambiziosa è l'idea di trasferire nelle cellule veri e propri cromosomi artificiali che, una volta introdotti, vengano mantenuti, replicati ed espressi stabilmente.

Prospettiva affascinante è certamente quella di correggere efficientemente un'alterazione genetica, e non più di vicariarne la funzione come si è fatto finora, con l'introduzione di una nuova copia funzionante del gene. Tutti gli approcci in corso di indagine hanno dimostrato che tale modificazione è possibile, ma il loro limite, finora insuperato, è costituito dall'insufficiente efficienza, che ne impedisce l'impiego per la terapia genica. Uno di questi approcci è rappresentato dal trans-splicing, cioè dall'espressione di un trascritto, contenente la versione corretta (o una sua porzione 3′-terminale) di una proteina situata a valle di un sito accettore di splicing, in grado di appaiarsi con il trascritto endogeno e di indurre, con una certa efficienza, lo splicing in trans della sua porzione 5′-terminale. Ne consegue l'espressione, regolata da quella del gene endogeno, di un messaggero di fusione che codifica una proteina funzionale. Altre strategie sfruttano la ricombinazione omologa per sostituire un gene funzionale a quello endogeno, oppure i sistemi cellulari di riparazione del DNA per determinare la sostituzione sito-specifica di nucleotidi e riparare una mutazione puntiforme.

Il trasferimento alla sperimentazione clinica delle strategie che mirano a correggere direttamente la lesione genetica non è forse così remoto, se si pensa alla possibilità di combinarle ad approcci di terapia cellulare che sfruttano le cellule staminali, selezionando quelle geneticamente corrette per poterle poi trapiantare a fine terapeutico nei tessuti affetti da patologia.

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